sabato 31 ottobre 2009

VARIE 430

1. 'Ammuina è bbona p''a guerra...
Ad litteram: il caos, la baraonda è utile in caso di guerra; id est: per aver successo in caso di lotta occorre che ci sia del caos, della baraonda; mestando in esse cose si può giungere alla vittoria nella lotta intrapresa.
2. Astipate 'o piezzo janco pe quanno venono 'e jiuorne nire.
Ad litteram: conserva il pezzo bianco per quando verranno le giornate nere. Id est: cerca di comportarti come una formica; non dilapidare tutto quel che ài: cerca di tener da parte sia pure un solo scudo d'argento (pezzo bianco) di cui potrai servirti quando verranno le giornate di miseria e bisogno.
3. Male e bbene a ffine vène.
Ad litteram: il male o il bene ànno un loro termine. Id est: Non preoccuparti soverchiamente ma, ugualmente non vivere sugli allori perché sia il male sia il bene che ti incorrono,non sono eterni e come son cominciati, cosí finiranno.
4. Chi tène pane e vvino, 'e sicuro è giacubbino.
Ad litteram: chi tiene pane e vino, di certo è giacobino. Durante il periodo (23/1-13/6 1799)della Repubblica Partenopea, il popolo napoletano considerava benestanti, i sostenitori del nuovo regime politico. Attualmente il proverbio è inteso nel senso che sono ritenuti capaci di procacciarsi pane e vino, id est: prebende e sovvenzioni coloro che militano o fanno vista di militare sotto le medesime bandiere politiche degli amministratori comunali, regionali o provinciali che a questi nuovi giacobini son soliti procacciare piccoli o grossi favori, non supportati da alcuna seria e conclamata bravura, ma solo da una vera o pretesa militanza politica.
5. Dicette 'o paglietta: a ttuorto o a rraggione, 'a cca à dda ascí 'a zuppa e 'o pesone.
Ad litteram: disse l'avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devon scaturire il pasto e la pigione; id est: non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa. Oggi il proverbio è usato quando ci si imbarchi in un'operazione qualsiasi senza attendersene esiti positivi, purché sia ben remunerata.
6. 'O diavulo, quanno è vviecchio, se fa monaco cappuccino.
Ad litteram: il diavolo diventato vecchio si fa monaco cappuccino. Id est: spesso chi hà vissuto una vita dissoluta e peccaminosa, giunto alla vecchiaia, cerca di riconciliarsi con Dio nella speranza di salvarsi l'anima in extremis.
7. Chi tène 'o lupo pe cumpare, è mmeglio ca purtasse 'o cane sott'ô mantiello.
Ad litteram: chi à un lupo per socio, è meglio che porti il cane sotto il mantello. Id est: chi à cattive frequentazioni è meglio che si premunisca fornendosi di adeguato aiuto per le necessità che gli si presenteranno proprio per le cattive frequentazioni. Da notare come in napoletano il congiuntivo esortativo non è reso con il presente, ma con l'imperfetto...
8. Si 'o ciuccio nun vo' vevere, aje voglia d''o siscà...
Ad litteram: se l'asino non vuole bere, potrai fischiare quanto vuoi (non otterrai nulla)Id est: il testardo si redime ed accetta il nuovo solo con il proprio autoconvincimento...
9. Mo m'hê rotte cinche corde 'nfacci' â chitarra e 'a sesta poco tene.
Ad litteram: ora mi ài rotto cinque corde della chitarra e la sesta è prossima a spezzarsi. Simpatica locuzione che a Napoli viene pronunciata verso chi à cosí tanto infastidito una persona da condurlo all'estremo limite della pazienza e dunque prossimo alla reazione conseguente, come chi vedesse manomessa la propria chitarra nell'integrità delle corde di cui cinque fossero state rotte e la sesta allentata al punto tale da non poter reggere piú l'accordatura.
10. Coppola pe cappiello e casa a sant'Aniello.
Ad litteram:Berretto per cappello, ma casa a sant'Aniello (a Caponapoli). Id est: vestirsi anche miseramente, ma prendere alloggio in una zona salúbre ed ariosa, poiché la salute viene prima dell'eleganza, ed il danaro va speso per star bene in salute, non per agghindarsi.
11. Tené tutte 'e vizzie d''a rosamarina.
Ad litteram: avere tutti i vizi del rosmarino. Id est: avere tutti i difetti possibili, essere cioè così poco affidabile ed utile alla stregua del rosmarino, l'erba aromatica che serve a molto poco; infatti oltre che per dare un po' di aroma non serve a nulla: non è buona da ardere, perché brucia a stento, non fa fuoco, per cui non dà calore, non produce cenere che - olim - serviva per il bucato, se accesa, fa molto, fastidioso fumo...
12. Si 'o Signore nun perdona a 77, 78 e 79, llà 'ncoppa nce po’ appennere 'e pummarole.
Ad litteram: Se il Signore non perdona ai diavoli(77), alle prostitute(78) ed ai ladri(79), lassù (id est: in paradiso ) ci potrà appendere i pomodori. Id est: poiché il mondo è popolato esclusivamente da ladri, prostitute e cattivi soggetti (diavoli), il Signore Iddio se vorrà accogliere qualcuno in paradiso, dovrà perdonare a tutti o si ritroverò con uno spazio enormemente vuoto che per riempirlo dovrebbe coltivarci pomodori.
13. Chillo se mette 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si mette le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.

14.'A femmena è ccomm’ â campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
15.'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata - resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
16.Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi: busse, carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
17.'E pegge juorne so' chille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si ànno più affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che in vecchiaia non mancano mai...
18.Dimmènne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccontamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi e vanificare il tuo operato.
19.Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia che vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.
20.Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, così vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
21.'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno più paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità
22.Dicette frate Evaristo:"Pe mmo, pigliate chisto!"
Ad litteram: disse frate Evaristo: Per adesso, prenditi questo!"Il proverbio viene usato a mo' di monito, quando si voglia rammentare a qualcuno, che si stia eccessivamente gloriando di una sua piccola vittoria, che per raggiungerla à dovuto comunque sopportare qualche infamante danno. Il frate del proverbio fu tentato dal demonio, che per indurlo al peccato assunse l'aspetto di una procace ragazza discinta; il frate si lasciò tentare e partì all'assalto delle grazie della ragazza che - nel momento culminante della tenzone amorosa riprese le sembianze del demonio e principiò a prendersi giuoco del frate, che invece portando a compimento l'operazione iniziata pronunciò la frase in epigrafe.
23.Chi ride d''o mmale 'e ll'ate, 'o ssujo sta arret' â porta.
Ad litteram: chi ride delle digrazie altrui, à le sue molto prossime; id est: chi o per cattiveria o per insipienza si fa beffe del male che à colpito altre persone, dovrebbe sapere che - presto o tardi - il male potrebbe colpire anche lui...
24.È 'na bbella jurnata e nisciuno se 'mpenne.
Ad litteram: E' una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
25.'E meglio affare so' cchille ca nun se fanno.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è più conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
26.Quanno 'e figlie fòttono, 'e pate so' futtute.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fòttono non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma più chiaramente quello compiuto a pagamento.
27.Primma t'aggi''a 'mparà e po' t'aggi''a perdere....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Così son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
28.'Na mela vermenosa ne 'nfraceta 'nu muntone
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale o peggio, per rovinare tutti gli altri.
29.Chella ca ll'aiza 'na vota, ll'aiza sempe.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; più estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere , altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
30.Chella cammisa ca nun vo' stà cu tte, pigliala e stracciala!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.
31. Chiammà a san Paolo primma ‘e vedé ‘a serpe
Ad litteram: Invocare (la protezione di) san Paolo prima di scorgere un serpente (che possa nuocerti.). Con riferimento a chi, vigliacco o eccessivamente pauroso, prima dell’appalesarsi d’un pericolo si ponga in posizione difensiva chiamando addirittura in soccorso la protezione dei santi. Nella fattispecie l’apostolo Paolo è invocato quale protettore nel caso di incresciosi incontri con serpenti; e ciò perch pare il suddetto apostolo durante il viaggio che lo condusse da Gerusalemme a Roma, dove venne decapitato, subisse il morso d’una vipera ma ne restasse miracolosamente illeso.
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MARUFFA, MARRUFFA & DINTORNI

MARUFFA, MARRUFFA & DINTORNI
Questa volta, sollecitato dalla richiesta di un caro amico che mi rende visita quasi ogni sera, mi soffermerò a parlare del vocabolo in epigrafe, icastica ed un tempo usatissima voce della parlata partenopea in uso, per tantissimo tempo dagli anni ‘30 sino a tutti gli anni ’50 e poi desueta, soprattutto nella città bassa.Difficile stabilire il perché una voce si sia mantenuta in vita ed usata per un tempo circoscritto e per un àmbito ristretto e si sia poi dileguata senza lasciar traccia di sé in nessuno dei numerosi calepini dell’idioma partenopeo i cui autori ànno un duplice torto: alcuni quello di copiarsi vicendevolmente e tutti quello di attingere esclusivamente nelle opere di autori classici e/o antichi, tenendo in non cale la parlata viva del popolo partenopeo che invece tiene in continuo divenire il proprio linguaggio assicurandogli quella vivezza di idioma che non è lingua morta!
Ciò precisato veniamo alle voci in epigrafe precisando che la prima maruffa è il s.vo e poi anche agg.vo f.le originario mentre la seconda marruffa anch’essa s.vo e poi anche agg.vo f.le, quantunque maggiormente in uso nella parlata viva del popolo partenopeo della città bassa, è voce derivata dalla prima attraverso un consueto raddoppiamento espressivo popolare della liquida r.
E veniamo al significato: in origine con il termine maruffa si indicò, secondo il noto criterio della parlata napoletana per il quale criterio un oggetto è inteso, se di genere maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente oggetto di genere femminile: abbiamo ad es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande di ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande di ‘a caccavella; dicevo dunque che in origine con il termine maruffa si indicò (per il criterio or ora illustrato) una nassa un po’ piú grossa del corrispondente m.le maruffo ( nassa, Cesto di vimini, di forma generalmente sferoidale, con una piccola apertura alla sommità, che si cala in acqua per contenere il pesce catturato e mantenerlo in vita fino a che non sia finita la pesca).
Successivamente quando la voce maruffa passò dai pescatori che frequentavano il mercato ittico prospiciente in Napoli la Porta Capuana, allorché, dicevo, la voce passò sulla bocca degli abitanti della zona,acquistando il raddoppiamento espressivo della liquida r perdette il suo significato originario, per acquistarne sotto la morfologia di marruffa e tenendo presente l’ aspetto ormai liso, frusto, consunto e scalcinato di una nassa pesta ed acciaccata per essere stata usata e piú vòlte riusata, quello traslato (riferito peraltro alle sole donne) di persona goffa, sgraziata, maldestra, inelegante,sciatta, dozzinale, rozza; la voce marruffa venne accostata, con riferimento a vecchie o anzione donne malmesse, alle precedenti scònceca e zàffia di significato pressocché simile: , goffa, maldestra, impacciata,trasandata,mediocre, scadente, rozza e persino volgare, mentre per il maschile, un soggetto che fosse goffo, sgraziato, maldestro, inelegante,sciatto, dozzinale, rozzo o anche deforme o storpio fu détto alternativamente
grisolaffío (dal greco bizantino krysoláios) voce esclusivamente maschile,
scuonceco ( deverbale di s (distrattiva)+ conciare= sciupare, rovinare che diede dapprima scuoncio= sciupato, rovinato e poi con ampliamento di suffisso il termine a margine scuonceco= deforme, storpio ma anchesmagrito, deperito, smunto,sformato etc.) voce come la successiva usata anche al femminile,
zàffio ( dal greco mod. tsáfos che è dall’arabo sāiyf).
E veniamo alla parte che ritengo piú interessante, quella che riguarda l’etimologia della/e voce/i in epigrafe.
Ricordato che per la nostra indagine occorre partire dalla voce maruffa, anzi da maruffo che la voce di partenza su cui fu marcata maruffa.
Non di semplice soluzione la questione però! La maggior parte dei vocabolaristi si trincerano dietro il solito pilatesco etimo sconosciuto o incerto, cosa che – come è noto – mi procura attacchi d’orticaria. Qualcuno ( Treccani ) azzarda un non specificato, né chiarito voce di origine còrsa qualche altro (M.Cortelazzo) ipotizzò che non si potesse trattare di un continuatore di mafaro ← mamphur =cocchiume della botte; e fin qui son disposto a seguirlo, ma alla fine sulle orme di un tal Pier Enea Guarnerio (glottologo di fine ‘800) concluse, anche lui!, (parce sepulto) che trattasi di etimo sconosciuto. Sono grandemente insoddisfatto e mi son fatto una mia idea che partecipo volentieri a chi mi leggerà.
Entro súbito in medias res, ma poi chiarisco, affermando (checché ne dicano i paludati addetti ai lavori…) che a mio sommesso, ma deciso avviso la voce maruffo donde maruffa e poi marruffa è con molta probabilità degradazione semantica d’un nome proprio, anzi – per meglio dire – di un cognome quello di quel tal Matteo Maruffo (XIV sec.) di cui fallano e mi fallono estese notizie biografiche; so solo che si trattò d’un ammiraglio genovese divenuto famoso per aver sconfitto nel corso della guerra di Chioggia nel 1380 con la sua flotta di galee, nel mare al largo della città di Manfredonia, i veneziani di Vettor Pisani (Venezia, 1324 – † Manfredonia, 13 agosto 1380); ò pensato che i marinai delle galee a gli ordini del Maruffo, stanchi di cibarsi di gallette, carni secche e salate ed altri alimenti conservati, normalmente in uso tra la gente di mare cercassero di migliorare i pasti con del buon pesce fresco ed una vòlta procuratoselo avessere ideato una particolare nassa che legata ad una fune permettesse di conservarlo tenendolo, rinchiuso nella nassa, continuamente immerso in acqua fino al momento di consumarlo. Si può quindi ragionevolmente pensare, pur se mancano adeguati riferimenti storici(la voce maruffo,presente nel Cortelazzo/Marcato, nel Treccani e nel Garzanti, manca inopinatamente nel D.E.I.(che solitamente dei lemmi considerati riporta spesso l’indicazione del secolo in cui il lemma è stato usato per la prima vòltaed il nome dell’autore che l’abbia usato) ), si può ragionevolmente ipotizzare che i marinai di Matteo Maruffo, o per dileggio o per affetto abbiano assegnato il cognome del loro ammiraglio a quella particolare nassa di loro ideazione. E cosí penso d’aver chiarito o quanto meno d’aver indicato una strada da poter percorrere nella ricerca dell’etimo delle voci in epigrafe. Ma prima di apporre il mio consueto satis est, che il piú delle vòlte chiude le mie paginette di linguistica, mi piace rammentare che nel colorito, icastico idioma popolare partenopeo la voce marruffa è spesso accompagnata da altri aggettivi e l’espressione completa, usata quale offensivo dileggio rivolto ad una donna, suona: brutta, vecchia marruffa scuffata e sceriata!(brutta, vecchia, goffa donna, slombata e vanamente imbellettata!); preciso:
brutta agg.vo f.le del m.le brutto: 1)si dice di persona, animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga impressione; 2) cattivo, riprovevole, sconcio; 3) sfavorevole, che reca danno o molestia, che produce un effetto negativo; la voce è dal lat. brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo.
vecchia agg.vo e s,vo f.le del m.le vecchio/viecchio: che si trova nell'ultimo periodo della vita naturale; con significato piú ampio, anziano (in contrapposizione a giovane); quanto all’etimo è voce del lat. tardo veclu(m), per il class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio' seguendo il percorso vetulu(m)→vetlu(m)→veclu(m)→vĕcchio/viecchio
scuffata . agg.vo (ma in origine participio passato poi aggettivato) f.le del m.le scuffato; lo stesso che scioffato/a :pesto/a, malmenato/a,malmesso/a, storpiato/a dilombato/a con etimo da un lat. volg. exuffatu(m);
sceriata agg.vo (ma in origine participio passato poi aggettivato) f.le del m.le sceriato: sfregato strofinato, frizionato , soffregato, lucidato e per giocoso ampiamento semantico abbellito, adornato,agghindato, bardato, imbellettato; etimologicamente si tratta come ò détto del participio passato poi aggettivato dell’infinito
scerià id est: soffregare, nettare, lucidare verbo che viene da un tardo latino: flicare = soffregare. da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià (per il consueto passaggio di fl→sc (cfr. flos→sciore – flumen→sciummo – flamma→sciamma).
Satis est.
Raffaele Bracale

AMMUINA o AMMOINA

AMMUINA o AMMOINA
Come tanti altri termini (camorra, guaglione, scugnizzo e derivati), quello in epigrafe è parola che, partita dalla parlata napoletana è pervenuta nell’italiano sia come sostantivo ammoina o ammuina o addirittura ammoino/ammuino, che come voce verbale ammuinare/ammoinare.
Comincerò col dire che in napoletano la voce in epigrafe e le corrispondenti voci verbali furono – nel lessico popolare – di quasi esclusiva competenza degli adolescenti ed indicarano essenzialmente il chiasso, la confusione, la rumorosa agitazione prodotta da costoro specialmente durante il giuoco, chiasso, confusione ed agitazione rumorosa che determinano negli adulti costretti a subirli, noia e fastidio; solo per estensione successivamente le parole riguardarono chiasso, confusione e baccano degli adulti ed addirittura con l’espressione fare ammoina, nel gergo marinaresco, si indicò il darsi da fare disordinatamente e senza frutto, o per ostentare la propria laboriosità e vi fu un capo ameno, ma scarico che, prendendo le mosse da tale gergo marinaresco, peraltro mercantile,e con il palese scopo, seppur non dichiarato di vilipendere i Borbone Due Sicilie si inventò un inesistente articolo: Facite ammuina attribuito alla marineria borbonica di Francesco II Due Sicilie.
Per amor di completezza ricorderò che il predetto fantasioso articolo recitava: All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa e chilli che stann' a poppa vann' a prora: chilli che stann' a destra vann' a sinistra e chilli che stanno a sinistra vann' a destra: tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa vann' bascio passann' tutti p'o stesso pertuso: chi nun tiene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a llà.
Ò trascritto l’articolo così come l’ò travato in rete, stampato su di un evidentemente falso proclama reale recante lo stemma borbonico.
Non voglio soffermarmi piú di tanto sull’evidente falsità dell’articolo; mi limiterò ad osservare che essa si ricava già dal modo raffazzonato in cui è scritto; è evidente che il capo scarico che lo à vergato, mancava delle piú elementari cognizioni della parlata napoletana: basti osservare in che modo errato sono scritti tutti i verbi, terminanti tutti con un assurdo segno d’apocope (‘) o di una ancóra piú assurda elisione, in luogo della corretta vocale semimuta.A ciò si deve aggiungere l’incongruo, fantasioso congiuntivo esortativo che conclude l’articolo: s’aremeni, congiuntivo che è chiaramente preso a modello dal tascono, ma non appartiene all’idioma napoletano che usa ed avrebbe usato anche per il congiuntivo la voce s’aremena cosí come l’indicativo; infine non è ipotizzabile un monarca che, volendo codificare un regolamento in autentico napoletano, affinché fosse facilmente comprensibile alle proprie truppe incolte, si rivolgesse o fosse rivolto per farlo vergare a persona incapace o ignorante della parlata napoletana; ciò per dire che tutto l’evidentemente falso articolo fu pensato e vergato dal suo fantasioso autore, con ogni probabilità filosavoiardo in lingua italiana e poi, per cosí dire, tradotto seppure in modo sciatto ed approssimativo in napoletano, cosa che si evince oltre che da tutto ciò che fin qui ò annotato dal fatto che nell’articolo (presunto napoletano) si parla di destra e sinistra, laddove è risaputo che i napoletani, anche i colti, usavano dire dritta e mancina.
Sistemata cosí la faccenda del Facite ammuina , torniamo alla parola in epigrafe e soffermiamoci sulla sua etimologia;
a prima vista si potrebbe ipotizzare, ma erroneamente che la parola ammoina sia stata forgiata sul toscano moina con tipico raddoppiamento consonantico iniziale ed agglutinazione dell’articolo la (‘a); ma a ciò osta il fatto che mentre il termine ammoina/ammuina sta, come detto, per chiasso, confusione, vociante baccano, la parola moina (dal basso latino movina(m)) sta ad indicare gesto, atto affettuoso, vezzo infantile; comportamento lezioso, sdolcinato, tutte cose evidentemente lontane dal chiasso e/o confusione che son propri dell’ ammoina/ammuina e lontane dal fastidio che da quel chiasso ne deriva all’adulto che, al contrario, è appagato e gratificato dalle moine infantili o talvolta da quelle femminili; sgombrato cosí il campo dirò che per approdare ad una accettabile etimologia di ammoina/ammuina occorre risalire, percorrendo un’esatta strada semantica, proprio al fastidio, all’annoiare che il chiasso, la confusione, il vociante baccano procurano; tutte cose puntualmente rappresentate dal verbo spagnalo amohinar(infastidire, annoiare, addirittura rattristare) e convincersi che l’ ammoina/ammuina altro non sono che deverbali del verbo spagnolo.Satis est.
Raffaele Bracale

VARIE 429

1.'STA CASA ME PARE RESÍNA: CIRCHE 'NA MALLARDA E TRUOVE 'NA MAPPINA!
Ad litteram: Questa casa sembra Resína: cerchi un cappello e trovi uno straccio! Divertente espressione partenopea usata per descrivere icasticamente la insopportabile situazione di una casa dove - per ignavia di coloro che vi vivono - regni il piú grosso disordine e/o caos al segno da poter far paragonare detta casa al corso Resína della città di ERCOLANO dove si tiene quotidianamente mercato di abiti usati e dismessi nonché di altri capi di abbigliamento usato, mercato caotico e variopinto, dove per trovare il voluto, occorre cercare tra la piú varia mercanzia affastellata sui banchetti di vendita senza ordine o sistematicità.
RESÍNA fu l'antico nome della cittadina sorta sull'area della città di Ercolano all'indomani dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.c. che seppellí le città di Pompei, Stabia ed Ercolano. Nel 1969 la città di Resína riprese il primitivo nome di Ercolano assegnando al Corso principale il nome di Resina; è su questo corso che aprono bottega i commercianti di abiti usati.
Mallarda = dal franc. malart è in primis il nome con cui in napoletano si indica una grossa anitra; per traslato poi si indica un vasto ed ingombrante cappello da donna. Da ricordare che il poeta-giornalista napoletano Ugo Ricci (Napoli 1875 - † ivi 25/01/1940) détto: Triplepatte a memoria di quelle che insistevano sulle tasche delle eleganti giacche da pomeriggio indossate dal giornalista) usava, nei suoi componimenti indicare con il nome di "mallardine" le signorine della media borghesia aduse ad indossare le c.d. mallarde.
mappina diminut. di mappa=cencio, straccio: è parola ( dal lat. mappa) che anche con altra desinenza (la) donde mappila, ma con identico significato, si trova in altri dialetti centro-meridionali.
2. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni casa si aggiravano un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (salumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dalle vocali o oppure u esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o ppepe e non ‘o pepe come ‘o ppane e non ‘o pane, ‘o zzuccaro e non ‘o zuccaro, ‘o ccafé e non ‘o cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero.

3.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere).
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.

4. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa, strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Mio avviso è invece che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale.
5. TENÉ ‘E PECUNE
Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere i piconi (sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili; non esiste un termine corrispondente nell’italiano); ma
vale: essere ormai o finalmente cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo implume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pella degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili.
6. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato
indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale s. f.
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim. DIM. seghetta, seghetto (m.), seghina ACCR. segona, segone (m.) PEGG. segaccia
2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega tenendo presente l’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un lungo prolungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).ad ogni buon conto la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee di stanza in bassi e fondaci presso quelli che sarebbero stati gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi di Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la lunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò nel viaggio di andata timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, e assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel luglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s. m. ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il luogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza esclusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza delle guarnigioni militari spagnole, volute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a monte della strada di Toledo erano un luogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) fu marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 fu viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , da cui il nome della strada, emanasse alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque alla cosiddetta sega spagnola che fu un accorgimento adottato dalle meretrici allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue o sifilide (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fosse francese o napoletano le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli.
Raffaele Bracale

venerdì 30 ottobre 2009

PIGLIARSE 'O PPUSILLECO

PIGLIARSE 'O PPUSILLECO.
Letteralmente: Prendersi il Posillipo. Id est: Darsi il buon tempo, accompagnarsi ad una bella donna, per trascorrere un po' di tempo in maniera gioiosa.La locuzione fa riferimento ad una famosa collina partenopeaPosillipo,che dal greco Pausillipon significa tregua all'affanno, luogo amenissimo dove gli innamorati son soliti appartarsi.* Estensivamente un tempo l’espressione significò pure: prendersi giuoco di qualcuno, insolentirlo e disturbarlo e senza un’adeguato motivo o ragione.In senso antifrastico e furbesco la locuzione sta per: buscarsi la lue.

* Nota
Il toponimo Posillipo fu assegnato nel 1812 dal re Gioacchino Murat, che si adoperò per darle un’adeguata sistemazione, alla bella panoramica strada che si inerpicava sulla collina da Mergellina a Coroglio; la sistemazione della strada si completò nel 1823, ma la strada era già ben nota a greci e romani dei primi secoli ed infatti un tal Vedia Pollione vi costruí una sua villa cui assegnò, in onore di Zeus Pausìlipos, il nome appunto di pausilipon che dal greco paùein + lype sta per tregua, cessazione del dolore
Raffaele Bracale

CAMERIERA, SERVA E DINTORNI.

CAMERIERA, SERVA E DINTORNI.
In lingua italiana prendeva (ora non avviene piú… sostituita com’è stata con una sciocca espressione come: collaboratrice familiare quasi che fossero cambiate le sue precipue occupazioni di lavoratrice dipendente) il nome di cameriera (con etimo dal provenz. camarier, che è dal lat. tardo cameraru(m) che diede dapprima il maschile cameriere poi femminilizzato in cameriera) chi è addetta alla pulizia delle camere o serve a tavola nelle case private;piú genericamente si parla di persona di servizio, o anche domestica,ugualmente prende il nome di cameriera chi è addetta agli stessi servizi in alberghi o ristoranti: cameriera di sala,: chi serve a tavola; cameriera al piano: chi riordina e pulisce le camere di un piano; sempre in lingua italiana vi fu poi un tempo il termine servo/a oggi ampiamente in disuso, che indicò chi svolgesse servizi generici, specialmente domestici,svolti in casa o all’esterno di essa alle dipendenze di privati; la voce femm. serva venne usata proprio riferita alla lavoratrice domestica, ma finí per assumere una valenza dispregiativa rispetto alla voci domestica o cameriera atteso che queste ultime furono riferite a quelle donne che prestassero la loro opera alle dipendenze di alberghi e/o ristoranti o famiglie della medio-alta borghesia, mentre con la voce serva e quasi nell’accezione etimologica del lat. serva(m)= schiava ci si riferí ( e spesso proprio da parte di domestiche e/o cameriere) alla prestatrice d’opera domestica in famiglie della piccola borghesia; nella antica lingua italiana (tardo XVII sec.) vi fu infine la voce fantesca (derivato di fante (s.f.= serva, domestica)) che indicò la generica donna di servizio o addetta ai lavori in casa in ispecie nella cucina o al servizio ai tavoli delle locande o bettole.
E passiamo alla lingua napoletana; le voci in epigrafe vengon rese in napoletano con le seguenti parole: cammarèra,criata, serva, vajassa, zambracca. Esaminiamole:
cammarèra e serva: per queste due parole non ci si discosta molto (sia per l’etimologia che per la semantica) dalle corrispondenti della lingua italiana cameriera e serva: la cammarèra(dal provenz. camarier con raddoppiamento popolare della labiale m) svolge la propria opera in case della media alta borghesia se non della nobiltà, mentre con la parola serva ci si riferisce alla prestatrice d’opera domestica in famiglie della piccola borghesia o alla generica donna di servizio, addetta ai lavori in casa in ispecie nella cucina o al servizio ai tavoli delle locande o bettole: insomma quella che fu la fantesca del tardo XVII sec; talvolta in luogo di serva si usa un giro di parole pletorico: ‘a femmena ‘e servizio;
criata anche con questo termine, per altro abbondantemente desueto ci si riferisce alla prestatrice d’opera domestica in famiglie della piccola borghesia o alla generica donna di servizio, addetta ai lavori in casa in ispecie nella cucina o al servizio ai tavoli delle locande o bettole: insomma quella che fu la fantesca del tardo XVII sec.; quanto all’etimo la voce a margine è la femminilizzazione del maschile criato che è dall’iberico criado= servitore, famiglio, valletto; annoterò al proposito che anche nell’italiano antico con il medesimo etimo dallo spagnolo vi fu la voce creato=servo,valletto, famiglio ma non esistette la corrispondente creata: misteri della lingua italiana!
vajassa= serva di bassissimo conio, fantesca addetta alla pulizia in case malfamate; l’etimo è dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in italiano: bagascia= meretrice.
Scendendo ancòra d’un gradino incontriamo
zambracca= serva di infimo conio, fantesca addetta alla pulizia dei cessi. La voce a margine origina dall’addizione del suffisso dispregiativo acca (accia) con la parola zambra (che è dal francese chambre) in francese la voce chambre indicò dapprima una generica camera, poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza.
Rammenterò infine che le ultime due voci vajassa e zambracca nell’inteso comune del parlato napoletano accanto ai significati indicati stanno anche per donna sudicia e disordinata, dal comportamento volgare, quando non addirittura donnaccia, baldracca cfr. l’espressione Sî ‘na vajassa d’ ‘o rre de Franza che letteralmente sta per : Sei una serva del re di Francia. L a frase è un’offesa gravissima che si può rivolgere ad una donna e con essa frase non solo si intende dare della puttana alla donna, ma accusarla anche di essere affetta dalla sifilide o lue .
Tale malattia è stata nei corso dei secoli chiamata dai napoletani mal francese, morbo gallico o celtico; i napoletani sostenevano che detto morbo era stato importato in Napoli dai soldati al seguito di Carlo VIII. Per converso il morbo era detto dai francesi mal napoletano poiché affermavano che il morbo era stato diffuso tra i soldati francesi di Carlo VIII dalle prostitute partenopee.
Raffaele Bracale

MA TU VIDE ‘NU POCO QUANT’ È BBELLO PARIGGE!

MA TU VIDE ‘NU POCO QUANT’ È BBELLO PARIGGE!
Icastica locuzione esclamativa che, tradotta ad litteram, pur sonando:
Ma guarda un po’ quanto è bello Parigi! non sostanzia un’espressione ammirativa nei confronti della capitale di Francia; al contrario, sull’abbrivio dell’enfatico attacco (ma tu vide ‘nu poco = ma guarda un po’ ),prodromico di un moto di rabbia o fastidio, è da leggersi in senso quasi antifrastico: Ma guarda un po’ quale brutto guaio (mi doveva capitare)! L’espressione è usata a Napoli a dispiaciuto o rabbioso commento di tutti i guai o accadimenti importuni, se non grandemente lesivi, che dovessero occorrere; il guaio originario cui si riferisce l’espressione, guaio adombrato sotto il nome di Parigi, è la lue o sifilide(malattia infettiva a decorso cronico intermittente, trasmessa per via sessuale, provocata da una spirocheta che causa varie lesioni nell'organismo, in particolare, nell'ultima fase, a danno del sistema nervoso: sifilide acquisita, congenita); l’essere incappati in tale affezione è nascosto – nel parlato partenopeo - sotto il nome di Parigi (di cui in senso ironico ed antifrastico si esalta la bellezza!) o, altrove, con l’espressione andare o stare in Francia (rammenterò al proposito una divertente battuta dall’evidente doppio senso pronunciata da Totò/falso principe e rivolta all’attore Enzo Turco, che nella pellicola interpreta il personaggio di Paquale/falso marchese compagno di disavventure del falso principe, nella trasposizione cinematografica della commedia di E. Scarpetta Miseria e nobiltà:
“Di’ tu, fratello quante volte siamo stati in Francia!...”, volendo significare: “ Confessa tu, fratello quante volte abbiamo avuto ricadute con manifestazioni di lue o di blenorragia, quest’ultima è un’ altra affezione, malattia venerea contagiosa dovuta a infezione da gonococco, che si manifesta come vulvovaginite nella donna e uretrite nell'uomo; in napoletano, ma anche in altri linguaggi espressivi,tale affezione prende il nome di scólo e sebbene sia meno grave della precedente sifilide,viene ad essa equiparata come malattie di origini galliche; in effetti a Napoli si ritenne che i morbi (detti comunemente: mal francese o morbo gallico) fossero stati portati e propagati ( nel 1494 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti.Solo il Cielo conosce la verità!
bbello letteralmente: bello, ciò che è dotato di bellezza; che suscita ammirazione, piacere estetico, ma nell’accezione della locuzione in epigrafe da intendersi in senso antifrastico: brutto, spregevole, dannoso; quanto all’etimo la voce a margine è un derivato del lat. bellu(m) 'carino', in origine dim. di bonus 'buono';
lue = sifilide (fig. lett.) vizio, corruzione;dal lat. lue(m) 'imputridimento, decomposizione', prob. connesso con il gr. lyein 'sciogliere, dissolvere';
sifilide dal lat. scient. Syphilis -idis, deriv. di Syphilus, nome del protagonista del poemetto latino di G. Fracastoro "Syphilis, sive de morbo gallico" (1530)

Raffaele Bracale

STRELLAZZÈRA

STRELLAZZÈRA

Numerose son le aggettivazioni che la lingua toscana usa per indicare il tipo di donna che susciti ripugnanza o anche solo fastidio per i suoi atteggiamenti o comportamenti non consoni,ed a volta a volta in italiano tale donna è détta: becera, ciana,triviale, cafona, laida, zotica, urlona etc.
Esamino qui di seguito le singole espressioni:
Becera: persona, ma soprattutto donna dai modi volgari e/o triviali, chiassosa, maleducata ed insolente brutta e sciatta; voce probabilmente alterata di pècoro (dal lat. pecus), ma forse piú esattamente forgiata sul lat. vocilare atteso il comportamento chiassoso della becera.
Ciana: donna del popolo pettegola e sguaiata, donna vile e malcreata dell’infima plebe fiorentina; alcuni ritengon la voce forma alterata di cionna( che in italiano un tempo valse appunto donna vile e plebea; rammento, per incidens, che il napoletano à un’omogrofa ed omofona cionna/scionna che però con derivazione dal t. lat. flunda vale fionda ); la cionna dell’italiano, a sua volta è corruzione di cionca p.p. del verbo cioncare nel senso di bere smodatamente ubriacandosi con conseguenti atteggiamenti non consoni; altri riallacciano la voce ciana, ma non so con quanta esattezza, allo spagnolo chanela (pianella); reputo che molto piú verosimilmente la voce sia solo l’abbreviazione del nome Luciana da legare al nome della protagonista, plebea pettegola e ciarliera, del melodramma Madama Ciana
( appunto abbreviazione di Luciana) di un tal A. Valle (1738);
salto il termine cafona che già illustrai altrove e passo a
Laida: donna atta a suscitar ribrezzo e fastidio e piú estensivamente: oscena, sporca, turpe e ripugnante; voce etimologicamente derivante
dal provenz. ant. laid 'sgradevole', di orig. Francona;
Zotica: donna rozza e villana dai modi esuberantemente arruffoni; voce forse dal greco zo- tikòs: pieno di vita, ma piú probabilmente dal lat.:ex-oticus: forestiero e quindi ignaro dei giusti usi e costumi di un luogo.
Tutte queste voci, in napoletano vengon rese con un unico termine(un aggettivo, usato però quasi sempre in maniera sostantivata) che racchiude in sé tutte quante le varie accezioni esaminate; esso termine è Strellazzèra che è appunto la donna becera, ciana, zotica e villana quando non laida che fa dell’urlare e del proporsi chiassosamente la sua costante divisa; pacifica la sua etimologia in quanto deverbale di strillà/strellà a sua volta forgiato sul b. latino:stridulare (dal classico stridulus); partendo da strellà si è pervenuti a strellazzera con aggiunta al tema d’un doppio suffisso peggiorativo: azza + èra.
Talvolta la voce strellazzèra, in luogo d’essere usata quale aggettivo sostantivato, riprende la sua originaria funzione d’aggettivo in accompagnamento – per designare un po’ tutte le evenienze summenzionate – con il sostantivo vajassa che sta in origine ad indicare la fantesca, la serva ed estensivamente la donna di bassa condizione sociale e quindi vile e plebea, se non rozza, villana, dai modi ineducati; ed a maggior ragione quando la vajassa sia anche strellazzèra.
Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba baassa pervenutoci attraverso il francese bajasse: fantesca, donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana.
Per incidens rammenterò che dalle medesime voci arabo-francesi, il toscano à tratto il termine bagascia nel significato di meretrice, significato presente anche nel napoletano nell’espressione: essere ‘na vajassa d’’o rre ‘e Francia e cioè: esser fantesca del re di Francia, id est: meretrice contaminata dalla sifilide o lue o tabe, rammentando che tale affezione venerea fu detta dai napoletani mal francese (ritenendosi malattia trasmessa ai napoletani, attraverso le meretrici locali, dai soldati francesi di Carlo VIII (1470 - 1498), mentre per converso, in Francia fu malattia detta mal di Napoli).
sifilide s. f. (med.) malattia infettiva a decorso cronico intermittente, trasmessa per via sessuale; è provocata da una spirocheta che causa varie lesioni nell'organismo, in particolare, nell'ultima fase, a danno del sistema nervoso: sifilide acquisita, congenita.la voce a margine deriva dal lat. scient. Syphilis -idis, deriv. di Syphilus, nome del protagonista del poemetto latino di G. Fracastoro "Syphilis, sive de morbo gallico" (1530);
lue s. f.
1 (med.) sifilide
2 (fig. lett.) vizio, corruzione;
ed è voce derivata dal lat. lue(m) 'imputridimento, decomposizione', prob. connesso con il gr. ly/ein 'sciogliere, dissolvere'
ricorderò che talvolta la sifilide viene erroneamente confusa con un’affezione meno importante o pericolosa che è la gonorrea o blenorragia;
gonorrea s. f. (med.)(derivata dal greco gonórroia)
blenorragia s. f. (med.)(derivata dal francese blenoragie) malattia venerea contagiosa dovuta a infezione da gonococco, che si manifesta come vulvovaginite nella donna e uretrite nell'uomo; in napoletano, ma anche in altri linguaggi espressivi,tale affezione prende il nome di scólo (deverbale di scólare) s.m. = lenta perdita di un liquido, con riferimento alle tipiche lente, noiose manifestazioni di tipo effusivo soprattutto nell’uomo della malattia.
Raffaele Bracale

STRUMENTI MUSICALI POPOLARI NAPOLETANI

STRUMENTI MUSICALI POPOLARI NAPOLETANI


Qui di sèguito tenterò di elencare tutte le parole che identificano i principali strumenti musicali popolari partenopei.
Cominciamo:
castagnelle esse sono la versione povera e popolaresca delle piú nobili nacchere spagnole e consistono in due piccole, cave semisfere di legno intagliato ad hoc, ma un tempo anche di osso ugualmente lavorato; dette semisfere sono legate a coppia con una fettuccia che è inforcata dal dito medio e vengono azionate schiacciandole ritmicamente contro il palmo della mano, per modo che urtandosi fra di loro, producano un suono secco e schioppettante, atto ad accompagnare, quasi sempre, i passi delle danze popolari quali tarantella, saltarello ed altre consimili.
La parola nacchera che connota uno strumento molto simile alle castagnelle è di origine araba: nakâra propriamente scavato, incavato con riferimento appunto alla morfologia dello strumento, mentre il termine castagnelle o castagnette è dallo spagnolo castañetas (che in terra iberica indicano le nacchere) quasi castagna per la forma vagamente somigliante delle castagnelle, come delle nacchere, al frutto del castagno;
tammorra che è propriamente l’ampio tamburo corredato di vibranti piattelli metallici posti in delle fessure ricavate sul cerchio ligneo contentivo della pelle di animale (per solito ovino) che costituisce la superficie che viene colpita, per cavarne il suono, ritmicamente con le dita o con il palmo di una mano, mentre l’altra agita lo strumento per far vibrare di piú i piattelli;
versione ridotta e molto più maneggevole della tammorra è il tammurriello che (al contrario della tammorra sempre affidata ad un sonatore espressamente a ciò delegato e che non si occupa d’altro) può esser sonato dagli stessi ballerini mentre eseguono le danze summenzionate. La parola tammorra è dall’arabo: tambur attraverso un cambio di genere,(attesa la piú ampia forma dello strumento, forma intesa femminile), assimilazione progressiva della b alla m assimilazione che è tipica della parlata napoletana.
Va da sé che il tammurriello abbia il medesimo etimo di tammorra di cui è diminutivo con naturale cambio di genere dall’ampio femminile al piú contenuto maschile come càpita spessissimo nel napoletano dove un oggetto di nome maschile ne assume uno femminile se aumenta di dimensione (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e tino( piú piccolo) tavula (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione soltanto caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande) e tiana( piú piccolo).
scetavajasse tipicissimo strumento musicale popolare napoletano, che per il modo con cui è sonato fa pensare ad una sorta di violino, sebbene non abbia corde o cassa armonica di risonanza; esso è essenzialmente formato da due congrue aste lignee di cui una fornita di ampi denti ricavati per incisione lungo tutta la faccia superiore dell’asta corredata altresí di numerosi piattelli metallici infissi, ma non fissati e lasciati invece liberi di ondulare, con chiodini lungo le facce laterali della medesima asta; l’altra asta usata dal sonatore a mo’ di archetto viene fatta scorrere contro i denti della prima asta (tenuta poggiata ,quasi a mo’ di violino, contro la clavicola) per ottenerne uno stridente suono, facendo altresí vibrare ritmicamente i piattelli nel tipico onomatopeico nfrunfrú.
Lo strepitío di detto strumento gli à fatto ottenere il nome di scetavajasse che ad litteram suonerebbe: desta-fantesche.
Non mette conto illustrare l’origine del verbo scetà che troppo facilmente è riconducibile al latino excitare; piú interessante è dire di vajassa che è la serva, la fantesca;voce che proviene dall’arabo: baassa attraverso il francese bajasse da cui in toscano : bagascia= meretrice. Rammenterò ancóra che con termine vajassa il napoletano designa anche qualsiasi donna sciatta, scostumata, sporca, quando non laida ed addirittura affetta di contagiose malattie come è nell’espressione: Sî ‘na vajassa d’’o rre ‘e Franza che è letteralmente: Sei una serva del re di Francia. La frase è un’offesa gravissima che si può rivolgere ad una donna e con essa frase non solo si intende dare della puttana alla donna, ma accusarla anche di essere affetta dalla sifilide o lue .
Tale malattia è stata nei corso dei secoli chiamata dai napoletani mal francese, morbo gallico o celtico; i napoletani sostenevano infatti che detto morbo fosse stato importato in Napoli dai soldati al seguito di Carlo VIII(assedio di Napoli 1494). Per converso il morbo era detto dai francesi mal napolitano poiché affermavano che il morbo era stato diffuso tra i soldati francesi di Carlo VIII dalle prostitute partenopee.
A margine di questa voce voglio ricordare una parola che, di per sé non entrerebbe nella trattazione, come che estranea agli strumenti musicali; essa parola è bardascia che una vaga assonanza con bagascia potrebbe indurre i meno esperti della parlata napoletana a collegarla al termine vajassa; in realtà i due termini non ànno nulla da spartire fra di loro; abbiamo visto quale sia la portata di vajassa: serva, donna sciatta o addirittura puttana; la bardascia è invece null’altro che la ragazza e spesso la si poteva incontrare nel simpatico diminutivo – vezzeggiativo bardascella.
L’ etimologia di bardascia è originariamente dal persiano bardal attraverso l’ arabo: bardağ che è propriamente la prigioniera, la schiava giovane ed estensivamente la ragazza cosí come nell’ idioma napoletano.
Torniamo agli strumenti musicali; e troviamo il
triccabballacche: tipico strumento musicale popolare usato in quasi tutta l’Italia centro –meridionale e non solo dai piccoli concertini rionali popolari, ma anche da piú vaste formazioni addirittura di tipo bandistico, sia pure – in questo caso - surdimensionato; esso è costituito da un’ asta lignea fissa alla cui sommità insiste una testa a forma di parallelepipedo, contro di essa vengono ritimicamente spinte analoghe teste di due aste mobili incerneriate alla base di quella fissa; le teste per aumentare il clangore dello strumento sono provviste dei soliti piattelli metallici.
Per ciò che concerne l’etimologia propendo per un’origine onomatopeica (lo strumento è molto rumoroso…), poco convincendomi una derivazione per adattamento dal turco tümbelek; troppo tortuosa mi pare la strada semantica e quella morfologica da percorre per giungere a triccabballacche, partendo da un tümbelek che comunque è un tamburo di rame, molto piú simile ad un timpano (strumento musicale e casseruola di rame stagnato in cui si approntavano timballi o timpani di pasta farcita) che ad un triccabballacche.
E concludo con la famosissima
caccavella conosciuta anche con il nome onomatopeico di putipú. Tale strumento in origine era formato essenzialmente da una pentola di coccio, pentola non eccessivamente alta, ma di ampia imboccatura sulla quale era distesa una pelle d’ovino, pelle che debordando dalla bocca era fermata con stretti giri di spago, per modo che si opportunamente tendesse; al centro di detta pelle in un piccolo foro è infissa verticalmente un’assicella cilindrica (originariamente una sottile canna) che soffregata dall’alto in basso e viceversa con una pezzuola o una spugnetta bagnate permette di trasmettere le vibrazioni alla pelle che, è tesa sulla pentolina che fa da cassa di risonanza per modo che se ne ottenga il caratteristico suono ( put-pù,put-pù), vagamente somigliante a quello prodotto dal contrabbasso, suono che per via onomatopeica conduce al putipù che, come ò detto, è l’altro nome con cui è conosciuta la caccavella che come tale, quanto all’etimologia, è latina: caccabella(m)=pentolina, quale diminutivo di caccabus = grossa pentola da cui i napoletani trassero caccavo il pentolone della minestra e segnatamente quello usato dai monaci di taluni monasteri per distribuire la zuppa giornaliera ai poveri che la mendicassero; ò parlato di originaria pentola di coccio, giacché attualmente la caccavella, pur usurpando il nome antico, è costruita usando in luogo della pentolina di coccio, tristissime scatole cilindriche di latta e la pelle non è piú ovina, ma squallidamente sintetica di tal che è piú opportuno chiamare questo indegno strumento putipú lasciando l’originaria caccavella al degnissimo strumento d’antan!
Va da sé che tutti gli strumenti che ò esaminati fin qui, non sono bastevoli da soli ad accompagnare le esibizioni canore, musicali dei cosiddetti concertini popolari.
Altri e piú congrui strumenti vi devon concorrere; e tra essi rammenterò quelli elencati dal poeta Eduardo Nicolardi(Napoli 28/02/1878 - † ivi 26/02/1954) in una sua scintillante canzone (serenata a dispetto), musicata da Alberto Montagna (Napoli 27/0900/1871 - † ivi 14/02/1907) ed intitolata: Sciuldezza bella!
E gli strumenti rammentati sono:
-mandolino strumento notissimo il cui nome è il diminutivo di mandòla che è dal tardo latino pandura forgiata sull’omologo greco pandoýra generico strumento a corde simile al liuto.
- chitarra altro strumento notissimo, il cui nome è dal greco kithàra, attraverso il latino cíthara; normale il raddoppiamento espressivo della liquida r;
- ciaramella sorta di piffero, strumento a fiato ad ancia piccola e stretta usato come voce solista; il suo nome è con molta probabilità marcato sul greco kèras che è il corno, pur esso strumento a fiato di tal che piú acconciamente in luogo di ciaramella (come infatti talvolta avviene: (cfr. il L.E.I.2005 etc.)) si dovrebbe dire ceramella, sempre che non si voglia seguire per ciaramella l’idea che chiama in causa un antico francese chalemel che si ritiene proveniente da un pur percorribile latino: *calamella sorta di diminutivo di calamus che è canna, zufolo,flauto; personalmente trovo migliore la derivazione greca ché se fosse ipotizzabile l’originaria culla latina, non compredo a che scopo chiedere il tramite dell’antico francese.
- urganetto che è l’organetto ( versione povera del bandeon o bandoneon argentino, sorta di piccolissima fisarmonica a bottoni) il cui nome è dal greco: organon generico strumento anche musicale.
Nicolardi giustamente non à incluso nella sua elencazione il violino (il cui nome – per incidens – è il diminutivo di viola che è dal latino ví(t)ula, ví(d)ula→viúla→viòla da collegarsi al verbo vitulàri = ballare, rallegrarsi) in quanto strumento che pur usato dai cosiddetti posteggiatori (sonatori ambulanti) dei quali, prima o poi, vorrò parlare, non è strumento normalmente usato da musici di fortuna adusi a portar serenate soprattutto se a dispetto; tuttavia un tempo furon proprio il violino, il mandolino, la mandola, la chitarra, il basso e, precedentemente il calascione o colascione, gli strumenti fondamentali che accompagnavano l’esecuzione delle canzoni classiche partenopee!
Del violino, mandolino, mandola e chitarra ò già détto; non mi resta che accennare al
basso strumento a corde (quattro) di accompagnamento che produce suoni gravi e profondi; un tempo fu esclusivamente meccanico (contrabbasso suonato con l’archetto); modernamente ne esiste piú d’un modello elettrico (a quattro o cinque corde pizzicate con un plettro), ma la funzione di accompagnamento non è mutata; la voce è dal lat. bassu(m). A margine e completamento della voce basso accenno ora brevemente ad un antichissimo ( sec. XV – XVI) strumento a corda tiorba a taccone , strumento musicale d’accompagnamento, arciliuto producente suoni gravi, con doppio cavigliere, doppio manico con dieci corde di cui cinque risuonanti per simpatia, quasi antesignano del basso; l’uso di tale strumento esclusivamente d’accompagnamento, durò per un paio di secoli e già nel ‘700 non si usava piú; la voce tiorba à una derivazione dal turco torba (bisaccia), indicò dapprima un sacco da viaggio, ed in seguito un particolare colascione/calascione (uno strumento musicale in tutto simile ad un liuto a 10 corde (etimologicamente nel napoletano dallo spagnolo colachón che è dal greco: kalatos=paniere) strumento un po’ differente dal primitivo colascione che aveva solo due o tre corde; questo a dieci corde, detta tiorba fu suonato con l’ausilio di una grossa penna tonda di cuoio detta taccone e s’ebbe perciò la tiorba a taccone , strumento musicale d’accompagnamento,di cui dico, quasi antesignano del basso; rammenterò che la tiorba a taccone fu il titolo di una raccolta di sonetti e canzoni in dialetto napoletano che venne per la prima volta pubblicata, vivente l'autore Filippo Sgruttendio de Scafate (pseudonimo di un prolifico, ma non mai esattamente identificato poeta partenopeo, sui cui scrissero B.Croce, F. Russo ,F. Nicolini e molti altri) nel 1646.
Alla forma della cassa armonica della tiorba (panciuto paniere)fu paragonata altresí quella di una pancia prominente che divenne (per metatesi e raddoppiamento ) triobba e poi con il suffisso diminutivo latino (olus/ola) triòbbola, donde per corruzione della lingua parlata triòbbeca; sia triobba che triòbbola o triòbbeca furono usati per significare una pancia, segnatamente maschile eccessivamente gonfia o prominente.

calascione/colascione strumento a corde in numero variabile, sorta di liuto a manico lungo,con cassa armonica piccola e panciuta come un cestino, di uso popolare nei secc.XV, XVI e XVII, soprattutto nell'Italia meridionale; la voce attraverso lo spagnolo colachón è dal gr. kaláthion 'piccolo paniere'.
Solo per amor di precisione ricordo, come ò già détto che il calascione/colascione fu strumento in uso tra il ‘600 ed il ‘700 e fu ricavato per adattamento e trasformazione del liuto ant. leuto, s. m. che fu uno strumento musicale a numerose corde che, nella sua versione rinascimentale, era costituito da una cassa a fondo panciuto, manico corto e cavigliere rivoltato ad angolo e si suonava a pizzico;l’etimo della voce a margine è dal fr. ant. leut, che è dall'ar. al- 'ud 'il legno', poi 'il liuto'
E qui penso di poter far punto fermo. Satis est.
Raffaele Bracale

giovedì 29 ottobre 2009

FÀ ‘O RRE CUMMANN’ A SCOPPOLE

FÀ ‘O RRE CUMMANN’ A SCOPPOLE
Locuzione che tradotta quasi ad litteram, suona: Comportarsi (come un) re che comanda(assestando) scappellotti con la quale si suole a Napoli porre alla berlina l’atteggiamento supponente di chi non avendo né il carisma, nè l’autorità fisica e/o morale pretende di impancarsi a re e duce delle umane vicende, ma è destinato miseramente a fallire, atteso che le sue qualità al massimo lo potrebbero far considerare un re dei bambini ai quali però, per farsi ubbidire, dovrebbe assestare qualche scappellotto; atteggiamento tipico tenuto da uomini affetti da gravi complessi d'inferiorità, o - peggio ancora - grandemente frustrati; uomini che non valendo una cicca e non essendo, nell'ambito della loro famiglia, tenuti in alcun conto, sfogano la loro repressione e frustrazione vessando in qualche modo, o tentando di vessare le persone con le quali, per il loro ufficio vengono a contatto, ben sapendo però che non riusciranno nè a farsi ubbidire, nè addirittura ad esser presi in considerazione e saranno reputati alla stregua del re riportato in epigrafe. Tale prevaricante, supponente atteggiamento è riferito alibi anche a chi viene detto spallettone che è il saccente, supponente parolaio ciuco e presuntuoso che fa, in ogni occasione, le viste di esser titolare di scienza e/o cultura in realtà totalmente mancanti.
Re/rre s. m.
1 capo di uno stato retto a monarchia; monarca, sovrano ‘o Rre d’’e ciele (' il Re dei cieli,) Dio ' il re del mare, dei venti, nella mitologia classica, rispettivamente Poseidone ed Eolo ' felice come un re, molto felice ' vita da re, molto agiata, comoda | prov. : in casa sua ciascuno è re
2 (estens.) persona che à una posizione preminente, che eccelle in qualche attività (anche iron.): il re dell'acciaio, del petrolio; il re dei cuochi; era il re della festa; essere ‘o rre d’’e ‘mbrugliune( essere il re degli imbroglioni)
3 animale o cosa che primeggia sugli altri animali o sulle altre cose: il leone è il re della foresta; il re dei vini
4 nel gioco degli scacchi, il pezzo principale dello schieramento: re bianco, nero; dare scacco al re | nel gioco delle carte, la figura che rappresenta un re e costituisce nella successione numerica l'ultima carta (la decima o la tredicesima): re di bastoni, di coppe; re di cuori, di quadri
5 seguito da specificazione, forma la denominazione comune di alcune specie animali: re delle aringhe, pesce marino di profondità, dal corpo molto allungato di colore grigio-argenteo, con pinne rosse e appendici filiformi (ord. Lampridiformi); re di quaglie, uccello con piumaggio simile a quello della quaglia (ord. Ralliformi); re di triglie, pesce teleosteo diffuso nel Mediterraneo (ord. Perciformi); re di macchia, scricciolo.
Etimologicamente la voce è da un nom. lat. re(x) corradicale di regere 'reggere, governare' e questa derivazione in cui la caduta della ics non à lasciato alcun residuo di segno diacritico (come invece vorrebbero taluni linguisti per le consonanti doppie ( x= cs),linguisti con i quali sono in disaccordo quando affermo che il napoletano mo = ora, adesso, che va correttamente scritto senza alcun segno diacritico, deriva dal latino mo(x) e non da mo(do)→mo’; in questa scelta l’unico ad esser d’accordo con me è l’amico napoletanista avv.to Renato de Falco!
cumanna =comanda voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito cumannà= comandare derivato dal lat. volg. *commandare (lat. class. commendare), comp. di cum 'con' e mandare 'affidare, raccomandare', tipica l’assimilazione progress. nd→nn;
scoppole plur. di scoppola = scappellotto (tale da (vedi la s detrattiva d’avvio anteposta alla voce coppola= berretto ) far saltar via il cappello(scappellotto) o il berretto(scoppola); scappellotto dato con la mano aperta sulla nuca; piú in generale, colpo, botta | (fig.) grave perdita o danno, spec. di natura economica; la voce coppola indica un berretto basso con visiera, usato spec. in Sicilia e nelle regioni meridionali, berretto per solito portato ben calzato sulla nuca (e tirato sugli occhi con la visiera) (coppa dal lat. cuppa(m) con un suff. diminutivo olus/ola) . RaffaeleBracale

'O RAMMARO

‘O RAMMARO
Eccoci innanzi ad un’altra antica parola partenopea che fu in uso sino a circa cinquant’anni orsono e poi sparí dal lessico e dal parlato popolare insieme alla sparizione dell’attività commerciale che svolgeva ‘o rammaro voce che esattamente in origine tradusse l’italiano ramaio e cioè l’artigiano che fa e vende oggetti di rame; calderaio; etimologicamente la voce rammaro è un derivato del lat. (ae)rame(n) con raddoppiamento espressivo della labiale m piú il suff. di pertinenza arius (in napoletano aro, in italiano aio. Da tutto ciò si evince che in origine ‘o rammaro era colui che lavorava, produceva e vendeva al minuto ed a domicilio utensili di rame (pentole, padelle, vasellame etc.) per i bisogni quotidiani; ed era tale medesimo artiere, quando facesse anche le funzioni dello stagnino, che con cadenza settimanale al grido: Stagnàteve ‘a ramma! (Fate ricoprir di stagno gli utensili di rame!) si recava presso i suoi clienti per coprire con un sottile strato di stagno (elemento atossico) (per rendere nuovamente utilizzabili le pentole, le padelle,il vasellame etc. di rame), le parti che andavano a contatto con il cibo che sarebbe potuto diventare tossico stando a diretto contatto con il rame; in effetti il quotidiano uso delle stoviglie di rame procurava la consunzione o logoramento dell’originario strato di stagno ed occorreva ricostituirlo ed a ciò provvedeva o il medesimo rammaro (nella speranza che, se le stoviglie fossero troppo rovinate, ne potesse vender di nuove) o un altro artiere detto stagnaro = stagnaio; il nome napoletano fu poi assegnato estensivamente all’idraulico per la frequentazioni di quest’ultimo con lo stagno usato per saldare i tubi di piombo; da notare che anche in un corretto italiano, mutuandolo dal napoletano stagnaro, la voce stagnaio è usata per indicar l’idraulico.
In prosieguo di tempo, quando poi l’alluminio entrò prepotentemente, soppiantando il rame, nella formazione degli utensili da cucina, ecco che ‘o rammaro perdette quella sua esigua fonte settimanale di guadagno (le stoviglie di rame non si vendevano piú, né era necessario stagnare l’alluminio, atossico di suo) e per non perdere la clientela che aveva acquisito vendendo e stagnando rame, egli fu costretto ad operare una sorta di riconversione commerciale; continuò a girar di casa in casa, ma invece del rame, prese a vendere capi di biancheria personali e/o per la casa (corredi matrimoniali etc.) ed operò détta vendita non pronti contanti, ma con contenute rate settimanali o talvolta mensili e con l’avvenuta riconversione commerciale mutò anche il nome; non fu piú ‘o rammaro ma divenne ‘o rammariello anche quando, per l’età, non fosse cosí tanto giovane da giustificare il diminutivo rammariello usato quasi ad indicare la giovane nuova attività del vecchio rammaro.
A completamento di tutto quanto detto rammento un’espressione che un tempo settimanalmente si poteva udire con diversa intonazione: o di sollecitudine o di… cruccio nelle case partenopee, specialmente sulla bocca della padrona di casa: Ogge à dda passà ‘o rammaro!... (letteralmente: Oggi passerà il ramaio) ; spieghiamo la duplice valenza: A(nel caso che si usassero ancóra stoviglie di rame) Prepariamo le stoviglie da far stagnare ché oggi passa il ramaio.. B (nel caso che il rammaro fosse diventato rammariello) Ohibò, oggi è giornata di esborso delle rate!
Oggi che il rame non si usa piú soppiantato da alluminio, teflon, plastica ed altre schifezze consimili, è normale che la voce in epigrafe sia sparita, come è altresí sparito il diminutivo rammariello atteso che nessuna padrona di casa acquista piú biancheria personale e/o di casa a rate e men che meno il corredo da sposa per le proprie figlie che se anche optano per il matrimonio e non la convivenza, non si curano né di coperte, né di lenzuola ricamate, né d’altra biancheria di casa ed a nessuna ragazza d’oggi interessa piú di ricevere (per tramandarla ad una futura figlia)la cassa del corredo da sposa che dapprima fu della bisnonna, poi di sua nonna ed infine di sua madre e avimmo cassato n’atu rigo ‘a sott’ ô sunetto (abbiamo ulteriormente accorciato il sonetto!).
raffaele bracale

IL CARCIOFO

IL CARCIOFO


Con il termine carciofo si identifica un tipico ortaggio coltivato in campo aperto, anzi per esser piú precisi si indica una particolare pianta erbacea anzi una pianta spinosa simile al cardo, da cui sarebbe derivata per mutazione, pianta di cui si mangiano i capolini e le grandi brattee carnose da cui essi sono avvolti (fam. Composite);
Fu pianta già nota a Romani e Greci, che la apprezzavano molto sia come alimento gustoso che come pianta medicinale; il carciofo tuttavia entrò permanentemente nella cucina italiana non prima del secolo XI per merito degli arabi che lo diffusero dapprima nelle cucine regionali del meridione d’Italia; successivamente tra il XII ed il XV secolo il carciofo si diffuse in tutta la penisola quantunque per gran tempo non fosse distinto dal cardo col quale spesso venne confuso; anche il nome di carciofo lo si deve agli arabi che chiamavano questa pianta kharshuf donde l’italiano carciofo nome che soppiantò decisamente il termine Cinara cardunculo scolimo adattamento del lat. Cynara cardunculus scolymus nome scientifico usato dagli addetti ai lavori (coltivatori ed erboristi); dal sostantivo m.le carciofo i napoletani trassero una sorta di diminutivo femminile : carcioffola nome con cui in Campania è chiamato il carciofo che à - come ò detto- un'infiorescenza a capolino, per lo piú di colore verde tendente al grigio cenere; ci sono anche delle varietà tendenti al violetto. Le brattee, cioè le squame compatte che formano il capolino, possono avere spine oppure no. È proprio ciò che distingue i diversi tipi di carciofo.Essi variano altresí a seconda della dimensione tenuto presente che, mantenendo inalterato il gusto, ogni pianta produce un solo grosso fiore centrale e molti altri, piú piccoli, dai cosiddetti braccioli laterali.
Oggi le varietà spinose piú conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, quelli di Venezia e di Sardegna ed i violetti di Chioggia. UlteriorI varietà di carciofo spinoso sono il violaceo di Toscana, ed il carciofo spinoso campano che è verde-violaceo. Tra i non spinosi, invece, troviamo il cosiddetto romanesco, comunemente conosciuto come mammola (con derivazione dal Lat. mammula(m), dim. di mamma 'mammella'; propr. 'piccola mammella', poi anche 'bambina' e 'piccolo fiore', quello di Catania, di Palermo e della Campania dove prende il nome di mammarella diminutivo della pregressa mammola attraverso un doppio suffisso r+ella.
Si tratta di un alimento dal sapore spiccato,molto gustoso, versatile in quanto si presta a molte preparazioni culinarie; à ottime proprietà salutari: i carciofi sono infatti considerati i protettori del fegato; in effetti grazie ad una particolare sostanza (la cinarina) contenuta nelle brattee , nello stelo e nell'infiorescenza, il carciofo svolge un'azione benefica sulla secrezione biliare, sulla funzionalità epatica, favorendo altresí la diuresi renale e regolarizzando le funzioni intestinali. I carciofi stimolano pure il flusso di bile; già studi del passato condotti sia su animali che su esseri umani, dimostrarono che i carciofi abbassano i livelli ematici di colesterolo e di trigliceridi, quantunque in realtà i principi attivi siano contenuti nelle brattee che solitamente non vengono mangiate, se non in parte. Sono molto ricchi di fibre e di minerali, mentre è relativamente basso il contenuto di sodio e di vitamine, se si eccettua la presenza di un po' di vitamina A e vitamina C. Possono essere mangiati da tutti ed a tutte le età perché alimento facilmente digeribile ed essendo molto ricco di fibra solubile aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso; il carciofo è infine altresí ricco di inulina, un polisaccaride che l'organismo metabolizza in modo diverso dagli altri zuccheri. In realtà l'inulina non viene utilizzata dall'organismo per la produzione di energia. Questo fatto rende i carciofi molto salutari per i diabetici, perché l'inulina migliora efficacemente il controllo dello zucchero ematico nei diabetici.
A margine rammento che con il termine carciofo con linguaggio furbesco si indica una persona sciocca, incapace; tuttavia sono sconosciute le ragioni di questo strano collegamento semantico tra un ottimo, gustoso alimento quale è il carciofo ed una persona sciocca o incapace.
Quanto all’etimo la voce carcioffola è una forma diminutiva (cfr. il suff. ola ← olus/ola) di carciofo che risale all’arabo kharshuf.

In coda a tale ampia premessa indico alcune gustose ricette che vedono protagonista il carciofo.
1 - CARCIOFI DORATI E FRITTI E/O PARMIGIANA DI CARCIOFI


Le due ricette che qui di sèguito illustro sono due dei piú gustosi modi napoletani di preparare i carciofi da servire come antipasto o come contorno;delle due la prima è quella base, mentre la seconda è un ampliamento piú goloso della prima.
1° CARCIOFI DORATI E FRITTI

Ingredienti e dosi per 6 persone:
12 carciofi verde-violetto napoletani,

6 uova,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
farina q.s.,
abbondante olio per friggere (semi varii,arachidi,girasole, mais),
sale fino e pepe bianco q.s..

procedimento

Togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine troncare i carciofi dell’eccesso di gambi,dividerle i carciofi in due lungo l’asse maggiore eliminando con uno scavino o un coltellino affilatissimo la barba; indi affettare i carciofi longitudinalmente in fettine dello spessore di ½ cm. rsciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente e scolarli bene; a questo punto sbattere in una ciotola tutte le uova con il pecorino, sale e pepe e trito di prezzemolo; in un tegame a bordi alti mandare a temperatura a fiamma viva abbondante olio per friggere e nel frattempo infarinare abbondantemente le fettine di carciofi, intingerle nelle uove e friggerle poche per volta prelevandole con una schiumarola appena saranno ben dorate ed adagiandole su carta assorbente da cucina a perdere l’eccesso d’unto. Aggiustare di sale e servire, quale contorno o parte d’antipasto questi carciofi caldi di fornello.
2° PARMIGIANA DI CARCIOFI
Questa seconda ricetta altro non è che un goloso ampliamento dlla prima, per cui oltre gli ingredienti della prima occorreranno anche i seguenti:
½ litro di passata (fresca o in bottiglia) di pomidoro,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 cipolla dorata mondata ed affettata sottilmente,
sale fino e pepe nero q.s.,
alcune foglie di basilico,
3 etti di provola affumicata affettata sottilmente (1/2 cm. di spessore) e tenuta in frigo per 12 ore,
1 etto di pecorino grattugiato.
Procedimento
Una volta dorati e fritti i carciofi cosí come indicato nella prima ricetta, tenerli da parte in caldo; nel frattempo in un tegame a bordi alti approntare a fiamma moderata con l’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,la cipolla mondata ed affettata sottilmente, sale fino e pepe nero uno spesso sugo di pomidoro in circa 15 minuti; al termine prelevare con un mestolino quasi tutto il sugo, lasciandone poco meno di un centimetro sul fondo del tegame, su questo letto di salsa adagiare uno strato di carciofi dorati e fritti, sullo strato di carciofi sistemare delle fettine di provola, del formaggio, del basilico ed altro sugo e continuare con un altro strato fino ad esaurimento degli ingredienti: lo strato superiore dovrà risultare di carciofi e salsa; incoperchiare e passare il tegame a mezza fiamma di fornello, per circa 10 minuti prima di impiatare e servire questa parmigiana come contorno o sostanziosa pietanza.
3 - CARCIOFI IMBOTTITI


La ricetta che qui di sèguito illustro è il modo napoletano di preparare i carciofi imbottiti da servire come antipasto o come contorno; questa ricetta si differenzia dall’omonima ricette siciliana per il fatto che la ricetta napoletana, piú ricca, prevede oltre all’utilizzo delle uova,anche l’uso del provolone piccante e del salame al posto del formaggio svizzero e del prosciutto cotto e per il fatto che la cottura avviene completamente in tegame a fuoco di fornello, senza gratinatura in forno.
Ingredienti e dosi per 6 persone:
12 carciofi verde-violetto napoletani,
250 g di provolone piccante in dadini da ½ cm. di spigolo,
250 g di salame napoletano in dadini da ½ cm. di spigolo,
6 uova,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente assieme ad uno spicchio d'aglio mondato,
1 secondo spicchio d’aglio mondato e tritato
6 cucchiai di pane grattugiato bruscato in padella,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 bicchiere di olio di oliva e.v.,
sale doppio e pepe bianco q.s..

procedimento

Togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine troncare a filo della base dei carciofi i gambi,dividerli in due lungo l’asse minore ed affinarli per modo che possano facilmente entrare nella cavità che si ricaverà al centro d’ogni carciofo, allargando le foglie centrali ed eliminando l’eccesso di barba; rlsciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente e scolarli bene; inserire nella cavità cosí ottenuta un pezzetto di gambo, un po’ di trito di aglio e prezzemolo.

Mettete sul fuoco un gran tegame dove tutti i carciofi possano essere accomodati l’uno accanto all’altro poggiati sulla loro base; versare il bicchiere d’olio ed aggiungere un trito d’aglio. Quando l'olio è ben caldo ed il trito d’aglio dorato, mettere nel tegame i carciofi sistemandoli nel modo detto e farli rosolare per circa 10 minuti, poi aggiungere due bicchieri di acqua bollente ed una spruzzata di vino bianco.
Salare con sale doppio, pepare e cuocere per circa 15 minuti ancóra a fuoco dolce.
Quando i carciofi saranno quasi cotti, toglierli dal tegame e lasciarli raffreddare un poco
Aprirli quindi a fiore mettendo al centro di ogni carciofo un dado o due di provolone ed alcuni di salame, rimetterli nel i tegame tenendoli poi a fuoco dolce e
cospargere ogni carciofo con un velo di pane grattugiato bruscato in padella ;infine sbattere le uova con il pecorino, sale e pepe e versare il composto a cucchiaiate sui singoli carciofi; incoperchiare il tegame e portare a cottura per gli ultimi 15 minuti sempre a fuoco dolce.
4 - CARCIOFI INFORNATI
Ingredienti e dosi per 6 persone:
12 carciofi spinosi giovani, verde-violetto napoletani,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
1 tazzina d’aceto bianco
un rametto di piperna, lavato asciugato e tritato finissimo,
sale fino alle erbette e pepe decorticato q.s.

Procedimento
Iniziare aggiungendo all’olio gli spicchi d’aglio tritati, il trito di piperna e tenerveli a temperatura ambiente per circa 1 ora;in alternativa riscaldare per 10 minuti l’olio aromatizzato con aglio e piperna a non piú di 70°; nel frattempo
togliere ai carciofi le foglie esterne piú dure e troncare via la parte superiore spinosa. mondare il calice ed il gambo della parte esterna, infine dividerli in due lungo l’asse maggiore, privarli con uno scavino o un affilatissimo coltellino del fieno ed affettarli con taglio longitudinale in fettine di ½ cm. di spessore; rIsciacquare le fettine di carciofi sotto l'acqua corrente e scolarle bene. Mandare a temperatura il forno (220°); sistemare sulla placca del forno unta abbondantemente con metà circa dell’olio aromatizzato le fettine di carciofi una accanto all’altra, cospargere con l’olio residuo i carciofi ed infornare per circa 45 minuti. Alla fine disporre i carciofi in un piatto caldo, salare con sale fino, pepare e bagnare con l’aceto rimestando delicatamente. Servire caldi di forno questi gustosissimi carciofi, come antipasto o contorno.
5 - CARPACCIO DI CARCIOFI E SPECK
Ottimo piatto adatto per le afose giornate della primavera inoltrata o l’estate partenopea!, ma anche nelle prime giornate autunnali.



Ingredienti e dosi per 6 persone
• 8 carciofi spinosi verde-violetto napoletani,
• 4 mazzetti di insalata rucola,
• 3 cespi di insalata belga (indivia).
• 150 g di speck a fettine non troppo sottili (circa 2 mm di spessore),
• 1 limone non trattato,
• 50 g di ricotta di pecora stagionata ed infornata,
• in alternativa 100 g. di caciocavallo piccante tagliato a scaglie,
• 12 cucchiai di olio d’oliva e.v. p. s. a f.
• 3 cucchiai di aceto bianco,
• Sale doppio alle erbette e pepe bianco q.s.
• Preparazione
Mondate i carciofi, divideteli longitudinalmente a metà, eliminate il fieno e lavateli in acqua e succo di limone.
Lavate bene la rucola e l'insalata belga, quindi sgocciolate i carciofi e tagliateli longitudinalmente a fettine molto sottili.
Sui piatti individuali o su un piatto da portata, disponete le foglie di belga alternandole alle fettine di speck, poi unite la rucola e i carciofi.
In una ciotola versate l'olio, l'aceto, il sale e il pepe.
Emulsionate bene poi versate la salsa sui carciofi.
Cospargete con la ricotta sbriciolata o il caciocavallo a scaglie e servite dopo d’aver fatto transitare il carpaccio per un’ora nel frigo.
6 - PASTA CON I CARCIOFI
Ingredienti per 6 persone:
600 gr di pasta corta tipo mezze maniche -
1 bicchiere di olio d’oliva e.v. p.s. a f. –
1 etto di pancetta tesa tagliata a cubetti –
½ bicchiere di vino bianco secco
6 giovani, teneri carciofi spinosi verde violetto napoletani –
1 ciuffo di menta fresca tritato finemente,
1 cipolla dorata media affettata grossolanamente,
½ bicchiere di vino bianco secco,
½ bicchiere di panna vegetale da cucina,
½ etto di pecorino grattugiato
sale fino alle erbe e pepe bianco q.s.
sale doppio alle erbe- un pugno.
Preparazione
Pulire dalle brattee piú dure e tagliare verticalmente a fettine sottili (1/2 cm.) i carciofi, avendo cura di togliere la "barba" interna.
Versare l'olio in un’ampia padella e fare appassire la cipolla con la pancetta a cubetti, poi aggiungere i carciofi, la menta, sale e pepe; sfumare con del vino bianco.
Fare andare a mezza fiamma fino a cottura incoperchiando e, se necessario, aggiungendo un po' d'acqua calda.Regolare di sale fino.
Lessare le mezze maniche in abbondante (circa 8 litri) acqua salata (un pugno di sale doppio alle erbe).
Dopo aver scolato la pasta farla saltare a fuoco vivo in padella per alcuni minuti con il condimento, aggiungendo infine la panna; rimestare accuratamente ed impiattare cospargendo generosamente le porzioni di pecorino grattugiato ed ancora un po' di pepe.

6 - CARCIOFI “BACIO E METTO QUI”
Il protagonista di questa ricetta è il carciofo mammola (a Napoli mammarella); questo tipo di preparazione è una delle portate tradizionali del pranzo pasquale napoletano,ma va da sé che può esser approntato durante tutto il periodo primaverile. Veniamo alla ricetta precisando che il numero di carciofi da servire pro capite è variabile: dipende dalla grandezza delle mammole o mammarelle; se abbastanza grosse ci si può contentare di un solo carciofo a tesa, se piccoli, ne occorrono almeno due!
Ingredienti e dosi per 6 persone
Da 6 a 12 mammole o mammarelle senza spine,
3 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
sale doppio un pugno,
un gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente assieme ad un ciuffo di menta,
2 bicchieri di olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
sale fino e pepe decorticato q.s.


procedimento
Togliere ai carciofi le estreme foglie esterne piú dure e mondare il gambo (accorciato a non piú di sei centimetri)della parte esterna, infine troncare i gambi a filo della base dei carciofi,dividere i gambi in due lungo l’asse minore ed affinarli per modo che possano facilmente entrare nella cavità che si ricaverà al centro d’ogni carciofo, allargando le brattee centrali; risciacquare i carciofi sotto l'acqua corrente ed inserire, per pressione dall’alto, nella cavità ricavata al centro dei carciofi un pezzetto di gambo, un po’ di trito d’ aglio, prezzemolo e menta; premere decisamente con l’indice affinché il trito penetri a fondo. Munirsi di una o due pentole con ampio fondo circolare e pareti non molto alte; sistemare i carciofi uno accanto all’altro riempiendo tutto il fondo della pentola, coprire a filo con acqua fredda aggiungere il sale doppio, incoperchiare e porre fuoco moderato per circa quaranta minuti fino a che i carciofi risultino lessati ed inteneriti; per accertarsi della cosa, staccare da un carciofo una delle brattee inferiori e controllare se la polpa del margine inferiore della brattea staccata sia convenientemente morbida tanto da poter essere facilmente portata via strappandola per scorrimento addentandola tra gli incisivi superiori e quelli inferiori.In caso positivo significa che i carciofi sono lessati al punto giusto e si possono servire in tavola; si porzionano quando sono ancóra caldi e ad ogni commensale viene fornito in accompagnamento del o dei carciofo/i, un piattino in cui ci sarà del pinzimonio preparato precedentemente sbattendo a fondo olio, sale fino alle erbette e pepe; il commensale staccherà volta a volta le singole brattee, ne intingerà il margine polputo nel pinzimonio e deglutirà la polpa strappata via per scorrimento addentata tra gli incisivi; giunto al cuore del carciofo il commensale eleminerà la barba,frazionerà calice e gambuccio e li intriderà nel pinzimonio residuo prima di mangiarli.
Poiché di questo carciofo si mangia solo una piccolissima zona delle brattee, mia madre diede alla delicata operazione che ò descritto precedentemente il nome di bacio ed il metto qui seguente si riferisce al fatto che una volta prelevata la minuscola parte di polpa la brattea viene posta via ed accantonata per essere poi buttata!
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo, quantunque rammento che i carciofi ànno – ma ignoro il perché – la capacità di rendere dolce, anzi dolcissima l’acqua che uno dovesse assumere dopo averli mangiati.

Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazzie!

raffaele bracale

ALTERIGIA SUPERBIA, ARROGANZA ETC.

ALTERIGIA SUPERBIA, ARROGANZA, BORIA, TRACOTANZA, PROSOPOPEA, SPOCCHIA & affini

Sollecitato dalla richiesta dell’amico G.V.(questioni di privatezza m’impongono le sole iniziali) che segue ciò che scrivo passim, qui di sèguito prendo in esame le voci che si riferiscono al disdicevole comportamento di tutti coloro che nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serî motivi o ragioni su cui poggiarlo. Tutto ciò è reso in italiano – volta a volta con uno dei seguenti s.vi astratti o dai corrispondenti aggettivi. Abbiamo dunque
- alterígia s. f. a. sprezzante ostentazione di superiorità voce derivata dall’agg.vo altero che è da alto (lat. altus) ;
- altezzosità/ alterezza s.f.a. il comportamento di chi o che à o rivela un'alta opinione di sé; superbia e per ampiamento, fierezza, orgoglio; anche queste due voci sono derivate dall’agg.vo alto (lat. altus);
- albagía s.f. a. boria, presunzione,arroganza che derivano da una considerazione troppo alta di sé; non tranquilla l’etimologia: qualcuno si trincera (procurandomi attacchi d’orticaria…) dietro un etimo incerto o sconosciuto o oscuro (inopinatamente cosí anche il D.E.I.), qualche altro postula una derivazione da alba, attraverso un fantasioso significato di «vento dell’alba»;c’è infine chi propone non disdicevolmente, una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
- arroganza s.f. a. atteggiamento borioso, superbo, supponente, spocchioso, tronfio,proprio di chi è saccente, vanaglorioso, vanitoso. Voce dal lat. arrogantia(m);
bòria s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; altezzosità; l’etimo è forse, ma fantasiosamente, dal lat. borea(m) 'vento di tramontana', da cui 'aria (d'importanza)', ma un’altra scuola di pensiero pensa, probabilmente piú giustamente, ad un forma aggettivale (vapòrea) da un iniziale vapor=vapore;benché sia difficile decidere a quale idea aderire.., molto mi stuzzica l’idea del vapore secondo il percorso vapòrea→(va)pòrea→pòria→bòria;
supèrbia s. f. astratto = atteggiamento di superiorità, di ostentazione della propria posizione o dei propri meriti veri o piú spesso presunti, ma millantati; eccessiva stima di sé accompagnata da ambizione smodata e da disprezzo verso gli altri; voce che è dal lat. superbia(m), deriv. di superbus 'superbo'.
Tutte le voci dell’italiano esaminate si possono riferire indifferentemente sia a soggetti maschili che a soggetti femminili,poi che la lingua italiana non è attenta a sottigliezze distintive. Cosa molto diversa avviene con l’idioma napoletano che volta a volta à voci diverse per indicare il comportamento di uomini o donne che nei rapporti interpersonali si mostrino scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa; trattandosi di uomini le voci che piú si confanno sono in ordine crescente
arbascía, ària, auterézza, presumènzia,‘nfamità,sfarzètto
vàvia; esaminiamole singolarmente:
arbascía s.f. a. = albagía, vanità, vanagloria, atteggiamento (tipico dell’uomo) di superbia, di boria, di presunzione tenuto soprattutto nell’incedere o nel proporsi; la voce come l’ italiana albagia di cui appare adattamento attraverso la rotacizzazione della liquida e la palatizazione della sillaba gía→scía, quanto all’etimo risulta una derivazione da albàgio (dal lat. albasius) sorta di panno elegante di colore bianco usato nella confezione di abiti destinati alle persone di alto rango.
ària, s.f. a. = aspetto, atteggiamento vanitosi (soprattutto degli uomini) ; apparenza, espressione di sussiego, contegno grave e sostenuto, da cui traspare una spudorata altezzosità; voce derivata dal lat. aëra, accus. alla greca di aer aëris masch., gr. ἀήρ.
auterézza, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è autanza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superbo, altezzoso;voce costruita su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al a au come in auto che è da altus.
presumènzia, s.f. a. = aspetto presuntuoso, atteggiamento (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è ‘mpettatura) di chi à o rivela un'alta opinione di sé;di chi inceda con andamento superbo ed altezzoso e si esprima presumendo troppo di sé, come chi creda di poter fare cose superiori alle proprie capacità;voce costruita su un lat. volg. tardo *praesumentia(m), deriv. di praesumíre 'presumere'
‘nfamità, , s.f. a. = aspetto, atteggiamento gradasso e sussiegoso (tipicamente maschile; non esiste un corrispondente al femminile) si tratta comunque di un significato traslato in quanto il significato primo della voce a margine è infamia, cattiveria, azione malvagia ; il passaggio semantico è dovuto al fatto che tale infamia, cattiveria o azione malvagia son tenute in genere appunto da chi agisce da gradasso; voce costruita quale denominale su (i)nfame dal lat. infame(m), comp. di in - e un deriv. di fama 'fama, buon nome'; propr. 'che à cattiva reputazione'
sfarzètto, s.f. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto maschile: il corrispondente al femminile è fummo) voce derivata quale diminutivo (cfr. il suff. etto) dal s.vo sfarzo 'vanto infondato', deriv. di sfarzare 'simulare, ostentare', dallo sp. disfazar 'fingere, mascherare'
vàvia s. f. astratto = boria, presunzione, alterigia, superbia, arroganza, tracotanza, prosopopea, spocchia; sufficienza, sussiego; la voce a margine (di pertinenza quasi esclusivamente maschile, ma talvolta anche femminile) è un derivato di vava (bava)= liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o di persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica come càpita in chi viva uno stato continuo di superbia tracotante; etimologicamente la voce a margine si è formata partendo da *baba, voce onom. del linguaggio infantile voce che in napoletano, con consueta alternanza b/v (cfr. bocca→vocca – barca →varca etc.), diventa vava ed aggiungendovi il suffisso latino atono delle voci astratte ia si ottiene vàvia; si fosse adottato il suff. greco tonico si sarebbe ottenuto vavía.

Esaminate le voci di esclusiva (o quasi) pertinenza del maschile, passiamo a quelle usate in riferimento alle donne che si mostrino scostanti, antipatiche, scorbutiche, scontrose, intrattabili o si relazionino con il prossimo da una posizione boriosa; per le donne si useranno volta a volta i sostantivi seguenti: autanza,fummo,’mpettatura, scemanfú.

autanza , s.f. a. = aspetto, atteggiamento (soprattutto femminile: il corrispondente al maschile è autérezza) di chi à o rivela un'alta opinione di sé; superba, vacuamente altezzosa;voce costruita marcandola su un lat. volg. *alteritia con il consueto passaggio di al ad au come in auto che è da altus e con cambio di suffisso usando cioè antia→anza dei sostantivi astratti(cfr. ignor-anza, iatt-anza, fall-anza etc.)in luogo di itia→ezza;

fummo s.m. a. = iattanza,alterigia, aspetto, atteggiamento sussiegoso, (soprattutto femminile con il corrispondente al maschile in sfarzetto) di chi à o rivela un'alta opinione di sé, opinione che in realtà poggia sul nulla; la voce a margine in primis indica il residuo gassoso della combustione, che trascina in sospensione particelle solide (ceneri, fuliggine ecc.) assumendo forma di nuvola bianca o grigiastra: il fumo di un incendio, di una ciminiera, di un camino | segnali di fumo, quelli ottenuti soffocando parzialmente e a intermittenza un fuoco | far fumo, emanarlo | prendere, sapere di fumo, acquistare, avere un sapore sgradevole di fumo (detto di cibi cotti) | andare, andarsene in fumo, bruciare completamente; (fig.) svanire, fallire | mannà ‘nfummo quaccosa, bruciarla completamente; e figuratamente mandare a vuoto, far fallire: |sempre figuratamente (ed è il caso che ci occupa) si dice di persona (donna) boriosa, ma di poco valore | vennere fumo, (fig.) raccontare fandonie, vantarsi di un credito che non si à |assaje fummo e poco arrusto ( molto fumo e poco arrosto), (fig.) si dice di persona o cosa che, nonostante l'apparenza, conclude o vale poco ed in tal caso è riferito sia al maschile che al femminile | vedé quaccosa o quaccuno come ô fummo dinto a ll’ uocchie (vedere qualcosa o qualcuno come il fumo negli occhi), (fig.) averlo in forte antipatia | la voce a margine è dal lat. fumu(m) con raddoppiamento espressivo della labiale.
‘mpettatura, s.f. a. = aspetto, atteggiamento fastidioso tipico di certe donne che non solo incedono tenendo il corpo ben diritto ed il petto in fuori, spec. per orgoglio o vanità, ma si relazionano con il prossimo con iattanza e/o alterigia; voce costruita marcandola sul lat. in +pectus→’mpettus o meglio da un verbo(‘mpettí/irse?) da esso ricavato preceduto, come ò détto da un in illativo e seguito dal suffisso latino ura che in origine serviva per la formazione di parole deverbali per cui si può pensare che la voce a margine sia scaturita da un verbo (‘mpettí/irse?) a sua voltamarcato su pectus.
Tutte le voci fin qui esaminate (sia di pertinenza del maschile che del femminile) sono voci antichissime già presenti e registrate negli antichi calepini napoletani (D’Ambra – Volpe e altri); l’unica voce piú recente (presente infatti solo nei dizionarî piú moderni è la seguente
scemanfú s.m. a. = aspetto vanitoso, atteggiamento borioso e fastidioso tenuto da certe donne che si pongono e si comportano verso i terzi in maniera scostante, antipatica, scorbutica, scontrosa, intrattabile; come ò détto è voce recente peraltro molto usata ed espressiva, marcata sull’espressione francese je m’en fous (me ne frego locuzione verbale del riflessivo se foutre= fregarsene).
E qui avrei finito, ma mi piace aggiungere a margine di tutto quanto fin qui détto due tipiche espressioni partenopee che sintetizzano il disdicevole comportamento di taluni (soprattutto umini)che si nei rapporti interpersonali si mostrano scostanti, antipatici, scorbutici, scontrosi, intrattabili e si relazionano con il prossimo da una posizione arrogantemente boriosa, boria che poggia però sul nulla, non avendo la persona che inalberi quel tal comportamento arrogante serii motivi o ragioni su cui poggiarlo.L’ espressioni è
PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE.
Letteralmente: prender bava (cioè boriarsi) e porsi in guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, saccenti e supponenti, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri (sottoposti e/o conoscenti) il loro modo di veder le cose, se non la vita, laddove in realtà poggiano la loro albagía sul nulla.Tale vacuo atteggiamento è spesso proprio di coloro che soffrono di gravi complessi di inferiorità e che nella loro vita familiare non son tenuti in nessun cale ed in alcuna considerazione (cosa che fa aumentare nel loro animo esacerbato un senso di astio nei confronti dell’umanità tutta, di talché – appena ne ànno il destro - sfogano astio e malumore sui poveri sottoposti e/o conoscenti che però, ovviamente, si guardano bene dall’accettare o addirittura dal considerare ciò che i boriosi saccenti tentano di esporre o imporre.
Mi limito qui ora, avendo già esaminato le voci boria, albagía e vavia, a prendere in esame la voce
guarnascione s.m.=guarnaccia,
elegante sopravveste medievale ampia e lunga,bordata di pelliccia portata soprattutto dagli uomini di riguardo; in realtà la voce a margine è un accrescitivo (cfr. il suff. one) formato partendo da un originario ant. provenz. guarnacha, che fu modellata sul lat. gaunaca(m) 'mantello di pelliccia',.

Ed ora posso, penso, ben dire: Satis est.
raffaele bracale