giovedì 30 ottobre 2008

LITE LITIGIO ed affini

LITE LITIGIO ed affini

Le parole toscane in epigrafe di cui intendo parlare questa volta, ànno – come al solito – parecchi termini che le rendono in napoletano in maniera molto attenta tenendo in considerazione il grado e l’evolversi della lite o del litigio .
Cominciamo col dire che la parola lite che è dal latino lite(m) serve ad indicare onnicomprensivamente la discordia, la contesa, la controversia fino a giungere addirittura alla rissa, mentre la parola litigio che è dal latino litigium da litigare, indica la disputa, la contesa fino alla contestazione davanti al giudice; come si evince il litigio si distingue alquanto dalla lite di cui è quasi un frequentativo esprimendo una lite tirata in lungo e reiterata o non mai finita.
E passiamo alla lingua napoletana che contempla circa una dozzina di differenti parole, secondo la gravità dell’azione o delle conseguenze , per tradurre le due parole toscane in epigrafe.
Abbiamo:
- agguàito che è essenzialmente la lite o bega accuratamente attesa e preparata se non cercata, quasi un agguato, parola etimologicamente dal francese antico aguait che è dal germanico wanta= guardia, usata quasi per indicare l’azione proditoria di chi voglia sorprendere l’avversario privo di difesa;
- appícceco ed il suo frequentativo appiccecata rendono la lite lunga e reiterata o non mai portata a conclusione; etimologicamente ambedue le parole sono un deverbale di appiccecarse frequentativo riflessivo di appiccià che è il far piccie o coppie di cose e quindi unire e con altra accezione anche l’ardere, l’accendere,l’ attaccare (dal latino ad-piceare = attaccar con pece) è comprensibile atteso che un vero appícceco o appiccecata comportano la colluttazione fisica per la quale è necessario il contatto dei corpi; ad abundantiam le due parole a margine richiamano anche l’accezione di appiccià nel senso di ardere poi che chi collutta in un appicceco, non può esimersi, sia pure metaforicamente, dall’ardere;
- appriétto un tipo particolare di lite che è quella derivante da una sollecitazione noiosa o petulante tipica – come vedemmo altrove – dell’ apprettatore cioè dell’ annoiatore; etimologicamente, come il ricordato apprettatore, anche l’ apprietto è un deverbale del latino ad-plictare(figuratamente: ridurre in pieghe; lat.: plecta = piega );al proposito rammenterò che anche il toscano appretto cioè la miscela chimica usata per dar particolar forma e consistenza ai tessuti o pellami, piú che al francese apprêt penso possa collegarsi al latino ad-plictare;
- chiàjeto è essenzialmente la lite tesa a reclamar per sé cose o priorità di atteggiamento davanti a talune situazioni; a Napoli infatti di chi litigando, esiga, richieda qualcosa che pensa gli spetti di diritto, s’usa dire, a mo’ di giustificazione, che se sta chiajtanno ‘o ssujo :sta reclamando il suo; etimologicamente la parola chiàjeto viene da un latino medievale: placitu(m) = disputa, lite in attesa di giudizio;
- cuntrasto che è la lite forte per contrapposizione anche maschia e dura, resistenza puntigliosa etimologicamente dal basso latino contra +stare = star di contro;
- custióne quasi sinonimo del precedente cuntrasto; il quasi è dovuto al fatto che mentre il cuntrasto è una lite che mira ad uno scopo pratico e concreto, la custióne spesso è portata avanti anche in maniera maschia e dura, non per motivi pratici, ma astratti o di principio; etimologicamente la custióne è palesamente dal latino quaestione(m) a sua volta deverbale di quaerere= domandare, interrogare,chiedere etc.
- guerra litigio, piú che lite, cosí vasto e spropositato tale coinvolgere un gran numero di contendenti, avversari, se non nemici, litigio destinato ad esiti spesso gravi quando non addirittura cruenti ; la parola guerra è usata spesso enfaticamente, ma inesattamente per significare di situazioni di contrapposizioni che pur essendo molto gravi e violente, si potrebbero definire piú acconciamente e tranquillamente: cuntraste o custione; etimologicamente la parola guerra attraverso lo spagnolo guerra viene da un antico tedesco wërra = contesa, discordia;
- lòteno che è propriamente un litigio lungo, noioso,ripetitivo che spesso si ripropone a scadenze continue; di tale lòteno la caretteristica precipua è appunto quella d’essere noiosamente ripetitivo e quasi appiccicaticcio; etimologicamente lòteno è da collegarsi a lota = fango (dal lat. lutum a sua volta dalla medesima radice di luere=lavare, bagnare; partendo da lota(fango, terra bagnata) si va a lotulum (fangoso, melmoso, appiccicaticcio) donde il nostro lòteno;
- ‘mpeca che connota un bisticcio futile, una faccenda importuna e fastidiosa, destinata però a risolversi in fretta; etimologicamente la parola è forse da collegarsi ad un ant. tedesco biga (= lite) cui è anteposto un in illativo;

- putecarella vocabolo che designa una lite di parvissima sostanza, una questioncella senza importanza, una lite da burla, quasi una contesa teatrale ; rammenterò infatti che un tempo accanto al termine jacuvella di cui ò detto altrove, i canovacci teatrali delle guarattelle furon detti: putecarelle; ciò detto veniamo súbito a parlare dell’etimologia di putecarella, consigliando di non lasciarsi tranne in inganno (come pure fa qualcuno…e tra costoro, inopinatamente l’amico prof. Carlo Jandolo) dalla parola puteca che parrebbe dare l’avvio a putecarella: la puteca (che è dal greco apoteka=in primis: farmacia ed estensivamente: bottega), non à nulla da dividere con putecarella che di puteca non è neppure il diminutivo che è putechella, e pertanto la putecarella non è da intendersi, come da taluno preteso, quale piccola lite tra avventori e bottegaio o tra i vari avventori d’un bottegaio.In realtà putecarella, etimologicamente è da collegarsi al francese petite querelle id est: piccola questione, questioncella tal quale la putecarella napoletana cui è ammesso chiunque, non necessariamente un bottegaio ed i suoi clienti;
- sciarra: è segnatamente la circoscritta, amabile lite tra innamorati, lite che il piú delle volte si risolve rapidamente, senza conseguenze apprezzabili e la pace che ne segue è sottoscritta con molti appassionati baci; l’etimologia è araba, derivando il termine sciarra da šarr che à però il piú generico, ampio significato di lite, contesa;
- smanecata: lite, alterco che si sostanzia in un diverbio ad alta voce, accompagnato da un pletorico, eccessivo agitarsi, dimenando le braccia con fare animoso; etimologicamente smanecata è marcata su maneca (che è dal latino manica da manus + ica suff. di appartenenza) con la tipica prostesi di una s intensiva, che indica appunto il gran agitarsi delle braccia e per esse delle maniche che le contengono;
- tiritòsta : durissimo alterco reiterato in cui nessuno dei due contendenti vuol recedere dalle proprie posizioni, alterco che si sostanzia appunto in un tiremmolla continuo in cui se si fanno le viste di concedere qualcosa, súbito si riafferma il proprio assunto, nella ferma intenzione di non recedere dalle proprie idee e/o posizioni; etimologicamente, nel significato di insieme di durezze la parola può spiegarsi con l’addizione di una voce francese e di una latina e cioè di tiri ( ant. franc. tiere= unione)+ tosta (= cose dure; neutro plurale di tostum part. pass. del verbo tostare frequentativo di torrere = abbrustolire e quindi indurire).

Non mi pare ci siano altri vocaboli napoletani che traducano quelli in epigrafe; per cui mi fermo qui. Raffaele Bracale

LÈFRECHE/GHE o RÈFRECHE/GHE – PAMPUGLIE

LÈFRECHE/GHE o RÈFRECHE/GHE – PAMPUGLIE

Tratto questa volta due parole che ò preferito accostare, perché – come vedremo – nella lingua napoletana, in una particolare accezione, possono avere significati molto simili.
Vediamo, dunque:
LÈFRECA/ RÈFRECA: Di queste parole, che in realtà ne è una sola sebbene attestata con le due diverse liquide di avvio, ò trovato riscontro, non solo ovviamente nella lingua napoletana, ma anche in altri linguaggi campani ( Bisaccia nell’alta Irpinia)ed in taluni dialetti calabresi, sebbene in questi ultimi abbia trovato attestato, piú che le parole cosí come indicate, i verbi liefricare, lievricare che di esse son denominali.
Il significato iniziale e per cosí dire, principale di lefreca/ga o refreca/ga è il cavillo, la fisima, la capziosità, la sofisticheria (donde l’espressione partenopea: jí ascianno lefreche per indicare appunto l’azione di chi per non addivenire ad un quid o non soddisfare richieste, cerchi pretesti capziosi, cavilli pretestuosi etc.) e per tranquilla estensione: la minuzia, la sciocchezza, l’inezia, la cosa da nulla, ed è sola in questa accezione estensiva che lefreca mi pare sia accolta nel dialetto bisaccese
Come abbiamo già accennato per taluni dialetti calabresi, anche per la lingua napoletana le parole qui a margine ànno fornito verbi denominali quali lefrecà =cavillare,sofisticare, litigar per nulla ed il frequentativo lefrechïà che significa invece lesinare.
E veniamo alla etimologia; sia per lefreca/ga – refreca/ga che per i verbi derivati occorre risalire ai latini: refragari o refricare che indicarono l’azione di stropicciare, fregare ripetutamente con le mani materiali i piú varî fino ad ottenerne minuzzoli. Va da sé che i verbi latini ( che per incidens ànno dato il toscano fregola che però à tutt’altro significato dei napoletani lefreca/ga – refreca/ga , con le parole che ne son derivate, possono bene indicare oltre che quelle minuzie prodotte dallo stropicciamento, anche la capziosità, il cavillo richiamati appunto dall’azione dello stropicciare continuo di chi vada e rivada, dividendo in quattro un capello, su di un argomento, lo sceveri a fondo, magari con acribía pedantesca.

E veniamo a pampuglia che nel significato primo sta per piallatura,truciolo del legname ed estensivamente (ragione per la quale ò accostato pampuglia alle altre parole in epigrafe): inezia, cosa da nulla, bagatella, frivolezza e persino, come estrema valenza, quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto chiacchiera, bugia, frappa etc.
Prima di passare a dire dell’etimologia di pampuglia, voglio rammentare come esso termine nel precipuo significato di truciolo, piallatura à in lingua napoletana, sempre abbastanza attenta, precisa e circostanziata, degli specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo dunque: -pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, -pampuglia ‘e chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande, ma da una pialla piú stretta e piccola detta in napoletano chianuzzella che è il diminutivo di chianozza che è dal latino: planula attrezzo per render piano, privandolo delle asperità, un asse di legno, - pampuglia ‘e ‘ntraverzatura(deverbale del verbo ‘ntraverzà= attraversare, andando contro il primitivo senso di marcia) che è il truciolo, per solito di legni piú duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati.
E soffermiamoci sull’etimologia di pampuglia, etimologia non tranquillissima; un tempo si congetturò un neutro plurale tardo latino fabulía = favuli, gambi delle fave, che dopo la raccolta venivano estirpati, adeguatamente seccati ed usati per alimentare, tal quali le pampuglie lignee, i forni domestici; la seconda ipotesi, che a mio avviso mi pare un po’ piú percorribile si rifà ad un latino regionale: pampulia forgiata su un pampus forma sincopata di pampinus che è propriamente il pampino: tralcio di vite vestito di foglie, tralcio che se improduttivo viene resecato e destinato al fuoco.
Raffaele Bracale

JACOVELLA/GHIACOVELLA

JACOVELLA/GHIACOVELLA
La parola in epigrafe è termine antichissimo, presente fin dal sec. XIV e ss., già preso in esame e contenuto nell’ Elenco di parole napoletane (primo modesto tentativo di dar vita ad un vocabolario della lingua napoletana), elenco che Colantonio Stigliola (1548 -1623) mise in appendice alla sua versione in lingua napoletana dell’ Eneide.
Pur essendo antichissimo, il termine non è però desueto ed ancora vive nell’uso quotidiano in tutta l’area linguistica campana, radicato principalmente sia nell’ alta Irpinia che nel napoletano. Amplissimo il ventaglio dei significati che partendo dal comportamento superficiale, cosa poco seria,modo di agire che genera confusione, inconcludenti tira e molla, giungono all’ intrigo, pretesto, banale astuzia, sotterfugio teso a perder tempo, a giocherellare, a cincischiare, nel tentativo di defilarsi per non compiere qualcosa di molto piú serio; anticamente il vocabolo che sto esaminando fu usato anche per indicare dispettucci da innamorati, vezzi, moine, tenerezze da innamorati, quegli stessi che – come vedemmo altrove – erano detti anche vruoccole o cicerannammuolle; piú spesso comunque la jacovella/ ghiacovella indicò la trama, l’intrigo, la gherminella piú o meno sciocca, buffonesca, cialtronesca, semplicistica.

Per ciò che attiene all’etimologia di jacovella/ ghiacovella, questa volta devo dissentire da quanto proposto dall’ amico il dotto avv.to Renato de Falco, attivissimo esperto di cose napoletane il quale per jacovella/ ghiacovella rifiutando altre piú accolte e convincenti etimologie, ipotizza una culla latina, chiamando in causa uno strano jaculum= dardo dandone però una connessione a jacovella che mi pare troppo inconferente se non pretestuosa…
Non so come sia accaduto, ma questa volta reputo che l’amico Renato – solitamente preciso ricercatore – sia stato un po’ superficiale e si sia lasciato sfuggire che la parola jacovella/ ghiacovella nacque in ambito teatral-marionettistico per identificare le gherminelle, le azioni sceniche di un tal Giacomino (in dialetto Jacoviello diminutivo di Jacovo id est Giacomo che poi altro non era che l’adattamento del nome proprio francese Jacque, nome con il quale colà si soprannominò il contadino sciocco e semplicione, contadino che in tal veste entrò nel teatro delle marionette dove fu Jacovo o Jacoviello e le sue azioni furono le jacovelle o, con diversa scrittura, le ghiacovelle. E tali azioni furon prese a modello per identificare tutte quelle elencate in principio. A titolo di curiosità rammento altresí che dall’originario nome francese Jacque si trasse la voce giacchetta che era il tipo di indumento pratico e non ricercato indossato dai contadini.
Non so cosa abbia spinto Renato de Falco a scartare l’ipotesi Jacovo e a proporre il latino jaculum.
Ma è rimasto solo!
F. D’Ascoli, C. Jandolo e recentemente M. Cortellazzo propendono in coro ,ed indegnamente io con loro, per una degradazione semantica del nome proprio Giacomo – Jacovo.
Et de hoc satis.
Raffaele Bracale

IMBROGLIARE – INGANNARE – ABBINDOLARE

IMBROGLIARE – INGANNARE – ABBINDOLARE
Questa volta temto una piú o meno esaustiva elencazione dei verbi partenopei che rendono quelli rammentati in epigrafe; prima di cominciare rammenterò la derivazione dei verbi toscani:
imbrogliare : ingannare, confondere,avviluppare per modo che l’ingannato, il confuso, l’avviluppato è quasi impossibilitato a venir fuori dalla situazione fonte del suo inviluppo; etimologicamente con ogni probabilità da un imbogliare (con successiva epentesi di una erre eufonica) che è da in illativo + bollire nel senso di confondere (ciò che bolle si mescola talmente che si fonde con e ciò è confonde.Non dissimile la strada di
abbindolare: propriamente far matassa sul bindolo e metaforicamente ingannare etc. come per imbrogliare; etimologicamente il bindolo (da cui il verbo abbindolare) è un diminutivo del tedesco winde che originariamente fu una macchina che girata da un cavallo serviva per attingere acqua, e poi un molto piú piccolo arnese su cui ammatassar filati.Piú semplice la strada di
ingannare che è denominale forgiato su un basso latino in + gamnum = burla, per cui il primo significato di ingannare è prendersi gioco, burlare.
Ciò detto veniamo ai verbi napoletani che, senza eccessive o particolari differenze, indicano tutti le azioni tese a confondere, ingannare, avviluppare etc.:
- arravuglià: da un basso latino ad-revoljare iterativo del classico volvere; da notare la consueta assimilazione progressiva della d con la successiva r;
rammento qui quale deverbale di arravuglià il sostantivo partenopeo arravuogliacuosemo che è il raggiro, l’imbroglio ed estensimamente il saccheggio, il furto esteso fino al totale repulisti; la parola, costruita partendo, come detto dal verbo arravuglià è addizionata del termine cuosemo che non è, come a prima vista potrebbe sembrare, il nome proprio Cosimo quanto – piuttosto – la corruzione del latino quaesumus, nacque come espressione irriverentemente furbesca, in ambito chiesastico, dall’osservazione di taluni gesti sacerdotali durante le celebrazioni liturgiche;
- attrappulià e attrappià che nel significato di tender trappole e dunque ingannare sono dallo spagnolo atrapar forgiato su trampa poi trappa e infine trappola = lacciuolo;
- fóttere: che è dal basso latino futtere per il classico futuere e che di per sé sta per: possedere carnalmente e metaforicamente imbrogliare e raggirare azioni che contengono l’idea del possesso dell’altrui mente, correlativamente al possesso del corpo altrui espresso dall’atto sessuale; analogo possesso rifacentesi al coire è contenuto nei due successivi verbi che sono:
- frecà: che è dal latino fricare = strofinare, quello dei corpi durante il coito;
- fruculià: ci troviamo anche qui nel medesimo ambito del verbo precedente e dell’azione che esso connota in primis; del resto etimologicamente fruculià è dal basso latino fruculjare frequentativo di fricare;
- ‘mbruglià: evidentemente ci troviamo in presenza del medesimo verbo nazionale imbrogliare cui, per l’etimo, rinvio; tuttavia è pressoché impossibile sapere se sia nato prima l’imbrogliare italiano o ‘mbrugliare/à napoletano, per cui non è dato sapere con certezza se l’italiano abbia preso in prestito il napoletano o vice versa;
- ‘mballà: semanticamente corrisponde al nazionale: mettere nel sacco e dunque avviluppare, raggirare, confondere, tener costretto; etimologicamente è voce che è pervenuta nel napoletano attraverso il francese emballer alla medesima stregua del toscano imballare dove però à conservato il solo significato di mettere in balle, mentre il napoletano ne à dato anche quello estensivo di inviluppare mentalmente;
- ‘mpacchià: letteralmente: insozzare, macchiare ed estensivamente poi tutti i significati rammentati di azioni tese all’inganno, all’imbroglio, alla confusione;etimologicamente il verbo ‘mpacchià è un denominale del lemma pacchio/a (cibo generico, ma segnatamente abbondante, quello che può comportare di macchiarsi, insozzare) da un latino patulum onde pat’lum → pàclum → pacchio;
- ‘mpapucchià: che è di medesima portata del precedente, sia come significato di partenza che come sviluppo semantico; etimologicamente se ne differenza in quanto il precedente ‘mpacchià fa riferimento – come visto – a pacchio/a, ‘mpapucchià è invece da collegarsi ad un in + papocchia che è la pappa molliccia, brodosa (ben atta ad insudiciare) e per traslato l’intrigo, l’imbroglio; etimologicamente papocchia è, attraverso il suffisso occhia, il dispregiativo d’un latino papa che indicò appunto la pappa per i pargoli;
- ‘mprecà: che è il vero e proprio raggirare, attraverso le piú varie strade con intrighi, sotterfugi ed affini e dunque anche il piú generico imbrogliare,ingannare etc.; etimologicamente non è aggiustamento del toscano imprecare che proveniente dal latino in + precari stava per invocare, rivolger preghiere(e solo in senso antifrastico, diventato poi senso principale: lanciare insulti) cose ben diverse dal raggirare; in realtà ‘mprecà è sistemazione dialettale dal catalano in +bregar da cui anche il toscano brigare: ingegnarsi d’ottenere qualcosa con raggiri, cabale e peggio, di identica portata del napoletano ‘mprecà;
- ‘mpruzà o ‘mprusà: letteralmente le due diverse grafie del medesimo verbo, starebbero per sodomizzare e solo per traslato, come per i precedenti: fottere,frecà e fruculià, ingannare, imbrogliare, raggirare; in effetti il verbo a margine , d’origine gergale, è forgiato con un in illativo + la parola proso che appunto, nella cosiddetta parlesia: gergo dei suonatori ambulanti e/o posteggiatori, è la parola che indica il culo e dunque letteralmente ‘mprusà o ‘mpruzà è l’andare in ***o e per traslato l’ingannare, l’imbrogliare, il raggirare etc; sulla medesima parola proso è forgiato il termine ‘mprusatura o ‘mpruzatura e con alternanza p b anche ‘mbrusatura o ‘mbruzatura che sono esattamente il raggiro, l’imbroglio, l’inganno;
- ‘mpasturà: letteralmente: truffare in una vendita e piú in generale nei significati in epigrafe; etimologicamente il verbo napoletano è sistimazione dialettale del toscano impastoiare (metter pastoie (dal tardo latino pastoria(m) ed il napoletano, rispetto all’italiano che appunto à pastoia à conservato la erre di ‘mpasturà), intralci,impedimenti;
- ‘nfunucchià: che letteralmente è infinocchiare, imbrogliare tentando di far apparir buono o gustoso, ciò che buono o gustoso non sia: anticamente gli osti che servivano ai propri avventori un vino non troppo buono, erano soliti presentarlo, accompagnato con del finocchio fresco, finocchio che à tra le sue qualità quella di migliorare il gusto di taluni cibi e/o bevande assunti dopo d’aver mangiato il finocchio; invalse cosí l’uso di aggiungere a molte preparazioni culinarie, per migliorarne il sapore, del finocchio, specialmente selvatico, sotto forma o di barbe o di semi e nel parlato comune si disse in italiano: infinocchiare ed in napoletano: ‘nfunucchià , questa sorta di imbroglio;
- ‘ntapecà: letteralmente: macchinare, tramare e perciò ingannare, imbrogliare; il verbo è un denominale di ‘ntapeca: macchinazione, trama; detta voce, cosí come il verbo che se ne è ricavato sono da un antica: antapòcha voce forense da un identico tardo latino che richiama altresí un greco antapochè usato per indicare una nuova, valida scrittura che ne revochi un’ altra per quanto di per sé valida (e dunque sorta di inganno, raggiro);
- Trappulià: letteralmente porre trappole (ad un dipresso come il precedente ‘mpasturà ; il verbo trappulià nel napoletano v’è giunto attraverso lo spagnolo atrapar che è propriamente porre inganni, impedimenti per far cadere; (vedi il prec. Attrappulià);
- Trastulià che letteralmente è il porre in essere innocenti giochini o inganni da saltimbanchi ed estensivamente ogni altro inganno teso ad imbrogliare, raggirare etc; ad un superficiale esame potrebbe sembrare che il verbo napoletano sia un adattamento del toscano trastullare; non è cosí, però; è vero che ambedue i verbi, l’italiano ed il napoletano, partono da un comune latino transtum che fu in origine il banco cui erano assisi i rematori delle galee romane, per poi divenire i banchi su cui si esibivano i saltimbanchi con i loro trucchi ed inganni detti in napoletano trastule e chi li eseguiva trastulante passato in seguito a definire l’imbroglione tout cour, ma mentre l’italiano trastullare è usato nel ridotto significato di dilettare con giochini i bambini, il napoletano trastulià à il piú duro significato di mettere in atto trucchi ed inganni, e non per divertire i bambini, quanto per ledere gli adulti;
- Zannià: verbo che si riallaccia, come origine, agli antichi giochi e trucchi dei saltimbanchi, figurazioni di ben piú dolorosi e gravi inganni e trucchi perpetrati in danno degli adulti; il verbo sta quasi per comportarsi da zanni(o Giovanni di cui è diminutivo) che fu l’antico servo della commedia dell’arte e delle rappresentazioni popolari, aduso a compier a suo pro inganni, trucchi ed imbrogli.
E qui mi fermo, sperando d’essere stato abbastanza chiaro ed esauriente e di non aver trastuliato nessuno!
Raffaele Bracale

IL TERMINE RIGGIOLA

IL TERMINE RIGGIOLA – SIGNIFICATO ED IPOTESI ETIMOLOGICA

Con la parola riggiola modernamente si intende la piastrella – maiolicata o meno che per solito concorre a formare la pavimentazione esterna o interna di un edificio; ma anticamente con il termine riggiola i napoletani intendevano propriamente la piastrella in cotto grezzo. E’ importante tener presente questa distinzione storica quando si affronta il problema etimologico.
Una prima veloce lettura della voce vorrebbe che essa sia un deverbale dedotto dal verbo reggere. La prima osservazione da farsi però è che la voce napoletana non corrisponde ad un’ipotetica reggiola dell’italiano che indicherebbe la mensola o altro supporto atto a reggere libri o altro, un palchetto di scaffale insomma . A parte ciò è da rammentare che in napoletano non esiste il verbo reggere; esiste – al massimo – rejere e da esso potrebbe tutto al piú discendere rejola, non riggiola.
Altra ipotesi etimologica proposta è quella che legherebbe la riggiola napoletana alla rejuela spagnola, che però significa piccola inferriata che non ha nulla a che vedere con la riggiola che è invece qualcosa di atto a piastrellare un pavimento.
Scartate ambedue le ipotesi etimologiche per i motivi esposti propongo che la riggiola derivi da un latino volgare rubjòla (?) con il normale trasformarsi di jo in ggi+ vocale come succede per il classico habeo diventato tardo latino habjo e napoletano aggio;rubjola = rossiccia da un latino della decadenza dal classico ruber per indicare il tipico colore rosso proprio della terracotta, materiale con cui si costruiva l’originaria riggiola napoletana. S. e&o.
Raffaele Bracale

FORCHETTA

FORCHETTA

Premesso che con il termine forchetta (cioèpiccola forca dal latino furca-m, ma pervenutoci attraverso il francese fourchette) in italiano si intende quel piccolo arnese di metallo o altro materiale provvisto di tre o piú rebbi o denti, col quale si infilza il cibo per portarlo alla bocca,arnese che venne probabilmente inventato in Oriente, nell'ambiente di Bisanzio, dove comparve sulle tavole elegantemente imbandite addirittura tra l'VIII ed il X secolo. Di qui emigrò con una certa facilità immediatamente dopo in Italia, dove ebbe la sua definitiva sistemazione, cosí come la conosciamo e di lí invase un po’ tutta l’Europa occidentale.

È quasi certo infatti che la forchetta fu vista per la prima volta su una tavola dell'Europa occidentale, in Italia, durante il famoso banchetto di nozze tra la principessa greca Argillo ed il figlio del doge di Venezia, svoltosi nel 955. La tradizione vuole che in quell'occasione, mentre tutti erano intenti a mangiare con le mani, la raffinata principessa si portasse alla bocca il cibo aiutandosi con una forchetta d'oro a due rebbi. Evidentemente nella cerchia bizantina l'uso di questa posata era già diffuso, ma a Venezia ciò suscitò un tremendo scandalo: secondo le cronache dell'epoca tale novità parve un segno di raffinatezza talmente eccessivo, quasi d’ispirazione demoniaca, che la dogaressa fu severamente disapprovata dai preti, i quali invocarono su di lei la collera divina. Poco tempo dopo fu colta da una malattia innominabile, e san Bonaventura non esitò a dichiarare, assai poco caritatevolmente, ed assai poco correttamente alla luce degli insegnamenti ecclesiali, che s’ era trattato di un castigo di Dio. L’uso comunque di quella posata in seguito si diffuse rapidamente anche per merito della raffinata Caterina de’ Medici e di suo figlio Enrico III, che pare ne impose l’uso generalizzato ed invase tutta l’Europa soprattuto sulle tavole dei nobili e sulle mense di tutte le corti europee e l’uso summenzionato della forchetta a due o tre rebbi durò varî secoli, fino a tutto il 1850, quando alla corte di Napoli il re Ferdinando II Borbone delle Due Sicilie, che era golosissimo di maccheroni, anche di quelli a trafila lunga e sottile detti vermicelli che la plebe era solito consumare per istrada portandoli alla bocca con le mani, stanco di non poter farsi servire nei pranzi di corte codesti amati maccheroni (che con le posate ordinarie era difficilissimo consumare),diede mandato al suo ciambellano (e non maggiordomo, come erroneamente talvolta si riporta) Gennaro Spadaccini di risolvergli, pena il licenziamento, la faccenda; e lo Spadaccini, adeguatamente poi remunerato, ebbe un’idea semplice, ma geniale: portò da tre a quattro e poi a cinque i rebbi della forchetta, per modo che fosse possibile ammatassare con facilità i vermicelli, che da quel momento furono serviti ai pranzi di corte, accontendando il goloso sovrano.
Esaurito cosí il riferimento storico, passiamo ad occuparci del lato linguistico.
Dirò perciò che attualmente, impoveritasi – per troppi motivi, che non sto qui ad esaminare – la lingua napoletana, la posata di cui sopra è sbrigativamente chiamata furchetta evidente corruzione della forchetta italiana, ma anticamente ebbe almeno tre nomi che sono:
1)vrocca, dal basso latino bruccus (dai denti sporgenti)con tipica alternanza B/V
2) brucchiera , con il medesimo etimo: bruccus addizionato del suff. di pertinenza iera.
3) cincurenza e cioè dai cinque denti , nome originariamente di pertinenza del forcone usato per spostare la paglia ed il fieno e solo successivamente riferito, in ispecie dalla plebe campagnola, alla posata; per traslato, poi, il termine cincurenza indicò anche la mano (provvista di cinque dita) e da ciò la frase idiomatica: menà ‘a cincurenza (letteralmente: gettar la mano id est: rubare.
brak

mercoledì 29 ottobre 2008

FETTUCCINE AL SUCCO D'ARANCIO

FETTUCCINE AL SUCCO D'ARANCIO
Ingredienti per 6 persone:
600 g di fettuccine all’uovo fresche o secche,
il succo di 2 arance amare non trattate,
250 g di spalla di manzo macinata,
200 g di salsiccia spellata,
5 etti di pomidoro sbollentati, pelati e spezzettati (o pari peso di pomidoro in iscatola pelati, sgrondati e spezzettati),
1 spicchio di aglio mondato e schiacciato,
1 cucchiaino raso di zucchero,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
1 bicchiere di olio d'oliva e.v. p.s.,
sale doppio un pugno,
sale fino e pepe decorticato q.s.


In una padella con tutto l'olio, l'aglio intero (che poi toglierete), la cipolla tritata fate soffriggere la carne tritata, la salsiccia spellata , quando è tutto ben rosolato unite i pomidori sbollentati, pelati e spezzettati o i pelati, sgrondati e spezzettati allungando se necessario con poca acqua tiepida.
A cottura quasi ultimata aggiungete dapprima il cucchiaino di zucchero e súbito dopo il succo delle arance e mescolate molto delicatamente aggiustando infine di sale.
Lessate le fettuccine in molta acqua salata (sale doppio) a bollore (3 minuti le fettuccine fresche, 8 quelle secche), scolatele al dente, conditele con la salsa,rimestate ed impiattate cospargendo con abbondante pepe decorticato macinato a fresco. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!

raffaele bracale

SPIGOLA IN SALSA D’ARANCIA

SPIGOLA IN SALSA D’ARANCIA
Gustosa peparazione per servire in tavola la spigola (anche di allevamento!) in maniera non convenzionale.

ingredienti e dosi per 6 persone
12 spigole da 2 etti cadauna,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v. aromatizzato all’aglio,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
3 grossi finocchi maschi (quelli con la teasta a palla!),
2 bicchieri di latte scremato
15 cucchiai di farina ,
12 arance (succo)
Sale doppio q.s. Pepe bianco q.s.
Alcuni rametti di menta fresca





procedimento
Mondare i finocchi e tagliarli a sottili fettine con un’affilata mandolina, immergendo le fettine in acqua e limone perché non anneriscano; súbito dopo, preparare la salsa:
diluire la farina nel latte, versare il composto in una casseruola antiaderente e portare sul fuoco medio mescolando finché la salsa non si sarà addensata al punto giusto.
Togliere dal fuoco e aggiungere la metà del succo delle arance e aromatizzare con il pepe.
Nel frattempo lavare ed eviscerare le spigole, indi sfilettarle, mantenendo la pelle ed eliminando – con taglio francese (obliquo) - le zone della pancia, fino a ricavare da ogni sogliola due ampi filetti del tutto privi di ogni spina; versare mezzo bicchiere d’olio aromatizzato in una padella antiaderente e mandarlo a temperatura aggiungendo metà del trito d’aglio; quando l’aglio sarà colorito, eliminarlo ed adagiare nella padella i filetti di sogliola poggiandoli dalla parte della pelle e scottarli per non piú di 4 minuti pressandoli con una schiumarola piatta; a fine cottura salare e pepare; nel frattempo condire con olio, sale, pepe, il trito d’aglio residuo e succo d’arancia le fettine di finocchio; approntare i singoli piatti da servire in tavola spalmando a specchio sul fondo alcuni cucchiai di salsa all’arancia ed adagiando sulla medesima un paio di cucchiai di fettine di finocchio condite, su tutto quattro filetti di sogliola sormontati da un rametto di menta.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

MERLUZZO AL FORNO CON VERDURE

MERLUZZO AL FORNO CON VERDURE
Nota: è noto ch’io non ami il pesce, ma questa ricetta è gustosa e la consiglio!

Ingredienti per 6 persone:
6 tranci di merluzzo (anche surgelato) spellati e spinati,
150 g di pancetta tesa a fettine sottili
4 pomidoro sbollentati, pelati e tagliati a pezzettoni,
2 carote
1 spicchio d’aglio mondato e tritato,
2 cipolle dorate tritate,
1 bicchiere di latte,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.,
1 limone
sale doppio alle erbette – due prese
pepe bianco q.s.

procedimento

Spruzzate i tranci di pesce con il limone, salateli, avvolgeteli nelle fettine di pancetta.
Tagliate a pezzetti i pomidoro, a rondelle le carote e a fettine sottili le cipolle.
In una pirofila versate l’olio, il trito d’aglio e fatelo imbiondire, quindi insaporitevi le verdure, bagnate con una tazza d’acqua bollente, per una decina di minuti, sempre mescolando, salate e pepate.
Adagiatevi i tranci di pesce, coprite il recipiente con carta da forno bagnata e mettete in forno preriscaldato a 200°C per 40 minuti circa.
Nell'ultimo quarto d'ora abbassate la temperatura a 180°C e versate il latte.
Ritirate dal forno, sistemate il pesce sul piatto da portata e ricopritelo con il fondo di cottura caldo.

Servite súbito.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

FASTIDIOSO – NOIOSO – ROMPISCATOLE

FASTIDIOSO – NOIOSO – ROMPISCATOLE
Questa volta, anche su sollecitazione di un caro amico che mi à chiesto di parlarne, mi occupo delle parole, nonché qua e là della fraseologia che rendono in lingua napoletana i concetti espressi dai sostantivi in epigrafe; partiamo proprio da questi: fastidioso : chi reca o provoca fastidio dal latino: fastidiosu(m) derivato di fastidiu(m); noioso : chi arreca noia, fastidio dal provenzale: enojos derivato da un latino volgare: inodiosu(m) da odiu(m) odio; rompiscatole : agg. e s. m. e f. invar. (fam.) si dice di persona molesta e importuna; etimologicamente composto dal verbo rompere e dal sostantivo scatole usato eufemisticamente in luogo di altra parola becera o oscena;
Ciò premesso passiamo alle parole napoletane:
- ammusciatore o ammusciante che è propriamente il tediante, l’annoiatore; ambedue i termini di cui il secondo è addirittura il participio presente che denota un’azione in… corso d’opera, sono forgiati sul verbo ammuscià: che propriamente, tal quale il toscano ammosciare è il render vizzo, floscio, moscio ed estensivamente appunto l’annoiare, l’infastidire; il verbo ammuscià è un denominale di muscio (moscio dal latino mucidu(m)→ muc’dus→mustius→muscius e muscio);
- abbuffatore e abbuttante che, a tutta prima, identificando chi gonfi qualcuno a mo’ di buffo o di butto (parole che, o per adattamento o per corruzione vengono ambedue dal latino bufo ed indicano ambedue il rospo, parrebbero quasi porsi agli antipodi dei precedenti, esprimono in realtà un medesimo tedio sia che esso derivi dall’essere enfiato, sia che derivi dall’essere resi mosci o flosci; ambedue le parole sono dei deverbali: la prima di abbuffà: enfiare come un buffo = rospo; la seconda participio presente del verbo abbuttà che è l’enfiare come un butto (idem che buffo=rospo): ma si può anche pensare ad un basso latino: ad-bottare= riempire come una botte; con riferimento all’abbuffà, riporto qui quanto già espressi al proposito di un’icastica locuzione partenopea becera fin che si vuole, ma indubbiamente espressiva : abbuffà ‘a guallera nella locuzione me staje abbuffanno 'a guallera. Ad litteram: enfiare l'ernia nella locuzione mi stai gonfiando l'ernia id est: mi stai tediando, mi stai oltremodo infastidendo, procurandomi una figurata enfiagione dell'ernia; locuzione che si ritrova con gran risentimento sulla bocca di chi, già tediato di suo, veda aumentare a dismisura il proprio fastidio, per l'azione di un rompiscatole che insista nel suo disdicevole atteggiamento. Ricorderò che il termine guallera (ernia) è mutuato dall'arabo wadara di pari significato e con esso termine il napoletano indica la vera e propria affezione erniale dove che sia ubicata, ma anche per traslato, il sacco scrotale ed è a quest'ultimo che con ogni probabilità si riferisce la locuzione, prestandosi, data la sua sfericità, ad essere sia pure figuratamente gonfiato. Segnalo ora, qui di sèguito altre icastiche locuzioni di medesima portata di quella in epigrafe, locuzioni che vengono usate secondo il grado del tedio che si prova; la prima, mutuata dall'àmbito culinario, proclama: me staje facenno oppure m’ hê fatto ‘a guallera â pezzaiuola (mi stai facendo oppure mi ài fatto l'ernia alla pizzaiola) quasi che l'ernia fosse possibile cucinarla con olio, pomodoro, aglio e origano a mo' di una fettina di carne; altra locuzione usata è quella che mutuata dal linguaggio del lavoro d'ebanisteria, proclama: me staje scartavetranno 'a guallera ( mi stai levigando l'ernia con la carta vetrata) infine esiste una locuzione che - mutuata dall'ambito sartoriale - nella sua espressività barocca, se non rococò, afferma: me staje facenno 'a guallera a plissé (mi stai facendo l'ernia plissettata) quasi che fosse possibile trattare l'ernia come una gonna, pieghettandola longitudinalmente in modo minutissimo.
- abbesechiante o abbesechiatore ambedue le parole, come le precedenti abbuffante – abbuffatore attengono al rigonfiare nel senso di tediare; queste a margine, come le rammentate, sono un deverbale qui di abbesechià che sta per gonfiare a mo’ di vessecchia/ bessecchia = vescica da un tardo latino vesica, atteso che il paragone è fatto qui con la vescica del maiale (che gonfiata è usata per contenere e conservar la sugna in consistenza di pomata) e lí con il bufo>buffo=rospo;
- afflittivo che è propriamente colui che affligge, tormenta, importuna, deverbale di affliggere che è dal latino ad-fligere composto dalla particella ad che indica direzione e fligere che à originariamente il senso di battere, percuotere; e non si può negare che chi è importuno, tormentatore, afflittivo non percuota sia pure figuratamente e moralmente chi sia importunato, tormentato etc;
- apprettatore termine che connota il molestatore, il tormentatore continuo ed assiduo, aduso a molestare alla maniera di chi (come visto precedentemente) sia capace con la sua molesta condotta di addirittura plissettare (sia pure figuratamente) lí la sola ernia, qui un’intera persona; il termine apprettatore, infatti etimologicamente è un deverbale del latino adplictare → applictare → applittare → apprittare donde apprettare e apprettatore; l’originario adplictare è da collegarsi al sostantivo plecta =piega che ci riporta al plissé di plissettare; rammenterò che la voce apprettatore fu usata, come aggettivo riferito ad un noioso merlo canterino, dal poeta Salvatore Di Giacomo (Napoli 12/3/1860 – ivi 5/4/1934) in una sua canzone, musicata da E.A.Mario (Napoli 5/5/1884 ivi 24/6/1961) dal titolo Mierolo affurtunato;
- fittivo che indica il molestatore, il fastidioso soggetto che pone nella sua azione malevola anche una buona dose di cattiveria mirante ad arrecar oltre che molestia anche danno al soggetto fatto segno delle sue noiose e pericolose molestie, in linea con il verbo latino figere cui è etimologicamente da collegarsi, verbo che diede il termine fictilia da cui il napoletano fettiglie= noie, molestie, portate quasi di lontano a mo’ di strali; alle medesime fettiglie già alibi dissi ma qui ribadisco sia da collegarsi il verbo napoletano fettiare verbo che un tempo serví ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente, negli anni tra il 1950 ed il 1960, se la fettiavano fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino, un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove. Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate; a mo’ d’es. diremo che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria;
- frusciatore il molestatore che con la sua petulante opera, può addirittura fare in pezzi la mente ed il cuore della sua vittima molestata, quasi in ottemperanza del suo etimo che è un deverbale del latino: frustiare= dissipare riducendo in pezzi;
- scucciatore che è il frastornatore, il molestatore, quello che figuratamente rompe la coccia=testa etimologicamente deverbale di scuccià che in origine sta per rompere, tirar via la coccia, il guscio delle uova e per traslato figurato rompere, tirar via la testa;
- scassacazzo eccoci a trattar di una parola, becera ma enormemente icastica con la quale si connota un molestatore, cosí fastidioso, noioso da indurre in chi è fatto segno delle sue molestie, noie e fastidi, addirittura la sbreccatura se non la rottura della piú intima e sacra parte anatomica; etimologicamente la parola viene dalla somma della voce verbale scassa (3° pers. Sing. Pres. Ind.) del verbo scassà (dal latino ex-quassare=scuotere fino alla rottura) + il termine cazzo (gergo marinaresco dal greco akàtion = albero della nave); alcune volte il termine a margine, ritenuto troppo volgare, è addolcito nel meno becero scassacacchio o nell’eufemistico scassambrello ma la sostanza, non cambia;
- sustàtore o assustatore, che sono ad un dipresso la medesima parola, risultando essere la seconda un accrescimento della prima operata attraverso un prefisso as e connotano ugualmente il/i molestatore/i inveterato/i ed assiduo/i tale/i da spingere ad una reazione, anche violenta, il/i molestato/i. ambedue le parole sono un deverbale del latino suscitare= eccitare;
- zucatore id est il molestatore che assale il molestato quasi con la riprovevole foga di chi intenda suggergli l’anima o i succhi vitali; deverbale di zucà =succhiare che è dal latino sucus; il piú noioso di tali zucature fu il c.d. zucafistole (succhiapiaghe) personaggio, peraltro veramente esistente in antichi ospedali napoletani dove si assumeva il compito di depurare, mediante aspirazione, del pus esistente, le piaghe di taluni malati, operazione necessaria, ma pur sempre fastidiosa!Figurarsi poi quando il fastidio non porti almeno il beneficio della depurazione!
- In chiusura dirò che di tutti gli elencati molestatori a Napoli si soleva ed ancora si suole dire che rompono o scassano ‘o curdino che ad litteram è il cordino e cioè il frustino, il nerbo; va da sé che tale curdino è usato eufemisticamente come il pregresso ‘mbrello, per significare il greco akàtion.
E qui faccio punto, augurandomi di non aver scassato ‘o curdino a nisciuno!
Raffaele Bracale

CUNTRORA

CUNTRORA
Ecco un altro vocabolo che, squisitamente partenopeo, partito dai vocabolarî della lingua napoletana, è approdato in quelli della lingua nazionale,(sebbene nella forma di controra) mantenendo inalterati i significati estensivi di siesta ( che è forse da un lat.: hora sexta), riposo pomeridiano, ciò che, per intenderci, nell’italiano mediatico (mutuato dal romanesco) si dice: pennichella (etimologicamente forse da un basso latino: pendicare).
Nel suo significato primo la parola cuntrora che etimologicamente viene dal latino: contra hora id est: ora contraria, avversa nel senso di inadatta al lavoro, all’applicazione e quindi da destinarsi al riposo indica quel lasso di tempo a ridosso dell’ora meridiana, quando – specie in estate – il sole picchia piú forte e le ore sono piú calde; poiché nel meridione si è soliti pranzare intorno al suddetto orario meridiano e far seguire al pranzo il riposo, la siesta, che si fanno proprio nelle ore piú calde e meno adatte al lavoro, ecco che il termine cuntrora è passato ad indicare non piú solo un certo lasso di tempo, quanto la confortevole stasi cui si è soliti dedicarsi in quel lasso di tempo: la siesta, il riposo cioè ed in tale accezione ‘a cuntrora, addolcita in controra è approdata nella lingua nazionale.
Raffaele Bracale

CIPPO-LAVA -CATAFARCO ETC.

CIPPO-LAVA -CATAFARCO ETC.


Arricurdarse ‘o cippo a Furcella, ‘a lava d’’e Virgene, ‘o catafarco ô Pennino, ‘o mare ô Cerriglio.
Ad litteram: Rammentarsi del pioppo a Forcella, della lava dei Vergini, del catafalco al Pendino e del mare al Cerriglio.
L’espressione viene pronunciata a caustico commento delle parole di qualcuno che continui a rammentare/rsi cose o luoghi o avvenimenti ormai remotissimi quali, nella fattispecie, i pioppi esistenti alla fine di via Forcella; per il vero la parola originaria dell’espressione era chiuppo ( id est: pioppo; chiuppo etimologicamente è da un lat. volg. *ploppu(m), per il class. populus; tipico il passaggio in napoletano PL→CHI) parola poi corrotta in cippo e cosí mantenuta nella tradizione orale della locuzione;in essa poi sono ricordati vari altri accadimenti , quali
1)- ‘A lava d’’e Virgene(la lava in lingua napoletana, etimologicamente dal dal lat. labe(m) 'caduta, rovina', deriv. di labi 'scivolare' non indica solamente la massa fluida e incandescente costituita di minerali fusi, che fuoriesce dai vulcani in eruzione: colata di lava., ma anche un a copiosa, quasi torrentizia caduta di acqua; ed è a quest’ultima che qui si fa riferimento (con l’espressione ‘a lava d’’e Virgene si intende infatti quel tumultuoso torrente di acqua piovana che a Napoli fino agli inizi degli anni ’60 del 1900, quando furono finalmente adeguatamente sistemate le fogne cittadine, si precipitava dalla collina di Capodimonte sulla sottostante via dei Vergini (cosí chiamata perché nella zona esisteva ed ancóra esiste un monastero di Verginisti antica congregazione religiosa di predicatori) e percorrendo di gran carriera la via Foria si adagiava, placandosi, in piazza Carlo III, trasportando seco masserizie,ceste di frutta e verdura e tutto ciò che capitasse lungo il suo precipitoso percorso),
2) - ‘o Catafarco ô Pennino (ad litteram: il Catafalco al Pendino cioè il grosso altare che veniva eretto nella centrale zona del Pendino, altare eretto per le celebrazioni della festa, ormai purtroppo desueta, del Corpus Domini; in primis la parola catafarco (di etimo incerto, ma con molta probabilità da un connubio greco ed arabo: greco katà =sopra –arabo falah= rialzo) indica il palco, l’alta castellana ( con la medesima parola(castellana) anche in lingua napoletana, con derivazione forse da un antico castellame, si indica il catafalco su cui veniva un tempo, al centro della chiesa, sistemata la bara durante i funerali solenni; qui è usato per traslato ad indicare un altare molto imponente); infine:
3) - ‘o Mare al Cerriglio (cioè quando il mare lambiva la zona del Cerriglio, zona prossima al porto, nella quale era ubicato il Sedile di Porto, uno dei tanti comprensorî amministrativi in cui, in periodo viceregnale, era divisa la città di Napoli; nella medesima zona del Cerriglio esistette (1600 circa) una antica bettola o osteria , peraltro frequentata da ogni tipo di avventori: dai nobili (che vi venivano a provare l’ebrezza dell’ incontro con il popolino), ai plebei (che per pochi soldi vi si sfamavano), agli artisti (in cerca di ispirazione) alle prostitute (in cerca di clienti); abituale frequentatore di questa bettola pare fosse, durante il suo soggiorno partenopeo, il Caravaggio(Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio Caravaggio o Milano, 1571 † Porto Ercole (Monte Argentario), 18 luglio 1610) . sulla porta di detta bettola erano riportati i seguenti popolareschi versi epicurei se non edonistici:
Magnammo, amice mieje, e po' vevimmo
nfino ca stace ll'uoglio a la lucerna:
Chi sa’ si all'auto munno nce vedimmo!
Chi sa’ si all'auto munno nc'è taverna!
stace = ci sta; il ce enclitico è dal lat. volg. *hicce, per il class. hic 'qui' ed in posizione enclitica corrisponde, svolgendone le medesime funzioni, all’italiano ci che è pron. pers. di prima pers. pl. [atono; in presenza delle particelle pron. atone lo, la, li, le e della particella ne, viene sostituito da ce: ce lo disse, mandatecelo; che ce ne importa?; in gruppo con altri pron. pers., si prepone a si e se: ci si ragiona bene; non ci se ne accorge (pop. la posposizione: si ci mette); si pospone a mi, ti, gli, le, vi: ti ci affidiamo (piú com.: ci affidiamo a te)]; vale pure noi ( e si usa come compl. ogg., in posizione sia proclitica sia enclitica);
lucerna = lampada portatile ad olio o petrolio e qui, per traslato vita etimologicamente derivata da un tardo latino lucerna(m), forse deriv. di lux lucis 'luce', o piú probabilmente deverbale di luceo con il suffisso di appartenenza ernus/a;
taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B→V, nella lingua napoletana che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse puteca.
r.bracale

CHIACCHIERONE – MILLANTATORE etc.

CHIACCHIERONE – MILLANTATORE etc.

Mi è stato richiesto, per le vie brevi, da un cortese lettore che si è soffermato a leggere alcune mie note linguistiche contenute ne LA PAGINA DI LELLO del sito messo su dall’amico Roberto Andria (www.andriaroberto.com) di illustrare le parole napoletane che traducono quelle in epigrafe; lo faccio qui di sèguito, precisando che – come vedremo – alcune parole napoletane usate per significare ad un dipresso quelle dell’epigrafe, in realtà significano anche qualcosa in piú; per chiarire la cosa comincerò col dire che in toscano mentre il termine chiacchierone (etimologicamente accrescitivo di un deverbale di chiacchierare che è voce onomatopeica, ) indica che o chi chiacchiera molto e volentieri soprattutto di argomenti futili, o anche in senso spregiativo che o chi non sa tenere un segreto, il termine millantatore (che etimologicamente è un deverbale di millantare id est: accrescere millanta volte e quindi aggrandire esageratamente, vantarsi, vanagloriarsi) indica chi appunto si vanti o vanti qualità o meriti che non à; la lingua napoletana con le parole che traducono quelle qui a margine ricordate, oltre ai significati già detti, indicano pure il saccente, supponente aduso – come vedremo – ad intervenire (senza esserne invitato) in discussioni per esprire il proprio inutile parere, distribuendo consigli tanto sgraditi, quanto vacui; la lingua napoletana, per significare il suddetto individuo, à (e lo vedremo ) a dir poco un paio di termini precisi, mentre la lingua toscana à bisogno di un giro di parole per identificare tale individuo, non avendo un conciso termine ad hoc.
Prendiamo ora in esame le parole napoletane; abbiamo:
- chiacchiarone che anticamente fu anche ‘nzacarrone parola usata per indicare oltre chi chiacchieri molto e volentieri, in ispecie di futilità, anche chi è solito farcire il proprio dire di fantasiose bugie, romanzando quasi la realtà che riporta; ed infatti più che sistemazione dialettale dell’ onomatopeico toscano chiacchierone, etimologicamente il napoletano chiacchiarone e più ancora l’antico ‘nzacarrone pare debbano collegarsi all’arabo zacar=racconto;
- fanfaro/fanfero e gli accrescitivi fanfarrone ed arcifanfaro o arcifanfero sono tutti termini usati per indicare chi parli troppo, per mera iattanza senza fondamenti, comportandosi da spaccone e gradasso; etimologicamente le parole napoletane, anche quelle che ricorrono all’arci= archi per significar sovrabbondanza, son da collegarsi per il tramite dello spagnolo fanfarron all’antico spagnolo fanfa= iattanza;
- favone che è propriamente il gran millantatore, vanesio chiacchierone oltre che saccente e supponente; etimologicamente penso che, più che al latino fabulo/onis da un fabulari = raccontar sciocchezze, la parola possa collegarsi al latino favonius che indicò un vento, come al vento si posson appaiare le vuote parole emesse dal saccente favone;
- iaqóco: propriamente il ciarlatore senza costrutto e/o senso;parola abbondantemente desueta, risalente al 15° - 16° sec., di ambito teatrale e marionettistico da collegarsi al nome proprio Jaqocuo, fr. Jacques dal latino Jacobus da cui (vedi alibi) si trasse la già esaminata jacovella;
- lungarone: che è esattamente colui aduso a cianciare, se pure a vuoto, lungamente; come facilmente si intuisce la parola è da collegarsi al termine lungaria =lungaggine che son con ogni probabilità dal greco: làggein – laggazein =indugiare, soffermarsi e dunque dilungare;
- parlettiero: chi si compiace di articolar gli organi della fonazione, per il sol gusto di udirsi, non avendo nulla di serio o costruttivo da esprimere; estensivamente anche il pettegolo che è chi si bea a parlar spesso con morbosa curiosità e con malizia di fatti e comportamenti altrui, portandoli in giro e diffondendoli con proditoria malignità; il toscano pettegolo, facendo riferimento alla cennata proditoria diffusione, tal qual venticello, etimologicamente è da collegarsi ad un veneto antico: petegolo inteso simile al peto toscano; il napoletano parlettiero è invece molto più tranquillamente deverbale di parlà unito agli infissi intensivo-frequentativi ett ed iero; da parlettiero il napoletano à tratto anche il denominale parlettià, ed attraverso la solita prostesi della esse durativa il denominale sparlettià che sono propriamente il malevolo ciarlar continuo, lo spettegolare;
- spallettone: eccoci a che fare con l’altro termine che con il pregresso favone è usato in napoletano per indicare il gran millantatore, il saccente, il supponente, il sopracciò,il gradasso fastidioso, colui che anticamente fu definito mastrisso termine ironico corruzione del latino magister ovvero colui che si ergeva a dotto e maestro, ma non ne aveva né la cultura, nè il carisma necessarii; più chiaramente dirò, per considerare le sfumature che delineano il termine a margine , che vien definito spallettone chi fa le viste d’essere onnisciente, capace di avere le soluzioni di tutti i problemi, specie di quelli degli altri , problemi che lo spallettone dice di essere attrezzato per risolvere, naturalmente senza farsi mai coinvolgere in prima persona, ma solo dispensando consigli , che però non poggiano su nessuna conclamata scienza o esperienza, ma son frutto della propria saccenteria in virtú della quale non v’è campo dello scibile o del quotidiano vivere in cui lo spallettone non sia versato;l’economia nazionale? E lo spallettone sa come farla girare al meglio. L’educazione dei figli altrui,mai dei propri!,? Lo spallettone, a chiacchiere, sa come farne degli esseri commendevoli e, cosí via, non v’è cosa che abbia segreti per lo spallettone che,specie quando non sia interpellato,si propone tentando di imporre la propria presenza e dispensando ad iosa consigli non richiesti che – il più delle volte- comporterebbero, se messi in pratica, in chi li riceve, un aggravio (senza peraltro certezze di buoni risultati…) delle incombenze, del lavoro e dell’impegno, aggravio che va da sé finisce per essere motivo di risentimento e rabbia per il povero individuo fatto segno delle stupide e vacue chiacchiere dello spallettone.
Per ciò che riguarda l’etimologia non vi sono certezze essendo il vocabolo completamente sconosciuto ai compilatori di vocabolarî della lingua napoletana, adusi a pescare le parole negli scritti degli autori classici e, spesso, a tenere in non cale il vivo, corrente idioma popolare; non posso allora che proporre un’ipotesi, non supportata è vero da riscontri storico-letterarî, ma che mi pare sia perseguibile; eccovela: penso che, essendo il sostrato dello spallettone, la vuota chiacchiera, è al parlare che bisogna riferirsi nel tentare di trovare la semantica e l’etimologia del termine che, a mio avviso si è formato sul cennato verbo parlettià (ciarlare)con la classica prostesi della esse intensiva partenopea, l’assimilazione della erre alla elle successiva e l’aggiunta del suffisso accrescitivo one.

- sbardellone : esattamente il grande (si noti il suffisso accrescitivo one) ridondante ciarlatore, aduso ad eccedere i limiti, quasi ad esorbitare dal suo alveo di competenze, in tutto in linea con il suo etimo deverbale d’un bardellare = porre la bardella (dal fr. bardelle =piccola sella) diventato sbardellare con la solita protesi della esse che qui non è intensiva, ma distrattiva, per significare proprio il debordamento delle ciarle dello sbardellone a margine;
- tatànaro: e siamo giunti infine ad un termine che connota un gran parlatore, che però deve il suo reiterato ciarlare, piú che ad un atto di volontà, ad un semplice difetto di fonazione; in effetti l’iterazione della sillaba d’avvio del termine e cioè: ta-tà dovrebbe indurci a pensare che abbiamo a che fare con un balbuziente, in linea con il verbo tatànià (donde deriva il nostro tatànaro ) verbo e parola che sono etimologicamente dal greco: tatalizo =blaterare, balbutire.
Rammenterò, per finire, che tutte le parole a margine, con le sole eccezioni di favone e spallettone possono essere usate, non solo al naturale maschile, ma – con opportuno cambio di desinenza - anche al femminile; chi invece volesse riferire ad un soggetto femminile le pessime qualità dei cennati favone e spallettone dovrebbe cambiare vocabolo ed usare: cciaccessa che identifica appunto la ciarliera millantatrice, saccente e supponente; faccio notare che il termine cciaccessa (altro termine, come il pregresso spallettone, estraneo ai calepini, ma vivo e vegeto nel parlato comune ) deve sempre correttamente scriversi con la geminazione iniziale della c; etimologicamente mi pare si possa molto probabilmente, stante anche per essa parola il sostrato di un vuoto parlare, farla risalire al verbo ciarlare con la giunta di un suffisso dispregiativo femminile essa marcato su quello dispregiativo maschile asso (che sta per accio), e con tipica assimilazione progressiva di tutte le consonanti interne r e l alla iniziale c.
RaffaeleBracale

CARCARA E DINTORNI

CARCARA E DINTORNI

In napoletano la voce toscana calcara (dal tardo latino:fornacem calcaria(m) ) è resa, con un consueto adattamento che comporta l’alternanza L/R, con il termine carcara e con tale termine si identificano un po’ tutte le fornaci a cielo aperto usate per la produzione di svariati materiali, e cioè non solo la calcara della calce, ma pure quella dello zolfo etc.e perfino quella del carbone di legna, la cui fornace di produzione in toscano è reso con il termine: carbonaia, mentre per i napoletani il cumulo di terra ed argilla sotto cui vengon fatti bruciare i ciocchi di castagno, o di leccio,o di corbezzolo, o di cerro ed orniello, nonché di quercia,, per la produzione del carbone, è detta semplicemente: ‘a carcara d’’o gravone; oppure altrove come a Caserta e nella sua provincia, tale carbonaia è detta ‘o catuozzo, con derivazione dal lat. catoptium a sua volta forgiato su di un greco katoptos = ben cotto; in altre province campane ancóra s’usa per indicar la carbonaia impropiamente, il termine catuoio, che di per sé (con derivazione dal lat. catogenum, a sua volta dal greco katogheion )sta ad indicare il porcile, o un piccolo vano ben serrato; tale particolarità della carbonaia che è appunto un ammasso di legna, terra ed argilla ben stipate salvo che per la bocca d’alimentazione ubicata alla sommità della catasta, la fa ricollegare, sebbene impropriamente al catuoio; per la precisione,infine, la fornace a cielo aperto usata per la produzione dello zolfo è detta in Sicilia, estremo lembo del Reame borbonico delle Due Sicilie, terra dove esistette durante il regno suddetto il 90% delle industrie estrattive della intera penisola, è detta, dicevo, con significativo accrescitivo‘u carcarone.
Una particolarità interessante della lingua napoletana, a proposito del vocabolo in epigrafe è il fatto che partendo dal termine carcara, si è pervenuti al verbo scarcarí (scarcarire) usato per significare l’agitazione violenta e preoccupata di chi, anelando a qualcosa, vi tenda con eccessiva premura di azioni o di intendimenti; di costui, prendendo a modello il violento bollore della calce nella calcara, bollore che talora può provocare il tracimare dei materiali fusi fuor della calcara, si usa dire con icastica e significativa espressione : sta scarcarenno quasi: sta venendo fuori della calcara dove la S d’avvio del verbo scarcarí, non è la tipica S intensiva della lingua napoletana, ma riproduce l’ex latino per significare appunto il fuori da.
Raffaele Bracale

martedì 28 ottobre 2008

PARULANO

PARULANO

Eccoci a che fare con un vocabolo di sapore antico, quasi desueto, ma che ancora si può ascoltare tra i c.d. puosti ossia banchi dei venditori, sulla bocca dei napoletani e napoletane che frequentano piú o meno quotidianamente i mercatini rionali di ortofrutta; ed in effetti con il termine parulano si indica essenzialmente l’orticoltore ed il venditore d’ortaggi e solo estensivamente e quasi per celia, chi manchi di modi urbani ed usi un linguaggio sguaiato ed improprio, alla esatta stregua degli ortolani campagnoli, linguaggio tale da far ritener colui che lo usi come proveniente dalla parula che indica appunto i campi dove si coltivano ortaggi, campi che – per solito – sono ubicati in aperta campagna ai margini di paesini della piú remota provincia.

Molto tranquilla l’etimologia di parulano parola forgiata sul termine parula addizionata del suffisso di pertinenza aneus (ano) ; parula ed il forgiato parolaneus son esattamente dal latino: palude(m) con evidente metatesi e metaplasmo d/r che danno parula da cui il successivo parulano.
Raffaele Bracale

PAGLIOCCA – PAGLIOCCOLA

PAGLIOCCA – PAGLIOCCOLA


Nel lessico domestico degli anni intorno al 1950 i termini in epigrafe risuonavano spesso in ogni cucina napoletana ove si approntasse una polentina o – piú spesso – una crema pasticciera se non un sacramentale sanguinaccio carnevalesco e si paventasse il pericolo che nel confezionarle si formassero dei grumi sferici detti alternativamente pagliocche o paglioccole, grumi che compromettevano definitavamente la preparazione culinaria, per cui spesso si poteva udire la piú esperta donna, rivolgersi alle meno esperte donne di casa cui fosse stato demandato di seguire le fasi di cottura e raccomandar loro: “Stateve accorte a nun fà fà paglioccole” e cioè:”State attente a non far formar grumi”
Etimologicamente, trattandosi di grumi sferici, penso che i due termini prendano l’avvio dalla parola palla con successiva trasformazione di ll in gli(come ad es. Cogliere da collegere) + il suffisso dispregiativo occo/occa o il diminutivo occola.
È da notare come in regioni limitrofe e/o prossime come Lazio e Marche i medesimi grumi sono indicati con il termine pallocche o con il diminutivo pallocchette; per traslato con il termine pallocca o pallocchetta è indicata una giovane donna piuttosto paffuta e formosa, mentre a Napoli tale ragazza si indicherebbe con il piú tranquillo diminutivo vezzeggiativo: palluccella.
Raffaele Bracale

PACCHIANO/A

PACCHIANO/A
Questa volta ci troviamo difronte ad una parola oramai pressocché desueta , ma che fu molto usata negli anni tra il ’40 ed il ’50 dello scorso secolo e fu usata per indicare i contadini, i provinciali ed estensivamente gli zoticoni ed i rozzi provinciali provenienti dai paesi (nei quali si rifugiarono parecchi napoletani per sfuggire ai bombardamenti della seconda guerra mondiale) della campagna partenopea (da non confondere dunque con i cafoni per solito provinciali di montagna). Ancora piú estensivamente con il termine pacchiano si identificò il villano, il rozzo provinciale fisicamente ben pasciuto, e con il corrispettivo pacchiana la contadinotta di generose forme, quella contadina, detta affettuosamente ‘a pacchianella ‘e ll’ova, che ogni giorno era solita rifornire le case dei cittadini sfollati id est:fuggiti dalla città, di generi alimentari freschi (uova, formaggi,insaccati, latte, burro nonché verdure ed altri prodotti dell’orto).
Chiarito ad un dipresso il concetto di pacchiano/a, passiamo a parlare brevemente della sua etimologia.
Sgombriamo s úbito il campo da quella che – a mio avviso – è solo una graziosa, ma pretestuosa paretimologia e cioè che con la parola pacchiana e poi il corrispondente maschile si indicasse, contrariamente al cafone che è montanaro, la contadina, la villana e poi il contadino, il villano che giungessero in città p’’a chiana attraverso cioè la pianeggiante campagna.
È altresì da escludere una pretesa derivazione onomatopeica da un ipotizzato, ma non spiegato pacc.
Cosa mai produrrebbe nel pacchiano il suddetto suono?
Un’altra tentazione è che il termine pacchiano/a possa collegarsi al sostantivo italiano pacchia =gran mangiata e per estensione: vita beata e tranquilla, gioiosa ed allegra (dal latino: patulum→pat’lum→pac’lum→pacchio e pacchia = cibo,pasto), a sua volta deverbale di pacchiare: vivere beatamente, satollandosi di cibo e/o altro, senza quasi fatica; a me non pare però che, per quanto ben nutriti e satolli, i contadini durino una vita che sia solo una pacchia; ugualmente penso sia da scartare l’ipotesi che pacchiano/a possan derivare da un tardo latino regionale pachylus←pachilós =grassoccio dal greco pachýs con il suffisso di pertinenza ano come per imitazione di villano dal lat. villa + aneus; infatti il napoletano, forgiato su pachylus←pachilós←pachýs à già pacchione che l’uomo grosso, grasso e tarchiato che quando sia anche d’indole bonaria diventa pachialone.
Non resta dunque che aderire, per l’etimologia di pacchiano, a quanto proposto dal grandissimo prof. Rohlfs che congettura una derivazione per metatesi dal sostantivo chiappa (forgiato su di una radice indoeuropea klapp) nel significato però non di sasso sporgente, ma di natica, elemento sporgente del corpo umano, tenendo presente la morfologia fisica del pacchiano o piú spesso pacchiana, dotati quasi sempre di sostanziose natiche sporgenti.
Raffaele Bracale

Parlà cu 'o revettiello

Parlà cu 'o revettiello
Ad litteram:parlare con doppiezza o con il doppio senso. Azione tipica di coloro - in ispecie donne -che malevole e per vigliaccheria non aduse ad esprimere apertamente il proprio pensiero, le proprie opinioni, parlano per traslati, per sottintesi, per allusioni con la doppiezza richiamante il revetto o revettiello id est:la doppia cucitura posta agli orli di gonne e sottogonne per impedirne il logoramento
brak

Parlà a schiovere

-Parlà a schiovere
Ad litteram:parlare a vanvera, quasi a pioggia battente. Detto di chi, non avendo nulla di serio e costruttivo da comunicare, dà libero sfogo alla lingua e a mo' di pioggia inonda il prossimo di vuote parole senza significato e/o costrutto , a ruota libera ed inopportunamente.
Preciso qui che il termine schiovere significa per solito: smettere di piovere, ma - in napoletano - spesso la prostesi di una S ad un termine ha funzione intensiva e rafforzativa, non sottrattiva ed è il caso dello schiovere della locuzione qui annotata dove con l’anteporre la S alla parola chiovere (piovere) non si è inteso indicare la cessazione del fenomeno atmosferico, ma si è inteso aumentarne la portata!
brak

Paré

1 - Paré 'a gatta appesa ô llardo
Ad litteram:sembrare la gatta attaccata al lardo Icastica similitudine riferita a due persone che incedano di conserva di cui una si mantenga saldamente legata al braccio dell'altra; di solito si tratta di una anziana donna che si accompagni ad un baldo giovane e su di lui faccia affidamento per un incedere sicuro.
2 -Parè 'a palata e 'a jonta
Ad litteram:sembrareil filone di pane e la giunta La similitudine riguarda sempre due persone che incedano di conserva, ma diversamente dall'espressione precedente qui si tratta di due persone di cui l'una sia longilinea e prestante e l'altra piccola e piuttosto in carne per modo da essere paragonati ad un filone di pane ed alla giunta che il fornaio soleva accordare al compratore, per aggiustare il peso del filone di pane spesso inferiore al previsto kilogrammo della pezzatura.
3 -Paré 'a lampa d''o Sacramento.
Ad litteram: sembrare la lampada del Sacramento Id est: essere così smunto e macilento da potersi paragonare al piccolo cero che arde davanti la custodia del SS. Sacramento nelle chiese cattoliche.
4 -Paré ll'aseno 'mmiezo ê suone
Ad litteram: sembrare l'asino fra i suoni Così si usa dire di chi di natura distratto, insicuro e dubbioso, si mostri frastornato e confuso in ogni rapporto interpersonale tanto da farsi appaiare ad un asino che in un contesto fragoroso e rumoroso perda quasi il senso d'orientamento .
5 -Pare brutto.
Ad litteram: sembra brutto. Così usa dire chi voglia consigliare qualcuno di non tenere un certo comportamento, ma non sappia o voglia addurre seri motivi acciocchè non si agisca in quel modo e si limita perciò ad indicarlo come erroneo ed inopportuno, ma senza alcun preciso e documentato motivo, solo in ragione di una sciocca ipocrisia che fa ritenere inopportuno il comportamento in quanto esso potrebbe sembrare agli altri scorretto se non riprovevole .
6 -Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione ironica da intendersi in senso antifrastico, id est: mai ti vedrò vestito da orso, locuzione che si rivolge a mo' di canzonatura davanti alle risibili imprese dei saccenti e supponenti che si imbarcano privi delle necessarie forze fisiche e/o intellettive, in avventure ben superiori alle loro scarse possibilità a causa delle quali le imprese son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione si dispone a catturare un orso per vestirsene della pelle, ma sciocco ed incapace non vi potrà mai riuscire.
7 -Pare ca mo 'o vveco
Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò Locuzione di portata molto simile alla precedente, ma di valore più generico che si usa in presenza di una generica previsione di un risultato fallimentare cui è destinata l' azione intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato.
8 - Pare ca 'o culo ll'arrobba 'a cammisa o ‘a pettola.
Ad litteram:sembra che il sedere gli ruba la camicia o la falda della medesima.
Icastica e divertente espressione che si usa per bollare l'estrema avarizia e taccagneria di un individuo così malfidato e timoroso da paventare che il sedere lo possa defraudare della propria camicia, la cui falda (pettola) è a contatto col medesimo sedere.
9 - Paré mill'anne
Ad litteram:sembrare mille anni Così iperbolicissimamente si suole affermare nell'attesa di desiderati avvenimenti che tardino a realizzarsi .
10 -Paré 'na pupata 'e ficusecche
Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta che si soleva un tempo riferire soprattutto alle attempate signorine che andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o più economica farina, nel vano tentativo di nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi imbiancati di glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini.
11 - Paré n'auciello 'e malaurio
Ad litteram:sembrare un uccello del malaugurio Detto di chi pessimista di natura profetizzi per sé e per gli altri,guai e disgrazie continuate; costui a cui spesso il malaugurio si legge in volto viene assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette ritenuti apportatori di disgrazie.
12 -Paré 'na ùfera
Ad litteram:sembrare una bufala Detto di chi, incollerito ed irato si lascia assalire da una violenta crisi nervosa al punto da poter essere paragonato ad una bufala che imbestialita carichi collericamente.
13 -Paré 'nu pireto annasprato
Ad litteram:sembrare un peto inzuccherato Fantasiosa ed irreale locuzione con la quale viene indicato chi saccente, supponente e vanesio si dà l'arie di valente superuomo, ma essendo in realtà privo di ogni concreto supporto e fondamento alle sue pretese virtù può solo esser paragonato ad un peto che, sebbene inzuccherato, rimane pur sempre la stomachevole, fetida cosa che è.
14 -Paré 'nu sorece 'nfuso 'a ll' uoglio
Ad litteram:sembrare un topolino bagnato dall'olio. Icastica espressione normalmente riferita a quei ragazzi che se ne andavano e se ne vanno in giro con il capo abbondantemente cosparso, una volta di brillantina ed oggi di gelatina e risultano avere i capelli così unti da poter essere facilmente appaiati ad un topolino che completamente unto venga fuori da un contenitore di olio nel quale - essendone ghiotto - s'era completamente immerso.
15 - Paré 'nu Cristo schiuvato
Ad litteram:sembrare un Cristo schiodato (e deposto dalla croce). Icastica locuzione con la quale si suole indicare chi sia così smunto, pallido e mal ridotto al segno di poter essere paragonato, non irriverentemente, al Cristo morto e deposto dalla croce.
16 - Paré 'o diavulo e ll'acqua santa
Ad litteram:sembrare il diavolo e l'acqua santa. Locuzione che si usa per indicare due persone caratterialmente agli antipodi e dunque in perenne lotta, attesa la incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi di agire.
17 - Paré don Titta e 'o cane
Ad litteram:sembrare don Titta ed il cane Locuzione usata per fotografare la situazione che veda due individui che procedano indissolubilmente legati fra di loro al segno che quasi l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa. Chiarisco qui che il don Titta della locuzione non à riferimenti né storici, né letterarî con alcun personaggio esistito o di fantasia; è usato nella locuzione per un malinteso senso di rispetto, al posto di san Rocco, originario protagonista della locuzione; ed in effetti il santo, nella iconografia tradizionale è rappresentato accompagnato sempre da un cane; in seguito, per una sorta di bigottismo, al nome del santo fu sostituito quello di un non meglio codificato don Titta, che non è -sia chiaro!- il boia pontificio, personaggio mai entrato nella cultura partenopea che aveva in un mastro Austino il boia di sua pertinenza.
brak

'O spasso d''o cardillo è 'o pappamosca

'O spasso d''o cardillo è 'o pappamosca
Ad litteram:il divertimento del cardellino è il ragno. Cosí si suole commentare il fastidioso, reiterato comportamento di chi si diverte a tormentare, insolentendolo e molestandolo chi sia meno dotato soprattutto fisicamente, tenendo il medesimo comportamento che tiene il cardellino con il ragno o - secondo altri - con la cinciallegra, che - pare - sia continuatamente e provocatoriamente angariata immotivatamente dal cardellino.Ricorderò che usata come voce maschile: ‘o pappamosca significa il ragno, mentre usata al femminile ‘a pappamosca è la cinciallegra.
brak

COTICHE IN UMIDO

COTICHE IN UMIDO
dosi per 6 persone

800 g di cotiche di prosciutto di maiale sgrassate,
1 bicchiere di olio extravergine di oliva,
1 cucchiaio di strutto,
2 piccoli gambi d sedano lavati, asciugati e divisi in piú pezzetti,
1 mazzetto prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente
1 bicchiere di passata di pomodoro,
2 confezioni vitree da 250 g. cadauna di fagioli cannellini lessati
oppure 500 g di cannellini secchi,
2 foglie di alloro,
1 bicchiere di panna,
sale doppio un pugno
sale fino, e pepe nero macinato a fresco q.s.
procedimento
Se avrete optato per i fagioli secchi, dovete metterli a bagno la sera precedente la preparazione del piatto. L'indomani laverete accuratamente le cotiche di maiale e lemetterete a lessare in abbondante acqua bollente salata (pugno sale doppio). Dopo circa 8 minuti, cioè quasi alla fine della cottura, scolatele. A parte preparate in un ampio tegame provvisto di coperchio un sugo mescolando l'olio extravergine di oliva con lo strutto, il sedano e la passata di pomodoro. Mettete il tegame a fuoco moderato, incoperchiate e fate cuocere per circa 1/4 d'ora. Aggiungete le cotiche lessate e mescolate con un cucchiaio di legno.
Unite quindi i fagioli in scatola oppure quelli secchi ammorbiditi in acqua, le foglie di alloro, che poi toglierete, e 1 bicchiere di acqua calda. Salate, pepate e fate cuocere a fiamma vivace per circa mezz'ora. Quando i fagioli saranno cotti e il sugo un poco ristretto, il piatto è pronto e può essere servito con delle patate in umido.Poco prima di servire in tavola aggiungete la panna, lasciate insaporire per qualche minuto e servite ben caldo.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!

raffaele bracale

CARPACCIO AI PORCINI

CARPACCIO AI PORCINI
Eccovi un ottimo piatto freddo estivo/autunnale , nutriente e saporito!

INGREDIENTI PER 4 - 6 PERSONE:
- 600 gr di filetto di manzo o vitello affettato a macchina sottilissimo
- 3 grossi funghi porcini (vanno bene anche quelli surgelati se di ottima qualità)
- 2 spicchi d'aglio mondati e tritati finemente,
- il succo di 1 limone,
- 2 cucchiai di prezzemolo fresco tritato,
- 2 cucchiaini di paprika dolce
- 10 cucchiai d'olio di oliva e.v.(meglio se prima spremitura)
- sale fino alle erbe q.b.
- pepe bianco q.b.
Adagiate le fettine di carne, l’una accanto all’altra, su un piatto da portata. Pulite i funghi (i surgelati lasciateli scongelare lentamente a temperatura ambiente,asciugateli delicatamente e poi puliteli), affettateli sottilmente avendo cura di inferire il taglio in modo diagonale (alla francese!con lama posta a 45°) e distribuiteli sul piatto con la carne.
2. Spolverizzate con tutta la paprika, abbondante sale e pepe. Tritate il prezzemolo con l'aglio e cospargetelo. Irrorate con tutto il succo di limone e tutto l’olio e sistemate in frigorifero per almeno 10 ore prima di servire.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
raffaele bracale

CAPRETTO BELLA NAPOLI

CAPRETTO BELLA NAPOLI
Dosi per 6 persone
2, 5 kg di capretto con l’osso tagliato in pezzi di ca cm 5 x 5 x 3
, 8 etti di piselli (freschi o surgelati) lessati,
4 uova,
una grossa cipolla dorata ,
100 g di pecorino grattugiato,
2 bicchieri di olio e.v.,
sale fino e pepe bianco q.s.
1 limone.
Volendo:
6 etti di rigatoni o mezze maniche,
1 pugno di sale doppio
½ etto di pecorino,
altro pepe bianco.


Procedimento
In un capace tegame fate imbiondire(senza che bruci o arsicci) la cipolla affettata in grossi pezzi, con tutto l'olio e unite il capretto a pezzi, lavato e ben sgocciolato (meglio se asciugato). Rosolate delicatamente, abbassate la fiamma ed aggiungete un mestolo o due di acqua calda e sale.
A metà cottura unite i piselli già lessati e fate insaporire.
In una terrina battete le uova con il formaggio (2 cucchiai), sale ed un pizzico di pepe, versate il tutto nel tegame e mescolate rapidamente perché l'uovo si rapprenda in modo uniforme. Aggiustate di sale. Spruzzate di limone e servite.
Volendo con il sugo residuo, si posson condire 6 etti di rigatoni o mezze maniche lessati al dente in molta (8 litri) acqua salata (pugno di sale doppio) e saltati nella padella con il sugo residuo, a fuoco vivo, spolverizzati con abbondante pecorino e pepe bianco.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!

raffaele bracale

BRASCIULETTE PUVERELLE

BRASCIULETTE PUVERELLE
involtini poverelli
Ingredienti e dosi per 6 persone:
versione colorata:
8 – 10 etti di fettine di vitello (polpa di spalla) spesse non piú di 1 cm.,
2 etti di lardo di dorso tagliato a macchina (fettine sottili)
1 cipolla dorata ed una carota tritate finemente
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
una tazza da tè di passato di pomodoro
1 cucchiaio di strutto,
½ bicchiere d’olio extravergine di oliva
sale fino e pepe nero q.s.


Cospargere le fettine (piccole!) di carne con sale e pepe, arrotolare e lasciar riposare una notte in frigo.
Srotolare, mettere una fetta o due di lardo, riarrotolare, chiudere con il filo, far rosolare in olio, strutto, cipolla e carota aggiungere il passato di pomodoro, sale e pepe e finire di cuocere aggiungendo due bicchieri d’acqua calda.
Spolverizzare con il trito di prezzemolo e servire, bagnando con il fondo di cottura.

versione bianca:
8 – 10 etti di fettine di vitello (polpa di spalla) spesse non piú di 1 cm.,
2 etti di lardo di dorso (e non di pancia!) tagliato a macchina (fettine sottili)
1 cipolla dorata ed una carota tritate finemente
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
3 cucchiai di pisellini freschi o in iscatola o surgelati,
1 cucchiaio di strutto,
½ bicchiere d’olio extravergine di oliva
sale fino e pepe nero q.s.


Cospargere le fettine (sottili!) di carne con sale e pepe, arrotolare e lasciar riposare una notte in frigo.
Srotolare, mettere una fetta o due di lardo, riarrotolare, chiudere con il filo, far rosolare in olio, strutto, cipolla e carota aggiungendo infine i pisellini, sale e pepe e finire di cuocere aggiungendo due bicchieri d’acqua calda
Spolverizzare con il trito di prezzemolo e servire, bagnando con il fondo di cottura.
vini:
per la versione colorata: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.


per la versione bianca: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

Lloco te voglio, zuoppo, a ‘sta sagliuta

Lloco te voglio, zuoppo, a ‘sta sagliuta
Ad litteram: Lí ti voglio (vedere), zoppo, innanzi a questa salita (vediamo cosa saprai fare...). Locuzione che ricorda quasi il dantesco: Qui si parrà la tua nobilitate e che viene usata nei confronti di tutti i saccenti, supponenti millantatori che certamente crolleranno innanzi alle prime autentiche difficoltà, quando non saranno sufficienti per raggiungere un risultato le parole di cui i millantatori sono ricchi e vacui dispensatori, ma occorreranno invece i fatti che i soliti millantatori sono incapaci di produrre.
brak

Ll’urdemu lampione ‘e Forerotta.

Ll’urdemu lampione ‘e Forerotta.
ad litteram:l’ ultimo lampione di Fuorigrotta id est: essere l’ultimo, inutile, insignificante individuo di un cossesso quale esso sia. La locuzione si riferisce al fatto che un tempo a Napoli i lampioni dell’illuminazione stradale erano numerati ed accesi a sera progressivamente secondo la loro numerazione cardinale. l’ultimo di essi lampioni contrassegnato con il num. 6666 era ubicato in una periferica zona della città nel quartiere detto di Fuorigrotta ed era l’ultimo ad essere acceso , quando già le prime luci del giorno ne sminuivano l’utilità;alla luce di quanto detto si comprende che è solo un divertente, ma incoferente esercizio mentale considerare che con la quadruplice sequenza del num. 6 che nella smorfia indica tra l’altro lo sciocco, il lampione contrassegnato 6666 possa indicare un gran babbeo.
brak

Jí mettenno ‘a fune ‘e notte

Jí mettenno ‘a fune ‘e notte
Ad litteram: Andar mettendo la fune di notte. Locuzione che si usa pronunciare risentitamente, in forma negativa ( nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte) (non vado tendendo la fune di notte)oppure sotto forma di domanda retorica:ma che ghiesse mettenno fune ‘e notte?(forse che vado tendendo funi di notte?)per protestare la propria onestà, davanti ad eccessive richieste di carattere economico; a mo’ d’esempio quando un figlio chiede troppo al proprio genitore, costui nel negargli il richiesto usa a mo’ di spiegazione la locuzione in epigrafe, volendo significare: essendo una persona onesta e non un masnadiero abituato a rapinare i viandanti tendendo una fune traverso la strada, per farli inciampare e crollare al suolo, non ho i mezzi economici che occorrerebbero per aderire alle tue richieste; perciò règolati e mòderale !
brak

Jí a ppuorto (o a Puortece) pe ‘na rapesta.

Jí a ppuorto (o a Puortece) pe ‘na rapesta.
Ad litteram: recarsi al porto (oppure a Portici) per (acquistare) una rapa. Id est: impegnarsi eccessivamente, affaticarsi oltremodo per raggiungere un risultato modesto o meschino come sarebbe il recarsi al mercato del porto o addirittura a Portici, piccolo comune agricolo nei pressi di Napoli, per acquistare una sola, insignificante rapa.Per vero l’espressione esatta è Jí a ppuorto pe ‘na rapesta,mentre Jí a Puortece pe ‘na rapesta ne è solo una colpevole corruzione; un tempo il principale mercato ortofrutticolo napoletano era ubicato in prossimità del porto su terreno che poi ospitò il mercato del pesce e da ultimo i tendoni dei circhi equestri nomadi.
rapesta s. f. è voce che con derivazione dal lat. rapist(r)u(m) indica la rapa(ortaggio di scarsissimo sapore e valore) e per traslato un uomo o donna inetti e dappoco.
brak

Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo

Jí ô bbattesemo senza ‘o criaturo
Ad litteram: recarsi al fonte battesimale senza il bambino (da battezzare) locuzione usata per bollare situazioni macroscopicamenti carenti degli elementi essenziali alla loro esistenza, riferita spercialmente a tutti coloro che distratti per natura, o perché colpevolmente poco attenti si accingono ad operazioni destinate a fallire perché prive del necessario sostrato dimenticato per distrazione o non conferito per disattenzione.
brak

Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine

Jí truvanno Cristo ‘int’ ê lupine o meglio Jí truvanno Cristo dinto a la pina
ad litteram: Andar cercando Cristo fra i lupini o meglio Andar cercando Cristo nella pigna. Id est: mettersi alla ricerca di una cosa difficile da trovarsi o da conseguirsi; cosa pretestuosa e probabilmente inutile, per cui, il piú delle volte, non metterebbe conto il mettersene alla ricerca.
Come ò segnalato la prima locuzione è meno esatta della seconda che risulta essere quella originaria, mentre la prima ne è solo una frettolosa corruzione; ed in effetti se si analizza la seconda locuzione, quella consigliata, si può intendere a pieno la valenza delle espressioni, valenza che è difficile cogliere accettando la prima locuzione che fa riferimento ad incoferenti e pretestuosi lupini; quanto piú corretta la seconda, quella che fa riferimento alla pigna in quanto i pinoli in essa contenuti presentano un ciuffetto di cinque peli comunemente detto: manina di Cristo e la locuzione richiama la ricerca di detta manina, operazione lunga e che non sempre si conclude positavamente: infatti occorre innanzitutto procurarsi una pigna fresca, abbrustolirla al fuoco per poi spaccarla ed estrarne i contenitori dei pinoli, da cui trar fuori i suddetti ed alla fine andare alla ricerca della manina e cioè di Cristo; spesso capita però che i contenitori siano vuoti di pinoli e dunque tutta la fatica fatta va sprecata e si rivela inutile. Qualche altro scrittore di cose napoletane nel vano tentativo di fare accogliere la prima locuzione, fa riferimento ad una non meglio annotata o rammentata leggenda che vede stranamente la Vergine Maria non esser misericordiosa con la pianta di lupini; nelle mie ricerche tale leggenda è risultata pressocché sconosciuta, mentre non v’è anziano popolano che non sia a conoscenza della manina di Cristo.
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domenica 26 ottobre 2008

STRACCETTI DI VITELLA ALLA PIZZAIOLA

STRACCETTI DI VITELLA ALLA PIZZAIOLA
ingredienti e dosi per 6 persone :
per il sugo
Pomidoro tipo san Marzano o Roma freschi,lavati, sbollentati e pelati Kg. 1 (o due scatole da mezzo chilo di pomidoro pelati) –
- Olio d’oliva e.v. 1 bicchiere
– Aglio mondato e tritato finemente 2 spicchi
- Origano, un pizzico abbondante
- Prezzemolo fresco, lavato, asciugato e tritato, un pizzico
– Salefino e Pepe nero macinato a fresco q.s
gli straccetti:
1,200 kg. di fettine (spesse mx 1 cm.) di tenera spalla di vitella,
farina q.b.
sale fino e pepe nero q.s.
volendo
6 etti di mezzemaniche rigate,
1 pugno di sale doppio,
1/2 etto di pecorino grattugiato.
procedimento
Mettete in un’ampia padella l'olio e l'aglio mondato e tagliato a fettine. Appena l'aglio tenderà ad imbiondire, aggiungete o i pomidoro freschi lavati, sbollentati e spellati, divisi in pezzi e privati dei semi, oppure i pomidoro in iscatola sgrondati del liquido di conserva e schiacciati con una forchetta. Fate cuocere a calore forte, condite ad libitum con sale e pepe e a cottura del pomodoro, che non deve essere sfatto, aggiungete un abbondante pizzico di origano La ricetta prescrive che le fettine d'aglio rimangano nella salsa; se questo non piacesse, si può fare scaldare nell'olio uno spicchio di aglio schiacciatoper intero e poi toglierlo, ma è cosa che sconsiglio. Nel mentre che il sugo completa la cottura, spianare con un batticarne le fettine (se eccedessero il centimetro di spessore, lavatele e ricavantene con delle forbici degli straccetti della grandezza d’un pollice eliminando eventuali pellicine, nervetti o eccesso di grasso; infarinate abbondantemente gli straccetti e poneteli nella padella con il sugo, salateli, pepate ed incoperchiate ed a fiamma bassa portate velocemente (12 minuti) a cottura gli straccetti; a fiamma spenta aggiungete altro origano ed il titro di prezzemolo, rimestate ed impiattate e servite questi saporitissimi straccetti irrorati con il fondo di cottura ed accompagnate da verdure cotte al vapore e condite all’agro con olio, aglio,limone (o aceto) sale e pepe. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!
Poscritto
Con l’eventuale sugo residuo si posson condire 6 etti di mezzemaniche rigate che lessate al dente vanno ripassate nella padella con il sugo caldo ed impiattate spolverizzate di pecorino e pepe
raffaele bracale

-ROMPERE 'O CHITARRINO

-ROMPERE 'O CHITARRINO
Ad litteram: rompere la piccola chitarra id est: infastidire, tediare, annoiare e molestare qualcuno al punto di procurargli, sia pure figuratamente, la rottura del sedere che, nella locuzione è detto (con riferimento alla sua becera sonorità) chitarrino usando cioè uno degli oltre venti sinonimi con cui nel napoletano, si indica il culo.
La voce chitarrino di per sé è un diminutivo maschilizzato di chitarra 1 (mus.) strumento a sei corde con manico lungo, cassa armonica a forma di otto, foro di risonanza circolare; il medesimo foro circolare strumento di scostumate risonanze, à nell’immaginario collettivo partenopeo fatto appaiare la chitarra (sia pure maschilizzando la voce: chitarra→chitarro→chitarrino) al culo; quanto all’etimo la voce chitarra deriva dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára.Preciso in coda che, per significare il culo è occorso maschilizzare la voce chitarra rendendola chitarrino (cosí come in epigrafe) giacché per traslato furbesco con la voce femminile chitarra già s’indicava una cosa diversa e cioè la vulva (cfr. nella smorfia napoletana che al numero 67 recita – ‘O TÒTARO DINT’ Â CHITARRA letteralmente: il totano nella chitarra, e ci troviamo davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: tòtaro deriv. del gr. teuthís o têuthos con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro.
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il verbo italiano RUBARE ed i suoi corrispondenti

il verbo italiano RUBARE ed i suoi corrispondenti nella lingua napoletana.
Il verbo italiano in epigrafe: rubare (che è propriamente l’appropriarsi in modo illecito di beni altrui; sottrarre ad altri qualcosa, spec. con l'astuzia o con la frode) pur avendo numerosi sinonimi quali: trafugare, carpire; (pop.) fregare, grattare (pop.); (qualcuno di qualcosa) derubare, defraudare, spogliare, impossessarsi, impadronirsi, rapinare, scippare, estorcere, taccheggiare, è verbo che (salvo poche eccezioni: rapinare, scippare, estorcere) non à – nei suoi sinonimi – significazioni specifiche e/o particolari, per cui tali sinonimi possono essere usati (senza grosse differenze) in luogo dell’originario rubare verbo che etimologicamente si fa derivare da un latino dell’VIII sec.: raubàre o robare a loro volta forgiati su di un antico tedesco raubon.
Ben diversa la situazione della lingua napoletana che pur presentando numericamente pochi sinonimi del verbo di partenza arrubbà che è l’appropriarsi in modo illecito di beni altrui, destína i varii sinonimi all’indicazione di precise, circostanziate azioni e/o situazioni. Elenco qui di sèguito i sinonimi, per poi illustrali singolarmente:
accrastà, arravuglià, arraffà o,aggraffà o aggranfà, arrefulià, arrunzà, furà.
Passiamo ad esaminare i singoli verbi:
arrubbà: vale il generico rubare, ma sarebbe fallace pensare che il verbo napoletano sia stato marcato sull’italiano rubare; in realtà il verbo partenopeo à un diverso etimo di quello italiano risultando essere un denominale di robba (roba)(dal tedesco rauba =bottino,preda) attraverso un ad + robba = adrobba→arrubba→arrubbare/arrubbà= darsi al bottino, alla preda;
accrastà:di per sé vale: agguantare, sopraffare con violenza, ma in particolare: rapinare; l’etimo è dal latino *ad-crastare→accrastare= sospingere ad una intagliatura; crastare è da un lat. classico castrare(=tagliare) da cui,con una evidente metatesi,crastare donde ad+crastare→accrastare/accrastà;
arraffare/arraffà o anche aggranfà o pure aggraffà tutte le tre voci verbali sono evidenti tre sistemazioni fonetiche (attraverso varî adattamenti) di una medesima voce iniziale che è aggranfà e tutte valgono per: abbrancicare, afferrare con destrezza e rapidità e posson quasi valere l’italiano scippare; etimologicamente la voce aggranfare/aggranfà risulta essere un denominale del longobardo krampfa = artiglio, grinfia,uncino;
arrunzà:di per sé vale: prender tutto, senza distinzione di sorta, far man bassa di ciò che capiti, raccattandolo alla meno peggio; con questo verbo, e con il successivo si identifica il furto di piccoli oggetti o generi alimentari operato nei grandi eserci commerciali; etimologicamente la voce risulta denominale di un tardo latino runca = falcetto, quasi nel significato di tagliar tutto, recidere (con la roncola) senza distinzione;
arravugliare/arravuglià: di per sé vale: avvolgere, inviluppare ed estensivamente sottrarre qualsiasi cosa capiti sotto mano, celandola nelle tasche o nelle pieghe degli abiti; come ò detto è il tipo di furto che si perpetra nei grandi esercizi commerciali soprattutto nei reparti di generi alimentari; etimologicamente la voce risulta essere dal basso latinoad+revolviare→arrevolviare→arravoglià→arravuglià= confondere, celare;
arrefuliare/arrefulià è il verbo che in napoletano si usa per indicare il rubacchiare che si fa sui soldi della spesa; è il verbo che connota l’azione che in italiano è resa con l’espressione far la cresta (dalla locuzione romanesca: far l'agresta, riferita ai contadini che, per rubare al padrone, coglievano l'uva acerba e ne vendevano il succo);il verbo napoletano a margine è un rafforzamento, attraverso un ad→ar prostetico , del verbo refulià /refilà = rifilare (da un tardo lat.re(ri)+ filare, deriv. di filum 'filo'=pareggiare qualcosa con un taglio a filo);
furare/furà che è il generico rubare, sottrarre , ma è voce essenzialmente usata anticamente in poesia; il verbo a margine ripete dritto per dritto il basso latino furare per il classico furari da fur/furis.
Raffaele Bracale

- SAPÉ 'A LECCA E 'A MECCA

- SAPÉ 'A LECCA E 'A MECCA
Ad litteram:sapere la lecca e la mecca Id est: essere a conoscenza di un po' tutto quel che c'è da sapere e anche di quel che è inopportuno conoscere; Locuzione usata a stupito commento delle meraviglie narrate da coloro che avendo girato il mondo usano riferirle ad attoniti ascoltatori ; con altra valenza è usata per indicare che ci si fa meraviglie di quante cose siano a conoscenza di taluni giovani che, data la loro tenera età, non si presupporrebbe potessero conoscere tante cose.
Intorno alla locuzione in epigrafe ed alla sua genesi svariate sono le ipotesi. Io stesso nei lontani anni '70 del 1900 proposi sulle colonne del quotidiano napoletano ROMA, nella rubrica Mosconi tenuta dalla prof.ssa Settimia Cicinnati (parce sepulta!) un'opinione che poi - pare - abbia trovato parecchi proseliti tra i cultori di cose napoletane. Orbene posto che la locuzione nasce storicamente in Sicilia e lí recita: firriari lecca e Mecca ovvero: girare tra Lecca e Mecca, reputo che la Mecca della locuzione non possa esser altro che la città sacra dei mussulmani e atteso che i siciliani dell'anno 1000, di quei loro invasori che vedevano firriari a dritta e mancina sulla terra siciliana a stento conoscevano il nome de La Mecca a loro si vollero riferire coniando la locuzione dove è chiaro che il termine Lecca non corrisponde a niente di concreto e reale, ma sia stato coniato per bisticcio ed allitterazione con il seguente Mecca
Successivamente la locuzione trasmigrò dalla Sicilia alla Campania, mantenendo la duplice valenza cui accennavo , anzi aggiungo che i napoletani piú anziani e dunque i piú facili a scandalizzarsi davanti ad irriverenti conoscenze dei giovani solevano completare la locuzione in epigrafe aggiungendovi un: e 'a via smaldetta (e la via maledetta)dicendo di un giovane che si mostrasse troppo addentrato nelle segrete cose che egli sapeva 'a lecca, 'a Mecca e 'a via smaldetta id est: conosce la lecca la Mecca e la via maledetta ossia della perdizione.
Linguisticamente faccio notare la tipica protasi della esse intensiva anteposta all’aggettivo maledetta che come smaldetta assume una valenza maggiore e diventa grandemente maledetta.
In chiusura rammenterò, per amor di completezza l’idea sostenuta dall’amico avv. Renato de Falco, illustre cultore di cose napoletane che reputa lecca e Mecca non riferibili ad àmbito arabo in quanto – a suo avviso la parola lecca è una corruzione della voce aleph (prima lettera dell’alfabeto ebraico) mentre la voce mecca sarebbe una corruzione della voce omega ( ultima lettera dell’alfabeto greco): cioè secondo l’amico avv. Renato de Falco la frase Sapé 'a lecca e 'a mecca varrebbe saper (tutto) dalla a alla zeta. Ipotesi graziosamente fantasiosa che però non mi convince per due motivi: 1) perché mai operare un non mai attestato connubio di ebraico e di greco? Perché non dire ad es.: Sapé l’affa (alfa prima lettera dell’alfabeto greco) e ‘a meca omega ultima lettera dell’alfabeto greco)? 2) morfologicamente occorre fare delle autentiche capriole per giungere a lecca ed a mecca partendo rispettivamente da aleph ed omega
No, no! questa volta l’amico avv. Renato de Falco non mi convince; e poi non fa riferimento alcuno alla Sicilia ed agli arabi che firriavano lecca e Mecca.
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