domenica 30 novembre 2014

VARIE 8411

1 ESSERE A LL'ABBLATIVO. Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere ormai alla fine, ineluttabilmente alla conclusione dell’opera intrapresa; si è fatto tutto ciò che che si poteva fare; per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine. 2 ESSERE MURO E MMURO CU 'A VICARIA. Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 in poi ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco. 3 CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA... Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti. 4 SÎ ARRIVATO Â MONACA ‘E LIGNAMMO. Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di pazzia o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Detta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite presso l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali e dove prestava servizio il famoso Giorgio Cattaneo, da cui il s.vo mastuggiorgio (cfr. alibi) . 5 STAMMO A LL'ERVA. Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente détta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi. 6 HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE. Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri. 7 FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE. Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere un capitano e godine i benefici. 8 CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MURÍ QUATRO. Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio. 9 A CHI PARLA ARRETO, 'O CULO LE RISPONNE. Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti. 10 A CCRAJE A CCRAJE COMME Â CURNACCHIA. Letteralmente: a cra, a cra come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia [cra-cra] e la parola latina cras che in napoletano è resa con craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non abbia seria intenzione di lavorare . 11 CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE. Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo. 12 'O PESCE GRUOSSO, MAGNA Ô PICCERILLO. Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande. 13 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE. Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce. 14 JÍ METTENNO 'A FUNA 'E NOTTE. Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. 15 SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ. Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti ed i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione è usata a mo’ d’avvertimento quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative. 16 PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA! Letteralmente: parla quando orina la gallina.Id est: Zittisci! Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini e/o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre. 17 PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA. Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova, infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto. 18 CORE CUNTENTO Â LOGGIA. Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi. 19 CESSO A VVIENTO! Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, per consentire un agevole ricambio d'aria, sia in alto che in basso. 20 'A MALORA 'E CHIAJA. Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Cosí a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleodoranti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora. 21 FARNE UNA CCHIÚ 'E CATUCCIO. Letteralmente: compierne una piú di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon (La Courtille, Belleville, 1693 -† Parigi 1721).Costui, figlio d'un bottaio, lasciò gli studi intrapresi presso i gesuiti, per darsi alla malavita e divenne protagonista, durante una dozzina d'anni, di furti e avventure d'ogni sorta, che resero la sua biografia popolare in tutta Europa . Questo celebre brigante venne soprannominato Cartouche, nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. Arrestato, fu giustiziato nella piazza di Grève. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno a terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi. 22 ESSERE PASSATA 'E CÒVETA O 'E CUTTURA. Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo quasi bruciare. 23 QUANNO 'O DIAVULO T'ACCAREZZA È SSIGNO CA VO’ LL'ANEMA. Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta. 24 È GGHIUTO 'O CCASO 'A SOTTO E 'E MACCARUNE 'A COPPA. Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia! 25 DOPPO MUORTO, BUZZARATO. Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subito la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un anonimo prelato napoletano che assistette al consueto percuotimento del capo del defunto papa PIO XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere effettivamente morto. 26 TROPPI GALLE A CCANTÀ NUN SCHIARA MAJE JUORNO. Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione. 27 NUN C'È PRERECA SENZA SANT' AUSTINO. Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino. Come si sa, sant'Agostino, vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare gli scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate. 28 TENÉ DDOJE FACCE, COMME A SAN MATTEO Con questa espressione s’usa riferirsi ad una persona ipocrita o dalla doppia vita.Per il vero nessun testo biblico attesta che il santo evangelista fósse un ipocrita o dalla doppia vita, se si esclude il fatto che Levi [questo era il nome di Matteo allorché svolgeva la professione di pubblicano] chiamato dal Signore abbandonò la propria attività per seguire il Cristo cambiando vita e nome; questa evenienza altamente positiva non può aver ispirato l’espressione chiaramente negativa. Il bandolo della matassa sta nel fatto che il san Matteo, a cui si fa riferimento nell’espressione, è quello realizzato da Michelangelo Naccherino(Firenze 1550 - †Napoli 1622).[ Allievo a Firenze del Giambologna, ne trascrisse i moduli in un'ampia produzione per la quale si avvalse anche di una operosa bottega. Nel 1573, dopo una permanenza in Sicilia, si stabilì a Napoli, dove, nominato scultore di corte, scolpí con grazia decorativa monumenti funebri (tomba Pignatelli in S. Maria dei Pellegrini; tomba Caniglia in S. Giacomo degli Spagnoli) e statue (Madonna delle Grazie in S. Giovanni a Carbonara etc.]. La statua del san Matteo, tuttora conservato sull’altare della cripta del Duomo di Salerno, è stranamente bifronte e la si può vedere da entrambi i lati dell’altare e non è peregrina l’idea che lo scultore nel realizzarla abbia utilizzato una precedente opera di bottega raffigurante un Giano bifronte. Brak

IL VERBO PISCIÀ, I SUOI DERIVATI E LA FRASEOLOGIA

IL VERBO PISCIÀ, I SUOI DERIVATI E LA FRASEOLOGIA Questa volta prendendo spunto dalla richiesta dell’amico carissimo D.C. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome)che nel riportarmi il quesito d’ un suo amico, mi à chiesto di illustrare, chiarire ed esaminare il significato l’ uso e l’ origine di un’ antica espressione partenopea (cfr. ultra sub 1); prendendo spunto appunto da tale richiesta mi soffermerò a dire del verbo in epigrafe dei suoi derivati e della relativa fraseologia. Cominciamo dunque con il dire che il verbo piscià vale mingere, orinare ed è derivato dal tardo lat. pitissare→pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià);normale nel napoletano risoluzione in sci seguíto da vocale della consonante fricativa dentale sorda o sonora (s) sia scempia che doppia purché seguíta da vocale; e veniamo súbito alle voci derivate dal verbo per agglutinazione (In linguistica l’agglutinazione è la riunione in una sola unità grafica e fonetica di due o piú elementi lessicali originariamente distinti, ma che si trovano spesso insieme in un sintagma (per es., disotto←di sotto , disopra←di sopra , perlopiú←per lo piú, eppure←e pure , ecc.). Il processo, che come fatto grafico è frequentissimo in antiche scritture e che spesso rispecchia fedelmente l’effettiva realtà fonetica (come in ammodo, eppure, ovvero, sebbene, macché, pressappoco, ecc.), à molta importanza nell’evoluzione diacronica in quanto può dare luogo alla formazione di nuove parole, soprattutto per la fusione (détta in questi casi anche concrezione) dell’articolo o di una preposizione, come per es. il region. loppio (da l’oppio, un albero), l’avv. ant. incontanente (dal lat. tardo in continenti [tempore]), l’ant. e pop. ninferno (da [i] n inferno).Rammento ad abundantiam che ad una agglutinazione e falsa deglutinazione dell’articolo si devono le antiche varianti oncenso, onferno per incenso, inferno, sviluppatesi dalle forme lo ’ncenso, lo ’nferno, scritte e pronunciate loncenso→l’oncenso, lonferno→l’onferno)dicevo agglutinazione di una voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià/are) con un avverbio o un sostantivo. Abbiamo dunque pisciasotto s.vo ed agg.vo m.le e f.le = letteralmente: chi/ che si minge addosso; la voce nasce come s.vo e vale in primis bimbo/a, piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante; usato come agg.vo m.le e fem.le vale timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a ; schivo/a, chiuso/a,introverso/a insicuro; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con avverbio sotto (dal lat. subtus→suttus→sotto, deriv. di sub 'sotto'; il collegamento semantico tra i significati del sostantivo e quelli dell’aggettivo si colgono se solo si considera il fatto che chi è piccolo/a; neonato/a, poppante, lattante è di per sé timido/a,debole, pauroso/a, pavido/a etc e mai potrebbe essere coraggioso/a, audace, intrepido/a, ardito/a, impavido/a audace, disinvolto/a, sicuro/a, deciso/a; piscianzogna s.vo ed agg.vo m.le e solo m.le= letteralmente: chi/che minge strutto; id est pubere, adolescente; non si tratta di un’iperbolicità divertente o ironica (atteso che non è dato a nessuno poter mingere sugna...), ma solo di una rappresentazione icastica di una manifestazione dell’età evolutiva: è allorché un ragazzo abbia raggiunto la pubertà e sia diventato adolescente che può dar luogo, per la prima volta, all’emissione di seme spermatico, quel seme che per il suo colore biancastro e la sua viscidità viene assomigliato allo strutto; etimologicamente la voce, come ò già cennato e qui preciso è formata dall’ agglutinazione della voce verbale piscia (3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. piscià) con il s.vo ‘nzogna= sugna, strutto sostantivo sul quale mette conto io mi soffermi alquanto; preciso súbito che la voce napoletana ‘nzogna che rende l’italiano sugna o strutto è voce che va scritta [come ò fatto!] ‘nzogna con un congruo apice (‘) d’aferesi (e qui di sèguito dirò il perché) e non nzogna privo del segno d’aferesi, come purtroppo càpita di trovare scritto. Ciò detto passiamo all’etimologia e sgombriamo súbito il campo dall’idea (maldestramente messa in giro da qualcuno che nzogna, ( cosí erroneamente scritto e non ‘nzogna) possa essere un adattamento dell’ antico italiano sogna(sugna) con protesi di una n eufonica e dunque non esigente il segno d’aferesi (‘) e successivo passaggio di ns→nz, dal latino (a)xungia(m), comp. di axis 'asse' e ungere 'ungere'; propr. 'grasso con cui si spalma l'assale del carro'; occorre ricordare che nel tardo latino con la voce axungia si finí per indicare un asse di carro e non certamente il condimento derivato dal grasso di maiale liquefatto ad alta temperatura, filtrato, chiarificato, raffreddato e conservato in consistenza di pomata per uso alimentare, mentre gli assi dei carri venivano unti direttamente con la cotenna di porco ancòra ricca di grasso. Ugualmente mi appare fantasiosa l’idea (D’Ascoli) che la napoletana ‘nzogna possa derivare da una non precisata voce umbra assogna per la quale non ò trovato occorrenze se si esclude un assogna che è la 3ª p. sg.dell’indicativo presente dell’inf. assognare = sognare che [come ognuno vede] nulla può avere a che spartire con il grasso per condimento! Messe perciò da parte tali fantasiose proposte, penso che all’attualità, l’idea semanticamente e morfologicamente piú perseguibile circa l’etimologia di ‘nzogna sia quella proposta dall’amico prof. Carlo Iandolo che prospetta un in (da cui ‘n) illativo + un *suinia (neutro plurale, poi inteso femminile)= cose di porco alla cui base c’è un sus- suis= maiale con doppio suffisso di pertinenza: inus ed ius; da insuinia→’nsoinia→’nzogna. Proseguiamo e prima di illustrare la fraseologia costruita con il verbo pisciare rammento che esiste un solo s.vo derivato dal verbo in esame che connota non una persona, ma un oggetto; si tratta del s.vo pisciaturo s. m. impianto dotato di apparecchiature igieniche per orinare, per uso pubblico maschile, orinatoio;voce derivata dal part. pass. di piscià addizionato del suffisso uro/a suffisso deriv. dal fr. -ure, usato al maschile (uro)per formare sostantivi per oggetti (cfr. pisciaturo,trapenaturo, ballaturo) o termini tecnici, chimici etc.ed al f.le (ura) per formare sostativi astratti (cfr. friscura,bruttura, pensatura). E veniamo alla fraseologia costruita con il verbo in epigrafe; comincio 1)pisciarse dê rrisa letteralmente mingersi dalle risate cioè orinarsi addosso per il troppo ridere, id est scompisciarsi, sbellicarsi; 2)si pisce chiaro, ffa’ ‘e ffiche ô miedeco oppure 2 bis) si pisce chiaro futtatenneoppure fruculeatenne d’ ‘o miedeco = letteralmente nel primo caso Se mingi chiaro fa’pure gli scongiuri alla vista d’un medico o scherniscilo (perché non ne avrai bisogno); nel caso sub 2 bis Se mingi chiaro (addirittura) impípitane del medico (perché mai ne avrai bisogno); fa’ ‘e ffiche! =fai le fiche!;fà ‘e ffiche= far le fiche è un gesto internazionale di scongiuro e/o di scherno, dileggio che à una tradizione millenaria ed appartiene ad un po’ tutto il mondo; consiste nell’introdurre il dito pollice della mano destra serrata a pugno,tra l' indice ed il medio e tenerlo ben dritto accompagnando il gesto con l’agitar la mano con un movimento ripetuto dal basso in alto nell’intento di mimare il coito in atto; rammento in proposito che trattasi di gesto che è diffusissimo ed addirittura nei paesi dell’America meridionale (Brasile in testa) si è soliti produrre delle minuscole statuine apotropaiche in legno di bosso riproducenti il gesto che è stato ovunque abbondantemente studiato e commentato;qui mi limito a rammentare che un tempo in origine il gesto non ebbe significato di scherno o scaramantico, ma fu un palese invito all’atto sessuale rivolto da un uomo alla sua donna o ad un’occasionale conoscenza; va da sé che (linguisticamente parlando) ‘e ffiche è il pl. di ‘a fica che in napoletano è sí il s.vo f.le usato per indicare il frutto del fico, ma è altresí il s.vo f.le volg. che è uno dei numerosi sinonimi(cfr. alibi) sia del napoletano che dell’italiano dell’insieme degli organi genitali esterni femminili:1 vulva;semanticamente la fica= frutto del fico frutto rosso e carnoso è preso a riferimento per indicar la vulva , cosí come l’altrove usato pummarola = pomodoro, non perché la vulva sia edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché sia la vulva che il pomidoro o il frutto del fico ànno il loro interno rosso vivo; | 2 (estens.) donna bella e desiderabile. Etimologicamente è voce dal lat. tardo fīca per fīcus «fico, frutto del fico»; il sign. fig. era già nel gr. σῦκον «fico». futtatenne e fruculeatenne Queste in esame sono due delle piú concise, ma icasticamente significative espressioni del parlar napoletano, espressioni che si sostanziano in due imperativi (2 pers. sg.) addizionati in posizione enclitica da un ne che è una particella pronominale o locativa atona corrispondente al ne dell’italiano; come pron. m. e f. , sing. e pl. è forma atona che in genere si usa in posizione piú spesso enclitica, ma talora anche proclitica (ad es. nun me ne parlà); mentre è sempre posposta ad altro pron. atono che l'accompagni (come nei casi in epigrafe); esso nelle espressioni in epigrafe vale di ciò; altrove (cfr. ad es. vattenne= vattene) à altra valenza (locativa), ma comporta sempre in tutti i casi il raddoppiamento espressivo della nasale per cui ne→nne. Ma torniamo alle due espressioni in esame e dandone il significato che ovviamente necessiterà d’un giro di parole; il napoletano infatti spessissimo è piú stringato ed gli occorrono meno parole dell’italiano per esprimere incisivamente un concetto. Nella fattispecie sia con l’espressione fruculeatenne (che letteralmente è: stropicciatene!) sia con l’espressione futtatenne (letteralmente impípatene!) si intende quasi imporre oppure pressantemente consigliare (ed ecco perché è usato l’ imperativo piuttosto che un piú morbido congiuntivo ottativo...) si intende consigliare, dicevo, colui cui venga rivolta una o ambedue le espressioni di impiparsi di un qualcosa, di tenere in non cale un’accadimento, una faccenda, di non curarsi, di infischiarsi di qualcuno o piú spesso di qualcosa. Piú esattamente l’espressione fruculeatenne(che, mi ripeto letteralmente è: stropicciatene!) è potremmo dire un modo piú dolce e meno duro, quando non addirittura piú frivolo, per significare il medesimo concetto dell’espressione futtatenne che risulta essere piú dura, salutarmente sanguigna pur se addirittura becera; ambedue gli imperativi in epigrafe risultano, comunque incisivamente piú significativi del corrispondente algido impípatene della lingua italiana! Ora consideriamo piú da presso le due espressioni e cominciamo con - fruculeatenne come ò già detto si tratta di un imperativo (2ª pers. sg.) del verbo riflessivo fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; e vale morfologicamente esattamentestropícciati di ciò, impípa-tene; l’etimo del verbo fruculeà/fruculià affonda nel lat. fricare= strofinare, stropicciare ed estensivamente frantumare in piccoli pezzi ed è a questa estensione che occorre pensare per percorrere la via semantica seguíta per comprendere il passaggio tra il verbo latino inteso come frantumare in piccoli pezzi ed il napoletano fruculearse-ne/fruculiarse-ne= impiparse-ne; in effetti di qualcosa che venga frantumato in minutissimi pezzi, non vale mettere conto, interessarsene per modo che se ne può impipare tranquillamente, cioè quasi fumarsi nella pipa quei minutissimi pezzi. E passiamo a - Futtatenne! Anche per la voce a margine, come ò già détto, ci troviamo a che fare con una voce verbale e cioè con l’imperativo (2ª pers. sg.) del verbo riflessivo fotterse-ne= impiparse-ne, infischiarse- ne nella medesima valenza del pregresso fruculeatenne quantunque la voce a margine abbia rispetto alla prima voce in esame un’espressività piú dura, sanguigna, impetuosa, anzi addirittura becera atteso che col verbo di cui è imperativo non richiama la frantumazione di qualcosa in piccoli pezzi di cui disinteressarsi, ma molto piú sanguignamente – direi – chiama in causa una... pratica sessuale (il coito) quasi che la faccenda di cui disinteressarsi sia di nessun conto o non abbia nerbo per cui se ne possa con ogni tranquillità abusare quasi congiungendovisi in un ... rapporto sessuale. In effetti l’etimo del verbo fottere donde il riflessivo fotterse-ne e l’imperativo a margine affonda nel lat. futúere→fúttere (con tipico raddoppiamento della consonante antecedente la ú seguíta da vocale e ritrazione dell’accento) verbo che sta per coire, avere rapporti sessuali oltre che raggirare, imbrogliare. Semanticamente anche in questo caso, come per la precedente voce fruculeatenne occorre pensare che di qualcosa che venga impunemente posseduto carnalmente ad libitum, non vale mettere conto, interessarsene per modo che uno se ne può impipare tranquillamente come si terrebbe in nessun cale un fortuito rencontre con un’occasionale donna. Preciso ancóra, ad abundantiam, che letteralmente la voce a margine vale Infischiatene, Non dar peso, Lascia correre, Non porvi attenzione. È il pressante invito a tenere i comportamenti indicati rivolto a chi si stia adontando o si stia preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Rammento che tale icastico, sanguigno invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un offensivo declassamento del loro santo e allora scrissero a caratteri cubitali sui muri cittadini: SAN GENNÀ FUTTATENNE! Volevano consigliare al loro santo patrono di non adontarsi per l’offesa ricevuta e rassicuralo, al contempo, che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma e Gli avrebbero in ogni caso tributato tutta la dulía che sin dal 305 anno del martirio del santo vescovo, gli era stata devotamente riconosciuta. 3)SUNNARSE E PISCIÀ DINT’Ô LIETTO = Letteralmente; sognare e mingere nel letto; id est: dar credito ai sogni, spaventarsene al segno di mingere tra le coltri, reputar vere le ombre, prender per sostanza le apparenze, scambiar sogni e realtà. sunnarse = sognarsi trattasi del verbo sunnà =sognare addizionato come frequentente accade della particella pronominale se = si in funzione riflessiva, intensiva e/o espressiva] 1 vedere, immaginare in sogno: sunnà(sognare),sunnarse ‘nu cane a ddoje cape( sognarsi un cane a due teste); sognare, sunnarse ‘e vulà(sognarsi di volare); me songo sunnato ca ire partuto(ò sognato che eri partito); 2 raffigurare nella fantasia come reale; desiderare con viva immaginazione; vagheggiare: sunnarse ‘na bbella casa(sognarsi una bella casa);sunnarse ‘e addivintà ricco (sognarsi di diventare ricco) | con riferimento al carattere irreale dei sogni: nun m’ ‘’o ssonno nemmeno!( non me lo sogno neanche!), non ci penso neanche, non lo farei mai, oppure non posso nemmeno sperarlo; nun mme ll’aggiu sunnato!(non me lo sono mica sognato), è vero, è accaduto realmente; ‘a villa ô mare s’ ‘a sonna, s’ ‘a po’ sunnà!(la villa al mare se la sogna, se la può sognare!), non l'avrà mai; nun sunnarte d’ ‘o ffà(non sognarti di farlo), non farlo assolutamente, non pensarci neanche | con riferimento al carattere divinatorio attribuito ai sogni: nun putevo sunnarmelo(non potevo sognarmelo), non potevo saperlo; chi s’ ‘o ffósse sunnato?(chi se lo sarebbe sognato?) chi poteva prevederlo? ||| v. intr. [ pure in napoletano come accade per l’italiano il sognare(quale intr.) vuole l’aus. avere, mentre se costruito con la particella pron.,vuole l’aus. essere, ] fare sogni: sonna tutte ‘e nnotte(sogna tutte le notti);aggiu sunnato ‘e mamma mia (ò sognato di mia madre); me so’ sunnato d’ ‘e tiempe passate(mi sono sognato dei tempi passati) | me pare ‘e sunna(mi sembra di sognare), si dice di fronte a cosa straordinaria, imprevista o meravigliosa 'sunnà a uocchie apierte ( sognare a occhi aperti), fantasticare. Voce dal lat. somniare→sonniare→sunnà, deriv. di somnium 'sogno'. dint’ô corrisponde all’italiano nel/nello. Al proposito rammento che con la preposizione in in italiano si ànno nel = in+il, nello/a= in+lo/la nelle = in+ le, negli = in+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria dinto (dentro – in); come ò già détto e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno nel napoletano tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre indefettibilmente aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: dentro la stanza, ma nel napoletano si esige dentro alla stanza e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da dinto a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente dint’ô dint’â, dint’ê che rendono rispettivamente nel/néllo,nélla,negli/nelle; dinto è dal lat. dí intro→d(í)int(r)o→dinto 'da dentro'. 4)PISCIÀ ‘NCOPP’Â SCOPA Prima di illustrare, chiarire ed esaminare il significato, l’ uso e l’ origine dell’espressione in esame mi corre l’obbligo d’una precisazione: l’espressione in esame è molto datata, ma stranamente, di essa non si occupa compiutamente nessuno (con una sola eccezione, di cui dirò…), non si occupa nessuno dei numerosi addetti ai lavori o degli appassionati cultori della napoletanità e suoi usi, costumi ed espressioni linguistiche; nessuno: né il D’Ascoli, né Iandolo, né Zazzera, né altri;quest’ultimo (Zazzera) – per la verità – né dà una timida, e peraltro, erronea interpretazione (pur senza chiarire o argomentare) parlando di un generico rimedio da usarsi quale antidoto del nervosismo; l’unico che ne fa menzione nel suo IL NAPOLETANARIO è l’amico avv.to Renato de Falco, ma anche lui ne dà (e ne dirò in sèguito) una spiegazione erronea o quanto meno riduttiva. Mi corre perciò l’obbligo di fare da solo, senza il supporto d’altre penne e/o idee. Pazienza, poco male! Non mi spaventerò per questo. Cominciamo con il dire che tradotta ad litteram l’espressione è: Mingere sulla scopa. e piú spesso è usata nella forma imperativa piscia ‘ncopp’â scopa! ossia mingi sulla scopa! Orbene, lètta cosí semplicemente nella morfologia con l’infinito, l’espressione parrebbe quasi sostanziare, come ipotizza l’amico Renato, un innocuo dispettuccio meschino ed insulso fatto ad altri, come ad esempio, aggiungo io, quello fatto da un ragazzino, un monello che redarguito, sgridato e rimbrottato si vendichi mingendo sulla scopa che forse è stata usata per accompagnare i rimbrotti con qualche sana percossa… Ma le cose non stanno cosí perché l’espressione non è usata quale fatto di cronaca, ossia non è usata per riportare e riferire il comportamento inurbano, dispettoso e di risentimento di un bambino; tutt’altro! L’espressione è usata (nella morfologia imperativa) a sapido provocatorio commento all’atteggiamento d’ un adulto che si dispiaccia, si adonti di/per qualcosa che gli accada e che non sia di suo gradimento; chiarisco con un esempio. Poniamo che un individuo (maschio o femmina, ma piú spesso càpita con una femmina, adusa piú del maschio a risentirsi, mettere il broncio etc.) abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, abbia ricevuto, dicevo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto un danno ed ovviamente se ne dispiaccia, quando non se ne dolga o lamenti adontandosi e piccandosi, a costui/costei provocatoriamente gli/le si può opporre l’espressione dispettosa dell’epigrafe: E piscia ‘ncopp’â scopa! (Mingi sulla scopa!) che però non è lo stupido consiglio di reagire al rimbrotto, all’offesa, al danno con un dispettuccio infantile, quanto la piú seria esortazione a fare buon viso a cattivo giuoco, a sopportare, ad arrangiarsi, a tollerare adattandosi a ciò che avviene. L’espressione di origine rurale, nasce prendendo spunto da un’antica pratica dei contadini che allorché dovevavo pulire l’aia provvedevano a bagnarla abbondantemente per evitare di sollevare polvere e quando non avevano sufficiente acqua per inumidire l’aia, si limitavano a bagnare la ramazza, ottenendo un risultato pressoché simile. Nella fattispecie dell’esempio in esame l’uomo o piú spesso la donna che abbia ricevuto, da persona a cui non ci si possa opporre o con cui non si possa competere reagendo, un rimbrotto o ancóra di piú, un’offesa o abbia subíto addirittura un danno,l’indivuduo che cioè non possa bagnare la sua metaforica aia, deve adattarsi a ciò che avviene tollerando, facendo buon viso a cattivo giuoco magari arrangiandosi ad inumidire con il proprio metaforico piscio una metaforica scopa. Posta cosí la faccenda l’espressione assume un significato ben piú pregnante del semplice dispettuccio infantile ipotizzato dall’amico Renato, dispettuccio che mal s’attaglia al comportamento di un adulto. piscia = mingi voce verbale ( qui 2ª p. sg.imperativo, altrove anche 3 ª p. sg. ind. pres. dell’infinito piscià = orinare, mingere derivata dal tardo lat. pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscià); ‘ncopp’â = sopra alla; è il modo napoletano di rendere la preposizione articolata sulla; rammento che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat. in + cuppa(m)); come ò già détto alibi e qui ripeto: le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa o ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o - ntra/’nfra ‘a - ntra/’nfra ‘e. Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta o crasi della preposizione articolataa+’a= alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a +’a/’o/’e→’ncopp’â/ô/ê...) o sotto (sott’a. +’a/’o/’e→sott’â/ô/ê...)...) in mezzo (‘mmiez’ a. +’a/’o/’e→’mmiez’â/ô/ê...)..) vicino al/allo (vicino a ‘o/’a/’e→ vicinoâ/ô/ê ) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati calepini (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. scopa s. f. arnese di forma varia per spazzare il pavimento, in genere consistente in una sorta di grossa spazzola fatta di rami di erica o saggina, oppure di setole o di filamenti di materia plastica, su cui si innesta un lungo manico 'avé magnato ‘o maneco d’ ‘a scopa (aver mangiato il manico della scopa), (fig.) si dice di persona che cammina rigida e impettita |sicco comme a ‘na scopa (magro come una scopa), (fig.) molto magro; voce dal lat. scopa(s) di scopae -arum pl., perché fatta con i rami della pianta omonima. 5)PISCIÀ ACQUA SANTA P’ ‘O VELLICULO = espressione ironica se non sarcastica che letteralmente è: mingere acqua santa attraverso l’ombellico; id est: accreditare (per il gusto però di burlarsene, non di lodarlo) qualcuno di esser migliore di quanto sia in realtà ritenendolo addirittura capace di poter mingere in luogo dell’orina, dell’acqua lustrale attraverso un orifizio peraltro inesistente! La locuzione, usata sarcasticamente nei confronti di coloro che godano immeritata fama di bontà se non di santità significa, appunto, che coloro cui è diretta sono da ritenersi tutt'altro che buoni, santi o miracolosi, come invece lo sarebbero quelli che riuscissero a mingere da un orifizio inesistente, addirittura dell'acqua santa. velliculo = ombelico; l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus. 6)VULÉ PISCIÀ E GGHÍ ‘NCARROZZA Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi. per il verbo gghí = andare cfr. ultra sub 8). 7)vulé piscià tutte dint'ô rinale oppure vulé piscià tutto dint'ô rinale Ad litteram: voler minger tutti nell'orinale oppure voler mingere completamente nell’orinale ; in ambedue i casi le espressioni stanno per : pretendere l'impossibile; infatti non a tutti è concesso di fare tutte le medesime cose, come non è possibile che tutti possano mingere nell'orinale, qualcuno dovrà contentarsi di farlo all'aperto e - come i cani - contro il muro. Nella variante si manifesta l’acclarata certezza che orinando non si può depositare tutto l’orina nel pitale; inevitabilmente si finisce per versarne fuori una parte! rinale s.vo m.le = orinale, pitale, piccolo vaso da notte; voce dal lat. *urinale(m)→rinale per aferesi della u diventata o e deglutinata in quanto inteso articolo: *urinale(m)→ orinale(m)→ ‘o rinale. 8) ‘A SCIORTA 'E CAZZETTA:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE. La (cattiva) fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento. jette = andò voce verbale (3ª p.sg. pass. remoto dell’infinito jí= andare); il verbo jí merita una particolare attenzione: Il verbo italiano andare ( che etimologicamente qualcuno pensa derivi dal lat. ambulare o da un lat. volg. *ambitare, ma che molto piú esattamente sembra derivi da *aditare frequentativo di adire è verbo che à alcune forme che ànno per tema vad- derivando dal lat. vadere/vadicare 'andare') è reso,in napoletano, con derivazione dal lat. ire, con l’infinito jí/ghí e son numerose le locuzioni formate con détto infinito. Premesso che alibi ò esaminato qualcuna di tali locuzioni, preciso qui che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso ghí, li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª ps. pl che è lloro vanno. 9) PARLA SULO QUANNO PISCIA 'A GALLINA! Ad litteram: Parla solo quando orina la gallina! Perentorio icastico monito rivolto a chi (e segnatamente arroganti, saccenti o supponenenti) si voglia indurre al silenzio e a non metter mai lingua nelle faccende altrui; monito che è rivolto, prendendo (però erroneamente) a modello la gallina che pur non possedendo uno specifico organo deputato all’uopo, non è vero che non orini mai, ma compie le sue funzioni fisiologiche in un'unica soluzione attraverso un organo onnicomprensivo détto cloaca. Analizziamo le singole parole, cominciando da quanno: avverbio = in quale tempo, in quale momento; dal latino quando con tipica assimilazione progressiva nd→nn; gallina:tipico animale da cortile, femmina del gallo, piú piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda piú breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; viene allevata per le uova e per le carni (ord. Galliformi); nell’immaginario comune è inteso animale stupido e di nessuna intelligenza e ciò forse perché – avendo testa piccola – si pensa che abbia poco cervello; etimologicamente il nome è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo'; 10) JÍ ASCIANNO CHELLO CA PISCIA ‘A QUAGLIA Ad litteram: Andare in cerca, desiderare, agognare (solo) ciò che minga la quaglia. Ma va da sé che la ricerca o il bisogno, il desiderio, la brama, la cupidigia, la smania, lo struggimento, la bramosia di cui sia accreditato il protagonista dell’espressione non siano quelli che mirano al conseguimento degli escrementi liquidi di una quaglia. L’espressione, nel suo sotteso autentico significato traslato vale infatti: Andare in cerca, desiderare, agognare (solo) quanto di meglio o di piú ricercato e/o raro ci sia e ciò in riferimento al fatto che il il protagonista dell’espressione, quello cioè che va in cerca, desidera, agogna ciò che minge la quaglia è inteso incontentabile, pretenzioso, inappagabile. La faccenda semanticamente si spiega tenendo presente che la quaglia è un uccello migratore diffuso nelle regioni temperate, cacciato e/o allevato per le sue carni prelibate, ma di dimensioni veramente piccole di talché anche le sue deiezioni solide o liquide sono veramente parva res tanto da poterle ritenere scarse, sporadiche quasi rare accostabili per ciò ai desideri dell’ incontentabile che va alla ricerca del pregiato, del ricercato dello straordinario. jí voce verbale inf. = andare; questo infinito del napoletano è una derivazione del lat. ire; con tale infinito jí/ghí nel napoletano esistono numerose locuzioni e per esse rimando alibi. Qui preciso solo che in napoletano la grafia corretta dell’infinito è – come ò scritto – jí oppure in talune espressioni ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à: i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl che è lloro vanno. ascianno voce verbale gerundio dell’infinito asciare = andare alla ricerca (di qualcosa), ma farlo con intensa applicazione comportandosi quasi come un cane che annusi per trovare la traccia cercata; il verbo asciare donde il gerundio ascianno della locuzione deriva infatti dal latino adflare (annusare) con il tipico mutamento partenopeo FL in SCI come per il latino flos diventato sciore in napoletano o come flumen→sciummo oppure flacces→scioccele. quaglia letteralmente quaglia voce usata per indicare il volatile di cui ò détto, ma anche, alibi, per indicare icasticamente un’ernia addominale, inguinale, o ombelicale, che abbia la tipica forma ad uovo dell’uccello còlto nella posizione di riposo con le alucce chiuse e raccolte su se stesso; la voce nap. quaglia è dall'ant. fr. quaille, che è forse dal lat. volg. *coàcula(m), di probabile orig. onomat. se non, piú acconciamente, da un latino parlato *quà(r)uala→quàglia che richiamava il verso dell’uccello; 11) E GGIÀ, MO MORE CHILLO D’ ‘E PPISCIATORE... NUN PISCIAMMO CCHIÚ! Ad litteram: E già, ora muore colui (che fabbrica)gli orinatoi... non mingiamo piú! Sarcastica espressione esclamatoria usata irridentemente in riferimento si ritenga o sia ritenuto tanto essenziale ed importante da far pensare che se venisse meno la sua operatività si produrrebbero nei terzi molto danno quasi che con il rifiuto da parte del soggetto messo alla berlina, di volere adempiere al proprio ufficio ai terzi fósse precluso di portare a compimento addirittura delle funzioni fisiologiche imprescindibili. Nella fattispecie dell’espressione si ipotizza sarcasticamente che con il decesso del fabbricante degli orinatoi, addirittura non sia dia piú corso alla minzione! Cosa ovviamente assurda ed impensabile donde l’accezione ironica, il senso caustico dell’espressione. pisciatóre pl. f.le del s.vo m.le sg. pisciaturo 1 in primis e come nel caso che ci occupa orinatoio pubblico, 2 per traslato caustico e furbesco uomo dappoco, cattivo soggetto,vile, inetto, incapace, incompetente, inesperto, buono a nulla. Voce dal lat. pisciatoriu(m); faccio notare che si è usato un plurale femminile di un s.vo maschile per indicare che ci si intende riferire non ai vasi da notte,a gli orinali domestici(che pur avendo il medesimo sg.pisciaturo ànno il pl. m.le pisciaturi), ma ci si intende riferire a gli orinatoi pubblici (che pur avendo il medesimo sg.pisciaturo ànno il pl. f.le metafonetico pisciatore e ciò in ottemperanza del fatto che in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie è ovvio che gli orinatoi pubblici siano piú grandi dei contenuti vasi da notte, degli orinali domestici; per cui per indicare al plurale gli orinatoi pubblici si fa ricorso al pl. f.le metafonetico pisciatóre, mantenento per i contenuti vasi da notte, e gli orinali domestici il pl. m.le pisciaturi). Qui giunto penso proprio d’aver soddisfatto l’amico D.C. ed interessato qualche altro dei miei ventiquattro lettori e metto un punto fermo. Satis est. Raffaele Bracale

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA.

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA. Il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di riservatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome,si è détto molto contento di ciò che sua richiesta ò scritto circa alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à e mi à chiesto di illustrare qualche espressione costruita con il verbo parere/paré (sembrare, apparire). Per contentare l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò perciò qui di sèguito di alcune espressioni partenopee costruite con il verbo parere/paré Comincio con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne: 1 – Paré ‘a cuccuvaja ‘e Puorto 2 - Paré ‘a funa e ‘a terocciola 3 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo 4 - Paré ‘a gatta d’ ‘a sié Marí: ‘nu poco chiagne e ‘nu poco rire: quanno sta moscia, rire e quann’è cuntenta, chiagne! 5 - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca fotte e s’allamenta variante 5bis - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca magna e s’allamenta 6 -Paré ‘a gatta ‘e madama quarti-quarte ca magna ‘nu chilo e pesa tre cquarte! 7 - Paré ‘a gatta purmunara 8 – Paré ‘a palata e ‘a jonta 9 - Paré ‘a lampa d’ ‘o Sacramento 10 - Paré ‘a limma e ‘a raspa 11 - Paré ‘a morte ‘ncopp’ ê cantarelle 12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle 13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato 14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo 15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente 16 – Paré variante fà ‘a sporta d’’o tarallaro 17 - Paré variante stà cazza e ccucchiara 18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola 19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune 20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta 21 - Paré don Titta e 'o cane 22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone 23 - Paré mill'anne 24 – Paré Lillo e Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. 25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera 26 – Paré ‘na lacerta vermenara 27 – Paré n’anema pezzentella 28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche 29 – Paré ‘na úfara 30 – Paré ‘nu capone sturduto 31 - Paré n’auciello ‘e malaurio 32 -Paré 'na luna 'nquintadecima. 33 - Paré 'nu píreto annasprato 34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato 35 - Paré 'nu sorece 'nfuso 'a ll' uoglio 36 - Paré 'o diavulo e ll'acquasanta 37 - Paré Pascale passaguaje 38 – Paré ‘o càntaro ‘mmiez’â cchiesia. Ed a chiudere segnalo alcune espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito ma coniugato impersonalmente alla 3ª p. sg. dell’ind. presente ; e sono : 39 - Pare brutto. 40 - Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo. 41 - Pare ca mo 'o vveco 42 – Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino 43 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia 44 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella : trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta! 45 – Pare ‘na pupata ‘e Guidotte. Terminata cosí l’elencazione e prima di analizzare le singole espressioni, mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parere/paré (che etimologicamente deriva dal latino volg. *paríre→parere = apparire,manifestarsi come ) che è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per: 1 avere una certa apparenza; apparire, sembrare (può indicare contrapposizione tra apparenza e realtà): pareva ‘nu santo; me pare ‘na brava perzona; me pare sincero (pareva un santo; mi pare una brava persona; mi pare sincero) | pare ajere (pare ieri), di fatto accaduto molto tempo fa, ma che si ricorda come se fosse recente | pare impossibile, per esprimere disappunto, collera, stupore: me pare ‘mpussibbile ca nun capisce maje chello ca lle dico ( mi pare impossibile che non capisca mai quello che gli si dice) | nun me pare overo! (non mi par vero!), espressione con cui si manifesta contentezza, soddisfazione,gioia; 2 essere di una determinata opinione; credere, pensare: me pare ch’ aggiu capito bbuono…(mi pare di aver capito bene); me pareva ca fosse ll’ora ‘e partí(mi pareva che fosse tempo di partire) | con una determinazione che ne precisa il valore: me pare justo ca tu lle cirche scusa!(mi pare giusto che tu le chieda scusa); me pare fosse ora ca tu ‘a fernisce(mi pare ora che tu la smetta); che te ne pare ‘e chella perzona?, (che ti pare di quella persona?) | me pareva (bbuono)!(mi pareva (bene)!), avevo pensato, visto giusto | te pare?(ti pare?), nun te pare pure a tte?(non sembra anche a te?), per sollecitare l'assenso di altri, per chiedere l'approvazione: aggio raggione io , nun te pare?(ò ragione io, non ti pare?); si adopera anche per esprimere il proprio dissenso o per schermirsi e come formula di cortesia: «Sî stato tu a ffarlo?» «Ma te pare!»; («Sei stato tu a farlo?» «Ma ti pare!»); «Dongo ‘mpiccio?» «Ma te pare!» («Disturbo?» «Ma ti pare!») | (fam.) volere:fa’ comme te pare! (fai un po' come ti pare!) 3 (ant.) manifestarsi, mostrarsi, comparire:pare ‘na pupata ‘e ficusecche (sembra come una pupattola…) | ancóra usato in talune particolari espressioni esclamative : vo’ paré! (a fforza ‘nu bbuonu guaglione) ( vuol sembrare a ogni costo!,ma non è una brava persona), voler apparire, mettersi in mostra come…;pare a tte! (sembra cosí a te,ma in realtà non è come pensi!)cosí appare al tuo giudizio, ma ti sbagli. pe nun paré(per non apparire), per passare inosservato ||| v. intr. impers. apparire probabile, verosimile; sembrare: pare ca vo’ chiovere (sembra che voglia piovere); «È arraggiato?» «Pare». («È arrabbiato?» «Pare»). E passiamo all’esame delle singole espressioni: 1 – Paré ‘a cuccuvaja ‘e Puorto Letteralmente: Sembrare la civetta del Porto; icastica, antica espressione usata a mo’ di dileggio riferita ad una donna molto poco avvenente, arcigna e sgraziata, anziana, bassa, tracagnotta e grassa e che incuta spavento o timore. L’espressione in origine (fine XVI sec.) faceva riferimento alla civetta che accompagnava la statua della dea Minerva (dea della filosofia e della saggezza oltreché protettrice delle acque) una delle statue presenti sul basamento della Fontana degli Incanti: detta anche d’ ‘a Cuccuvaja in Piazza dell'Olmo, nel Quartiere Porto; la fontana fu détta degli Incanti perché (a voler credere ad una leggenda) una malefica, potente strega della città, usava frequentemente l'acqua della fontana per i suoi incantesmi; ma piú verosimilmente fu cosí chiamata prendendo a riferimento gli Incantatori (venditori di merce ai pubblici incanti) che svolgevano il loro lavoro all’aperto nei pressi della fontana che sorgeva nel mezzo della piazza all'ombra di un grande olmo che dava il nome alla piazza. La fontana disegnata da Giovanni da Nola (Nola 1488 – †Napoli 1560) sorgeva, come ò détto, nel mezzo della Piazza su di una base quadrangolare formata da un monte con 4 grotte, nelle quali vi erano le statue di: Venere, Apollo, Cupido, Minerva; in cima al monte da una tazza rigurgitante acqua si ergeva un aquila con le Armi dell'Imperatore Carlo V e sull'esterno, in un tondo ortogonale alla grotta della Minerva, era scolpita una civetta (in napoletano cuccovaja); come è risaputo la fontana fu costruita nel XVI secolo nella piazza dell’ Olmo al Porto, quando il viceré Pedro Álvarez de Toledo(Salamanca 1484 – †Firenze 22/02/ 1553) volle realizzare una struttura idrica per l'approvvigionamento degli abitati del luogo. Fu disegnata, ripeto da Giovanni Merliano scultore noto come Giovanni da Nola, ma al rifacimento di alcune parti andate distrutte partecipò anche lo scultore Annibale Caccavello(Napoli 1515 – †Napoli 1570) che scolpí la statua di Venere. Danneggiata nei tumulti (luglio 1647) di Masaniello (Tommaso Aniello d'Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620 – †Napoli, 16 luglio 1647), la fontana venne riportata al nuovo splendore con i rifacimenti di alcune parti realizzate da tali non meglio identificati Francesco Castellano ed Antonio Iodice, sotto la supervisione di Francesco Antonio Picchiatti(Napoli1619 – †Napoli 1694); riparata piú volte nel corso del XVIII secolo, nel 1834, l'architetto Pietro Bianchi((Lugano 1787 -† Napoli 1849). ne ricostruí una buona parte;scampata alle demolizioni del Risanamento, venne smontata ed all'inizio del XX secolo ricostruita in piazza Salvatore Di Giacomo(Napoli 1860 -† ivi 1934) a Posillipo, ma per i napoletani d’antan rimase e rimane ancóra ‘a funtana d’ ‘a cuccuvaja ‘e Puorto;rammento poi che sul finire del 1800 ed i principi del 1900 con l’espressione ‘a cuccuvaja ‘e Puorto , pur continuando ad usarla quale insolente espressione di irrisione, non ci si riferiva piú all’antica tozza, brutta civetta che accompagnava la Minerva, ma ci si riferiva con sarcastica, malevola impertinenza a Matilde Serao(Patrasso 1856 - †Napoli 1927), la famosissima scrittrice e giornalista napoletana fondatrice a Napoli de Il Giorno con sede in Angiporto della Galleria, giornalista che per il vero era effettivamente una donna molto poco avvenente, arcigna e sgraziata, anziana, bassa, tracagnotta e grassa, la cui vista incuteva timore se non addirittura sgomento! cuccuvaja s.vo f.le = 1.civetta e talora nottola, ed anche 2. donna brutta e sgraziata che incute timore; etimologicamente voce dal greco kikkabâu. 2 - Paré ‘a funa e ‘a teròcciola Letteralmente: Sembrare la fune e la carrucola; icastica, antica espressione peraltro desueta preferendole l’uso della successiva (Paré variante stà cazza e ccucchiara) ambedue usate per indicare due individui (amici,consanguinei etc.) che stiano sempre insieme procedendo di pari passo quasi inscindibilmente legati; nell’espressione a margine gli oggetti presi a modello sono una fune ed una carrucola di pozzo, fune e carrucola che solo in unione posson concorrere ad issare il secchio colmo d’acqua; nell’espressione che segue gli oggetti presi a modello sono invece il secchio della calcina e la mestola strumenti usati dal muratore sempre insieme. funa s.vo f.le = fune, insieme di piú fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; corda, cavo, etimologicamente dal lat.parlato *funa(m) per il cl. fune(m); teròcciola s.vo f.le = carrucola,macchina per sollevare pesi costituita da una ruota scanalata entro cui scorre una fune, paranco, girella ed altrove per traslato (semanticamente spiegato con il continuo cigolio della carrucola) anche viva parlantina, chiacchiera spesso fastidiosa; rammento ancora che la voce teròcciola usata al pl. teròcciole indicò un tempo le piccole carrucole metalliche che in tempi remoti regolavano le grosse bretelle di cuoio, che sorreggevano le braghe. Etimologicamente la voce a margine è forsedal lat. volg.torciola diminutivo di torcja variante di torca= collana, ma trovo piú perseguibile l’idea del lat. trochlĕa marcato sul greco trochiléia; 3 - Paré variante stà cazza e ccucchiara Letteralmente: sembrare variante Stare (uniti come) secchio della calcina e cazzuola/mestola; cioè:andar di pari passo, stare sempre insieme. Détto di tutti coloro che sceltisi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo, andando sempre di pari passo, stando sempre insieme come càpita appunto per il secchio della calcina e la cazzuola che vengono usate dal muratore di concerto durante il lavoro giornaliero ed anche quando questo sia terminato il muratore, nettati i ferri del mestiere è solito conservarli insieme ponendo la cazzuola nel secchio della calcina per modo che l’indomani possa facilmente ritrovarli ed usarli alla ripresa del lavoro. La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. ky/athos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'. Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande etc. con le sole eccezioni di caccavella piú piccola – caccavo piú grande e di tiana piú piccola – tiano piú grande );ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè), al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola). Qualcuno, mi ripeto, meno esperto della tradizione e/o della parlata napoletane riferisce erroneamente il modo di dire con l’espressione:Pàrono oppure stanno tazza e cucchiaro:sembrano oppure stanno (come) tazza e cucchiaio, espressione inesatta come ò spiegato ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani, consci di quel che dicono comporta giustamente la presenza della cucchiara arnese tipico dei muratori . 4 - Paré ‘a gatta d’ ‘a sié Marí: ‘nu poco chiagne e ‘nu poco rire: quanno sta moscia, rire e quann’è cuntenta, chiagne! Letteralmente: sembrare la gatta della signora Maria, un po’ piange ed un po’ ride:quando è triste, ride, quando è contenta piange! Caustica espressione che prende a modello la gatta d’una non meglio identificata signora Maria (nell’espressione, come si vede, in luogo di sié Maria di quest’ultimo nome è usato una forma apocopata Marí che torna comoda per rimare (sia pure solo fonicamente nel parlato) con il primo successivo rire (ride) (pronunciato come rí tenendo cioè ben evanescente l’ intera sillaba re ed escludendo addirittura a livello vocale la pronuncia della liquida r)) rammento che il gatto/la gatta è un animale domestico molto comune nelle case napoletane,quasi come componente di famiglia; presente anche in tantissime icastiche espressioni partenope non poteva mancare nel libro dei sogni; ; la gatta, animale protagonista(vedi ultra) come ò détto anche d’altre espressioni è accreditata nella fattispecie, quasi fosse un essere umano, di immotivatamente un po’ ridere ed un po’ piangere indecisa sempre su quale comportamento tenére;anzi è addirittura accreditata di tènere un comportamento sciocco, illogico e non spiegabile ridendo in tempo di mestizia e piangendo in quello della gioia. Della medesima strambe, sconcertanti, ma volute indecisione ed incongruenza sono accusate soprattutto le giovani donne lunatiche e capricciose incapaci di tenére un comportamento stabile, donne che infatti si abbandonano ad un costante altalenare spesso immotivato e/o incomprensibile, tra uggiose scontentezze ed inopinate gaiezze et versa vice! gatta/’atta/jatta s.vo f.le ma usato senza differenza per indicare sia la bestia maschio che quella femmina; gatto, mammifero carnivoro domestico, con corpo agilissimo e flessuoso, capo rotondo, occhi fosforescenti, baffi (vibrisse) sul labbro superiore, zampe con artigli retrattili; la voce etimologicamente è dal lat. parl. *catta(m) per il class. cattu(m); sié s.vo f.le = signora quanto all’etimo è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur cioè da seigneuse→sie-(gneuse). poco/u agg. indef. = poco, che è in piccola quantità o misura, in piccolo numero: pocu vvino; pocu ddenaro; poca pacienza; nce steva poca ggente; pe poche minute; ‘nfra pochi mise; essere ‘e pochi pparole, essere una persona riservata; pochi cchiacchiere, e sim., espressioni usate per tagliar corto | scarso, debole, insufficiente (con riferimento all'intensità): nce steva poco viento; ‘o ffa cu pocu ggenio con poco entusiasmo; tengo poca memmoria; tène pocu ggenio ‘e sturià | breve, corto: me ce vularrà poco tiempo; nc'è poca strata ‘a fà; cca ce sta pocu spazzio(c'è poco spazio qui) | piccolo, esiguo: cu poca spesa; è ppoca cosa, essere scarso di quantità, qualità, valore, importanza e sim. || nella loc. avv.’nu poco à valore attenuativo: è ‘nu poco cchiú ccurto; sta ‘nu poco meglio d’ ajere ; stongo ‘nu poco stanca; m’ à fatto arraggià ‘nu poco(mi à fatto inquietare un poco) | con valore enfatico: tiene mente ‘nu poco che mm’hê cumbinato!(guarda un po' che cosa mi ài combinato!); dimme ‘nu poco che ‘ntenzione tiene!(dimmi un po', che intenzioni ài!); rifliette ‘nu poco si te cummiene!(considera un po' tu se ti conviene!) | ‘nu bbellu ppoco , parecchio, molto: è cresciuto‘nu bbellu ppoco | ‘nu poco... ‘nu poco... , in parte... in parte...: ‘nu poco p’ ‘o ccavero, ‘nu poco p’ ‘o remmore se senteva stupetiato(un po' per il caldo, un po' per il rumore, si sentiva frastornato) come pron. indef. [f. -a] 1 à gli stessi sign. dell'agg. e sottintende un sostantivo precedentemente espresso: «Tiene pane?» «Sí, ma ne tengo poco»; «Ce sta ancòra spazzio dint’ô baúglio? » «Poco» «Ài del pane?» «Sí, ma ne ò poco»; «C'è ancora spazio nel baule?» «Poco» 2 pl. non molte persone: èramo poche(eravamo in pochi); pochi / poche ‘e nuje; (pochi, poche di noi); tu, io e poch’ ate(tu, io e pochi altri) 3 con valore neutro, in espressioni ellittiche: è ppoco ca à scritto(è poco che à scritto), è poco tempo; starrà cca ‘nfra poco(sarà qui fra poco), fra poco tempo; da cca â stazzionance passa poco(da qui alla stazione c'è poco), poca distanza; oje aggiu spiso poco(oggi ò speso poco), poco denaro; ce corre poco (ci passa poco), c'è poca distanza o poca differenza; ogni poco, | con lo stesso uso della loc. ‘nu poco , un poco/un po’: aspettava ‘a ‘nu bbellu ppoco(aspettava da un bel po');avesse ‘a necessità ‘e guadagnà ‘nu poco ‘e cchiú( avrebbe bisogno di guadagnare un poco di piú). 4 con valore neutro, nel sign. di poca cosa, poche cose: oje ce sta poco ‘a fà; pe stasera me rummane poco ‘a sturià (oggi c'è poco da fare; per stasera mi rimane poco da studiare); se l'è ppigliata p’accussí ppoco?!; e chesto te pare poco? (se l'è presa per cosí poco?!; e questo ti sembra poco?) | | vulerce poco a…(volerci poco a…), per esprimere la facilità con cui può accadere o si può fare qualcosa: ce vo’ poco a ffà succedere ‘nu guajo(ci vuol poco a far succedere un guaio); ce vuleva poco a ‘ntennerlo!(ci voleva poco a capirlo!) | ce manca poco ca…(mancarci poco che), per indicare che un fatto sta per accadere (sempre seguito da frase negativa):ce mancaje poco ca nun cadesse (mancò poco che non cadesse) | pe poco nun, quasi: pe poco nun cadeva | 5 con valore neutro, nel sign. di piccole quantità:’nu poco ‘e pane, ‘nu poco ‘e vino; «Vuó ancòra zuccaro?» «Sí,’nu poco»; «Vuoi ancora zucchero?» «Sí, un poco»; pigliane ‘nu poco pe vvota(prendine un po' per volta); facimmo ‘nu poco peduno(facciamo un po' per ciascuno) come s. m. ciò che è poco; in partic., pochi beni, poche sostanze: m’ accuntento ‘e poco; vive cu chellu ppoco ca ll’ à lassato ‘o marito; la voce è dal lat. paucu(m). quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd→nn; sta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito stare = stare, fermarsi, restare ma anche come in questo caso essere voce dal lat. stare chiagne voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito chiagnere= piangere dal lat. plangere in origine 'battere, battersi il petto' con il tipico passaggio del gruppo pl + vocale al napoletano chi (cfr.plus→cchiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.); ride/rire voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito ridere/rirere dal lat. tardo ridere, con mutamento di coniug. rispetto al class. ridíre e con rotacizzazione osco-mediterranea della dentale, che da ridere dà rirere; moscia agg.vo f.le = mogia, depressa, abbattuta, avvilita, abbacchiata, mesta triste; etimologicamente è la femminilizzazione metafonetica del masch. muscio che è dal lat. musteu(m), deriv. di mustum 'mosto'; propr. 'simile a mosto cuntenta agg.vo f.le soddisfatta, appagata, lieta, allegra etimologicamente è la femminilizzazione di cuntento che è dal lat. contentu(m), part. pass. di continíre 'contenere', propr. 'contenuto, appagato'. 5 - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca fótte e s’allamenta variante 5bis - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca magna e s’allamenta Letteralmente la prima (5) Sembrare la gatta dello studente che coisce e si lamenta; la variante (5bis) Sembrare la gatta dello studente che mangia e si lamenta; ambedue usate per sarcasticamente bollare la pessima,incomprensibile abitudine delle persone (soprattutto donne che tengono, per partito preso, un ingiustificato comportamento immotivatamente lagnoso, uggioso e piagnucoloso anche in occasioni del tutto gradevoli, quali nel primo caso il coire, nel secondo il mangiare. Anche di queste due espressioni è protagonista una gatta (presumibilmente femmina) atteso che - come ò anticipato – le locuzioni vengon di preferenza riferite al comportamento di donne; in queste due espressioni in esame però la gatta non è piú la bestiola della sié Maria come nella locuzione sub 4, ma è la bestiola (forse tenuta come domestico animale di compagnia) d’un non meglio identificato studente che entra nelle due locuzioni soltanto per fornire una rima al verbo allamenta,tenendo presente che nell’idioma napoletano, quando non siano parole tronche accentate sull’ultima sillaba, le vocali finali delle parole son tutte pronunciate in modo evanescente e/o debole per cui un’acconcia rima con allamenta può esser fornita da qualsiasi parola terminante ovviamente in ènta, ma pure in ènte o ènto e sturente può rimare tranquillamente con allamenta! Studente/sturente agg.vo e s,vo m.le (al f.le è sturentessa) = studente, chi è iscritto a una scuola media o ad una università: di per sé la voce è il p. pres. dell’infinito studià/sturià denominale dal lat. studiu(m)→sturiu(m)→sturio fótte voce verbale (3ª pers. sg. ind. pr. dell’infinito fottere = coire, possedere carnalmente dal lat.. volg. *futtere, per il class. Futuere; allamenta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pr. dell’infinito allamentar(se) dal lat.parlato ad + lamentare, class. lamentari, deriv. di lamentum 'lamento' magna voce verbale (3ª pers. sg. ind. pr. dell’infinito magnà= mangiare etimologicamente magnare/magnà è forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico). 6 -Paré ‘a gatta ‘e madama quatti-quarte ca magna ‘nu chilo e pesa tre cquarte! Letteralmente: Sembrare la gatta della madama da quattro quarti(di nobiltà) che mangia (cibo per) un chilogrammo, ma pesa (solo) tre quarti di chilo; icastica espressione usata con evidenti risvolti a) ironici e/o giocosi, e b) velati d’invidia; i risvolti sono a) ironici e/o giocosi quando ci si intenda riferire a persone avare e possessive che temano possano andare perdute parte delle proprie sostanze e siano tanto spilorce al segno di rifiutarsi d’assimilare del tutto ciò che mangino per non eccedere nel consumo delle vettovaglie e/o dei beni posseduti; l’ espressione è poi usata con evidenti risvolti b) velati d’invidia quando con essa ci si intenda riferire a persone che, pur ingozzandosi di cibo a profusione, riescono (forse perché dotate d’un particolare metabolismo…) a non assimilarlo del tutto, mantenendosi magre ed asciutte a dispetto delle calorie assunte. La cosa che piú diverte nell’espressione in esame è che anche in questo caso il protagonista è un gatto che però non è quello delle precedenti locuzioni; infatti non è né il gatto d’uno studente, né quello della sié Maria ma si tratta della bestiola d’una non meglio identificata madama da quattro quarti(di nobiltà) cioè d’una persona falsamente nobile, d’una persona che ostenta raffinatezza che non à, cercando di assumere atteggiamenti attribuiti a classi sociali piú elevate o persona che segue mode nuove ed eccentriche, con l'intenzione di distinguersi dai piú; a Napoli una persona che tenga questi atteggiamenti, se donna, è détta appunto ironicamente madama ‘e quatti-quarte cioè signora da quattro quarti (di nobiltà) id est nobiltà di quattro quarti, cioè di padre, di madre, avolo ed avola paterni e materni, i quali abbiano sempre vissuto nobilmente, non abbiano fatto esercizio alcuno vile per il quale abbiano pregiudicata la nobiltà; persona tanto veramente nobile da potere esibire uno stemma derivato da quelli dei suoi,uno stemma inquartato, stemma cioè che in ognuno delle quattro sezioni dell’ arma di famiglia, siano riconoscibili gli stemmi d’origine di padre, di madre, avolo ed avola paterni e materni, che concorsero all’effige della nuova insegna.Faccio notare che nella stragrande maggioranza dei casi càpita che veramente la donna ironicamente détta madama ‘e quatti-quarte sia persona magra ed asciutta di talché,quasi per sineddoche, si possa riferire proprio a lei piuttosto che al suo gatto l’assunto ironico e/o invidioso di mangiare per un chilo e di pesare solo tre quarti di chilo! madama s.vo f.le 1madama, signora, titolo di riguardo che veniva rivolto in passato a una signora; oggi usato solo in tono scherzoso o ironico 2 in epoca coloniale, concubina indigena di un bianco 3 nel gergo della malavita, la polizia. Voce derivata dal fr. madame, comp. di ma 'mia' e dame 'signora'; quatti-quarte = quattro quarti; quatti sta per quatto = quattro agg. num. card. invar. 1 numero naturale che corrisponde a tre unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 4, in quella romana da IV: le quattro stagioni; i quattro Vangeli; i quattro punti cardinali; animali a quattro zampe; le quattro operazioni aritmetiche | sottintendendo il sostantivo: mettersi in fila per quattro, persone; un servizio da caffè per quattro, persone; rompere, dividere in quattro, parti; bob a quattro, posti; carrozza, tiro a quattro, cavalli 2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale: l'articolo quattro della Costituzione; la citazione è a pagina quattro | sottintendendo il sostantivo: le (ore) quattro, antimeridiane o pomeridiane 3 indica un numero indeterminato, col significato di alcuni, pochi: faticà pe quatto sorde; ò venduto quelle quattro cianfrusaglie per liberare la casa | farsi in quattro per qualcuno, (fig.) adoperarsi in ogni modo per essergli utile | dirne quattro a qualcuno, (fig.) sgridarlo, trattarlo duramente | fare il diavolo a quattro, (fig.) fare gran baccano, buttare tutto sottosopra voce dal lat. quatt(u)o(r); quarte plur. di quarto= la quarta parte di un'unità; nella fattispecie il quarto è ognuno dei quattro campi che formano lo scudo gentilizio; voce dal lat. quartu(m); chilo s. m. abbreviazione di chilogrammo ; unità di misura di peso corrispondente a 1000 grammi; si abbrevia come détto, in chilo; voce dal gr. chílioi 'mille' attrav. il fr. kilo; tre cquarte = tre quarti (di chilo); tre agg. num. card. invar. 1 numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: tre libri; tre anni; le tre Parche, le tre Furie, le tre Grazie; le tre virtú teologali | sottintendendo il sostantivo: piegare il foglio in tre (parti); chi fa da sé fa per tre (persone) 2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale: la stanza tre di un albergo; il primo capitolo inizia a pagina tre | sottintendendo il sostantivo: sono le (ore) tre; arriverà il (giorno) tre 3 con valore indeterminato indica una piccola quantità: dire una cosa in tre parole; non saper dire tre parole, (fig.) mancare di capacità espositiva | in qualche caso, indica molto, parecchio: prima di parlare è meglio pensarci tre volte cquarte= quarte cfr. antea. 7 - Paré ‘a gatta purmunara Ad litteram: Sembrare un gatto (ma piú esattemente un gatto femmina) goloso di polmone (vaccino). Divertito riferimento, prendendo a modello il comportamento del gatto che notoriamente è avido di polmone vaccino, a tutte quelle persone (ma segnatamente donne/massaie) che ripetutamente desiderose di cibo (quale che sia) ghiottonescamente si diano continuamente a piluccare assumendo piccoli, ma reiterati assaggi di ciò che stiano preparando in cucina. purmunara agg.vo f.le dal m.le purmunaro =goloso/a di polmone; la voce purmunaro è, attraverso il suffisso di pertinenza aro/ara dal lat arius/ara→arus/ara, un denominale di purmone (polmone) dal lat. pulmone(m) con cambio espressivo della liquida l→r. 8 – Paré ‘a palata e ‘a jonta Ad litteram:sembrare il filone di pane e la (sua) giunta Il paragone di questa espressione riguarda sempre due persone che incedano di conserva; si deve però trattare realmente di due persone di cui l'una sia longilinea e prestante e l'altra piccola e piuttosto in carne per modo da essere paragonati ad un grosso filone di pane ed alla piccola giunta che il fornaio soleva accordare al compratore, per aggiustare il peso del filone di pane spesso inferiore al previsto chilogrammo della pezzatura; spesso però il medesimo riferimento vien fatto con persone che nella realtà non sono né una longilinea, né l’altra piccola e grassa, ma che son solite accompagnmarsi. palata s.vo f.le = filone di pane; pezzatura di pane che non eccede il peso d’ un chilogrammo ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala l’occupano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.);rammento che a Napoli il pane è venduto nelle piú varie forme o pezzature tra le quali da ricordare ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) per ambedue si tratta di ampie pagnotte rotondeggianti di ca 1 kg.di peso; si à altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che , al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata, ripeto, è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare;e ripeto altresí che un quarto o meno della pala l’ occupano le cosiddétte palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); tra le varie pezzature e/o tipi di pane si à ancóra la cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato dall’accoppiamento di due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito, pur mantenendo la pezzatura di 1 kg., corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma alquanto diversa e fu un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata.Si ànno infine panini, marsigliesi e ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, quasi delle monoporzioni adatte ad essere consumate farcite di salumi o formaggi o gustose frittate per un rapido, contenuto asciolvere o quale pasto da asporto comunemente détto marenna (che etimologicamente è un gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressiva nd→nn. La voce palata è un denominale di pala (dal lat. pala(m)) con riferimento all’attrezzo (lungo e stretto asse di legno) usato per infornare il filone di pane. Rammento infine che in napoletano esiste un’altra voce quasi simile a palata, ma di tutt’altro significato; dico cioè della voce palïata che vale un gran numero di gravi, dolorose batoste; quest’ultima voce (palïata) originariamente si riferiva al fatto che le percosse erano inferte con un palo donde il nome (palïata); in prosieguo di tempo è venuta meno la particolarità del palo, ma è rimasta l’idea della gran quantità di percosse che la palïata comporta.Rammento che morfologicamente dal sostantivo palo ci si sarebbe atteso come corretta derivazione la voce palata e non palïata, ma poi che il napoletano aveva già la voce palata con tutt’altro significato come ò détto ecco che per indicare la bastonatura inferta con un palo si ricorse al termine palïata che necessitò dell’anaptissi di comodo di una ï nella voce palata. La locuzione fà ‘na palïata (percuotere lungamente e dolorosamente) non è piú molto usata, un tempo, invece, era sulla bocca di tutte le mamme che con essa espressione minacciavano i loro vivaci figlioletti insensibili a piú dolci rimbrotti, affinché si calmassero e recedessero dal loro irrequieto atteggiamento. jonta/ghionta s.vo f.le duplice morfologia d’una identica voce che vale giunta, aggiunta, sovrappiú; nella fattispecie piccolo pezzo di pane dato a complemento d’un filone di pane al fine di sistemarne il giusto peso. La voce è dal lat. (ad)iuncta→juncta→jonta/ghionta, '(le) cose aggiunte', part. pass. neutro pl.poi inteso femminile di adiungere 'aggiungere'. 9 - Paré ‘a lampa d’ ‘o Sacramento Ad litteram: sembrare la lampada del Sacramento Id est: essere cosí di salute malferma e d’aspetto smunto e macilento da potersi paragonare al piccolo cero, dall’esile fiammella che arde davanti la custodia del SS. Sacramento nelle chiese cattoliche, cero che però si consuma rapidamente. lampa – s.vo f.le di per sé fiamma, ma anche estensivamente lampada, lume ed altrove pure quantità di vino ingollata in un’unica bevuta; spesso è usata figuratamente per significare la vita ed il suo durare; etimologicamente dal nom. sing. del latino lamp(s)-lampa(dis); sacramento s.vo m.le 1 (teol.) nel cristianesimo, rito istituito da Gesù Cristo per operare la salvezza dell'uomo; secondo alcune chiese (p. e. orientali e cattolica), conferisce o accresce la grazia; secondo altre, la testimonia nella fede: amministrare, impartire, ricevere i sacramenti | i sette sacramenti, nella chiesa cattolica, battesimo, cresima, eucaristia, penitenza o riconciliazione, unzione degli infermi, ordine e matrimonio: accostarsi ai sacramenti, confessarsi e fare la comunione | fare qualcosa con tutti i sacramenti, (fig. fam.) con tutte le regole, col massimo scrupolo 2 in particolare,come nel caso che ci occupa, scritto in segno di devozione e/o rispetto con l’iniziale maiuscola, il Sacramento dell'eucaristia | l'ostia consacrata: esporre il Sacramento, il SS. Sacramento 3 (ant. , lett.) giuramento solenne: a te guardando, / o bel sole di Dio, fo sacramento dal lat. sacramentu(m), deriv. di sacrare 'consacrare'. 10 - Paré ‘a limma e ‘a raspa Ad litteram: Sembrare una lima ed una raspa; id est: détto, con riferimento all’asperità dei due utensili da carpentieri che venendo a contatto posson suscitare anche delle scintille,détto di due persone che per la ruvidezza dei rispettivi caratteri, se entrano in una qualche relazione son usi contrastarsi ripetutamente sino a giungere a continuo litigio. limma s.vo f.le = lima, utensile manuale costituito gener. da una barra di acciaio temprato sulla cui superficie sono ricavati numerosi denti a bordo tagliente; serve ad asportare piccole quantità di materiale da superfici dure in lavori di sgrossatura e di rifinitura; voce dal lat. lima(m) con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale. raspa s.vo f.le = raspa, utensile manuale, attrezzo simile ad una lima, ma con denti piú grossi e piú radi, usato soprattutto nella lavorazione del legno; serve ad asportare rapidamente piccole quantità di materiale da superfici dure in lavori di sgrossatura, ma non di rifinitura; voce deverbale di raspare/raspà che è dal germ. raspôn 'grattare'. 11 - Paré ‘a morte ‘ncopp’ ê cantarelle Ad litteram: Sembrare la morte ( id est:un morto) su gli scolatoi. Détto con divertita irriverenza di qualcuno che sia tanto smagrito e male in arnese da potersi paragonare ad uno di quei cadaveri che temporibus illis venivano per un certo tempo inumati (in catacombe o ipogei di talune chiese provviste di terra santa) posti a sedere su di una sorta di ampi càntari o cantèri (vasi di comodo) fino a che, perduti per scolatura i liquidi corporali non risultassero tanto asciutti ed incartapecoriti da poter daro loro acconcia sepoltura in terra consacrata o direttamente in nicchie senza la necessità di tenerli dapprima in una bara lignea. ‘ncopp’ ê locuzione che vale la preposizione articolata sulle o altrove sugli formata dall’ unione di ‘ncoppa a e dall’ articolo ‘e (=i/gli/le)che fuso con la preposizione a si rende graficamente con ê= a+’e come altrove (cfr. ultra) a+’a=â - a+’o=ô; rammento al proposito che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat in+cuppa(m)); le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa, ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o ntra/’nfra ‘a ntra/’nfra ‘e. Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â casa (dove la â è la scrittura contratta(crasi) della preposizione articolata alla), che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) vicino al/allo (vicino a ‘o→vicino ô) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. cantarelle s.vo f.le pl. del sg. cantarella di per sé ampio càntero/càntaro, ma qui e nell’inteso generale vaso scolatoio su cui venivano assisi i cadaveri a cedere i liquidi ed essiccarsi. La voce a margine etimologicamente è una femminilizzazione sia pure in incongrua forma di diminutivo della voce càntero/càntaro che è dal lat. dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce càntero/càntaro con l’altra voce partenopea - cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e/o poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)! Ò parlato di incongruità circa la femminilizzazione diminutiva di càntaro in càntara e poi cantarella, in quanto è noto che in napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella. Ora atteso che una càntera/càntara è piú grossa o ampia del càntero/càntaro non à senso farne il diminutivo canterella/cantarella a meno che non lo si abbia fatto per tentar di rendere (con un diminutivo aggraziante) meno tetra una cosa lugubre quale è uno scolatoio per cadaveri! 12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle Ad litteram: Sembrare la mosca nel miele. Détto icasticamente in riferimento a chi tenga un atteggiamento di contento piacere e grossa soddisfazione; costui viene rapportato ad una mosca che penetrata senza (per sua fortuna) restarne invischiata, in un barattolo di miele se ne satolli ad libitum traendone grande godimento. mosca s.vo f.le mosca; 1 insetto dal corpo scuro, con proboscide protrattile e un paio di ali trasparenti (ord. Ditteri): uno sciame di mosche; scacciare una mosca | mosca carnaria, insetto dittero con livrea a riflessi metallici, le cui larve si sviluppano su sostanze in putrefazione (fam. Calliforidi) | mosca tse tse, insetto del genere glossina, diffuso nelle zone tropicali, che trasmette il tripanosoma, agente della malattia del sonno | essere ‘na mosca janca(essere una mosca bianca), (fig.) si dice di persona o cosa rarissima | nun facesse male a ‘na mosca(non farebbe male a una mosca), (fig.) si dice di persona molto mite | non si sentiva volare una mosca, (fig.) c'era un silenzio assoluto | mosca!, zitto e mosca!, (fam.) silenzio! | restà cu ‘e mmosche ‘mmano(restare con un pugno di mosche), (fig.) restare deluso, non aver ricavato il minimo profitto da qualcosa | fa zumpà ‘a mosca ô naso(far saltare la mosca al naso), (fig.) far perdere la pazienza, provocare uno scatto di collera | uccello mosca, specie di colibrí | pesi mosca, (sport) nel pugilato e nella lotta, categoria che comprende atleti del peso minimo; un (peso) mosca, atleta che appartiene a tale categoria. 2 (fig.) persona noiosa, petulante, insopportabile | ‘a mosca cucchiera( la mosca cocchiera), (lett.) chi si attribuisce, senza fondamento, i risultati di azioni altrui, credendo di svolgere compiti e avere responsabilità di direzione 3 nella pesca con l'amo, qualunque esca artificiale che imiti insetti, larve 4 neo finto che un tempo le donne si applicavano al viso o sulle spalle 5 pizzetto di barba, molto piccolo, portato sotto il labbro inferiore 6 chicco di caffè tostato che si aggiunge ad alcuni liquori: ànnese cu ‘a mosca – sammuca cu ‘a mosca(anice con la mosca -sambuca con la mosca). dal lat. musca(m) dint’ ô/ ‘int’ ô prep. art.m.le nel, dentro il preposizione formata da dinto (dal lat. de+intus) addizionato della preposizione articolata ô (= a + ‘o= allo, ); ricordo che si ànno altre preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); nel caso che ci occupa ci troviamo cioè di fronte ad un tipico caso della la parlata napoletana e della costruzione di espressioni con dentro, sopra, sotto ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano. In questo caso accade che un napoletano che scrivesse in napoletano non potrebbe pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e così via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. Peccato che la stragrande parte di sedicenti scrittori e/o poeti napoletani(grandi, meno grandi e grandissimi…) si ostinino a rifiutare l’uso dell’accento circonflesso e delle crasi e e si rifugiano negli erronei dint’ ‘a, dint’ ‘o - ‘ncopp’ ‘a, sott’ ‘o - annante ‘a, arret’ ‘o etc. intestardendosi cioè impropriamente ad usare, per far degli esempi dint’ ‘a casa, dint’ ‘o cunvento; dint’ ‘e stanze; dint’ ‘e vicule ; oppure ‘ncopp’ ‘a casa,oppure annante’ ‘a chiesa etc.in luogo come ò détto dei corretti dint’ â casa, dint’ ô cunvento; dint’ ê stanze; dint’ ê vicule ; oppure ‘ncopp’ â casa,oppure annante’ â chiesa incorrendo nel colpevole errore di ritenere il napoletano tributario dell’ italiano, laddove è risaputo che la parlata napoletana, se si esclude il latino tardo e/o parlato, che l’à generata non è tributaria di nessun linguaggio e men che meno della lingua di Alighieri Dante! mèle s.vo neutro miele, 1 sostanza zuccherina, quasi sciropposa, di color biondo, molto dolce, prodotta dalle api: mèle naturale, vergine,’e castagno(miele naturale, vergine; miele di (fiori di) castagno), quello prodotto da api che si nutrono del nettare di tali fiori | doc e comm’ ô mmèle(dolce come il miele), dolcissimo | mèle rusato(miele rosato), (farm.) collutorio a base di miele e infuso di petali di rosa 2 (fig.) dolcezza, soavità: ‘na femmena tutta mèle(una donna tutta miele; parole ‘e mèle(parole di miele) zuccherose, eccessivamente leziose. come agg. invar. si dice di colore biondo ambrato. dal nom.vo lat. mel 13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato variante 13 bis È gghiuta ‘a mosca dint’ ô Viscuvato Ad litteram: Sembrare la mosca nella cattedrale; variante È finita la mosca nella cattedrale. Détti icasticamente di qualsiasi cosa che in un raffronto risulti estremamente piú piccola o contenuta dell’altra cui si ponga in rapporto. Segnatamente però l’espressione, (nella forma della variante) viene usata come icastico commento profferito da chi si lamenti d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli abbia tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco (adombrato sotto il nome di cattedrale), vi si sperde quasi, come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione e la sua variante vengono usate ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese... Viscuvato s.vo m.le vescovado, di per sé 1 dignità, ufficio di vescovo: innalzare al vescovado 2 territorio sottoposto alla giurisdizione di un vescovo | l'edificio in cui il vescovo risiede; per ampliamento semantico la cattedrale (il tempio sede della cattedra del vescovo); voce dal lat. tardo episcopatu(m), deriv. di episcopus 'vescovo' è gghiuta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pass. pross.) dell’infinito jí/ghí/gghí dal lat. ire 14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo Ad litteram: Sembrare Arturo sul filo (corda). Détto con sarcastica ironia con due valenze: a) riferimento a tutti coloro che per necessità, ma piú spesso, per colpevole insipienza o temerarietà si mettano in situazioni insicure e/o difficoltose alla medesima stregua di quel non meglio identificato mitico Arturo saltimbanco acrobatico che si lucrava la giornata esibendosi in piazza del Mercato camminando pericolosamente su di una malferma ed oscillante corda tesa tra due edifici ad una altezza di circa dieci metri dal suolo; b) la seconda valenza fa riferimento a chiunque abbia un incedere malsicuro,esitante, vacillante o traballante alla maniera del suddetto Arturo. ‘ncopp’ ô locuzione prepositiva articolata m.le (sul, sopra il, sopra al) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’o cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12 filo s.vo m.le lett. filo, 1 il prodotto della filatura di una fibra tessile, naturale, artificiale o sintetica, che serve per tessere, cucire, ricamare ecc., 2 (estens.)ed è il caso che ci occupa: qualsiasi corpo assai lungo e sottile, di sezione circolare uniforme; cavo, corda, gomena, 3 (estens.) oggetto filiforme: filo d’erba, filo di paglia, 4 ognuno dei tiranti con cui vengono azionati dall'alto i burattini5 (fig.) quantità, cosa minima: un filo di vita, di speranza; 6 (fig.) andamento, ordine, direzione: il filo del discorso, la voce è dal lat. filu(m). 15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente Ad litteram: Sembrare un topo con gli occhiali. Divertente ed icastica espressione di dileggio riferita a tutti quegli anziani uomini spesso magri, secchi, scarni dal viso lungo ed affilato, provvisto di un congruo naso semita sotto il quale vegetano cespugliosi o affilati baffetti e sul quale poggiano spessi occhiali da miope o piú spesso da presbite; spesso costoro svolgono mansioni d’archivista presso studi notarili o uffici pubblici e segaligni, ossuti ed allampanati, si aggirano tra polverosi faldoni di documenti con il loro divertente aspetto di vecchio topo… provvisto d’occhiali. Zoccola s.vo f.le grosso topo di fogna, ratto, surmolotto, roditore dannoso sia per la voracità sia per le malattie che puó trasmettere. La voce è dal lat. sorcula(m) con tipica assimilazione regressiva cr→cc e consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z); llente/lente s.vo f.le pl. di lenta = lente, occhiale 1 sistema ottico elementare costituito da una sostanza rifrangente, gener. vetro o plastica trasparente, limitata da due superfici di cui almeno una è curva: lente convergente o d'ingrandimento, con almeno una superficie convessa, che ingrandisce l'immagine e corregge la presbiopia e l'ipermetropia; lente divergente, con almeno una superficie concava, che rimpiccolisce l'immagine e corregge la miopia; lente biconvessa, biconcava, con entrambe le superfici curve con raggio di curvatura uguale e opposto; lente a menisco, con entrambe le superfici curve, ma con raggio di curvatura diverso e orientato nello stesso senso; lente sferica, con le due superfici sferiche o una sferica e l'altra piana; lente cilindrica, torica, con almeno una superficie cilindrica, torica, per correggere l'astigmatismo; lente prismatica, con le superfici ad assi concorrenti, per correggere la tendenza allo strabismo | lente a contatto o corneale, piccola lente di plastica che si applica alla cornea, dove è trattenuta da un velo di liquido lacrimale | lente cristallina, (anat.) il cristallino dell'occhio 2 pl.come nel caso che ci occupa, gli occhiali o altrove le lenti a contatto: portare le lenti 3 elemento, oggetto a forma di lente: la lente del pendolo, la massa metallica all'estremità inferiore dell'asta oscillante 4 (ant. , region.) lenticchia. Voce dal lat. leªnte(m) 'lenticchia'; il sign. di 'lente ottica' si è sviluppato modernamente (dal sec. XVII). 16 – Paré variante fà ‘a sporta d’’o tarallaro Ad litteram: Sembrare variante fare la cesta del venditore di taralli. Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione sia nella morfologia di Paré ‘a sporta d’’o tarallaro: Sembrare la cesta del venditore dei taralli, che nella sua variante: fare la cesta del venditore di taralli è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposti continuamente, come appunto un venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori dei venditori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli, per scegliere a proprio piacimento , alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, o di se stesso ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità, anche se poi se ne lamenta dicendo: - “Ma che m’avite pigliato p’’a sporta d’’o tarallaro?” (Mi avete forse confuso con la cesta del tarallaio?) sporta = cesta dal lat. sporta(m) tarallaro = venditore di taralli; voce formata dall’unione del s.vo tarallo + il suff. di pertinenza aro/aio dal lat. arius; Tarallo s.m. s. biscotto a forma di ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito con zucchero e semi d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto, tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un meridionalismo, attese le regioni (tutte meridionali: Campania, Abruzzo, Calabria e Puglia) dove vengono prodotti tali tipici biscotti. Voce penetrata nel lessico dell’italiano vista la gran diffusione peninsulare ( per esportazione dalle regioni produttrici) del prodotto che va sotto il nome di tarallo. Quanto all’etimo della voce a margine non vi sono certezze e si vaga nel campo delle ipotesi; tutti i calepini a mia disposizione, a cominciare dal D.E.I. nicchiano o si rifugiano dietro il solito pilatesco etimo incerto;non so dire chi l’abbia formulata ma esiste un’ipotesi che riferirebbe la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente ipotizzo il latino torus (= toro: modanatura inferiore della colonna,cordone); semanticamente in ambedue i casi ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la forma del toroide che quella del toro di colonna, richiamano quella del tarallo, ma morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in linguistica non sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú complesso spiegare da dove salti fuori quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia ipotesi!), a meno che questo allo non sia un adattamento locale di un originario suffisso diminutivo ello←ellus proprio dei sostantivi con tema in r; oppure un adattamento metaplasmatico ed espressivo di un originario suffisso diminutivo olo←olus;accettando una delle due ipotesi si potrebbe ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo oppure olo→alo→allo) cordone (torus); dopo lungo almanaccare, mi son fatto convinto di questa idea, quantunque neppure la grammatica del RHOLFS faccia menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso, se si accettasse, per l’etimo di tarallo la mia idea di tor-(us) + il suff. ello→allo oppure olo→alo→allo forse si potrebbe , indegnamente, dare scacco persino al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò una sequenza di ipotesi giudicandole tutte però improponibili o non perseguibili..., con la sola eccezione, forse!, di una voce macedone: dràmis = focaccia, voce che però il curatore della lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo paleograficamente corretto dràllis. Stimo, e quanto! G. Alessio, ma – nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto mortale (senza rete), pericoloso esercizio in cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non mi sento di seguirlo! Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis a tarallo d’acchito non si còglie! A margine di questa espressione mi piace ricordare quello che fu uno degli ultimi, se non certamente l’ultimo venditore girovago di taralli, ch’io vidi tra gli anni ’50 e ’60 del 1900 percorrere in lungo e largo la città di Napoli armato della sua ballonzolante cesta colma di taralli,cesta mantenuta con l’epa e sorretta da una correggia di cuoio poggiata sul collo.All’epoca ch’io lo seppi, questo venditore girovago sempre allegro se non addirittura ridanciano, che rispondeva al nome di Fortunato era un vecchio ometto piccolo e grassoccio con delle gambette arcuate, nascoste da certe consunte braghe d’un colore indefinibile che, in origine, non dovevano essere state sue : erano infatti troppo larghe e sbuffanti; indossava nei mesi primaverili ed estivi una maglietta di cotone bianco a mezze maniche e portava sul capo un berretto a caciottella di panno bianco, del tipo di quelli indossati dai marinai sulle divise da fatica; d’inverno sostituiva la caciottella bianca con uno zucchetto di lana a piú colori ed infilava sulla solita maglietta di cotone bianco a mezze maniche, una sdrucita giacchetta del medesimo indefinito colore delle breghe, giacchetta che,anch’essa in origine, non doveva essere stata sua: troppo larga e sbuffante;completava l’abbigliamento invernale una unta e bisunta sciarpa di lana a piú colori ch’egli portava come un sacerdote porta la stola e che gli incorniciava il viso segnato dal tempo con una ragnatela di rughe profonde, ma sul quale tuttavia brillavano due occhi vivaci e talvolta addirittura lampeggianti. La piega amara (angoli all’ingiú) della bocca sdentata completava il disegno del volto di questo vecchio omettino che si annunziava di lontano con una sorta di squillante, musicale cantilena: “Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’!” E quale era mai la roba bella sottolineata da quello: ‘Nzogna, ‘nzo’ ? Ma è chiaro che si trattava dei suoi gustosissimi, croccanti taralli ‘nzogna e ppepe ,impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, taralli ancóra caldi ( e sfido io: li portava in giro protetti sotto una doppia coltre di tela di sacco...) Poi passarono gli anni ed un giorno, anzi un brutto giorno improvvisamente non intesi piú quella squillante, musicale cantilena: Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’! Con ogni probabilità Fortunato aveva esteso il suo giro ed era passato a proporre a san Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e pepe ed io mi dovetti rassegnare a cercare altrove per trovare i taralli che Fortunato non mi avrebbe piú venduti. Per buona sorte mia (una volta nella vita!) facendo appena quattro passi in piú scovai proprio difronte all’Orto Botanico la bottega che don Leopoldo Infante aveva aperto. E mi andò da Dio; Furtunato teneva ‘a rrobba bbella? Ma don Liopoldo nun s’’o vedeva proprio! 17 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo Ad litteram: Sembrare un gatto aggrappato al lardo Divertentissima sarcastica locuzione dal duplice significato; nel primo, con la similitudine rammentata (che parla di un gatto appigliato ad un gran pezzo di lardo sospeso al soffitto d’una cantina o cucina d’ antan) ci si riferisce mordacemente a taluni inguaribili ghiottoni (appaiati al gatto de quo) che desiderosi di rimpinzarsi d’ un qualche alimento, avutolo sottomano, lo ghermiscono avidamente, abbrancandolo con ingordigia,dando l’impressione di temere quasi che qualcun altro glielo possa sottrarre; nel secondo significato con la medesima similitudine ci si riferisce in maniera solo divertita, ma non scortese a quelle vecchie, malconce,esili signore che nell’incedere, per tema di cadere, si aggrappino vistosamente a chi le sorregga. Anche costoro, come i pregressi ghiottoni, sono appaiate ad un gatto avvinghiato ad un pezzo di lardo. appesa voce verbale part. pass.f.le agg.vato dell’infinito appennere = attaccare, agganciare, appiccare; sospendere; appennere è, con consueta assimilazione progressiva nd→nn, dal lat. appendere 'pesare', poi 'appendere', comp. di ad e pendere 'sospendere' ô preposizione art. m.le al, allo; morfologicamente è lacrasi di a + ‘o = a+il/lo come altrove â = a+ ‘a (a+ la), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); llardo/lardo s.vo neutro lardo 1 lo strato di grasso sottocutaneo del maiale, che si conserva salato o affumicato per uso di cucina: fare il battuto col lardo | nuotare nel lardo, (fig.) vivere nell'abbondanza 2 (estens.) grasso eccessivo | una palla di lardo, (scherz.) persona o animale molto grasso 3 (nell’italiano, impropriamente, anche) strutto. La voce è dal lat. lār(ĭ)du(m)→lardu(m). 18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola Ad litteram: Sembrare che il culo gli sottragga la falda della camicia. Divertentissima icastica espressione riferita con sarcastico dileggio nei confronti di chiunque (uomo o donna) sia tanto inguaribilmente avaro/a, spilorcio/a, pidocchioso/a, tirchio/a ed al contempo preoccupato/a, dubbioso/a, allarmato/a da giungere a temere che il suo stesso fondo schiena gli porti via la falda della camicia che insiste sul medesimo fondo schiena. culo s.vo m.le s. 1 deretano, sedere, fondo schiena | essere culo e cammisa,: stare sempre insieme, andare molto d'accordo. 2 fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia ' culi di bicchiere, (scherz.) brillanti falsi, di vetro. Voce dal lat. culu(m) marcato sul greco koilos; péttola/péttula s.vo f.le Con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore della camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni, insiste sul fondoschiena; estensivamente, con i medesimi termini, si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del mattèrello (e non mattarello che è un dialettismo romanesco) con il quale su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliato e/o riempito, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; per traslato, con i termini in epigrafe, si indica una donnaccia o anche una donnetta ciarliera e petulante; ancóra: con il diminutivo:pettulélla che stranamente è inteso maschile ‘o pettulélla ci si suole riferire all’impenitente dongiovanni, al femminiere aduso a perennemente correr dietro le gonne femminili, mentre con 'o pettulélla ‘e mammà ci si riferisce ad un uomo, che a malgrado dell'età raggiunta, non si decide ad abbandonare le gonne materne anzi la falda della camicia della sua genitrice o l'ala protettiva di mammà!Ed oggi, a ben vedere, è la consueta situazione attuale quando la stragrande maggioranza dei giovani non intende metter su famiglia, abbandonando la casa dei genitori ed anche quando lo fa, resta legata a filo doppio con la propria genitrice dimostrando che ci si trova indefettibilmente davanti a dei pettulélle ‘e mamma! Ciò detto, passiamo all'etimologia del termine péttola/péttula. Cominciamo col dire che la radice pat che pure dà vita a parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti l’azione del distendere, allargare etc., non si può riferire alla péttola/péttula ;ciò è in tutti i testi da me compulsati al riguardo. Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la péttola! Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la péttola/péttula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda. 19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune Ad litteram: Sembrare che lo suggono gli scarafaggi. Va da sé che si tratta di un’enfatizzazione, non di un fatto reale; si tratta di una divertita presa in giro fatta nei confronti di soggetti tanto smunti, macilenti, sciupati, patiti, scavati, smagriti e rinsecchiti d’apparire quasi del tutto asciutti dei proprî umori vitali iperbolicamente succhiati da degli scarafaggi. Nella realtà ciò non è assolutamente possibile in quanto, pur essendo vero che le blatte sono avide di liquidi, non avrebbero mai possibilità o modo di prosciugare un corpo umano! zúcano voce verbale (3ªpers. pl.) ind. pres. dell’infinito zucare = suggere, succhiare,aspirare i succhi; voce dal lat. *sucare denominale del lat. sucus con il consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z); scarrafune/i s.vo m.le pl.metafonetico del sg. scarrafone = blatta, scarafaggio; l’etimo di scarrafone è dal lat. scarabaeu(m) + il suff. accrescitivo one e con il passaggio di influsso osco della consonante occlusiva bilabiale sonora (b) alla consonante fricativa labiodentale sorda (f) cfr. enfrice← lat. imbrice(m), runfà← dal gr. rhómbos, scrofola← lat. scrobula(m). 20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta Alla lettera: Sembrare Ciccibbacco sulla botte. Ironico, colorito riferimento a chi non si lascia turbare da niente e nessuno e persegue il suo fine indifferente a tutto ciò che gli accada intorno; con l’espressione si prende a modello una tipica figurina presepiale: il mitico guidatore (cui la tradizione popolare assegnò l’intraducibile nome di Ciccibbacco) di un carro trainato da una pariglia di buoi, carro usato per il trasporto di botti di vino, sulle cui botti trionfalmente assiso il panciuto conducente con esasperata lentezza (i buoi non son trottatori ed il peso delle botti piene si fa sentire e rallenta il cammino…) ed incurante sia dell’evento natalizio che della folla dei pastori, folla che incolonnata si reca alla santa grotta, tira innanzi per la sua via deciso a portare a termine la lucrosa consegna delle botti alle rivendite sue clienti. ‘ncopp’ â prep. art. f.le (sulla, sopra la,al disopra della) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12; votta s.vo f.le = botte, s. f. 1 recipiente di legno fatto di doghe arcuate e più strette alle estremità, tenute unite da cerchi di ferro, per cui ha forma simile a quella di un cilindro ma panciuta; serve per la conservazione e il trasporto di liquidi (spec. vino), o anche di pesci salati, olive e prodotti simili: spillare il vino dalla botte; una botte di aringhe | essere in una botte di ferro, (fig.) essere al sicuro da ogni rischio | dare un colpo al cerchio e uno alla botte, (fig.) barcamenarsi fra due persone, due partiti, due esigenze in contrasto fra loro | volere la botte piena e la moglie ubriaca, (fig.) cercare di ottenere contemporaneamente due cose fra loro incompatibili | prov. : nelle botti piccole sta il vino buono, per sottolineare le buone qualità di una persona di statura piccola. DIM. botticella, botticina 2 la quantità di liquido o di altra sostanza contenuta in una botte 3 appostamento galleggiante a forma di botte aperta nel lato superiore, usato per la caccia nelle paludi 4 volta a botte, (arch.) volta a sezione semicircolare 5 a Roma, carrozza pubblica a cavalli; botticella 6 antica unità di misura per liquidi, con valori diversi da regione a regione | (mar.) antica unità di misura di stazza, equivalente alla tonnellata. Voce dal lat. butte(m) con tipica alternanza partenopea. 21 - Paré don Titta e 'o cane (in origine Paré san Rocco e ‘o cane) Ad litteram:sembrare don Titta ed il cane Locuzione usata per fotografare la situazione che veda due individui che procedano indissolubilmente legati fra di loro al segno che quasi l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa. Chiarisco qui che il don Titta della locuzione non à riferimenti né storici, né letterarî con alcun personaggio esistito o di fantasia; è usato nella locuzione per un malinteso senso di rispetto, al posto di san Rocco, che – come ò indicato – in origine fu il protagonista della locuzione; ed in effetti il santo pellegrino e taumaturgo, nella iconografia tradizionale è rappresentato accompagnato sempre da un cane; in seguito, per una sorta di bigottismo,la locuzione popolare fu modificata ed al nome del santo fu sostituito quello di un non meglio codificato don Titta, che non è -sia chiaro!- il boia pontificio, personaggio mai entrato nella cultura partenopea che aveva in un mastro Austino il boia di sua pertinenza. 22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone (in origine Paré ‘o ciuccio ‘mmiez’ ê suone) Ad litteram: Sembrare un asino tra i suoni, cioè un asino frastrornato; détto ironicamente, soprattutto di ragazzo o persona anziana che in una situazione chiassosa (che magari, in caso di ragazzi, sia concorso a determinare)si senta intontito, istupidito, stranito, disorientato quando non incerto, indeciso, irresoluto alla medesima stregua d’un asino (bestia notoriamente e per solito paziente e paciosa) che nel vocío e nel tramestío di un mercato perde quasi la bussola comportandosi conseguentemente in maniera disorientata, strana, inconsueta,atipica. In ordine al problema linguistico rammento che la locuzione nata, come tutte le altre esaminate, tra il popolo e sulla sua bocca ebbe in origine una formulazione che – come ò segnalato nell’epigrafe dell’espressione – prevedeva l’uso del termine napoletano e popolaresco:ciuccio in luogo della voce letteraria aseno = asino voce quasi certamente pedestremente adottata da un qualche sedicente uomo di lettere che pretese ignobilmente e scioccamente di italianizzare l’ espressione che invece sulla bocca del popolo suonava incisiva e robusta chiamando in causa il popolano ciuccio e non l’adattato aseno scimmiottatura di asino. Talora i letterati fanno, poveri loro delle sesquipedali, imperdonabili sciocchezze! àseno s.vo m.le sciocco ed inutile adattamento dell’italiano asino ciuccio s.vo m.le asino, ciuco, quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare. 23 - Paré mill'anne Ad litteram: Sembrare (che debbano trascorrere) mille anni (prima che si giunga alla conclusione della faccenda o dell’opera intrapresa o ancóra prima che si verifichino le tanto auspicate evenienze attese ed ancóra in fieri.). Iperbolica espressione in tutto in linea con il consueto ampolloso, enfatico, prolisso magniloquente, spagnolesco ricercato, manierato, affettato eloquio partenopeo che ama l’iperbole e l’enfatizzazione tanto è vero che si è soliti usare l’espressione in esame anche quando la faccenda o l’opera si sia intrapresa da pochissimo, o le evenienze attese in realtà lo siano solo da poco tempo. mille agg. num. card. invar. 1 numero naturale corrispondente a dieci centinaia; nella numerazione araba è rappresentato da 1000, in quella romana da M; 2 con valore iperbolico, indica un numero indeterminato assai elevato; moltissimo; l’etimo è dal lat. mille anne s.vo m.le pl. di anno s. m. 1 (astr.) tempo impiegato dal Sole per il suo ritorno apparente all'equinozio di primavera; 2 periodo di dodici mesi, compreso tra un primo gennaio e il successivo, che rappresenta l'unità di tempo fondamentale per la determinazione delle date, a partire dalla nascita di Cristo; 3 l'unità di tempo fondamentale per indicare l'età di una persona o l'epoca da cui una cosa esiste; 4 (iperb.) periodo di tempo indeterminato di cui si vuol sottolineare la lunghezza; 5 arco di tempo, non coincidente con l'anno civile, durante il quale si svolge un ciclo di attività. La voce anno è dal lat. annu(m). 24 - Paré Lillo e Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. Ad litteram: Sembrare Lilloe Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe ci si riferisce con bonario divertimento a tutte le attempate coppie di coniugi in ispecie quelli che si recano insieme a partecipare a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada napoletana détta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero e restarono indefettibilmente soli. L’espressione in esame nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto (abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della suddetta strada detta ‘a ‘nfrascata) discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante. La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià. Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON. Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato poi trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto e con l’espressione si voleva indicare non la venerazione d’un piede della santa, ma si indicava l’abitudine di prostrarsi ai piedi della santa per chiedere grazie e/o protezione, per cui non l’articolo ‘o (il) ma la preposizione articolata ô (= al);ô è infatti la crasi di (a+ ‘o)= al). 25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera Ad litteram: Sembrare l’uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel talTom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad esibirsi in un circo equestre; costui fu uomo molto piccolo e ridicolo e per questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto. 'ncopp'â locuzione prepositiva articolata f.le (sulla, sopra la, sopra alla) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12 salera s.vo f.le = saliera recipiente in cui si mette il sale per l'uso di cucina o per la tavola. Denominale di sal-is addizionato del suff. di competenza era (al maschile iere cfr. ad es. salum-era ma salum –iere). 26 – Paré ‘na lacerta vermenara Ad litteram: Sembrare una lucertola rimpinzantesi famelicamente di vermi. Divertente, ironico, beffardo riferimento a persona magra e/o macilenta, ma dotata di formidabile appetito, persona che, a malgrado che non l’assimili, continuamente assume cibo, per questo appaiata ad una lucertola notoriamente avida di vermi di cui è solita satollarsi. lacerta s.vo f.le = geco: piccolo rettile terrestre dei paesi mediterranei, con i polpastrelli delle dita muniti di organi adesivi che gli consentono di arrampicarsi sui muri; si ciba di vermi; lucertola: genere di piccoli rettili terrestri con capo appiattito, corpo terminante in una lunga coda sottile, zampe corte, lingua bifida; in senso traslato con la voce a margine viene indicata una persona estremamente magra allampanata, denutrita, gracile, mingherlina, esile ; la voce è dritto per dritto dal lat. cl. lacerta(m) che diede poi il lucerta(m) del lat. volg. donde lucertola dell’italiano. vermenara di per sé s.vo f.le e vale matassa di vermi; parassitosi, elmintosi (che,con derivazione da eliminto [ che è dal gr. ἕλμινς –ινϑος (elmins – elmintos) «verme»], nel linguaggio medico,indica la presenza di vermi parassiti nell’intestino, nell'apparato gastrointestinale, ma possono trovarsi anche nel fegato o in altri organi dell’uomo e degli animali, ma per traslato di causa ed effetto la voce a margine indica uno spavento ragguardevole, il massimo del panico tali da procurare, come un tempo si credette, nel pacco intestinale soprattutto dei ragazzi, la nascita di lunghi e sottili vermi;ovviamente la scienza medica stabilí che ben altre son le cause delle infestazioni da elminiti, cause sulle quali non mi esprimo o dilungo (mancandomene una competenza), ma anche quando la medicina si fu espressa, non venne meno la radicata credenza cui accennavo ed il termine vermenara continuò ed ancóra continua, tra il popolo della città bassa, ad essere usato per traslato di causa ed effetto indicando uno spavento ragguardevole, il massimo del panico.ò détto che la voce a margine è di per sé un s.vo f.le e vale matassa di vermi ma talora come nel caso che ci occupa è usato (sia pure impropriamente) come aggettivo in luogo di vermenosa per indicare chi, come la lucertola, sia ghiotto o avido di vermi. La voce è un denominale di vermen addizionato o del suff. ara (al m.le aro suffisso che continua il lat. –arius e compare in sostantivio agg.vo derivati dal latino, che indicano mestiere ( oppure persona luogo, ambiente, pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa) oppure addizionato o del suff. osa (al m.le oso suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m) che indica presenza, caratteristica, qualità ecc.). 27 – Paré n’anema pezzentella Ad litteram: Sembrare un’ anima poverella, un’ anima in pena; détto, per icastico traslato, di chi smunto, macilento, sciupato, patito, appaia sofferente e bisognoso di un aiuto materiale o morale; in realtà, come chiarisco qui di sèguito con il termine di anima pezzentella di per sé non ci si intenderebbe – se non per traslato - a persona viva e vegeta, ma ci si riferisce a quelle anime di defunti ipotizzati nel purgatorio. Pezzentella agg.vo f.le del m.le pezzentiello piccolo/a mendicante; sia pezzentiello che pezzentella (che non va confuso con analogo, omofono ed omografo s.vo f.le che indica tutt’altro) sono agg.vi diminutivi (cfr. i suffissi iello ed ella derivati dal s.vo pezzente : mendicante, straccione; persona che vive in condizioni di estrema miseria: andare vestito come un pezzente; sembrare un pezzente | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fare il pezzente. Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenura anche nell’italiano, ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere'; in effetti con la voce a margine in napoletano non si indica propriamente la piccola mendicante che chieda obolo di monete, ma si indica in unione al s.vo anema ( che è dal lat. anima(m)): anema pezzentella quell’anima che si trova in purgatorio che secondo la dottrina cattolica tradizionale è lo stato temporaneo di espiazione cui sono assogettate le anime di coloro che, pur morendo in stato di grazia, debbono espiare i peccati veniali e le pene conseguenti ai peccati mortali, di per sé già perdonati; si indica cioè quell’anima che trovandosi in uno dei regni dell'oltretomba cristiano, dove si espiano le colpe commesse sulla terra prima di poter passare in paradiso, e desiderando abbreviare – per quanto possibile – il loro transitorio, ma doloroso stato, chiedono, pietiscono dai vivi delle preci suffragatorie; ll’ anema pezzentella: l’anima poverella è comunque un’anima che soffre, che patisce e chiede refrigerio e ad essa è apparentato chi smunto, macilento, sciupato, patito,o sofferente per una qualsiasi ragione, appaia patire ed essere bisognoso di un aiuto materiale o morale che lenisca le sue pene. Ripeto ad abundantiam, in chiusura di questa espressione che la voce pezzentella è un denominale di pezzente (povero) ed è voce merid., propriamente part. pres. del napoletano pezzire/pezzí =chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. peteªre 'chiedere'; in coda a questo pezzire/pezzí rammento altresí che in napoletano se ne usa anche il participio passato pezzuto/a in unione quasi esclusiva con il sostantivo messa (‘a messa pezzuta che è quella messa fatta celebrare in suffragio delle anime dei defunti, elemosinando l’offerta necessaria alla sua celebrazione. 28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta che si soleva un tempo riferire soprattutto alle attempate signore o piú spesso vecchie inguaribili nubili che andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano tentativo di nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi imbiancati all’uopo di glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini. Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione (che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella. Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto, le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla economica farina. pupata s.vo f.le = bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m). ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile. A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra piú grande di tammurro, carretta piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di tiano e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco e malizioso, in napoletano, si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon su cui fu marcato il latino ficu(m)= fico, si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva. 29 – Paré ‘na úfara Letteralmente: Sembrare una bufala; détto di chi in preda ad un rabbioso, virulento accesso di nervi si lasci andare a manifestazioni tese, ansiose, irrequiete, isteriche quando non impetuose, travolgenti, furiose, rovinose, violenti tali da poter esser messo a paragone al temibile comportamento di una bufala iraconda, rabbiosa, stizzosa, e si parla di bufola e non di bufalo perché è risaputo che nel mondo animale, ma forse pure in quello umano!..., le manifestazioni piú violente, aggressive, isteriche,irruente,veementi,combattive, battagliere, bellicose son delle femmine e non dei maschi! úfara s.vo f.le = bufala 1 femmina del bufalo; 2 (fig. scherz.) errore madornale; panzana, corbelleria; 3 notizia giornalistica totalmente infondata; voce dal lat. tardo *bufala(m)←bufalu(m), per il class. bubalu(m), dal gr. bóubalos 'antilope' 30 – Paré ‘nu capone sturduto Ad litteram:sembrare un cappone stordito Détto di chi si dimostri per le piú varie ragioni scombussolato, stonato, frastornato incerto e confuso al segno di essere incapace di attendere compiutamente al suo dovuto, alla medesima stregua di un pollo che ridotto a cappone veda segnati i suoi inutili giorni dallo stordimento e viva solo per ingrassare. Rammento che un tempo le mamme che vedevano a tarda sera i propri figli stanchi e ciondolanti, incapaci sia di attendere allo studio, ma pure di portare a termine acconciamente il pasto serale, usavano bollare i ragazzi con la locuzione in epigrafe. capone s.vo m.le = cappone, pollo maschio ma castrato, perciò piú grosso del gallo e con gustose carni piú tenere; la voce napoletana deriva dritto per dritto dal lat. class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare' piuttosto che dal lat. volg. *cappone(m) che à dato la voce italiana cappone. sturduto =stordito, stonato, rintronato, scombussolato agg.vo m.le anzi p.p. agg.vato dell’infinito sturdí= stordire, stonare, rintronare, scombussolare; con derivazione da un basso lat. *exturdire da collegarsi a turdus= tordo e poi sciocco, confuso. 31 – Paré n’auciello ‘e malaurio Ad litteram:sembrare un uccello del malaugurio Détto di chi pessimista di natura profetizzianche velatamente o sommessamente per sé e/o per gli altri,guai e disgrazie continuate; costui a cui spesso il malaugurio si legge in volto viene assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette, barbagianni e consimili ritenuti apportatori di disgrazie; rammento che già anticamente quando i presagi venivano tratti dagli àuguri dal volo degli uccelli, un inatteso passaggio di volatili notturni era ritenuto di cattivo auspicio. auciello s.vo m.le = uccello, volatile voce dal lat. tardo aucĕllu(m)→auciello, accanto ad aucella(m), da *avicellus (*avicella), dim. del class. avis 'uccello' malaurio s.vo m.le = cattivo presagio, spiacevole auspicio; voce formata dalla agglutinazione dimalo(cattivo,spiacevole,triste dal lat. malu(m)) + aurio (augurio, auspicio, presagio, pronostico, vaticinio dal lat. au(gu)riu(m)→aurio 'presagio'. 32 -Paré 'na luna 'nquintadecima. Ad litteram:sembrare una luna nel quindicesimo giorno. Cosí in tono scherzoso,simpatico ma non offensivo ci si suole rivolgere alle donne incinte di parecchi mesi che inalberino un pancione grosso e sferico paragonato, nella divertente locuzione alla luna che solo nel quindecesimo giorno dal novilunio è completamente piena; per traslato il paragone è usato a mo' di sfottò anche nei confronti di uomini vistosamente grassi e panciuti. A margine rammento che al proposito della forma del pancione delle donne incinte prossime a condurre al termine la gestazione, un tempo vi fu un simpatico modo di dire che sostanziava un curioso, ma quasi sempre veridico metodo di conoscenza del sesso del nascituro, senza la necessità di ricorrere ad esami medici ed ecografie: panza tonna (cioè sferica) appronta ‘a scionna,panza a pponta,spunto e bbasso appronta (pancia sferica, prepara la fionda (gioco/arnese destinato ad un maschio) pancia a punta prepara fuso e gonna (destinate alle donne). ‘nquintadecima (jurnata) = nel quindicesimo giorno; tonna agg.vo f.le metafonetico del m.le tunno lett. rotonda; che presenta una forma piena, rotondeggiante; ma qui piú esattamente, sferica; tunno/tonna derivano dal lat. lat. (ro)tundu(m)/*(ro)tunda, (deriv. di rota 'ruota') con normale assimilazione progressiva nd→nn: (ro)tundu(m)/*(ro)tunda→tunno/tonna. scionna s.vo f.le = fionda, 1 arma da getto costituita da due strisce di corda o di cuoio collegate da una tasca entro cui si colloca il proiettile; si usa facendola roteare al di sopra della testa e lasciando poi una delle due strisce 2 arnese/giocattolo per lanciare sassi, formato da una forcella con un elastico assicurato alle due estremità.voce dal lat. flunda(m) con tipico passaggio del digramma lat. fl + vocale al napoletano sci (cfr. flumen→sciummo – flore-m→sciore – flamma(m)→sciamma – flaccare→sciaccà etc.;) ed assimilazione progressiva nd→nn. spunto = fuso, spuntone s.vo m.le da non confondere con l’omografo ed omofono spunto agg.vo m.le di tutt’altro etimo (da ponta con protesi di una esse intensiva) e significato (acre, pungente,inacidito); invece questo s.vo a margine derivato dal lat. expunctu(m), part. pass. di expungere, vale fuso, arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle estremità,ma privo di vere punte, arnese che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola; spuntone; bbasso/basso s.vo m.le lunga ed ampia gonna; in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. Ernesto Murolo (Napoli, 4 aprile 1876 – † Napoli, 30 ottobre 1939)) fu usato per indicare un tipico indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto. Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare. appronta voce verbale qui imperativo 2ª pers. sg. altrove anche 3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito apprunt-are/à = preparare, tener pronto allestire, verbo che è un denominale del lat. ad+promptu(m) part. pass. di promere 'trarre fuori' con assimilazione regressiva dp→pp. 33 - Paré 'nu píreto annasprato(o, ma raramente, con riferimento ad una donna: paré 'na péreta annasprata). Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo si dice salacemente quasi esclusivamente(è rarissima l’espressione coniugata al femminile) di tutti quegli uomini che arroganti, boriosi, superbi, presuntuosi e supponenti si diano troppe arie, atteggiandosi a superuomini, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, ma non si sa come, risulti inzuccherato,o piú esattamente glassato di naspro, ma che - per quanto coperto di ghiaccia dolce - resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris. píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto); annasprato/a agg.vo m.le o f.le =coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sg. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro; la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa, ghiaccia atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata, usata per ricoprire e migliorare dei biscotti in origine dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa ghiaccia zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage. Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che quando ne venni a conoscenza poco mi convinse ed ancóra poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi tuttavia non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo (peraltro accolta con un sí convinto dall’amico glottologo prof. Carlo Iandolo) è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro si potrebbe pensare ad un latino (no)n+ asperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros. 34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato (o con riferimento ad una donna: paré 'na péreta ‘ncantarata). Letteralmente: Sembrare un peto esploso in un pitale, cioè sembrare un rumoroso peto che esploso in un pitale (che gli fa da cassa di risonanza) risulta fragorosissimo. Anche in questo caso con l’espressione a margine ci si intende riferire ad una donna (con la versione al femminile) o – piú spesso – con la primaria versione al maschile - ad un uomo saccente, supponente, vanesio, arrogante, presuntuoso, altezzoso, superbo, tracotante, protervo e sentenzioso che si dia, ma ovviamente a sproposito, le arie di valente superuomo, parli a casaccio ed a vanvera, dia consigli non richiesti,propugni per sé l’infallibilità papale ed essendo in realtà privo di ogni concreto supporto e fondamento alle sue pretese ed inesistenti virtú, mancante com’è di scienza o conoscenza può solo esser paragonato ad un peto che, sebbene risuonante e ridondante, rimane pur sempre la stomachevole, fetida cosa che è. Per píreto vedi antea sub 33; péreta ne è il metafonetico femminile usato non solo come sinonimo maggiorato del maschile (ricordo che nel napoletano un oggetto o cosa che sia, è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie dunque una péreta è intesa piú vasta o rumorosa del maschile píreto); péreta è usato dicevo non solo come sinonimo accresciuto di píreto, ma per traslato è usato anche per riferirsi offensivamente ad una donna… di scarto, quale è ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi sia una demi vierge o che voglia apparir tale… una donna cioè dalle pessime qualità fisiche e/o morali che goda a strombazzare le sue pessimi qualità, comportandosi alla medesima stregua di un peto, manifestando cioè rumorosamente la sua presenza, donna che ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di péreta. Per completezza dirò poi che tale donna becera e volgare, altrove, ma con medesima valenza è anche détta alternativamente lòcena, lumèra o anche lume a ggiorno; chiarisco: lòcena = di scarto;la voce è nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiata come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena che nel napoletano indica in primis un taglio di carne che pur essendo gustosissimo,forse il piú gustoso, è un taglio che ricavato dal quarto anteriore della bestia, (il taglio meno pregiato e meno costoso) è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto); lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresì maleolenti tali quale una péreta. Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Péreta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine péreta da nome comune è divenuto quasi nome proprio. ‘ncantarato/a agg.vo m.le o f.le letteralmente: contenuto in un càntaro (pitale); agg.vo formato, come se fosse una voce verbale, quale part. pass. masch./f.le sing. aggettivato di un inesistente ’infinito *incantarà = contenere in càntaro;in pratica si ipotizza l’esistenza d’un verbo denominale di càntaro con prostesi di un in→’n illativo; a sua volta càntaro o càntero è un s.vo m.le che indica un antico, desueto alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,vaso atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani (e tra costoro spiace trovare persino supponenti ed applauditi autori sedicenti esperti d’usi e costumi oltre che dell’idioma napoletani…) sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)! 35- Paré 'nu sórece 'nfuso 'a ll' uoglio Letteralmente: Sembrare un topo bagnato (id est: unto) dall’olio. Cosí, con icastica rappresentazione ci si riferisce a chi abbia il capo abbondantemente impomatato, lustro ed eccessivamente profumato, tanto da poter essere appaiato ad un sorcio che introdottosi in un contenitore d’olio, ne emerga completamente unto e luccicante; rammento che altrove l’uomo che appaia cosí tanto pettinato, lustro ed impomatato vien bollato con l’aggettivo alliffato (unto, impomatato, imbellettato) che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto; sórece s.vo m.le = topino domestico, sorcio, dal lat. sorice(m); 'nfuso = bagnato, intriso, inzuppato e qui unto voce verb. part. pass. aggettivato dell’infinito ‘nfonnere =bagnare, aspergere,intridere etc. voce dal lat. in→’n+fúndere con la consueta assimilazione nd→nn; uoglio s.vo neutro = olio; voce dal lat. oleu(m) dal greco élaion; dal lat. class. oleu(m) derivò il lat. volg. ŏlju(m) donde uoglio con tipica dittongazione della ŏ→uo e passaggio del gruppo lj a gli come per familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia; rammento in coda all’esame dell’espressione che talora i napoletani meno esperti la usano anche in riferimento a chi, vittima d’un improvviso acquazzone, a cui non sia sfuggito, risulti del tutto inzuppato ed intriso d’acqua; per la verità si tratta di un riferimento improprio: i napoletani d’antan ed amanti della propria cultura sanno che in caso di acquazzone il paragone da farsi e che meglio regge non è con un topo, ma con un polpo: cfr. farse/paré comme a ‘nu purpetiello id est: Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua. 36- Paré 'o diavulo e ll'acquasanta Ad litteram: Sembrare il diavolo e l’acqua lustrale. Détto in riferimento a due individui l’uno (quello adombrato quale acquasanta) d’indole onesta, giusta, virtuosa, dabbene e proba, l’altro (inteso diavolo) d’indole cattiva se non pessima, malvagia, perfida, maligna,empia, crudele, sadica, turpe, spietata etc., di caratteri cioè cosí tanto contrastanti da essere addirittura antitetici ed incompatibili tali da risultare in perenne contrasto attesa la incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi di agire. diavulo s.vo m.le = diavolo, demonio, spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabōlu(m)→diavulo, dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare' acquasanta s. f. acqua benedetta per uso liturgico, acqua lustrale, purificatoria; la voce è formata agglutinando il s.vo acqua (dal lat. aqua(m)) con l’agg.vo santa (dal lat. sancta(m), propr. part. pass.f.le di sancire 'sancire'). 37- Paré Pascale passaguaje. Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si vada reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui in continuazione rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di Antonio Petito ((Napoli, 22 giugno 1822 –† 24 marzo 1876). passaguaje neologismo in forma d’agg.vo per significare poveretto, poveruomo, povero diavolo, malaugurato, infausto, sfortunato, sciagurato, formato agglutinando il so.vo pl. guaje (guai, sventure, avversità, traversie, incidenti; difficoltà, preoccupazioni, grattacapi; voce dal germ.*wai ) con, in posizione protetica, la voce verbale passa (3 pers. sg. ind. pres. dell’infinito passare/à = muoversi, transitare, ma qui subire, sopportare il passaggio di (dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo'). 38 – Paré ‘o càntaro ‘mmiez’â cchiesia. Letteralmente : Sembrare il pitale (posto) nel mezzo della chiesa.Id est : sembrare, ma piú icasticamente, essere qualcosa di incongruo messo in un contesto, un quadro, un insieme,una situazione che naturalmente gli siano estranei.Icastica espressione usata a dileggio di qualcosa o piú spesso di qualcuno entrati a far parte di una condizione, posizione,circostanza, contingenza, di per sé non inerente alla destinazione di quel qualcosa o alle capacità del qualcuno ; piú chiaramente un pitale, aggeggio da usarsi quale vaso di comodo, non potrebbe essere adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa, contesto che gli è estraneo ; cosí ad esempio un pesante soprabito in pelliccia usato nei mesi estivi durante una passeggiata sul lungomare sarebbe inadatto ed incongruo, finendo per l’appunto per esser paragonabile ad càntaro posto nel mezzo di una chiesa ; alla medesima stregua, sempre ad esempio,qualcuno che si intestardisse a voler praticare uno sport, o un’attività artistica per i quali non sia tagliato e/o non ne conosca le regole potrebbe ben dirsi che appaia un vaso di comodo adoperato nel bel mezzo di una navata di chiesa. càntaro o càntero alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con l’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)! Rimando alibi sub càntaro/càntero. per esaminare altre due icastiche frasi e due duri insulti che chiamano in causa il càntaro/càntero. ‘mmiez’â locuzione prepositiva di luogo = in mezzo alla, nel mezzo della formata con la preposizione in→’n→’m per assimilazione regressiva,dal s.vo m.le miezo (mezzo) dal lat. medium e dalla preposizione articolata f.le alla nella forma di crasi â come altrove ô vale al/allo ed ê vale alle oppure a gli (ess. ‘mmiez’ô = in mezzo al/allo e ‘mmiez’ê = in mezzo alle/a gli); cchiesia/cchiesa s.vo f.le 1chiesa, luogo di culto, edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane 2 comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane, 3 per antonomasia, la chiesa cristiana cattolica; voce dal lat. (e)cclesia(m)→cchiesia e talora, ma meno spesso chiesa. E veniamo infine alle espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito ma coniugato impersonalmente alla 3ª p. sg. dell’ind. presente ; illustro cioè le espressioni : 39- Pare brutto! Letteralmente : Sembra brutto ! nel senso di Sta male !,è scorretto ! o quanto meno, può apparire tale. Espressione del piú vieto conformismo usata per ammantare di un perbenismo di maniera ed epidermico il consiglio fornito nei riguardi di taluni comportamenti che si raccomanda di non tenére, non perché ritenuti veramente errati o esecrabili, ma solo perché ipocritamente pensati riprovevoli a gli occhi del mondo. brutto agg.vo m.le agg. si dice di persona, animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga impressione; 2 cattivo, riprovevole, sconcio (detto di cosa): brutta abitudine; brutte parole; 3 sfavorevole, negativo: arrivare in un brutto momento; prendere un brutto voto; fare una brutta figura | grave, doloroso: una brutta malattia; una brutta notizia 4 che reca danno o molestia; che produce un effetto negativo 5 errato, scorretto, sleale, disonesto, scortese Voce dal lat. brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo. 40- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo. Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso (giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle.). La frase viene usata a sarcastico commento delle azioni iniziate da qualcuno ritenutotanto inetto al punto da non poter portare mai al termine ciò che intraprende.Sovente l’espressione è pronunciata preceduta da un esclamatorio Ahé! Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione garbatamente ironica da intendersi in senso antifrastico, id est: Mai ti vedrò vestito da orso!; si tratta di una locuzione usata a mo' di canzonatura davanti alle risibili imprese dei saccenti, boriosi e supponenti che si imbarchino (privi come sono delle necessarie forze fisiche e/o capacità intellettive), in avventure ben superiori alle loro scarse possibilità; va da sé che a causa della penuria di forze e/o capacità le imprese in cui s’avventurano son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione fa le viste di disporsi a catturare un orso per vestirsene della pelle, ma sciocco, presuntuoso ed incapace qual è non vi potrà mai riuscire, per cui facilmente è dato preconizzare che mai lo si potrà vedere vestito da orso e canzonarlo dicendogli l’espressione in esame; va da sé che l’orso e la sua cattura son solo un icastico esempio d’ogni altra impresa intrapresa e non realizzabile per pochezza di forze, mezzi e/o capacità. ca cong. o ca/che pronome relativo che; come congiunzione che corrisponde all’italiano che 1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive? 2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje; 3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà 4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male; 5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe; 6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse 7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia; 8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato; 9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa; 10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno; 11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...; 12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje; 13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim. Circa l’etimo di questa congiunzione qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente, un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe stata buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí! Per il pronome ca mi limito a ricordare che corrisponde al che pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca 1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ca/ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje; ‘o ggiurnale ca/che staje liggenno è chillo d’ajere 2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca/che ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje/ che vvaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune è usato solo nella forma che : (nun) tene ‘e che s’ allamentà, (non) à motivo di lamentarsi; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che ddicere, nulla da eccepire,espressione di consenso 3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.)anche in questo caso si usa sempre il che : te sî miso a sturià, ‘o cche te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, ‘a che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a cche pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che te lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | cca ( e non ca)avv. di luogo = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero,come abbiamo visto, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli ad alcuni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico accademico, colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche! mo avv. di tempo ora, adesso Nel napoletano vuoi nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato – come ò détto - per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio segnalare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa connota il provinciale. Questo mo è possibile passim trovarlo anche come mo' o ancóra mò), ma è pur sempre l’ avv. ora, adesso; poco fa. Concorrente di ora ed adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid. nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe? Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione; vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘). Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico. È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba; ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum per pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’ che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3ª pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può. Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu ( articolo un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie, inchiostro o appesantisse la pagina scritta e il non apporlo non fosse invece, quale a mio avviso invece è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo e chi piú ne à piú ne metta!) Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo. Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta x , anche ammettendo, dicevo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione. Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso). Te pron. pers. di seconda pers. sg. 1 forma complementare tonica del pron. pers. tu, che si usa come compl. ogg. quando gli si vuol dare particolare rilievo e nei complementi retti da prep.; può essere rafforzato con stesso o medesimo: vonno proprio a tte(vogliono proprio te); pe tte fosse meglio(per te sarebbe meglio); fràteto venarrà cu tte o cu ttico(tuo fratello verrà con te); ce vedimmo dimane addu te(ci vedremo da te domani); fallo a ppe tte(fallo da te), da solo; quanto a tte, facimmo ‘e cunte aroppo(quanto a te, faremo i conti dopo), per ciò che ti riguarda; allora, pe tte è sbaggliato?(allora, per te è sbagliato?), secondo il tuo parere | si usa nelle esclamazioni: povero a tte!(povero te!) viato a tte!(beato te!); nelle comparazioni dopo come e quanto: ne saccio quanto a tte(ne so quanto te); nun è comme a tte (non è come te); come predicato dopo i verbi essere, parere, sembrare, a meno che il sogg. non sia tu (espresso o sottinteso): i’ nun songo te (io non sono te) (ma nun sî cchiú tu(non sei più tu 2 si usa in luogo del pron. pers. ti in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, in posizione sia enclitica sia proclitica: te ‘o ddico io(te lo dico io); te nn’ànno parlato?(te ne ànno parlato?); te ne pentarraje(te ne pentirai); accattatelo(compratelo); sturiàtelo(studiatelo) | nel linguaggio familiare, con semplice valore rafforzativo: e senza dicere ata t’ ‘o mettette for’ â porta(e senza aggiungere altro, te lo mise fuori dalla porta). veco = vedo voce verbale (1ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito vedé= vedere (dal lat. vid-íre), ma per la voce a margine che à una radice diversa da vid occorre riferirsi ad un lat. volg. *vidic-are frequentativo attraverso il suff. ico di vid-íre: la radice vidic è stata manipolata con la caduta della dentale e crasi delle due residue ii→e sino ad ottenere vi(d)ic→vec, con medesimo procedimento operato per talune le voci verbali del verbo andare dove accanto alle voci derivate dalla radice di ji-re si à la voce derivata da *vadic-are donde l’italiano vad(ic)→vado ed il napoletano va(di)c→vaco. vestuto = vestito voce verbale: p. p. agg.to dell’infinitovèstere = vestire (dal lat. vestíre, deriv. di vestis 'veste' ). ‘a =1) la art. determ. f.le sg. si premette ai vocaboli femminili singolari (es.: ‘a mamma, ‘a scola, ‘a scala); deriva dal lat. (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); 2) la prima di un verbo è pronome f.le (es.: ‘a veco cca = la vedo qui); 3) come nel ns. caso = da preposizione semplice dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. urzo s.vo m.le = orso, 1 (zool.) genere di grossi mammiferi plantigradi, dalle forme tozze e robuste, con testa grossa, arti brevi, forti unghioni, coda corta e pelo foltissimo, che vivono isolati o in gruppi poco numerosi (ord. Carnivori): orso bruno, specie europea e asiatica con pelliccia di colore bruno; orso bianco (o polare), specie che abita le zone artiche circumpolari; orso grigio, grizzly; orso nero, baribal | vendere la pelle dell'orso prima che sia morto (o prima che sia preso), (fig.) disporre di una cosa prima che la si abbia in possesso. 2 per le sue movenze lente e impacciate è assunto a simbolo di goffaggine fisica: muoversi, ballare come un orso, in maniera goffa, sgraziata | per le sue abitudini di animale solitario, può anche indicare una persona scontrosa, scarsamente socievole: è un orso, non ha amici, non vede mai nessuno 3 nel gergo della borsa, ribassista; anche, situazione di mercato tendente al ribasso. Voce dal lat. ursu(m) con tipico passaggio della la fricativa dentale sorda (s) all’affricata alveolare sorda (z). 41 -Pare ca mo 'o vveco… Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò… Id est: campa cavallo!, mai vedrò (che ciò avvenga)! Locuzione sarcastica di portata molto simile alla precedente, ma di valore piú generico che si usa in presenza di una imprecisata previsione di un risultato fallimentare cui è comunque destinata l'azione intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato. ‘o ‘o/’u = a) ‘o/’u lo art. determ. m. sing. si premette ai vocaboli maschili o neutri singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra; la derivazione sia di ‘o che di ‘u è dal lat. (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.); b) ed è il ns. caso ‘o talora anche lo ma sempre eliso in ll’ se proclitico; = lo pronome personale m.le di terza pers. sing. [forma complementare atona di isso(egli) (forma tonica lui), esso] 1 si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, in posizione sia enclitica sia proclitica; si può elidere dinanzi a vocale purché non crei ambiguità: ‘o’ mmidio assaje (lo invidio molto); ll’aggiu accattato pe tte(l'ò comprato per te); liéggelo(leggilo); vulesse averlo(vorrei averlo); ‘o ‘í ccanno(eccolo); 2 può assumere il valore di ciò, riferito a una prop. precedente o con funzione prolettica: vo’ riturnà, me ll’à ditto isso(vuole ritornare, me lo ha detto lui); ‘o ssapevo ca succedeva(lo sapevo che sarebbe accaduto) | con lo stesso sign. in funzione predicativa: diceva d’essere figlio sujo, ma nun ll’era(diceva di essere suo figlio, ma non lo era); era janca ‘e capille, ll’era addiventata dinto a ppochi mise (era bianca di capelli, lo era diventata in pochi mesi). Amargine di tutto ciò rammento che nel napoletano oltre ‘o (articolo o pronome) esiste un altro ‘o di cui dico qui a seguire: o’ non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il) o del precedente pronome ‘o errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il ed il pronome lo vanno resi con ‘o e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of inglese che vale l’italiano de/De). L’ o’ napoletano a margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissimi scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima forma oje con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e, aggiunta che costringe il vocativo oj a trasformarsi nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o famosissi scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non alligna, né trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa... 42– Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica, disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano precise notizie biografiche , ma tra il 1619ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che - nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494), figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici e cantori.In ricordo di détto accadimento carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione disordinata e chiassosa si dice che sembri il carro di Battaglino. carro s.vo m.le carro, veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica. 43 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia Letteralmente: Sembra un pastore della meraviglia. Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o donna) mostri di avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine (pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca che scrisse: pastores mirati sunt. pastore s.vo m.le letteralmente pastore, 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo: fare il pastore; la vita dei pastori; un pastore di pecore, di capre | (fig.) membro dell'Accademia dell'Arcadia. 2 (fig.) capo, guida; in partic., guida spirituale, sacerdote: pastore di anime; il Buon Pastore, Cristo | nelle chiese protestanti, il ministro del culto 3 denominazione di cani di diversa razza, adatti alla guardia delle greggi. Ma nell’espressione con il termine pastore non si intende segnatamente l’accezione sub 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo:, ma qualsiasi personaggio (statuine di terracotta)che popoli il presepe napoletano settecentesco. La voce è dal lat. pastore(m), deriv. di pascere 'pascolare'. maraviglia s.vo f.le meraviglia, 1 (come nel caso che ci occupa) sentimento di viva sorpresa suscitato da qualcosa di nuovo, strano, straordinario o comunque inatteso; 2 persona o cosa che per la sua bellezza o il suo carattere straordinario suscita ammirazione. La voce è dal lat. mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. poi inteso femminile dall'agg. mirabilis 'meraviglioso' da mirabilia si perviene a maraviglia per il tramite d’un’ assimilazione regressiva della prima i alla successiva a, alternanza b→v (cfr. bocca→vocca – barca→varca etc.) ed ilia→ilja→iglia (cfr. familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;) 44 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta! Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta! Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata a Napoli ,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929), usata in riferimento a chi realmente sia o in riferimento a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi, cosa che gli impedisce di attendere adeguatamente con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente) malmesso, malaticcio, cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato originariamente per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino. ciuccio s.vo m.le = asino, ciuco, quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince (in quanto morfologicamente troppo arzigogolata) quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo! In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare; trentatré agg. num. card. invar. 1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII 2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale; 3 come s.vo m.le la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl. trigintatre(s); chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo. 2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú 3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione 4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga). Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo – plattu-m→chiatto etc.) córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r. fràceta agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d) con l’occlusiva dentale sorda (t). Fechélla letteralmente piccola fica in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. élla) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il medesimo significato osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930, servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo barroccio, forniva servizio di modesto trasporto di vettovaglie e/o masserizie nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città, voluto da Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta don Mimí Ascione(Fechella) ed il suo asino erano notissimi cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche, Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – † ivi 12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed assunse poi l'attuale denominazione nel 1964. Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti", sulle tribune dell'impianto costruite in legno, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune,dicevo, tra i 20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce d’uno spettatore, quella d’un tal Raffaele Riano, tifoso azzurro e frequentatore della redazione del settimanale satirico ”Vaco ‘e pressa” ,molto diffuso a Napoli negli anni ’20; costui, avvezzo a motti di spirito, esclamò tra l’ilarità degli spettatori a lui prossimi:”Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!);da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello, segnato dalle piaghe procuategli dal basto. 45 - Pare ‘na pupata ‘e Guidotte Letteralmente: Sembra una bambola di Guidotti; id est: essere bella affascinante ed elegante tal quale una figura di Guidotti. Per venire a capo dell’espressione occorre dire súbito di Guidòtti, Paolo, detto il Cavalier Borghese. Costui fu pittore, scultore, architetto e scienziato (Lucca 1560 circa - †Roma 1629). Dipinse, prediligendo ampie forme tardomanieriste e una luce intensa e drammatica, affreschi ed alcune pale d'altare a Roma (S. Luigi dei Francesi, S. Francesco a Ripa, ecc.), a Napoli (S. Maria del parto: Gesú, la presentazione al tempio), a Pisa, a Lucca, ecc. Come studioso del volo umano fu uno dei piú fedeli seguaci delle idee leonardesche, che arrivò a mettere personalmente in pratica in un tentativo, peraltro sfortunato, realizzato attraverso un paio di ali artificiali. Le figure femminili dei suoi dipinti agghindate anacronisticamente sempre in abiti cinquecenteschi erano belle, formose ed elegantissime, al segno che a Napoli divenne proverbiale la locuzione in esame Paré ‘na pupata ‘e Guidotte (sembrare una bambola di Guidotti) per riferirsi ad una donna che apparisse molto bella ed affascinante e vestisse in maniera sontuosa e ricercata. E qui penso di poter chiudere queste lunghissime pagine, augurandomi d’avere accontentato l’amico A.B. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori. Satis est. Raffaele Bracale