martedì 30 aprile 2019

ZIZZA, PREVETE E CCUSETORE


ZIZZA, PREVETE E CCUSETORE
Mi è stato chiesto, via e-mail,  dal  caro amico A. A. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) di spendere qualche parola per illustrare il  significato  dell’antica  locuzione in epigrafe desueta sí, ma che ancóra si può cogliere sulle labbra dei napoletani d’antan.Gli ò cosí risposto: Caro amico la locuzione di cui mi chiedi, che in lingua nazionale è: tetta, prete e sarto è molto datata ed è un icastico, stringato  modo partenopeo  di riassumere l'iter della vita d'un individuo: zizza[dal lat. titt-am], per indicare la primissima  infanzia,quando il nutrimento dell’infante è rappresentato in primis dal latte del seno materno o da quello della balia; prevete [dal lat. presbiter→prebite→prevete]  usato per significare l’età matura quella adatta alle nozze, al matrimonio per solito celebrato da un sacerdote; cusetore[deverbale del tardo lat. cusíre]il sarto cioé usato per significare la circostanza del  decesso per la quale un tempo si era soliti tener pronto un vestito nuovo fatto approntare ad hoc dal sarto di fiducia; al proposito rammento che alibi s’usava e ancóra s’usa l’espressione: Fà 'e scarpe a uno e ccoserle 'nu vestito.
 Espressione che letteralmente vale : confezionare scarpe ad uno e cucirgli un vestito.Id est: far grave danno a qualcuno conciandolo male, riducendolo  a cattivo partito  fino al punto di approntargli la morte; oppure piú modestamente  augurargli di decedere e procederne alla vestizione come accadeva  un tempo allorché, come ò detto,  alla morte di qualcuno gli si metteva indosso un abito nuovo e gli si facevano calzare scarpe approntate a bella posta.. E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A. A.  ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
 Raffaele Bracale

20 NOTE ESPRESSIONI


20  NOTE ESPRESSIONI

1 PARE PASCALE PASSAGUAJE.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.Il Pasquale richiamato nella locuzione  fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di A. Petito.  
2 PARÉ 'O PASTORE D''A MERAVIGLIA.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
2bis  PARÉ 'O VOCCAPIERTO ‘E SAN GIUVANNE
Letteralmente: sembrare il bocca-spalancata di San Giovanni. Id est: avere l'aria attonita stupita, allibita, meravigliata,tal quale i mascheroni apotropaici (con occhi spiritati e bocca spalancata) che ornavano una villa fatta edeficare nel 1535 da Bernardino Martirano, segretario del regno ( Cosenza
1490,† Portici (NA) 1548) in contrada  Leucopreta  adiacente il quartiere napoletano  di San Giovanni a Teduccio; l’espressione  viene altresí, sebbene impropriamente,  riferita a tutti coloro che siano pettegoli e linguacciuti al segno di tener sempre la bocca aperta per riferire fatti ed avvenimenti che, per altro, non li riguardano e non sarebbero perciò tenuti a propalare. Qualcuno erroneamente (come si evince da ciò che ò già detto) pensa che la locuzione si riferisca agli abitanti di san Giovanni a Teduccio, zona periferica di Napoli, abitanti ritenuti ( però gratuitamente ), linguacciuti e pettegoli
3 MEGLIO A SAN FRANCISCO CA 'NCOPP'Ô  MUOLO.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.

4 FUTTATENNE!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. E' il pressante invito a lasciar correre dato a chi si sta adontando o si sta preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNA' FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
5 FÀ ‘E UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
6 FÀ TRENTA E UNA TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno non v'è che un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò, per mera liberalità (non essendovene reale necessità) un trentunesimo non previsto in origine.
6 ESSERE CARTA CANUSCIUTA.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
7 ESSERE CCHIÚ FETENTE 'E 'NA RECCHIA 'E CUNFESSORE.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
8 'O RIALO CA FACETTE BERTA Â NEPOTA: ARAPETTE 'A CASCIA E LE DETTE 'NA NOCE.
Letteralmente : il regalo che fece Berta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
9 'E PPAZZIE D''E CANE FERNESCENO A CCAZZE 'NCULO.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche
10.TRE CCALLE E MMESCÀMMECE.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che, senza verun sacrificio di mezzi o di azioni,  si intromette nelle faccende altrui,volendo sempre, da saccente e supponente,  dire la sua. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione prese il nome di callo. La locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
11.CHI SE FA MASTO, CADE DINT'Ô  MASTRILLO.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare. Il mastrillo, dal lat. mustricula, è la piccola trappola per topi.
12.TUTTO A GGIESÚ E NIENTE A MARIA!
Letteralmente: Tutto a Gesú e niente a Maria! Ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú ed a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni, distribuzione  di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente.  Le parole in epigrafe ripetono quelle pronunciate da  un anziano pievano che redarguí il proprio sacrestano che, delegato ad addobbare gli altari laterali della pieve, aveva riservato gli addobbi al solo altare del Cuore di Gesú, lesinando sugli addobbi all’altare della Vergine.
13.CHI GUVERNA 'A RROBBA 'E LL'ATE NUN SE COCCA SENZA CENA
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri! Perché meravigliarsi se gli amministratori della cosa pubblica son usi a rimpiunguire i propri conti correnti? È un fatto ineluttabile a cui bisogna abituarsi!
14.PARÉ LL'OMMO 'NCOPP'Â SALERA
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad esibirsi in un circo equestre; fu uomo molto piccolo e ridicolo  e per questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo come maniglia del coperchio delle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
15.FÀ COMME A SANTA CHIARA: DOPP' ARRUBBATO CE METTETERO 'E PPORTE 'E FIERRO.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti sacrileghi a danno della antica chiesa partenopea.
16.ESSERE 'A TINA 'E MIEZO.
Letteralmente: essere il tino di mezzo. Id est: essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta cosí massimamente sporca, laida e lercia da essere paragonata al grosso tino di legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il letame raccolto.
Rammento che con il vocabolo tina (dal t. lat tina(m)←tinu(m))  si è creato il femminile di tino per indicare un oggetto piú grande del corrispondente maschile In napoletano infatti un oggetto che sia o sia inteso di volume o ampiezza piú grande e/o grosso di un corrispettivo oggetto maschile,  viene inteso femminile (cfr. cucchiaro piú piccolo e cucchiara piú grande, carretto piú piccolo e carretta piú grande, tammurro piú piccolo e tammorra piú grande,tino piú piccolo e tina piú grande etc.; uniche eccezioni caccavella piú piccola, ma femminile e caccavo  piú grande, ma maschile  e tiana piú piccola, ma femminile e tiano  piú grande, ma maschile).

17.'A CAPA 'E LL'OMMO È 'NA SFOGLIA 'E CEPOLLA.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. È il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
 18.NUN TENÉ VOCE 'NCAPITULO.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à né l'autorità, né la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
19.TU NUN CUSE, NUN FILE E NUN TIESSE; TANTA GLIUOMMERE 'A DO' 'E CCACCE?
Letteralmente: Tu non cuci, non fili e non tessi, tanti gomitoli da dove li tiri fuori? Tale domanda sarcastica la si rivolge a colui che fa mostra di una inesplicabile, improvvisa ricchezza; ed in effetti posto che colui cui viene rivolta la domanda non è impegnato in un lavoro che possa produrre ricchezza, si comprende che la domanda è del tipo retorico sottintendendo che probabilmente la ricchezza mostrata è frutto di mali affari. È da ricordare anche che il termine gliuommero (dal lat. glomeru(m)(gomitolo))indicava, temporibus illis, anche una grossa somma di danaro corrispondente a circa 100 ducati d'argento.
20.MENARSE DINT' Ê VRACHE...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (b. lat. *braca(m)(imbracature)) proprio perché imbracano la bestia.
Brak







10 NOTE ESPRESSIONI



10  NOTE ESPRESSIONI
1.FA’ COMME T’ È FFATTO, CA NUNN’ È PPECCATO.
Ad litteram: Rendi ciò che ti è fatto, ché non è peccato Id est: render pan per focaccia non è peccato, per cui si è autorizzati anche a vendicarsi dei torti subìti, usando i medesimi sistemi; locuzione che, stranamente per la morale popolare napoletana, adusa ad attenersi, quasi sempre, ai dettami evangelici si pone agli antipodi dell’evangelico: porgi l’altra guancia, ma in linea con l’antico principio romano: vim, vi repellere licet (è giusto respingere la forza con la forza).


2.‘E SCIABBULE STANNO APPESE I ‘E FODERE CUMBATTONO.
Ad litteram: le sciabole stanno inoperosamente al chiodo ed i foderi combattono Id est: chi dovrebbe combattere o - fuor di metafora - operare fattivamente, nicchia e si defila, lasciando che altri prendano il suo posto; locuzione usata nei confronti di tutti coloro che per inettitudine o negligenza non compiono il proprio dovere, delegandolo pretestuosamente ad altri.


3.FOSSE ANGIULO ‘A VOCCA TOJA!
Ad litteram: sia (di) angelo la tua bocca Locuzione che viene usata con un sostrato scaramantico ottativo, quando - fatti segno di un augurio - ci si augura altresí che quanto profferito si realizzi certamente e a breve tenendo la bocca di colui che ci à fatto l’augurio come bocca di veritiero messaggero ( ciò etimologicamente significa il termine angiolo) per cui - ritenuto proveniente da bocca di autentico messaggero - ciò che ci viene augurato si è certi che si realizzerà concretamente o - almeno - lo si spera .


4.FRIJERE ‘O PESCE CU LL’ACQUA.
Ad litteram: friggere il pesce con l’acqua; locuzione usata per significare situazioni di così marcata indigenza da non potersi permettere l’uso dell’olio per friggere il pesce e doversi accontentare dell’acqua per compiere l’operazione con risultati evidentemente miseri, non essendo chiaramente l’acqua l’elemento adatto alla frittura; per traslato la locuzione è usata per significare qualsiasi situazione in cui predomini l’indigenza se non l’inopia più marcata.

5.FÀ ‘NA BBOTTA, DDOJE FUCETOLE*.
Ad litteram:fare [cioè:centrare] con un sol colpo due beccafichi. Id est: conseguire un grosso risultato con il minimo impegno; locuzione un po’ più cruenta, ma decisamente più plausibile della corrispondente italiana: prender due piccioni con una fava: una sola cartuccia, specie se caricata di un congruo numero di pallini di piombo, può realmente e contemporaneamente colpire ed abbattere due beccafichi; non si comprende invece come si possano catturare due piccioni con l’utilizzo di una sola fava, atteso che quando questa abbia fatto da esca per un piccione risulterà poi inutilizzabile per un altro... *fucetola= beccafico dal lat.ficedula(m)


6.ESSERE ‘NU BBABBÀ A RRUMMA.
Ad litteram: essere un babà irrorato di rum Locuzione dalla doppia valenza, positiva o negativa. In senso positivo la frase in epigrafe è usata per fare un sentito complimento all’avvenenza di una bella donna assimilata alla soffice appetitosa preparazione dolciaria partenopea; in senso negativo la locuzione è usata per dileggio nei confronti di ragazzi o adulti ritenuti piuttosto creduloni e bietoloni, eccessivamente cedevoli sul piano caratteriale al pari del dolce menzionato che è morbido ed elastico.


7.ESSERE ‘E TENTA CARMUSINA.
Ad litteram: essere di tinta cremisi (rossiccia) id est: essere inaffidabile come il colore cremisi che anticamente, prodotto con metodi artigianali ed empirici, era di scarsa consistenza e poco sopportava le ingiurie del tempo; con altra valenza la locuzione sta ad indicare sia le persone di malaffare di cui diffidare e da cui tenersi alla larga, sia le persone ad esse equiparate e si ricollega al fatto che al tempo dei romani le prostitute erano aduse a vestirsi di rosso, a truccarsi con il carminio e ad indossare vistose parrucche fulve.


8.ESSERE ‘NU VOCCAPIERTO ‘E SAN GIUANNE.
Ad litteram: essere un bocca aperta di san Giovanni. Espressione riferita a tutti coloro che sono pettegoli e linguacciuti al segno di tener sempre la bocca aperta per riferire fatti ed avvenimenti che, per altro, non li riguardano e non sarebbero perciò tenuti a propalare. Qualcuno erroneamente pensa che la locuzione si riferisca agli abitanti di san Giovanni a Teduccio, zona periferica di Napoli, abitanti ritenuti ( però gratuitamente ), linguacciuti e pettegoli; la località invece è da considerarsi solo perché in contrada Leucapetra adiacente la detta zona esistette un tempo una sontuosa villa fatta edeficare nel 1535 da Bernardino Martirano, segretario del regno ( Cosenza
1490,† Portici (NA) 1548) villa  sulle cui pareti esterne erano collocati grandissimi mascheroni apotropaici rappresentanti dei volti con occhi spiritati ed  a bocca spalancata.


9.ESSERE MASTO A UNU FUOGLIO.
Ad litteram: esser maestro ad un solo foglio. Locuzione che si usa a mo’ di dileggio nei confronti di coloro che son ritenuti o si autoritengono maestri, ma siano di limitatissime conoscenze e di competenze molto ristrette, ai quali è inutile chiedere che vadano al di là di ciò che essi stessi propongano o facciano, come si diceva di un tal violinista, bravissimo esecutore, quasi virtuoso, ma di un unico pezzo, violinista che si scherniva davanti alla richiesta di eseguire altri brani musicali.


10.ESSERE CCHIÙ FFESSO ‘E LL’ACQUA CAURA.
Ad litteram: essere più sciocco dell’acqua calda. Così si dice di chi sia, per innata insipienza o acclarata stupidità, talmente sciocco e vuoto ed insignificante al punto di non aver alcun gusto e/o sapore al pari di una pentola d’caqua riscaldata cui difettino ogni aggiunta di aromi e/o condimenti e pertanto sia incolore ed insapore.
Brak