mercoledì 31 maggio 2017

VARIE 17/590



 1.BBUONO PE SCERIÀ ‘A RAMMA
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di  stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano  due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene  quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare  da cui  felericare  e poi flericare, donde scericare e  infine scerià tutti con il significato di soffregare.
2.    ACCUNCIARSE QUATT' OVE DINTO A 'NU PIATTO.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle che eccedono sono state sottratte ad altri).
3.    BBUONO P’APARÀ ‘O MASTRILLO
Ad litteram:  buono per armare la trappolina  id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res  da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia  palesemente piccolo e/o modesto.
Mastrillo s.m. = trappolina per topi  dal lat. mustriculu(m).
4.    BENE IN SALUTE E SCARZO A DDENARE
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso  alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci  si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò  di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica  e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno   condizioni economiche  precarie.
5.    CACCIÀ ‘E CCARTE
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata  dai  promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi  presso uffici pubblici e/o luoghi di culto  le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici  necessitano di ineludibili  carte da procacciare  e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire  si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
6.    CHISTO È N'ATO D''A PASTA FINA.
Letteralmente: Costui è un altro della pasta fine. Id est: anche questo fa parte di un gruppo di brutti ceffi, di cui diffidare. La locuzione nacque allorché, alla fine del '800, in Napoli alcuni comorristi erano soliti riunirsi in una bettola tenuta da un tal Pastafina. Lètta tenendo presente questa annotazione, la locuzione assume una sua valenza di grande  offesa.
7.    CADÉ ‘A COPP’Ô PÈRE ‘E PUTRUSINO.
Ad litteram: cadere dalla pianta di prezzemolo; id est ammalarsi  , anche se di affezioni non importanti, ma reiterate; la locuzione è usata soprattutto per commentare lo stato di malferma salute delle persone anziane che son solite  ammalarsi  di piccole affezioni  che, se per la loro non eccessiva virulenza e/o importanza, non destano particolari preoccupazioni, pur tuttavia  son di gran fastidio  per gli anziani che  subiscono tali affezioni  paragonate nella locuzione in epigrafe alle cadute da una pianta di prezzemolo, cadute che poiché avvengono  da una pianta molto bassa non son pericolose, anche se - altrove si consiglia di evitare cadute vasce (cadute basse) in quanto pericolose.
8.    CAMPÀ ANNASCUSO DÔ  PATATERNO.
Ad litteram: Vivere nascondendosi all’ Eterno  Padre; id est: vivere non dando contezza di sè nemmeno al Cielo, quasi di soppiatto, clandestinamente se non addirittura a dispetto ed in barba di tutti gli altri.A Napoli  la locuzione è usata  quando si voglia dare ad intendere  che sia impossibile  conoscere da cosa o chi taluno tragga  i propri mezzi di sostentamento, posto che il suo tenore di vita  eccede  le di lui conclamate possibilità economiche.
9.    CCA NISCIUNO È FFESSO!
Ad litteram: Qui nessuno è sciocco! Affermazione perentoria fatta nei confronti di chi era aduso a ritenere che gli abitanti del Sud dello stivale fossero degli sciocchi, per significare che, invece  era ed è  in errore chi ritenesse o ancóra ritenga vera una  cosa simile .La locuzione, divenuta una sorta di monito, è passata poi a significare:bada che non ci casco, attento ché non riuscirai a prenderti gioco di me,bada bene che son pronto a render pan per focaccia giacché sono tutt’altro che fesso, come chiunque altro viva in questi luoghi.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua;  etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che in lingua napoletana (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine  va scritto senza alcun segno diacritico  trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; in lingua napoletana esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione  che  però  si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la  c iniziale geminata ( cca)  e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico erroneo  segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico !

10. CCA SSOTTO NUN CE CHIOVE
Ad litteram: Qui sotto non ci piove
L’espressione (che viene pronunciata usando il dito indice della mano destra tenendolo ben teso puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra) viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso, nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti  a sopportare una simile mancanza di parola data  e, per converso, si è pronti a restituire pan per focaccia; l’espressione talora è usata nelle medesime accezioni della precedente.
11. CE MANCANO DICIANNOVE SORDE P’APPARÀ ‘A LIRA.
Ad litteram:ci mancano (ben) diciannove soldi per raggranellare una lira. Poiché la lira de quo contava venti soldi il fatto che, come affermato in epigrafe, mancassero diciannove soldi, significava che ci si trovava in gran carenza di mezzi  e la locuzione, riferita ad una azione principiata con tal carenza  voleva significare che, con ogni probabilità, non si sarebbe potuto portare a compimento il principiato e che, forse, sarebbe stato piú opportuno il desistere.
12. CE MANCANO  QUATTO LASTE I ‘O LAMPARULO.
Ad litteram: mancano i quattro vetri e il reggimoccolo Locuzione di portata simile alla precedente; in questa, in luogo della lira, il riferimento è fatto ad una ipotetica lanterna che è stata costruita in maniera raffazzonata di talché non è adatta allo scopo per cui è stata costruita  e non potrà produrre vantaggi a chi se ne dovesse servire, posto che essa lanterna manca dei quattro vetri che ne  costituiscono le pareti e manca  addirittura del reggimoccolo centrale: un simile oggetto non potrà mai servire ad illuminare.
13.    CURAGGIO NE TÈNE, MA È ‘A PAURA CA ‘O FOTTE. Ad litteram: à coraggio, ma la paura lo sconfigge.
Ironica locuzione usata per deridere chi, a parole, si dichiari coraggioso, ma poi all’atto pratico si dimostri codardo, pauroso, pavido, timoroso, vigliacco, vile.

Brak

LA NEGAZIONE NUN/’UN/NU’/NUNN’ E LA RELATIVA PIÚ USATA FRASEOLOGIA (revisione)




LA NEGAZIONE NUN/’UN/NU’/NUNN’ E LA RELATIVA PIÚ USATA  FRASEOLOGIA (revisione)
Questa volta nell’intento di interessare i miei consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste  mie paginette tenterò di illustrare delle tipiche espressioni della parlata napoletana costruite con la negazione NUN. Ne faccio dapprima l’elenco e poi esaminerò frase per frase le espressioni:
1)   Nunn’ accucchià niente
2)   Nunn’ accusà e nun cuntà
3)   Nunn’ avé niente a cche spàrtere
4)   Nun capirce dint’ê panne
5)   Nun ce stanno sante
6)   Nun c’è prereca senza sant’Austino
7)   Nunn’ è ccosa!
8)   Nunn’ è ppietto tuĵo
9)   Nunn’ essere doce ‘e sale
10)            Nun ce stanno fose ‘a appennere
11)            Nun vulé fà carte
12)            Nun fa/fà ascí ‘o ggrasso fora d’ ‘a pignata.
   Prima di affrontare le singole espressione mette conto chiarire uso e morfologia dell’avverbio di negazione.
nun/’un/nu’/nunn’ avv.di negazione[dal lat. non] = non
1 serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette;nu’ ddicere fessarie; nu’ pparlaje pe tutt’ ‘o juorno(non venne; non dire sciocchezze; non parlò per tutto il giorno); nun ce sta nisciuno irre e òrre(non c'è alcun dubbio);’un c’è prubblema (non c'è problema);’un ce sta nisciuno(non c'è nessuno),  | ch’è che nunn è(cosa è, cosa non è), (fam.) tutto a un tratto, senza una ragione evidente:ch’è, che nunn è, fernette ‘e parlà e se ne jette (cosa è, cosa non è, smise di parlare e se ne andò) | in espressioni ellittiche: no ca nun ce crero, ma(non che io non  ci creda, ma...), non intendo dire di non crederci, ma...;

2 (ant.) col valore di no: nun po’ serví  po dicere ’e no, si hê ditto ‘e sí pure  ‘na vota sola!(non varrà poi dire di no, se avrai détto  di sì anche  una volta sola)
3 nelle contrapposizioni, anche col verbo sottinteso: nunn è bbello, ma ‘ntelliggente(non è bello, ma intelligente); isso fuje pe mme nun sulo ‘nu pate, ma pure n’amico(egli fu per me non solo un padre, ma un amico) | in espressioni ellittiche: vène o nun vène;prufessore o nun prufessore(venga o non venga; professore o non professore) (ma non quando non è ripetuto il primo elemento:vène o no, prufessore o no( venga o no, professore o no))
4 nelle interrogative dirette e indirette che attendono una risposta affermativa e nelle interrogative retoriche: nun avive ‘a partí stasera?(non avresti dovuto partire stasera?); nunn è overo?( non è vero?); m’addimanno si nun fosse stato meglio a lassà perdere; comme facevo a nun crerelo?(mi chiedo se non sarebbe stato meglio rinunciare; come potevo non credergli?)
5 si usa pleonasticamente in alcune locuzioni: è cchiú facile ‘e chello ca tu nun cride(è più facile di quel che tu non creda);nunn appena( non appena), appena che; | in talune frasi esclamative ed in senso antifrastico: ‘e buscie ca nun m’à ditto!(le bugie che non mi à detto!); ‘e fessarie ca nun hê fatto(le sciocchezze che non ài fatto!) | quando il verbo a cui si riferisce è retto da congiunzioni o locuzioni come fino a cche, pe ppoco, a meno che, salvo che, ‘a fora ‘e che  e sim.: t’aspettofino a cche nunn arrive( ti attenderò finché non arriverai); pe ppoco nun è caduto(per poco non è caduto
6 in litote, preposto a un aggettivo, un sostantivo o un avverbio: è stata ‘na facenna nun facile (è stata un'impresa non facile), difficile; nun poche ‘a penzano comme a nnuje(non pochi la pensano come noi), parecchi; aggiu faticato nun poco…(ò lavorato non poco), molto; nun sempe(non sempre), raramente; nun senza fatica(non senza fatica), con notevole fatica;
rammento che il medesimo, originario avv. di negazione nun può esser reso secondo le occorrenze con altre morfologie:aferizzato, di solito in principio di frase[con indicazione dell’aferesi], ‘un: ‘un me faccio capace(non me ne convinco) ‘un ‘o ssaccio!(non lo so)’un me dicere niente(non dirmi nulla) ‘un ‘o saccio!(non lo conosco),apocopato nu’ che però  (secondo il principio che la caduta finale di una o piú consonanti non necessita di una indicazione diacritica) si potrebbe anche rendere semplicemente nu  Tuttavia è preferibile adottare la morfologia nu’ poi che nel napoletano scritto si potrebbe ingenerare confusione tra l’art. indeterminativo ‘nu/’no e la negazione  nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi perciò nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba [ovviamentevocalica],  non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’  per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno () d’aferesi  e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo  di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove  invece,il non segnarlo, a mio avviso,   è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. o V.  Russo, E.De Filippo,  EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori  napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del  napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre  i pochissimi esistenti, (Galiani, Oliva, Serio) peraltro spesso  in contrasto sulle soluzioni proposte  furono malamente diffusi, né  potettero far testo, vergati com’erano stati  da addetti ai lavori  non autenticamente  napoletani   e pertanto, spesso,   imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordo che moltissimi autori furono istintivi e spesso  mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male  e quelli che invece avevano un’ adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc.  spessissimo la usarono maldestramente[soprattutto il Di Giacomo ed il Nicolardi]  adattando  le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato.
Per concludere,e valga una volta per sempre, a mio avviso nel napoletano scritto gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! Esempi di questo nun→nu(n)→nu’ usato per solito davanti a consonante e/o in frasi esclamative possono essere: e nu’ sta bene!(non sta fatto bene!), statte zitto, nu’ pparlà sempe tu!(taci, non parlar sempre tu!);
si à infine la forma rafforzata nunn’ usata davanti a parole comincianti per a, o,e  ed alla voce verbale; tale forma nunn  è un calco del lat. nonn(e)→nunn’ e pertanto esige il segno diacritico dell’elisione, anche – eccezionalmente - davanti alla acca di :  nunn’ ‘o ddicere! (non dirlo!)nunn’ ‘e ssiente? (non le/li senti?) nunn’ hê capito niente! (non ài compreso nulla!).
Qui giunti cominciamo ad esaminare le frasi elencate antea:
1.NUNN’ ACCUCCHIÀ NIENTE
Letteralmente Non accoppiare nulla, id est non sapere o non riuscire mai a concludere nulla di positivo, non essere mai in grado di far collimare pensiero ed azione giungendo a risultati concreti. L’espressione è usata appunto nei confronti di chi impreparato, inetto ed incapace non possa mai addivenire concretamente ad un risultato frutto dell’unione di una esatta  teoria con la operosa pratica.Il verbo accucchià = accoppiare, unire mettere insieme è un denominale del s.vo cocchia(da un lat. volg. cop(u)la(m)→copla(m)→cocchia con il tipico passaggio del gruppo pl a chi, come in pluere→chiovere, plaga→chiaja, platea→chiazza, plumbeum→chiummo, plattu-m→chiatto etc. )  = coppia attraverso un ipotizzato *adcopulare→accoplare→accucchiare.
2.NUNN’ ACCUSÀ E NUN CUNTÀ
Letteralmente Non accusare e non contare da intendersi non essere all’altezza di  dichiarare (il proprio giuoco,o le proprie idee), né essere all’altezza di trarre partito dal proprio operato (conteggiando il proprio punteggio totalizzato nel gioco o dando conto, elencandolo, di  ciò che si sia stati capaci di  produrre con la propria azione).
Locuzione mutuata dal giuoco delle carte détto tressette. Apro un parentesi per dire che nel tressette è previsto che ad inizio di gioco i componenti possano a turno dichiarare     l’ eventuale  possesso di un certo numero di carte favorevoli, dichiarazione che comporta il vantaggio di avere dei punti aggiuntivi da sommare a quelli totalizzati con le prese;questo dichiarare è détto nel gergo del gioco:  accusare. Ciò mi à indotto a ritenere il gioco del tressette (che molti reputano un gioco interessante e  difficoltoso ed invece non  è nè l’uno, nè l’altro fondato com’è sulla fortuna che ti elargisce carte  che se giocate decentemente e non proprio sconsideratamente ti assicurano la vittoria indipendentemente dalla bravura o capacità gestionale che se ne abbia...) ciò mi à indotto, dicevo,  a ritenere piuttosto stupido, (se confrontato ad es.  allo scopone scientifico), tale gioco [il tressette] nel quale un giocatore non solo sia favorito dalla sorte ricevendo carte favorevoli, ma ne tragga anche partito con un punteggio aggiuntivo! Chiudo la parentesi e torno alla locuzione che è  riferita in primis ad un giocatore non solo  incapace di aprire il gioco dichiarando valide carte in suo possesso, ma tanto inesperto da addirittura confondersi nella sommatoria del punteggio realizzato; la locuzione è altresí  usata sarcasticamente  nei confronti di chiunque  che inetto,  incapace, incompetente, inesperto  e maldestro sia del tutto privo di capacità operative risultando in ògni occasione un soggetto che non valga nulla o non sia stimato o non abbia alcuna autorità.
il verbo  accusà  vale 1)incolpare, imputare, rimproverare, biasimare, colpevolizzare, tacciare; ma anche 2) come nel caso che ci occupa manifestare, dichiarare, mostrare; è voce dal lat. accusare, comp. di ad e causari 'addurre come pretesto';
il verbo cuntà/cuntare  vale 1) numerare progressivamente una serie di cose o persone per calcolarne la quantità: cuntà ‘e ccarte, ‘e punte(contare le carte, i punti) | cuntà ‘ncopp’ê ddete(contare sulle dita), (fig.) si dice quando ciò che si conta è in numero molto scarso | cuntà ‘e juorne, ll’ ore, ‘e minute, (contare i giorni, le ore, i minuti), (fig.) aspettare con impazienza qualcosa e desiderare quindi ardentemente che passi il tempo che manca al suo raggiungimento o compimento
2 (assol.) dire i numeri in ordine progressivo; per estens., fare le più semplici operazioni aritmetiche: cuntà nfi’ a ddiece(contare fino a dieci); nun sapé manco cuntà(non saper neppure contare) | cuntà ‘nu bocserro(contare un pugile), (sport) contare i secondi durante i quali egli è a terra
3 (fig.) limitare, lesinare: cuntà ‘e sorde â mugliera (contare il denaro alla moglie)
4 mettere nel conto, considerare: mia figlia s’è spusata: sulo p’ ‘a festa âmmu spiso vinte meliune, senza cuntà ‘o riesto! (mia figlia è sposata: solo per  la festa abbiamo  speso venti milioni, senza contare il   riesto!)
5 avere, annoverare, vantare: conta quinnece anne ‘e  servizzio (conta quindici anni di servizio)
6 (fam.) dire, raccontare: cóntace chello ch’è ssuccieso(contaci quel che è successo) | cuntarla grossa(contarla grossa), raccontare una bugia molto grossa
7 proporsi, ripromettersi: conto ‘e partí dimane(conto/penso di partire domani)
8 (ant.) stimare, valutare |||
v. intr. [aus. avere]
1 valere, avere autorità, stimare, valutare: nun cuntà niente(non valere niente)  
2 confidare, fare assegnamento: ‘ncuollo a cchillo nun se po’ cuntà(non si può contare su di lui).
voce dal lat. computare→com(pu)tare→contare, comp. di cum 'insieme' e putare 'calcolare'
3.NUNN’ AVÉ NIENTE A CCHE SPÀRTERE
Letteralmente Non avere alcunché da dividere (con altri). Locuzione da intendersi sia nel senso materiale: Non avere nulla  da suddividere (con nessuno)atteso che si è del tutto padroni del proprio, ma piú spesso in quello morale Non avere nulla  in comune  (con chicchessia)atteso che il soggetto di cui si parla è molto diverso (sia in senso positivo che in quello negativo) da tutti gli altri, da non potersi confondere con chicchessia.
il verbo spàrtere  vale distribuire, ripartire, suddividere, dividere, separare. voce dal  lat. partire e partiri, deriv. di pars partis 'parte' con protesi di una s intensiva, cambio di coniugazione e ritrazione della tonica.
4.NUN  CE CAPÍ DINT’Ê PANNE
Letteralmente Non entrar nei propri panni
Espressione iperbolica da intendersi figurativamente e da riferirsi a chi sia cosí gioioso o soddisfatto d’alcunché al segno d’apparire  di non esser contenuto nei propri abiti essendo quasi lievitato per una gioia o una soddisfazione impreviste ed improvvise che abbiano determinato iperbolicamente una crescita, un aumento della sua massa corporea che finisce per debordare dagli abiti.
il verbo capí/càpere vale  1 comprendere, afferrare con la mente;
2 giustificare o perdonare almeno in parte;
3 come nel caso che ci occupa penetrare, esserci spazio d’accoglienza;
voce dal Lat. capere, con cambio di coniugazione nella morfologia capí;
dint’ê preposizione articolata = nei ma anche alibi nelle;
per una compiuta esposizione rimando alibi  al mio articolo Le preposizioni articolate nel napoletano.
5.NUN CE STANNO NÈ SSANTE, NÈ MMARONNA
Letteralmente Non ci son né santi, né Madonna (bastevoli a...) Icastica espressione che in maniera direi piú contenuta (in quanto rispettosamente chiama in causa solo i santi e/o la Vergine )richiama quella della lingua nazionale Non c’è barba di Padreterno di analogo senso per significare, riferita ad un pervicace, caparbio, testardo che nessuno, neppure se si trattasse   dei santi o della Madonna e di un loro intervento,   potrebbe far recedere il testardo  da un   incaponimento, un’ostinazione,una cocciutaggine, un puntiglio, un capriccio, una fisima quasi mai razionali.
sante pl. dell’agg.vo sostantivato santo
1 (teol.come nel caso che ci occupa) che è degno di venerazione religiosa; che è dotato di santità;
2 giusto, onesto, buono, pio,
3 si dice di cose universalmente rispettate, verso cui si à grandissimo ossequio
4 si usa in alcune locuzioni con valore puramente rafforzativo: faticà tutt’ ‘o santu juorno(lavorare tutto il santo giorno);
5(fam.) usato in esclamazioni di disappunto, inquietudine, sorpresa: santa pacienza!; santu dDio quant’ è tardi!(santa pazienza!; santo Dio, quant'è tardi!)
voce dal lat. sanctu(m)→san(c)tu(m), propr. part. pass. di sancire 'sancire'.
mmaronna/maronna = LaMadonna (etimologicamente dal latino mea domina = mia signora; è titolo d’onore che un tempo si dava alle donne e che oggi è riservato esclusivamente alla Madre di Cristo; in Abruzzo e in taluni paesini del Piemonte è titolo di rispetto usato dal popolino ed in particolare dalle nuore rivolto alle suocere;) si è vista! Il termine in epigrafe in napoletano è usato indifferentemente sia  con l’originaria D etimologica: ‘a Madonna  che con la tipica rotacizzazione osco-mediterranea D→R: ‘a Maronna; segnalo qui che, essendo  il napoletano (se si eccettuano le vocali finali (sempre) o pretoniche (spesso)  semimute…) essendo  il napoletano  linguaggio che si legge cosí come si scrive, non v’à ragione per legger Maronna quando vi sia scritto Madonna, né ad. es.  rinto se vi è scritto dinto – piere se vi è scritto piede etc. ; purtroppo spesso i miei conterranei (forse per sciatteria ed impreparazione…) incorrono in questo errore… e transeat per gli incolti e gli sprovveduti, ma è imperdonabile per molti addetti  ai lavori o sedicenti tali   chi si dicono colti, preparati e versati nel napoletano ed incorrono nel medesimo strafalcione.
6.NUN C’È PRERECA SENZA SANT’AUSTINO.
Letteralmente: Non v'è predica senza sant'Agostino Come si sa, sant'Agostino(Tagaste13 novembre 354 –† Ippona28 agosto 430), filosofo, teologo e  vescovo d' Ippona, è uno dei piú famosi padri della Chiesa cattolica e non v'è predicatore che nei sermoni non usi citare i dottissimi scritti del santo vescovo. L'espressione in epigrafe viene usata a mo' di risentimento da chi si senta chiamato in causa - soprattutto ingiustamente - e fatto segno di attenzioni non richieste e perciò non desiderate.
prereca  s.vo f.le  = 1predica, omelia, sermone, quaresimale, orazione sacra (spec. in occasioni solenni), panegirico (per la glorificazione di un santo) ma anche
2  paternale, ramanzina, filippica, fervorino, predicozzo (scherz.), rimprovero, richiamo, ammonizione, ammonimento, sgridata; (gen.come nel caso che ci occupa)chiamata in causa, addebito; voce deverbale del lat. praedicarepraericare
7.NUNN’ È CCOSA!
Letteralmente Non è cosa, gesto, azione, lavoro, opera (da praticare, perseguire etc.) Icastica espressione che si usa in tutte quelle occasioni in cui non si ritenga  opportuno non dar corso ad azioni, operazioni quali che siano in quanto stimate non convenienti, inopportune, inappropriate, incongrue,  svantaggiose per chi le dovesse mettere in opera  laddove si tratta di azioni/operazioni da lasciar   perdere in quanto il gioco non vale la candela. In italiano s’usa l’analogo   Non è il  caso!
cosa
s.vo f.le
1 termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve determinazione dal contesto del discorso o dello scritto;
2 in senso più ristretto, oggetto materiale;
3 fatto, avvenimento, situazione;
4 ciò che si vede, si pensa, si ascolta,si dice;
5 come nel caso che ci occupa gesto, azione, lavoro, opera.
voce dal lat.volg. causa «causa», che sostituí il lat. class. res.
8.NUNN’ È PPIETTO TUĴO!
Letteralmente: Non è (per il) petto tuo! Icastica espressione, analoga alla precedente ma con un marcato carattere quasi di dileggio e/o d’offesa in quanto è espressione che si usa rivolgere sarcasticamente  ad un idividuo che, ritenuto incapace di poter mai  concludere alcunché di positivo,né di giungere a risultati concreti in quanto impreparato, inetto ed incapace dimostri di non possedere né la prestanza fisica, né le capacità mentali (adombrate l’una e le altre  sotto il termine petto) per poter addivenire concretamente ad un risultato; per il soggetto destinatario dell’espressione ògni situazione, avvenimento,questione o problema, gesto, azione, lavoro, opera son ritenuti superiori alle sue capacità e dunque tutto esula dalle sue possibilità operative.
pietto s.vo m.le  
1 la parte anteriore del tronco umano, compresa tra il collo e l'addome;
2 le mammelle della donna, il seno;
3 (fig.come nel caso che ci occupa) cuore, animo, capacità; 4 la parte del corpo degli animali corrispondente al petto umano;
5 parte di un vestito che copre il petto: giacca a unu pietto; giacca a doppio pietto, giacca pietto e bavaro(giacca a un petto; giacca a doppio petto, giacca petto e bavero); voce
lat. pĕctu(s)→piettu(s)→pietto 'petto, animo'.
 9.NUNN’  ESSERE DOCE ‘E SALE
Letteralmente: Non è dolce di sale! Incisiva  espressione usata soprattutto rivolgendola a professori, genitori eccessivamente severi o piú in generale a tutti coloro che si dimostrino scostanti, scorbutici, scontrosi, intrattabili pur senza giungere ad esser  maleducati, villani o  sgarbati; di costori s’usa dire che siano  tanto aspri o pungenti o piccanti tal quali una pietanza che  troppo salata risulti  sgradevole, spiacevole, disgustosa, laddove una contenuta salatura l’avrebbe resa piú dolce al palato e quindi gradita, gradevole, piacevole.
10.NUN CE STANNO FÓSE ‘A APPENNERE
Letteralmente: Non ci sono fusi (tanto difettosi )  da (potersi) appendere (al vestito).Antichissima locuzione (già presente nel D’Ambra) incisiva, efficace, chiara, viva, mordace, graffiante di esclusiva pertinenza femminile. Di per sé l’espressione in generale  vale non ci sono difetti ma in senso piú circoscritto ed esatto è espressione  con la quale si fa riferimento all’onestà dei costumi di un donna  ed alla totale assenza in lei  di colpe, manchevolezze , mancanze,sia fisiche che morali, insomma una  donna tanto priva di difetti da essere  accreditata di essere cosí sana, pudica, virtuosa, irreprensibile, integerrima, costumata, morigerata da non concedere neppure figurati appigli sul proprio vestito cui attaccare fallici fusi, cioè di non dare ad alcun uomo modo o maniera di circuirla per poterne attinger le grazie. Normalmente un fuso ben costrutto è un arnese di legno, panciuto al centro ed  assottigliato alle estremità, che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola, arnese privo di asperità, sporgenze o ganci con cui poterlo appuntare o sospendere ed è perciò un arnese privo di difetti, come priva di difetti è una donna che non conceda appigli sulle sue vesti  a figurati fusi maschili.
fósa s.vo pl. f.le del m.le fuso s.vo m.le [dal lat. fūsus] (pl. fuse e fosa: fuse pl. del sg. fuso; fose pl. con valore collettivo ). – 1.in sé ed in primis Arnese di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate (dette cocche), usato nella filatura per produrre mediante rotazione la torsione del filo e intorno al quale il filo stesso si avvolge;
2 per traslato furbesco  membro maschile, verga, asta
11.NUN VULÉ FÀ CARTE
Cominciamo con il dire che l’espressione è mutuata ovviamente dal giuoco delle carte e che l’espressione è da tradursi con Non voler distribuire le carte e non con un inconferente Non voler fabbricare  le carte  come – inorridendo – mi occorse di cogliere sulle labbra di uno spocchioso, ma sprovveduto docente universitario, sedicente cultore esperto [a sentir lui] di proverbi e/o locuzioni partenopee.  In effetti  l’espressione fare le carte è usata anche fuor dell’àmbito napoletano e vale distribuire le carte o talora,  se riferito ad un/una cartomante,  sta per leggere le carte, ma in nessun caso  fabbricare  le carte Tanto premesso partendo come détto dall’esatta traduzione Non voler distribuire le carte è facile cogliere che con l’espressione ci si riferisce ad un soggetto che prepotente ed arrogante non intende mai assumersi il còmpito di cartaro,sia cioè restio a farsi carico di svolgere il  còmpito che invece in ògni giuoco di carte deve essere svolto per avvicendamento  da tutti i giocatori,; il soggetto di cui dico invece pretenderebbe di esser sempre servito di carte, piuttosto che farle,  per poter aprire il giuoco a suo piacimento e non esser costretto  (da cartaro) a chiuderlo accodandosi al giuoco altrui. In tal senso colui che non vuol far carte è il soggetto che in ogni occasione non intende addivenire ad alcuna proposta e  si dimostra riottoso ad accodarsi alle altrui idee o iniziative,recalcitrante persino a discuterne; è il soggetto che presuntuoso e supponente si pone davanti la realtà contigente con la boria di avere lui le soluzioni adatte ad ògni tipo di problema mostrandosi indocile all’accoglimento di proposte che abbiano fatto altre persone e senza distinguere se si tratti di cattive o di buone, di perseguibili o campate in aria. Vengono da altri? Ed allora, per il saccente che non vuol far carte, non sono accettabili e non mette conto neppure discuterne!
In senso esteso infine  l’espressione in epigrafe si attaglia a qualsiasi persona sia restia ad addivenire ad alcunché; per cui ad es. nu’ vvo’ fà carte una ragazza che rifiuti le avances di un corteggiatore, nun vo’ fà carte  un genitore che rifiuti di soddisfare le richieste pecuniare d’un figliolo, nun vo’ fà carte una mamma che opponga un rifiuto al desiderio d’ una figliola che vorrebbe un abito nuovo, nu’ vvo’ fà carte una moglie che respinga l’istanza di preparare un’elaborata pasta al forno o che opponga alle richieste del coniuge, un improvviso mal di capo e cosí via.
12.NUN FA/FÀ ASCÍ ‘O GGRASSO FORA DÂ PIGNATA. Letteralmente l’espressione si traduce con : Non fa/fare uscire il grasso fuor dalla pignatta. Passando al campo applicativo preciso che la locuzione à un doppio significato:
1) in primis essa vale una sorta di constatazione osservando l’atteggiamento di qualcuno/a che sia molto misurato/a nei consumi, tanto accorto/a e/o  parsimonioso/a da evitare qualsiasi spreco al segno di non permettere che il condimento in cottura  trabocchi per eccessivo bollore  dalla pentola   e tale accezione è quella esatta allorché il fa dell’espressione è la 3ª pers. sg. indicativo presente dell’infinito fà.
2)Tutt’altro significato prende l’espressione allorché il fa’ dell’espressione è la 2ª pers. sg. imperativo dell’infinito fà.  In tal caso la locuzione diventa non una costatazione, ma quasi un ordine perentorio a non far traboccare il condimento dalla pentola di pertinenza. Tuttavia mentre nel caso sub 1) la locuzione può essere tranquillamente intesa nel senso letterale con riferimento alla avvedutezza e/o parsimonia di chi si adopera per evitare che si cada nell’eccesso facendo traboccare il condimento o conferito in maniera sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua cottura, nel caso sub 2) con l’uso dell’imperativo l’espressione non si deve  intendere come un consiglio/ordine a non far  traboccare il condimento o conferito in maniera sovrabbondante,o non tenuto sotto controllo durante la sua cottura,ma deve intendersi in senso traslato  come consiglio/ordine dato ad un familiare di  non lasciar  trapelare all’esterno [dandoli in pasto ai terzi] i fatti e/o i problemi di famiglia che vanno rigorosamente tenuti segreti e sotto il controllo di chi compone la famiglia.Ed ancóra l’espressione sub 2) in un suo sotteso significato metaforico vale: adoperarsi per non permettere che le risorse familiari travalichino i sacrosanti confini della famiglia per essere destinate ad estranei e/o a parenti non molto prossimi.
Giunti qui , prendiamone in esame alcune parole:
‘o ggrasso  letteralmente il grasso= condimento ricavato dalla sottocute del maiale; ovviamente qui è usato nel senso traslato ed estensivo di risorsa economica; la voce a margine è un sost. neutro (la gran parte degli alimenti in napoletano è di genere neutro) derivato dal lat. volg. grassu(m), da crassus 'grasso', forse per incrocio con grossus 'grosso';
ascí = uscire, venir fuori, debordare voce verb. infinito dal lat. volg. parlato *axire  marcato su   exire, comp. di ex- 'fuori' e ire 'andare';  
fora avv. di luogo= fuori, all'esterno di qualcosa, non in esso; anche, lontano da esso; voce derivato dal lat. fora(s) collaterale di fŏri(s) donde l’italiano fuori.
la voce pignata/pignato s.vo f.le/m.le nell’unico significato di pentola di coccio bassa, ma capace riprende forse per adattamento la voce toscana pignatta→pignata
s. f. , che  anticamente fu anche: pignatto→pignato s. m. nei significati di
1) pentola molto capace, per lo piú di terracotta | (fam.) qualunque tipo di pentola. dim. pignattella, pignattina, pignattino (m.)
2) sorta di mattone forato impiegato nella costruzione dei solai. Tutto ciò sempre che non sia vero il contrario e cioè che un/una originario/a  pignato/a partenopei non siano diventati pignatto e pignatto  nell’italiano;  
L’etimo è  incerto; forse da un deriv. del lat. pinguis 'grasso', col sign. di 'recipiente per conservare il grasso, la sugna;con una lettura metatetica di pinguis→pignuis addizionato di apta→atta donde *pignatta (adatta a contenere il grasso).
 Tuttavia un'altra scuola di pensiero ( alla quale mi piace aderire!) pensa ch'essa voce pignata  possa derivare dal latino pineata(olla)in quanto il coperchio della pignata termina e  terminava quasi sempre a mo' di pigna (in latino pinea donde pineata→pignata).
E cosí penso d’aver convenientemente interessato i miei consueti ventiquattro lettori e chiunque si soffermasse a leggere queste  mie paginette e d’esser riuscito ad  illustrare alcune  tipiche espressioni della parlata napoletana costruite con la negazione NUNper cui reputo di poter mettere il punto fermo con il consueto satis est, rinviando alibi per altre espressioni con la voce pignata.
Satis est.
Raffaele Bracale