mercoledì 31 marzo 2010

VARIE 611

1 -Tené 'a parola superchia
Ad litteram: tenere la parola superflua. Detto di chi parli piú del dovuto o sia eccessivamente logorroico, ma anche di chi, saccente e suppunente, aggiunga sempre un' ultima inutile parola e nell'àmbito di un colloquio cerchi sempre di esprimere l'ultimo concetto, perdendo -come si dice - l'occasione di tacere - atteso che le sue parole non sono né conferenti, né utili o importanti, ma solo superflue.
2 -Tené 'a póvera 'ncopp' ê recchie
Ad litteram: tenere la polvere sulle orecchie Icastica locuzione usata a Napoli per indicare chi sia o - solo - sembri, per la voce e/o le movenze, un diverso accreditato di avere le orecchie cosparse di una presunta polvere , richiamante quella piú preziosa, in quanto aurea ,che usavano gli antichi effeminati dignitarii messicani e/o peruviani cosí apparsi ai conquistatori ispanici. La locuzione in epigrafe, a Napoli viene riferita ad ogni tipo di diverso, sia al ricchione (pederasta attivo), che al femmeniello (pederasta passivo).
3 - Tené 'a puzza sott' a 'o naso
Ad litteram: tenere ilpuzzosotto il naso Detto di chi, borioso, tronfio e schizzinoso assuma un atteggiamento di ripulsa, quello di chi avendo un puzzo sotto il naso, non lo tollerasse.
4 Tené a uno appiso 'ncanna o anche purtà a uno appiso 'ncanna
Ad litteram: tenere uno appeso alla gola o anche portare uno appeso alla gola Locuzione dalla doppia valenza: positiva e negativa; in quella positiva si usa per significare di avere una spiccata preferenza per una persona, quasi portandola al collo a mo' di preziosa medaglia benedetta; nella valenza negativa la locuzione è usata per indicare una situazione completamente opposta a quella testé segnalata, quella cioé in cui una persona generi moti di repulsione e di fastidio a mo' di taluni pesanti, tronfi monili che messi al collo, finiscono per infastidire chi li porti.Chiarisco qui che per meglio determinare la valenza della locuzione, quella positiva è segnalata dall'uso del verbo purtà (portare), quella negativa dall'uso del verbo tené (tenere).
5 -Tené a quaccuno appiso all'urdemo buttone d''a vrachetta
Ad litteram:tenere qualcuno appeso all'ultimo bottone della apertura anteriore dei calzoni.
Id est: Avere e mostrare aperta repulsione nei confronti di qualcuno al segno di considerarlo fastidioso elemento da poter - figuratamente - sospendere, per vilipendio, all'estremo bottone della brachetta anteriore dei calzoni.
6 -Tené a quaccuno 'ncopp' ê ppalle
Ad litteram:tenere qualcuno sui testicoli Id est: Cosí si esprime chi voglia fare intendere di nutrire profonda antipatia ed insofferenza nei confronti di qualcuno al segno di ritenerlo, sia pure figuratamente, assiso fastidiosamente sui propri testicoli.
7 -Tené 'a saràca dint' â sacca o anche tené 'a quaglia sotto
Ad litteram:tenere la salacca in tasca o anche avere la quaglia sotto
Icastiche locuzioni, usate alternativamente per indicare la medesima cosa e cioè: tentare inutilmente di nasconder qualcosa ; nel primo caso infatti è impossibile celare di avere in tasca una maleodorante salacca ; il suo puzzo l'appaleserebbe subito; nella variante è ugualmente improbo, se non impossibile nascondere di essere affetto da una corposa, voluminosa ernia (quaglia) inguinale .
8 -Tené 'a sciorta 'e Cazzetta: jette a piscià e se ne cadette
Ad litteram:tenere il destino di Cazzetta: si dispose a mingere ed il pene cadde in terra.
Divertente locuzione usata però a bocca amara da chi voglia significare di essere estremamente sfortunato e perseguitato da una sorte malevola al segno di non potersi iperbolicamente permettere neppure le piú normali funzioni fisiologiche, senza incorrere in gravi, irreparabili disavventure quali ad es. la perdita del pene.
9 -Tené 'a sciorta d''o piecoro ca nascette curnuto e murette scannato
Ad litteram:tenere il destino del montone che nacque becco e morí squartato.
Locuzione che, come la precedente viene usata da chi si dolga del proprio infame destino, qui rapportato a quello del montone che nato cornuto (per traslato: tradito) finisce i suoi giorni ucciso.
10 -Tené 'a salute d''a carrafa d''a Zecca
Ad litteram:tenere la salute (consistenza) della caraffa della Zecca.
Id est: essere molto cagionevoli di salute al segno di poter essere figuratamente rapportati alla estrema fragilità della ampolla di sottilissimo vetro, la cui capacità non raggiungeva il litro, conservata dalla Regia Zecca per confronto ed era l’ unica atta ad indicare la precisa quantità dei liquidi contenuti ed alla sua capacità dovevano uniformarsi le ampolle poste in commercio.
11 -Tené 'a vocca sporca
Ad litteram:tenere la bocca sporca Détto di chi, per abitudine parli facendo uso continuato ed immotivato di volgarità e/o parole sconce ed oscene al segno da restarne figuratamente con la bocca sporcata.
12 - Tené 'e chirchie allascate
Ad litteram:tenere i cerchi allentati Detto di chi, vacillandogli la mente, sragioni o abbia vuoti di memoria, alla stregua di una botte che per essersi allentati i cerchi contentivi delle doghe, vacilla e perde il liquido contenuto.
13 -Tené 'e gghiorde
Ad litteram:tenere la giarda Cosí ironicamente si usa dire di chi, pigro, infingardo e scansafatiche mostri di muoversi con studiata lentezza, tardo e dolente all'opera, quasi come i cavalli che affetti dalla giarda ne abbiano le giunture e il collo delle estremità ingrossati al punto da esserne impediti nei movimenti.
14 -Tené 'e lappese a quadrigliè p''a capa
Letteralmente: Avere le matite a quadretti per la testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà lappese a quadrigliè è la corruzione dell'espressione latina lapis quadratum seu opus reticulatum diventata lapis quadrellatum (donde lappese a quadriglié) antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno,ed il vertice verso l'interno, di piccole piramidi di tufo o altra pietra , per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente.Questa costruzione richiedeva notevole precisione, applicazione ed attenzione con conseguente sforzo mentale tale da procurare fastidio e ... mal di testa per la tensione ed il nervosismo, quelli che figuratamente sono indicati con la locuzione a margine.Ricorderò che erroneamente qualche scrittore di cose napoletane chiama in causa le matite o lapis propriamente detti, ed in particolare una pubblicità d'inizio del 20° secolo che mostrava una testa su cui erano conficcate a mo' di raggiera delle matite laccate a quadrettini neri e bianchi; ma atteso che la locuzione in epigrafe è molto antecedente all'epoca di quando furono commercializzate le matite( ca. 1790), ne discende che l'ipotesi è da scartare.

15 - Tené 'e ppalle quadrate
Ad litteram:tenere i testicoli quadrati. Icastico ed iperbolico modo di dire usato ad encomio di chi appaia nel proprio agire solerte, pronto ed attento, dotato di efficaci capacità mentali e/o operative attribuite all'inusuale quadratura dei suoi testicoli che risultano sia pure figuratamente non banalmente sferici, addirittura cubici richiamanti quella quadratura indice di facolttà mentali e/o operative superiori alla media.
16 -Tené 'e pecune
Ad litteram:tenere i pichi Espressione che con valenza positiva viene riferita a coloro che sebbene giovani di età, si mostrino moralmente cresciuti, intelligenti e capaci di operare al di là del presagibile, quasi che non siano gli imberbi adolescenti che l'anagrafe dice, ma a mo' degli uccelli prossimi a metter le piume, mostrino di avere, figuratamente, sparsi per il corpo quei pichi propedeutici negli uccelli allo spuntar delle piume
17 -Tené 'e pappice 'ncapa
Ad litteram:tenere i tonchi in testa Id est: sragionare, non connettere. Locuzione usata nei confronti di coloro che con parole o atti adducano nei rapporti interpersonali, ragionamenti non consoni, assurdi, sciocchi e pretestuosi, quasi fossero generati da teste i cui cervelli fossero assaliti e lesi nelle capacità raziocinanti dai tonchi quei minuscoli insetti che talora infestano i cereali in genere e la pasta in particolare.
18 - Tené 'e pigne 'ncapo
Ad litteram:avere le pigne in testa. Locuzione di identica valenza della precedente, usata però quando si voglia intendere che la mancanza di raziocinio è ritenuta esser dovuta ad una ipotetica violenza subíta, come potrebbe esser quella di sentirsi cadere in testa i duri stròbili del pino.
19 -Tené 'e rrecchie 'e pulicano
Ad litteram:tenere le orecchie di pubblicano Locuzione dalla duplice valenza usata sia per indicare sia dotato di udito finissimo , sia - piú spesso - per indicare coloro che stiano sempre, con l'orecchio teso attenti ad ascoltare ciò che accade a loro intorno, vuoi per informarsi, vuoi per non lasciarsi cogliere impreparati, comportandosi alla medesima stregua degli antichi esattori pubblici: pubblicani di cui pulicano è corruzione, pronti ad ascoltar qualunque cosa venisse detta in giro sul conto di chiunque, per non lasciarsi sfuggire un eventuale contribuente.
20- Tené 'e rrecchie pe finimente 'e capa
Ad litteram:tenere le orecchie per guarnimento della testa. Divertente locuzione di portata esattamente contraria alla precedente, che viene usata nei confronti di chi sia cosí duro d'orecchio da fare ritenere i loro padiglioni auricolari buoni solo per agghindare la testa.
21 -Tené fatto a quaccuno
Locuzione impossibile da tradurre ad litteram, usata da chi voglia fare intendere di avere completamente in pugno qualcuno, di tenerlo nella propria disponibilità, avendolo quasi plagiato.
22-Tené arteteca
Ad litteram:stare in agitazione continua Detto soprattutto di ragazzi irrequieti, instabili e vivaci in perenne movimento, incapaci di star fermi in un luogo e adusi a stender le mani su tutto ciò che capiti nei loro pressi.La parola arteteca, etimologicamente viene da un tardo latino: arthritica con il significato nell'Italia meridionale di irrequietezza mentre nella restante parte dello stivale sta per artrite.
23 - Tené 'mmano
Ad litteram: tenere in mano id est: attendere, rimandare, procrastinare, quasi trattenendo nelle mani ciò che vorrebbe esser fatto subito.
24 -Tené 'mpont' ê ddete
Ad litteram: tenere(qualcosa) sulla punta delle dita; id est: essere pienamente padrone d'un'arte o mestiere, conoscendone a menadito la strada ed i tempi da seguire per ottenere degni risultati.
25 -Tené 'na pioneca 'ncuollo
Ad litteram: tenere una miseria addosso; id est: essere o ritenersi di essere perseguitati dalla malasorte , quasi vessati dalla sfortuna che si è quasi attaccata addosso a mo' di seconda pelle.
26 -Tené n' appietto 'e core
Ad litteram: avvertire una compressione toracica id est: trovarsi in uno stato di angoscia, essere ansiosi al punto di avvertire il cuore pulsare tachicardicamente nel petto, quasi comprimendosi contro la gabbia toracica.
27 -Tené 'nu chiuvo 'ncapa
Ad litteram: tenere un chiodo in testa id est:avere un'idea fissa che preoccupa ed affanna tenuta per iperbole a mo' di chiodo confitto in testa.
28 -Tené 'nfrisco a quaccuno
Ad litteram: tenere in fresco qualcuno id est: fare attendere qualcuno prima di provvedere ai suoi bisogni o desideri , oppure anche solo prima di prestargli ascolto, lasciarlo in sospeso, senza curarsene, come di un cibo che d'estate, prima d'esser consumato venga messo a refrigerare.
29 -Tené 'nu písemo 'ncopp'ô stommeco
Ad litteram: tenere un peso sullo stomaco id est: avere la sgradevole sensazione di portare un peso sullo stomaco, peso rappresentato - per solito - da una grave contrarietà ricevuta e risultata metaforicamente indigesta, sí da avvertirne il relativo peso sullo stomaco.
30 -Tené 'o bballo 'e san Vito
Ad litteram: essere affetto da còrea ed estensivamente essere o mostrarsi irrequieto ed instabile .
31 - Tené 'o culo a buttiglione, a mappata, a purtera, a mandulino
Ad litteram: avere il culo a forma di bottiglione, di pacco, di portiera, di mandolino. Cosí, in vario modo si suole alludere alle diverse configurazioni del fondoschiena femminile; la forma piú - diciamo - pregiata è ritenuta l'ultima: quella che arieggia la struttura del mandolino; le altre tre forme si riferiscono alla medesima sgraziata forma d’un fondoschiena eccessivamente vasto tale da potersi volta a volta raffigurare come un bottiglione (grossa bottiglia di grande capacità), o come una mappata ( ampio inviluppo di panni)(ed in tale accezione si fa riferimento non solo al fondoschiena femminile di donne adulte, ma anche a quello degli infanti spesso avviluppati nei pannolini) o infine come una purtera (vasto sportello).
32 -Tené 'o culo a tre pacche
Ad litteram: avere il culo a tre natiche Atteso che la cosa è anatomicamente impossibile, la locuzione è usata ironicamente, a mo' di dileggio di ognispocchioso, borioso saccente e supponente che si ritenga titolare di eccezionali doti e talenti fisici o morali che in realtà non esistono, come è inesistente un culo con tre natiche.
33 -Tené 'o cuorio a pesone
Ad litteram: avere le cuoia a pigione id est: essere costretti a vivere a rischio continuo, in modo precario, nelle mani della malasorte, in un clima di continua incertezza, come chi - non essendo proprietario di alloggio, sia costretto a prenderne uno in pigione al rischio di vedersi improvvisamente messo fuori dal proprietario.
34 -Tené 'o ffràceto 'ncuorpo
Ad litteram: avere il fradicio in corpo id est: portarsi dentro, tentando di non appalesarle, ingenti carenze intellettive o morali, o - piú spesso - pessime inclinazioni; va da sè che ci sia poco da fidarsi di chi abbia tali carenze o inclinazioni.
35 -Tené 'o pizzo sano e 'a scella rotta
Ad litteram: avere il becco integro e l'ala rotta Détto ironicamente di chi sia sempre pronto a prendere, ma accampi scuse per esimersi dal dare . Al di là del significato traslato, la locuzione si riferisce di per sé a chi sia sempre pronto a mangiare e restio a lavorare.
36 - Tené 'e ppezze
Ad litteram: avere le pezze id est: essere ricco, disporre di molto danaro, atteso che qui il termine pezza non sta a significare: straccio, ma - appunto - moneta; rammenterò che al tempo dei Borbone, nel Reame di Napoli la pezza era una ben identificata, grossa moneta d'argento detta anche piastra del valore di ben 15 carlini; l’essere in possesso di tante piastre o pezze era indice di grande ricchezza.
37 -Tené 'e fruvole pazze 'int' ô mazzo
Ad litteram: avere le folgori pazze nel sedere Riferito soprattutto a ragazzi irrequieti e chiassosi, recalcitranti ai freni ritenuti titolari di folgori pazze (tipo di fuochi artificiali)allocate nel sedere, che con il loro scoppiettío, costringono i ragazzi a non stare fermi e ad agitarsi continuamente.
38 -Tené 'e sette vizzie d''a rosamarina
Ad litteram: avere i setti vizi del rosmarino Detto iperbolicamente di chi non sia ritenuto titolare di alcuna virtú, anzi - al contrario - di troppi vizi ; tra i quali sono considerati anche le eccessive voglie, i desideri, le richieste pressanti in ispecie quelle di taluni incontentabili ragazzi, ma anche di qualche adulto di sesso femminile.
La pianta del rosmarino, arbusto aromatico che viene molto usato in cucina , ma anche sfruttato in erboristeria per la produzione di profumi, ed in farmacopea - per le sue capacità terapeutiche, è ritenuto però ricca di vizi, che se non sono sette come affermato nella locuzione in epigrafe, son comunque tanti: è pianta che brucia con difficoltà , fa molto fumo e poca fiamma e dunque non riscalda, quando brucia, contrariamente a ciò che avviene normalmente, putisce ed irrita fastidiosamente gli occhi con il suo fumo.
39 -Tené 'o sfunnolo
Ad litteram: avere lo stomaco sfondato Detto iperbolicamente di chi sia
cosí tanto vorace ed insaziabile da mangiare continuatamente ad immettendo tantissimo cibo nello stomaco, senza mai satollarsi, quasi che lo stomaco fosse sfondato e non fosse possibile riempirlo mai.
40 -Tené 'o stommaco 'mpietto e 'o velliculo ô pizzo sujo.
Ad litteram: avere lo stomaco nel petto e l'ombellico al suo (giusto) posto. Detto ironicamente di chi lamenti continui,gravi ma - in realtà -inesistenti malanni.
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VARIE 610

1 Chillo se ‘mpizza 'e ddete 'nculo e caccia 'anielle.
Ad litteram: Quello si ficca le dita nel sedere e tira fuori anelli. Id est: la fortuna di quell'essere è cosí grande che, a mo’ di un prestidigitatore, è capace di procurarsi beni e ricchezze anche nei modi meno ortodossi o possibili.
2 Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
aparature s.vo fle pl. di aparatura = addobbo; voce derivata dal p.p. paratu(m) del lat. parare=preparare seguendo il percorso a (prefisso intensivo)+ paratu(m) + il suff. di pertinenza ura;
centrelle s.vo fle pl. di centrella = chiodino;
la voce centrella è un diminutivo del greco kéntron= chiodo.
3 'A femmena è ccomme â campana: si nun 'a tuculije, nun sona.
Ad litteram: la donna è come una campana: se non l'agiti non suona; id est: la donna à bisogno di esser sollecitata per tirar fuori i propri sentimenti, ma pure i propri istinti.
4 'A femmena bbona si - tentata - resta onesta, nun è stata buono tentata.
Ad litteram: una donna procace, se - una volta che venga tentata –(non cede e) resta onesta, significa che non è stata tentata a sufficienza. Lo si dice intendendo affermare che qualsiasi donna, in ispecie quelle procaci si lasciano cadere in tentazione; e se non lo fanno è perché... il tentatore non è stato all'altezza del compito...
5 Tre ccose nce vonno p''e piccerille: mazze, carizze e zizze!
Ad litteram: tre son le cose che necessitano ai bimbi:mazze (cioè busse), carezze e tette. Id est: per bene allevare i bimbi occorrono tre cose il sano nutrimento(le tette), busse quando occorra punirli per gli errori compiuti, premi (carezze)per gratificarli quando si comportano bene.
6 'E pegge juorne so' cchille d''a vicchiaia.
Ad litteram: i peggiori giorni son quelli della vecchiaia; il detto riecheggia l'antico brocardo latino: senectus ipsa morbus est; per solito, in vecchiaia non si hanno piú affetti da coltivare o lavori cui attendere, per cui i giorni sono duri da portare avanti e da sopportare specie se sono corredati di malattie che, del resto, in vecchiaia non mancano mai...
7 Dimménne n'ata, ca chesta ggià 'a sapevo.
Ad litteram: raccóntamene un'altra perché questa già la conoscevo; id est: se (come pare) ài intenzione di truffarmi o farmi del male, adopera altro sistema, giacché questo che stai usando mi è noto e conosco il modo di difendermi, vanificando il tuo operato.
8 Denaro 'e stola, scioscia ca vola.
Ad litteram: denaro di stola, soffia ché vola via. Id est: il danaro ricevuto o in eredità, o in omaggio da un parente prete, si disperde facilmente, con la stessa facilità con cui se ne è venuto in possesso.













9. Fatte capitano e magne galline.
Ad litteram: diventa capitano e mangerai galline: infatti chi sale di grado migliora il suo tenore di vita, per cui, al di là della lettera, il proverbio può intendersi:(anche se non è veramente accaduto), fa' le viste di esser salito di grado, così vedrai migliorato il tuo tenore di vita.
10.'E mariuole cu 'a sciammeria 'ncuollo, so' pegge 'e ll' ate.
Ad litteram: i ladri eleganti e ben vestiti sono peggiori degli altri. Id est: i gentiluomini che rubano sono peggiori e fanno piú paura dei poveri che rubano magari per fame o necessità.
mariuole s.vo m.le pl. di mariuolo = ladro, il mariolo, ed estensivamente la persona in genere disonesta anche quando non sia dedita al furto continuato; per ciò che attiene all’etimologia del termine mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro (D.E.I.) propende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione,forse da collegare ad un’origine orientale (turca) donde forse anche il greco mod. margiólos= astuto, furbo etc. qualche altro ancóra lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero = imbroglione, monello;la proposta del D.E.I.sarebbe interessante se si fermasse al francese mariol e non chiamasse in causa (senza specificarla!) un’origine turca, ma Carlo Battisti che si prese la responsabilità della lettera M evita di chiarire o precisare e con la sua proposta non mi convince per cui non mi sento di accoglierla, come non posso accogliere l’idea dello spagnolo marraio o marrullero morfologicamente troppo lontana da mariuolo e non chiarita nel percorso morfologico da seguire per pervenirvi; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero (C. Iandolo) che fa risalire la voce mariuolo ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→marevuolo con sincope definitiva della v donde mareólo→ mareuólo e mariuólo
quantunque nel napoletano siano rintracciabili piú frequentemente delle epentesi consonantiche eufoniche ( n, v) infisse a mezzo dittonghi o iati, che delle sincopi.
sciammeria s.vo f.le = giacca elegante con falde lunghe, tipica delle cerimonie o ricorrenze importanti, con esclusione dei matrimoni eleganti nei quali sia previsto il tight (detto giocosamente a Napoli: cafè a ddoje porte) in senso traslato e giocoso vale coito.Etimologicamente la sciammeria probabilmente non è un denominale forgiato sul francese chambre, ma molto piú probabilmente è derivato direttamente dallo spagnolo chamberga sempre che non derivi dal nome del duca di Schönberg (17° sec.) che volle che le sue truppe fossero equipaggiate con una lunga palandrana che, dal nome del duca, fu resa in italiano col termine giamberga da cui non è lontana sciammeria; personalmente trovo però piú convincente l’ipotesi ispanica che piú si presta ad approdare a sciammeria attraverso la napoletanissima, solita prostesi di una s intensiva all’originario cia (ch) spagnolo, assimilazione regressiva della b, sincope del gruppo rg sostituito da un ri con una i atona;
come ò accennato si tratta di una giacca molto ampia che inviluppa quasi chi l’indossa al segno che, ripeto, per traslato giocoso e furbesco con il termine sciammeria si intende anche il coito, in particolare quello in cui l’uomo assume una posizione tale che copra del tutto la donna col proprio corpo ed al proposito rammento che con molta probabilità quando i napoletani accennano ad una sciammeria onirica (nella smorfia napoletana è codificata al numero 64), è al coito e non alla giacca che intendono riferirsi, avendo probabilmente acceso la loro fantasia notturna la scena d’una unione sessuale, piuttosto che d’una giacca da cerimonia.
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VARIE 609

1.'O Pataterno 'nzerra 'na porta e arape 'nu purtone.
Il Signore Iddio se chiude una porta, apre un portoncino - Cioè: ti dà sempre una via di scampo
2.Nun tené pile 'nfaccia e sfottere 'o barbiere
Ad litteram:Non aver peli in volto e infastidire il barbiere, ma piú esattamente: esser tanto presuntuosi al punto che mancando degli elementi essenziali per far alcunchè ci si erge ad ipercritico e spaccone o si infastidisca il proprio prossimo.
3.È gghiuto 'o caso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
È finito il cacio sotto e i maccheroni al di sopra. Cioè: si è rivoltato il mondo: il cacio deve guarnir dal di spra i maccheroni, non far loro da strame!
4.À fatto marenna a sarachielle.
À fatto merenda con piccole aringhe affumicate - Cioè: si è dovuto accontentare di ben poca cosa.
5.Fà ll'arte 'e Michelasso: magnà, vevere e gghí a spasso.
Fare il mestiere di Michelaccio:mangiare, bere e andar bighellonando - cioè la quintessenza del dolce far niente...
6.So' ghiute 'e prievete 'ncopp'ô campo
Sono scesi a giocare a calcio i preti - Cioè: è successa una confusione indescrivibile:i preti erano costretti a giocare indossando la lunga talare che contribuiva a render difficili le operazioni del giuoco...
7.Nun vulé nè tirà, nè scurtecà...
Non voler né tendere, né scorticare - Cioè: non voler assumere alcuna responsabilità, come certi operai conciatori di pelle quando non volevano né mantener tese le pelli, né procedere alla scuoiatura.
8.Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...).
9.Farse 'nu purpetiello.
Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
10.Jí a ppère 'e chiummo.
Andare con i piedi di piombo - Cioè: con attenzione e cautela.
11.Tené'a sciorta 'e Maria Vrenna.
Avere la sorte di Maria DI Brienne - Cioè:perder tutti propri beni ed autorità come accadde a Maria di Brienne sfortunata consorte di Ladislao di Durazzo, ridotta alla miseria alla sua morte (1414) dalla di lui sorella Giovanna II succedutagli sul trono.
12.Jí ô battesimo, senza criatura.
Recarsi a battezzare un bimbo senza portarlo... - Cioè comportarsi in maniera decisamente errata, mettendosi nella situazione massimamente avversa all'opera che si vorrebbe intraprendere.
13.Pare ca s''o zucano 'e scarrafune...
Sembra che se lo succhino gli scarafaggi.- E' detto di persona cosí smunta e rinsecchita da sembrar che abbia perduto la propria linfa vitale preda degli scarafaggi, notoriamente avidi di liquidi.
14.Abbruscià 'o paglione...
Incendiare il pagliericcio - Cioè darsi alla fuga, alla latitanza, lasciando dietro di sé terra bruciata, come facevano le truppe sconfitte che incendiavano i propri accampamenti, dandosi alla fuga.(procurare un danno definitivo)
15.Ogne scarrafone è bbello a mmamma soja...
Ogni blatta(per schifosa che sia)è bella per la sua genitrice - Ossia: per ogni autore la sua opera è bella e meritevole di considerazione.
16.S’è aunito, ‘a funicella corta e ‘o strummolo a tiriteppe…
Si sono uniti lo spago corto e la trottolina scentrata - Cioè si è verificata l'unione di elementi negativi che compromettono la riuscita di un'azione...
17.Chi saglie ‘ncopp’ê ccorna ‘e chillo, po’ ddà ‘a mano ô Pataterno.
Chi si inerpica sulle corna di quello, può stringer la mano al Signore -(tanto sono alte...)- Espressione divertente ed iperbolica per indicare un uomo molto tradito dalla moglie.
18.Quanno 'o diavulo tuojo jeva â scola, 'o mio era masto.
Quando il tuo diavolo era scolaro, il mio era maestro - Cioè: non credere di essermi superiore in intelligenza e perspicacia.
19.'O cane mozzeca ô stracciato.
Il cane assale chi veste dimesso - Cioè: il destino si accanisce contro il diseredato.
20.Tre songo 'e putiente:'o papa, 'o rre e chi nun tène niente...
Tre sono i potenti della terra:il papa, il re e chi non possiede nulla
21.Ė gghiuta ‘a fessa 'mmano ê ccriature, 'a carta 'e musica 'mmano ê bbarbiere, 'a lanterna 'mmano ê cecate...
La vulva è finita nelle mani dei bambini, lo spartito musicale in mano ai barbieri, la lanterna nelle mani dei ciechi.La colorita espressione viene usata con senso di disappunto, quando qualcosa di importante finisce in mani inesperte o inadeguate che pertanto non possono apprezzare ed usare al meglio, come accadrebbe nel caso del sesso finito nelle mani dei fanciulli o ancora come l'incolto barbiere alle prese con uno spartito musicale o un cieco cui fosse affidata una lanterna che di per sè dovrebbe rischiarare l'oscurità.
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VARIE 608

1. AIZÀ ‘A MANO
Ad litteram: sollevare la mano; id est: perdonare, assolvere
L’ espressione che viene usata quando si voglia fare intendere che si è proclivi al perdono soprattutto di piccole mende, ricorda il gesto del sacerdote che al momento di assolvere i peccati , alza la mano per benedire e mandar perdonato il penitente pentito.
2. Ô TIEMPO ‘E PAPPACONE.
Ad litteram: Al tempo di Pappacoda Espressione usata a Napoli per dire che ciò di cui si sta parlando risale ad un tempo antichissimo, di cui si è quasi perso memoria e - tutto sommato - non vale la pena ricordarsene in quanto si tratterebbe di cose impossibili da riprodurre o riproporre; La parola Pappacone è - come già ricordato - corruzione del termine Pappacoda, antichissima e nobile famiglia napoletana che à lasciato sue numerose ed artistiche vestigia in parecchie strade di Napoli.
3. Ô TIEMPO D’’E CAZUNE A TERÒCCIOLE.
Ad litteram: Al tempo dei calzoni con le carrucole. Espressione analoga alla precedente , espressione con la quale si vuol significare che si sta richiamando alla memoria tempi lontani, anzi remoti quali quelli in cui le braghe erano sorrette da grosse bretelle di cuoio, regolate da piccole carrucole metalliche.
4. ACRUS EST E TE LL’HÊ ‘A VEVERE
Ad litteram : è acre, ma devi berlo
La locuzione è tipico esempio di frammistione tra un tardo latino improbabile ed un vernacolo pieno.
Cosí a Napoli si suole ripetere a chi non si voglia convincere della ineluttabilità di talune situazioni cui bisogna soggiacere, stante una forza maggiore. Narro qui di seguito la storiella donde prese vita la locuzione in epigrafe. Un anziano curato era in urto col proprio dispettoso sacrestano che sostituí il vino per la celebrazione della Messa con un acre aceto. Allorché il curato portò alle labbra il calice contenente l’aceto, se ne dolse con il sacrista dicendo: “Acrus est!” ed il dispettoso sacrestano di rimando : “te ll’hê ‘a vevere!” (Devi berlo Non puoi esimerti.)
il curato, minacciandolo:” Dopo la messa t’aspetto in sacrestia...”
il sacrista, concluse:” Hê ‘a vedé si me truove!” (Probabilmente non mi troverai...)
Oggi la locuzione non à bisogno di due interlocutori; viene pronunciata anche da uno solo, da chi tenti di convincere qualcun altro che debba soggiacere agli eventi e non se ne possa esimere.
5. AMMACCA E SSALA, AULIVE ‘E GAETA!
Ad litteram: Comprimi e sala, ulive di Gaeta Locuzione che nel richiamare il modo sbrigativo di conservare in apposite botticelle le ulive coltivate in quel di Gaeta,viene usata per redarguire e salacemente commentare tutte quelle azioni compiute in modo eccessivamente sbrigativo e perciò raffazzonato, senza porvi soverchia attenzione.
6. “ A LLU FRIJERE SIENTE LL’ADDORE” - “A LLU CAGNO, SIENTE ‘O CHIANTO”
Ad litteram: “Al momento di friggere, avvertirai il (vero) odore” _ Al momento di cambiarli, piangerai.”
Locuzione che riproponendo un veloce scambio di battute intercorse tra un venditore ed un compratore, viene usata quando si voglia far comprendere a qualcuno di non tentare di fare il furbo in una contrattazione usando metodi truffaldini,perché correrebbe il rischio d’esser ripagato allo stesso modo.
Un anziano curato, recatosi al mercato ad acquistare del pesce, si vide servito con merce non fresca, anzi quasi putrescente; accortosi della faccenda, ripagò il pescivendolo con moneta falsa, ma nell’allontanarsi sentí il pescivendolo che si gloriava di averlo gabbato e a mo’ di dileggio gli rivolgeva la prima frase della locuzione in epigrafe; e il curato, prontamente, gli rispose con la seconda frase.
7. ADDÓ ARRIVAMMO, LLA METTIMMO ‘O SPRUOCCOLO!
Ad litteram: Dove giungiamo là poniamo uno stecco! La locuzione è usata sia a mo’ di divertito commento di un’azione iniziata e non compiuta del tutto, sia per rassicurare qualcuno timoroso dell’intraprendere un quid ritenuto troppo gravoso da conseguirsi in tempi brevi; ebbene in tal caso gli si potrebbe dire:” Non temere: non dobbiamo fare tutto in un’unica soluzione; Noi cominciamo l’opera e la proseguiamo fino al momento che le forze ci sorreggono; giunti a quel punto, vi poniamo un metaforico stecco, segno da cui riprendere l’operazione per portarla successivamente a compimento.”
Spruoccolo s.m. = stecco, bastoncino, piccolo pezzo di legno di taglio irregolare dal b.lat. (e)xperoccolo←pedunculu(m) con sincope d’avvio, assimilazione regressiva nc→cc, dittongazione della ŏ→uo, nonché rotacizzazione osco mediterranea d→r.
8.COMME CUCOZZA ‘NTRONA, PASCA NUN VENE PE MMO.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, Pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvertí che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scoprí il ladruncolo.
Cucozza sv.vo f.le = zucca,pianta erbacea annua con larghe foglie pelose, fiori campanulati gialli, frutti commestibili di forma e dimensioni diverse secondo le varietà (fam. Cucurbitacee) | zucca barucca, varietà di zucca bitorzoluta che si cuoce al forno e si mangia a fette | semi di zucca, brustolini | fiori di zucca, vivanda costituita dai fiori della zucca,meglio della zucchina, fritti dopo essere stati immersi in una pastella di uova e farina. DIM. zucchetta, zucchina, zucchino (m.), zucchetto (m.), zucchettino (m.)
2 (estens.) il frutto commestibile della zucca: zucca fritta; minestrone con la zucca
3 (fig. scherz.) la testa: (la voce napoletana è una diretta derivazione dall’acc. tardo latino cucutia(m), mentre la voce italiana zucca è derivata dal medesimotardo lat. cucutia(m), attraverso un’aferesi della sillaba iniziale e successiva una metatesi con raddoppiamento espressivo della c cucutia(m)→(cu)tiaca(m)→ziacca→zucca
9. COMME PAGAZIO, ACCUSSÍ PITTAZIO
Ad litteram: Come sarò pagato, cosí dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
10. CAPURÀ È MMUORTO ‘ALIFANTE!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance,… non vantarti piú, torna con i piedi a terra!Piú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è piú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chiunque, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di lí a poco però, l’elefante morí ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi di non essere piú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.

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‘A FORCA è FFATTA P’’O PUVERIELLO

‘A FORCA è FFATTA P’’O PUVERIELLO
Il motto in epigrafe da tradursi ad litteram: Il capestro s’addice al povero è un icastico proverbio da intendersi in piú modi a seconda del significato che si dà alla parola puveriello; interpretata nel senso piú comune la voce puveriello vale poveretto, indigente, bisognoso, nullatenente e cioè misero, meschino, ed il motto,in tal caso à quasi una valenza storica stando a significare che un tempo chi fosse povero, indigente, bisognoso, nullatenente, misero, meschino e commettesse qualche grave reato comportante la pena di morte doveva attendersi soltanto un’esecuzione infamante, vergognosa, disonorevole, ignominiosa quale quella del capestro, della forca e non poteva aspirare alla fucilazione o decapitazione esecuzione decorosa quando non addirittura onorevole che era riservata ai nobili, ricchi, facoltosi, abbienti; intesa in senso esteso la voce puveriello vale manigoldo, furfante, canaglia, farabutto, malfattore, traditore, ed allora il motto si attaglia a chiunque compresi nobili, ricchi, facoltosi, abbienti che nel delinquere si fossero comportati in maniera infamante, vergognosa, disonorevole, ignominiosa come accadeva nel caso del tradimento,o della lesa maestà da parte d’un militare (cfr. il caso dell’ammiraglio borbonico F.sco Caracciolo (Napoli, 18 gennaio 1752 –† Napoli, 28 giugno 1799) macchiatosi d’ambedue le colpe) che - condannato a morte – era afforcato e non fucilato o decapitato come per solito accadeva con i militari condannati a morte per altri gravi reati come ad es. codardia o disobbedienza in battaglia.
Forca s.vo f.le forca, capestro,
1 attrezzo agricolo per rimuovere fastelli di paglia, fieno ecc., ricavato da un lungo ramo biforcuto in modo da costituire un manico terminante in due denti appuntiti (rebbi) | fatto a forca, biforcato
2 (estens.) qualsiasi oggetto in forma di forca
3 (ed è il ns. caso) patibolo per eseguire impiccagioni, formato generalmente da uno o due pali verticali infissi nel terreno e sormontati da un palo orizzontale al quale è appeso il capestro: murí ‘ncopp’â forca (morire sulla forca) | la pena stessa: cundannà â forca (condannare alla forca') jí ncopp’â forca (andare sulla forca), nel linguaggio corrente, solo come imprecazione, di sign. uguale ad 'andare all'inferno, al diavolo, in malora':jate tutte ‘ncopp’â forca (andate tutti sulla forca! ).
4 valico fra due monti.
Voce dal lat. furca(m)
puveriello s.vo ed agg.vo m.le diminutivo (cfr. i suff. i+ello)di poveru (dal lat. pauperu(m), comp. del tema pau- di paucus 'poco' e un deriv. di parere 'produrre'; propr. 'che produce poco') voce che però nel napoletano non viene usata che come agg.vo (cfr. ‘nu poveru cristo) mentre come s.vo non viene quasi mai usata preferendoglisi il diminutivo a margine.Da notare nella voce in esame la chiusura in u della o di poveru intesa lunga: ō con il passaggio da un possibile poveriello all’attestato puveriello.
r.bracale

martedì 30 marzo 2010

VARIE 607

1.Fà tre fiche nove rotele.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
2.'A disgrazzia d''o 'mbrello è quanno chiove fino fino.
Letteralmente: la malasorte dell'ombrello è quando pioviggina lentamente. Va da sè che l'ombrello corre i maggiori rischi di rompersi allorché debba essere aperto e chiuso continuamente, non quando debba sopportare un unico, sia pure violento, scroscio temporalesco; cosí l'uomo(che nel proverbio è adombrato sotto il termine di 'mbrello) soffre di piú nel sopportare continuate piccole prove che non un solo , anche se pesante danno.
3.Avimmo fatto: cupinte, cupinte: 'e cavére 'a fora e 'e fridde 'a dinto.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si è dato via libera a chi non è all'altezza della situazione e si è lasciato a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).
4.'A pecora s'à dda tusà, nun s'à dda scurtecà
Letteralmente: la pecora va tosata, ma non scorticata. Id est: est modus in rebus: non bisogna mai esagerare; nel caso : è giusto che una pecora venga tosata, non è corretto però scarnificarla; come è giusto pagare i tributi, ma questi non devono essere esosi.
5.- Si' pre' 'o cappiello va stuorto... - Accussí à dda jí!
- Signor prete, il cappello va storto - Cosí deve andare. Simpatico duettare tra un gruppetto di monelli che - pensando di porre in ridicolo un prete - gli significavano che egli aveva indossato il suo cappello di sgimbescio, e si sentirono rispondere che quella era l'esatta maniera di portare il suddetto copricapo. La locuzione viene usata quando si voglia fare intendere che non si accettano consigli non richiesti soprattutto quando chi dovrebbe riceverli à - per sua autorità - sufficiente autonomia di giudizio.
6.Dicette Nunziata: Ce ponno cchiú ll'uocchie ca 'e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata: Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla iettatura.
7. nnotte se 'nzuraje Catiello.
Letteralmente: Catello (inguaribile scapolo) prese moglie di notte. La locuzione fotografa una situazione che in italiano è resa con: meglio tardi che mai; il Catello, infatti procrastinò tanto il suo matrimonio che quando fu celebrato era oramai notte. Nella locuzione partenopea si tenga presente la geminazione iniziale della lettera N nella parola notte che lascia capire che la A iniziale non è l'articolo femminile ('A) ma una preposizione articolata (â = a+ ‘a= alla) che introduce un concetto temporale reso con la doppia N di notte; se la A fosse stato un articolo la successiva parola notte sarebbe stata scritta in maniera scempia con una sola N.
8.'E maccarune se magnano teniénte, teniénte.
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura() e poi che il participio è reiteranto vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano, significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente.
9. Quanno siente 'o llatino da 'e fesse, è signo 'e mal' annata.
Letteralmente: quando senti che gli sciocchi parlano latino, è segno di un cattivo periodo.Id est: l'ostentazione di cultura da parte degli stupidi ed ignoranti, prelude a tempi brutti, per cui son da temere gli sciocchi che si paludano da sapienti...
10.Paré 'o sorice 'nfuso 'a ll'uoglio.
Letteralmente: sembrare un topolino bagnato da l'olio. La locuzione viene usata a Napoli nei confronti di taluni bellimbusti che vanno in giro tirati a lucido ed impomatati che in napoletantano suona: alliffati (dal greco aleipàr=olio); tali soggetti vengon paragonati ad un topolino che per ventura sia cascato nell'orcio dell'olio e ne sia riemerso completamente unto e luccicante.
11. A carne se jetta e 'e cane s'arraggiano.
Letteralmente: la carne si butta ed i cani s'arrabbiano. Id est: c'è abbondanza di carne, ma mancanza di danaro per acquistarla e ciò determina profonda rabbia in chi, non avendo pecunia, non può approfittare dell'abbondanza delle merci. Per traslato, il proverbio è usato in tutte le situazioni in cui una qualsiasi forma di indigenza è ostativa al raggiungimento di un fine che parrebbe invece a portata di mano; ciò vale anche nei rapporti tra i due sessi: per es. allorchè la donna si offra apertamente e l'uomo non abbia il coraggio di cogliere l'occasione; un terzo - spettatore, magari concupiscente, commenta la situazione con le parole in epigrafe.
12.'A vecchia a 'e trenta 'austo, mettette 'o trapanaturo a 'o ffuoco.
Letteralmente: la vecchia ai trenta d'agosto (per riscaldarsi) mise nel fuoco l'aspo. Il proverbio viene usato a mo' di avvertenza, soprattutto nei confronti dei giovani o di chi si atteggi a giovane, che si lasciano cogliere impreparati alle prime avvisaglie dei freddi autunnali che già si avvertano sul finire del mese di agosto, freddi che - come dice l'esperienza - possono essere perniciosi al punto da indurre i piú esperti (la vecchia) ad usare come combustibile persino un utile oggetto come un aspo, l'arnese usato per ammatassare la lana filata. Per estensione, il proverbio si usa con lo stesso fine di ammonimento, nei confronti di chiunque si lasci cogliere impreparato non temendo un possibile inatteso rivolgimento di fortuna - quale è il freddo in un mese ritenuto caldo.
Trapanaturo s.m.le = aspo, strumento girevole d’uso domestico che serve per avvolgere in matassa un filato (derivato del greco trypanon, deverbale . di trypân 'girare' )
13.Jí zumpanno asteche e lavatore.
Letteralmente: andar saltando per terrazzi e lavatoi. Id est: darsi al buon tempo, trascorrendo la giornata senza far nulla di costruttivo, ma solo bighellonando in ogni direzione: a dritta e a manca, in alto (asteche=lastrici solai,terrazzi dal greco óstrakon 'conchiglia, coccio',perché anticamente i lastrici solari erano pavimentati con cocci e lapilli opportunamente battuti e compattati. ) ed in basso ( lavatore = lavatoi (dal lat. tardo lavatoriu(m), deriv. di lavare 'lavare') erano olim ubicati in basso - per favorire lo scorrere delle acque - presso sorgenti di acque o approntate fontane, mentre l'asteche, ubicati alla sommità delle case,erano i luoghi deputati ad accogliere i panni lavati per poterli acconciamente sciorinare al sole ed al vento, per farli asciugare.
14. Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
Letteralmente: Sembra che ora ti vedrò vestito da orso. Locuzione da intendersi in senso ironico e perciò antifrastico. Id est: Mai ti potrò vedere vestito della pelle dell'orso, giacché tu non ài nè la forza, nè la capacità fisica e/o morale di ammazzare un orso e vestirti della sua pelle. La frase viene usata a commento delle azioni iniziate da chi sia ritenuto inetto al punto da non poter portare al termine ciò che intraprende.
'O cucchiere 'e piazza: te piglia cu 'o 'ccellenza e te lassa cu 'o chi t'è mmuorto.
Letteralmente: il vetturino da nolo: ti accoglie con l'eccellenza e ti congeda bestemmiandoti i morti.Il motto compendia una situazione nella quale chi vuole ottenere qualcosa, in principio si profonde in ossequi e salamelecchi esagerati ed alla fine sfoga il proprio livore represso, come i vetturini di nolo adusi a mille querimonie per attirare i clienti, ma poi - a fine corsa - pronti a riversare sul medesimo cliente immani contumelie, in ispecie allorché il cliente nello smontare dalla carrozza questioni sul prezzo della corsa, o - peggio ancora - non lasci al vetturino una congrua mancia.
15.Jí cascia e turnà bauglio oppure Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andar cassa e tornare baúle oppure andare stoccafisso e tornare baccalà. Id est: non trarre profitto alcuno o dallo studio intrapreso o dall'apprendimento di un mestiere, come chi inizi l'apprendimento essendo una cassa e lo termini da baúle ossia non muti la sua intima essenza di vacuo contenitore, o - per fare altro esempio - come chi inizi uno studio essendo dello stoccafisso e lo termini diventando baccalà, diverso in forma, ma sostanzialmente restando un immutato merluzzo. Con il proverbio in epigrafe, a Napoli, si è soliti commentare le maldestre applicazioni di chi non trae profitto da ciò che tenta di fare, perchè vi si applica maldestramente o con cattiva volontà.
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VARIE 606

1.Paré 'a sporta d''o tarallaro.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
2.Lasseme stà ca stongo'nquartato!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
3.Se fruscia Pintauro, d''e sfugliatelle jute 'acito.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico inventato peraltro dalle suore del convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
4.Carcere, malatia e necissità, se scanaglia 'o core 'e ll'amice.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
5.Murí cu 'e guarnemiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
6.Nisciuno te dice: Lavate 'a faccia ca pare cchiú bbello 'e me.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
7.Quann' uno s'à dda 'mbriancà, è mmeglio ca 'o ffa cu 'o vino bbuono.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.Con uguale intendimento s’usò dire: si proprio avimm’’a fa ‘nu peccato, facímmolo murtale!
8.Sciorta e cauce 'nculo, viato a cchi 'e ttène!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni
9.Ancappa pe primmo, fossero pure mazzate!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche rischiando le percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
10.A pavà e a murí, quanno cchiú ttarde se po’.
A pagare e morire, quando piú tardio sia possibile! E' la filosofia e strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
11.'Na vota è prena, 'na vota allatte, nun 'a pozzo maje vatte'
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
12. Lèvate 'a miezo, famme fà 'o spezziale.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo spezziale napoletano era il farmacista, l'erborista, e non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare nei piccoli laboratori annessi alla bottega, specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi, in farmacopea, non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
13.Articolo quinto:chi tène 'mmano à vinto!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titoloInfatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
14.Cu muonece, prievete e ccane, hê 'a stà sempe cu 'a mazza 'mmano.
Con monaci, preti e cani devi tener sempre un bastone fra le mani. Id est: ti devi sempre difendere.
15.Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi in senso antifrastico, si usa a sarcastico commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
16.'A sciorta d' 'o piecoro: nascette curnuto e murette scannato...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
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VARIE 605

1.Azzupparse 'o ppane.
Letteralmente: inzuppare il pane. Id est: provare gusto e compiacimento alle disavventure altrui di qualsiasi natura siano, commentandole con irritanti sottolineature, per modo che chi è in situazioni di disagio, avverta maggiormente quel disagio e se ne dolga invece di esser sollevato. A Napoli se ad azzupparse 'o ppane è una donna, costei viene definita femmena 'e niente, se lo fa un uomo, è definito senza mezzi termini: ommo 'e mmerda.
2.Essere 'o si' nisciuno.
Letteralmente: essere il signor nessuno. Id est: essere del tutto sconosciuto, non valere niente, non contare un accidenti nella scala sociale, insomma un vero e proprio signor nessuno. Si noti che in napoletano il si’ non è l'apocope di zio, come spesso i male informati intendono,pronunciando erroneamente zi’. ma l'apocope di signor
3.Prumettere 'e certo, e vení meno 'e sicuro.
Letteralmente: promettere con certezza e con medesima certezza disattendere al promesso. Lo si dice di chi fa le viste di promettere mari e monti e poi in pratica non tiene fede a nulla di quanto promesso. Tipico comportamento dei politici in campagna elettorale e dei ragazzi in prossimità delle festività.
4.Pigliarse 'nu passaggio.
Letteralmente: prendersi un passaggio. Id est: protendere furtivamente le mani fino a sfiorare con le dita procaci e prominenti rotondità femminili, magari soffermandosi a palpeggiare le suddette rotondità.
5.Avàsciame 'o "ddonne" e aízame 'a mesata.
Letteralmente: Diminuiscimi il "don" ed elevami la mercede. Id est: badiamo piú alla sostanza che alla forma. Cosí si esprime chi si veda malamente retribuito per le sue opere e in luogo di sonante danaro venga invece riempito di vuoti salamelecchi.
6.Chi te sape, t'arape.
Chi ti conosce, ti può rapinare. Se subisci un furto i primi di cui sospettare son quelli che ti frequentano, giacché son loro che conoscono le tue abitudini e ciò che possiedi.
7.Trova cchiú ampressa 'a femmena 'na scusa, ca 'o sorice 'o purtuso.
Letteralmente: Trova piú presto una donna una scusa, che un topo un buco (in cui infilarsi). Id est: la donna è grandemente menzognera per cui facilmente trova da scusarsi delle sue malefatte e lo fa in maniera cosí rapida da battere in velocità persino un topo che - si sa -è rapidissimo.
8.Grannezza 'e Ddio: era monaco e pure pisciava.
Letteralmente: grandezza di Dio: era monaco eppure mingeva. La locuzione è usata per bollare chi fa le viste di meravigliarsi delle cose piú ovvie e naturali come qualcuno che si stupisse nel vedere un frate portare a compimento una sua funzione fisiologica.
9.'A soccia mano sta appesa dint' ê guantare.
Letteralmente: la medesima mano sta appesa nei guantai. La locuzione viene usata per connotare chiunque sia avaro o eccessivamente parsimonioso al punto da non elargire mai un'elemosina o ,peggio ancora, al punto da non concorrere mai fattivamente, con elargizione di danaro, ad un'opera comunitaria. La mano della locuzione ricorda quellain origine enorme, poi a furia di stare esposta alle intemperie ratrappita, ed immobile che, a fini di pubblicità, era esposta a Napoli nel quartiere dei Guantai dove aprivano bottega numerosi fabbricanti di guanti.
10.'Stu ventariello ca tte t'arrecrea, a mme me va 'nculo!
Letteralmente: quel venticello che ti soddisfa, frega me. Non sempre da un'identica situazione scaturisce un medesimo effetto per chiunque. Nella fattispecie, un soffio di vento che magari è piacevole per uno, può essere deleterio per un altro, che per esempio è cagionevole di salute.
11.Ll'aurienza ca dette 'o papa a 'e curnute.
Letteralmente: l'udienza che il papa dette ai mariti traditi. Cosí viene definita un'istanza che venga disattesa completamente da parte del suo destinatario; ciò che venne allorché una accolita di mariti traditi si rivolse al pontefice affinchè autorizzasse lo scioglimento del loro matrimonio, ma il papa, opponendo la indissolubilità del vincolo matrimoniale quale sacramento della Chiesa, disattese completamente l'istanza. La locuzione è usata per sottolineare una situazione nella quale ci sia qualcuno che faccia orecchi da mercante...
12.'O perucchio è caduto dint' â farina.
Letteralmente: il pidocchio è caduto nella farina. La locuzione viene usata per indicare coloro che a seguito di una calamità, o una guerra, si sono arricchiti e àn preso dimora nei luoghi piú chic della città e si danno l'aria di gran signori quasi fossero discendenti di antica, provata nobiltà, come un pidocchio che, caduto nella farina, si imbianca solo esteriormente pur restando, in sostanza, un vile insetto.
13.Paré 'o marchese d''o Mandracchio.
Letteralmente: sembrare il marchese del Mandracchio. Id est: Tentare di darsi le arie di persona dabbene ed essere in realtà di tutt'altra pasta. La locuzione, che viene usata per bollare un personaggio volgare ed ignorante che si dia delle arie, millantando un migliore ascendente sociale di nascita, si incentra sul termine Mandracchio che non è il nome di una tenuta, ma indica solo la zona a ridosso del porto(dallo spagnolo mandrache: darsena)frequentata da marinai, facchini e scaricatori che non usavano di certo buone maniere ed il cui linguaggio non era certo forbito o corretto.
14.Ogni ccapa è 'nu tribbunale.
Letteralmente: ogni testa è un tribunale. Id est: ognuno decide secondo il proprio metro di giudizio, ognuno è pronto ad emanar sentenze.
15.Ncarisce, fierro, ca tengo n'aco 'a vennere!
Letteralmente: oh ferro, rincara ché ò un ago da vendere. È l'augurio che si autorivolge colui che à parva materia da offrire alla vendita e si augura che possa riceverne il maggior utile possibile. La locuzione è usata nei confronti di chi si lascia desiderare pur sapendo bene di non aver grosse capacità da conferire in qualsivoglia contrattazione.
16.Chianu chiano 'e ccoglio e senza pressa, 'e vvengo.
Letteralmente: piano piano li raccolgo e senza affrettarmi li vendo. La locuzione sottolinea l'indolenza operativa di certuni, che non si affrettano mai nè nel loro incedere né nel portare a compimento alcunché.
17.Fà comme ê funare.
Agire come i fabbricanti di corde. Id est: non fare alcun progresso né nello studio, né nell'apprendimento di un mestiere. Quando ancora non v'erano le macchine ed i robot che fanno di tutto, c'erano taluni mestieri che venivano fatti da operai ed esclusivamente a mano. Nella fattispecie i cordari solevano fissare con i chiodi ad un asse di legno i capi delle corde da produrre e poi procedendo come i gamberi le intrecciavano ad arte. La locuzione prende in considerazione non i risultati raggiunti ma solo il modo di procedere tenuto dai cordari
18. Dà zizza pe gghionta.
Letteralmente: dar carne di mammella per aggiunta di derrata, un di piú generosamente concesso, ma trattandosi di vile mammella la concessione non è poi veramente positiva e tutta l'espressione è da intendere in senso ironico ed antifrastico equivalente ad accrescere un danno, conciar male qualcuno, cagionandogli ulteriori danni.
19.Ma addò t'abbíe senza 'mbrello?
Letteralmente: Ma dove ti dirigi senza ombrello (se già piove?)? La domanda traduce sarcasticamente l'avvertimento di non affrontare qualsivoglia situazione se non si è preparati e pronti, armati cioè oltre che della buona volontà, degli strumenti atti alla bisogna e a farti da scudo ove ne occorra il caso.
20.Meglio essere cap' 'alice ca coda 'e cefaro.
Letteralmente: meglio (esser) testa di alice che coda di cefalo. Id est: meglio comandare, esser primo sia pure in un ristretto consesso, che ultimo in un'imponente accolta.
21.Se pigliano cchiú mosche cu 'na goccia 'e mèle, ca cu 'na votta 'acito.
Letteralmente: si catturano piú mosche con una goccia di miele che con una botte di aceto. Id est: i migliori risultati, i piú sostanziosi si ottengono con le manieri dolci, anziché con quelle aspre.
22.A pavà e a murí, quanno cchiú tarde se po’.
A pagare e a morire quando piú tardi sia possibile. Trattandosi di due faccende dolorose, la filosofia popolare le à accomunate, consigliando di procrastinarle ambedue sine die.
23.Si 'o ciuccio nun vo’ vevere aje voglia d''o siscà.
Letteralmente: se l'asino non vuol bere, puoi fischiare quanto vuoi per invitarlo a bere, non otterrai nulla. La locuzione viene usata quando si voglia sottolineare la testarda mancanza di volontà di qualcuno, stante la quale tutte le esortazioni sono vane...
24.Aria scura e fète 'e caso!
Letteralmente: Aria torbida che puzza di formaggio. Lo si dice a salace commento di errate affermazioni di qualcuno che abbia confuso situazioni diverse tra di loro e le abbia messe in relazione incorrendo in certo errore come accadde a Pulcinella che, confondendo la porta della dispensa con la finestra, si espresse con la frase in epigrafe...
25.Chi tène cchiú ssante va 'mparaviso.
Letteralmente: Chi à piú santi va in Paradiso; ma è chiaro che la locuzione non si riferisce al premio eterno, ma molto piú prosaicamente ai beni terreni,a prebende e posti di comando e ben remunerati; e i santi - manco a dirlo - non sono quelli che ànno praticato in maniera eroica le virtú cristiane, ma molto piú semplicemente coloro che son capaci di dare una spinta, di raccomandare o - come eufemisticamente si dice oggi, di segnalare qualcuno a chi gli possa giovare nel senso suaccennato.
26.I' te cunosco piro a ll' uorto mio.
Letteralmente: Io ti conosco pero nel mio orto. Id est: Io conosco bene le tue origini e ciò che sei in grado di produrre; non mi inganni: perciò è inutile che tenti di far credere di esser capace di mirabolanti o produttive imprese... La cultura popolare attribuisce le parole in epigrafe ad un contadino che si era imbattuto in una statua di un Cristo circondata di fiori e ceri. Il popolino aveva attribuito alla statua poteri taumaturgici, ma il contadino che sapeva che la statua era stata ricavata da un suo albero di pero, tagliato perché improduttivo, apostrofò la statua con le parole in epigrafe, volendo far intendere che non si sarebbe fatto trasportare dalla credenza popolare e conoscendo le origini del Cristo effiggiato, non gli avrebbe tributato onori di sorta.
27.Essere fetente dint' a ll' ossa.
Letteralmente: essere fetente fin dentro le ossa. Id est: appalesarsi perfido, spregevole, di animo cattivo, ma non solo esteriormente quanto fin dentro la quintessenza dell'essere.
28.'O Pataterno dà 'o ppane a chi nun tène 'e diente e 'e viscuotte a chi nun s''e ppo’ rusecà...
Letteralmente: Il Signore concede il pane a chi non tiene i denti e i biscotti a chi non può sgranocchiarli... Id est: Spesso nella vita accade di esser premiati oltre i propri meriti o di venire in possesso di fortune che si è incapaci di gestire.
29.'Acarcioffola s'ammonna a 'na fronna a' vota.
Letteralmente: il carciofo va mondato brattea a brattea. Id est: le cose vanno fatte con calma e pazienza, se si vogliono ottenere risultati certi bisogna procedere lentamente e con giudizio.
30.Acqua santa e Terra santa, pure lota fanno.
Letteralmente: acqua santa e terra santa pure fango fanno. Id est: l'unione di due cose di per sè buone, non è detto che non possano produrre effetti spiacevoli. Lo si dice con riferimento alla società di due individui che, presi singolarmente, mai farebbero sospettare esser capaci di produrre danno e che invece, uniti producono grave nocumento ai terzi.
31.Chi se mette paura, nun se cocca cu 'e ffemmene bbelle.
Letteralmente: chi à paura, non va a letto con le donne belle. E' l'icastica trasposizione dell'algido toscano: chi non risica, non rosica. Nel napoletano è messo in relazione il comportamento coraggioso, con la possibilità di attingere la bellezza muliebre, che è un gran bello rosicchiare.
32.Essere 'o rre cummanna a scoppole.
Letteralmente. essere il re comanda a scappellotti. Cosí è detto chi voglia comandare o decretare maniere comportamentali altrui senza averne né l'autorità certificata, né il carisma derivante da doti morali o conclamate esperienze, un essere insomma che potrebbe comandare giusto ai ragazzini, magari assestando loro qualche scappellotto, per essre ubbidito.
33.Cca sotto nun ce chiove!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disoposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
cca avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nella parlata napoletana (cosí come avviene in italiano per il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto sempre senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano, come alibi abbiamo visto , esistono , per vero, una cong. ed un pronome ca = che, congiunzione e pronome che però si rendono ambedue con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita perciò accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti, , ma pure affermati scrittori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’con un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico (‘). Come per il sí ed il no anche questo avverbio a margine nell’eloquio familiare soprattutto delle parlate provinciali dei paesi rivieraschi e/o dell’entroterra (dove – mi ripeto! - il napoletano viene usato con un colpevole imbarbarimento locale) diventa bisillabo per la paragoge di un ne con valore rafforzativo, paragoge che trasforma il cca in uno strano ccane ed addirittura nel napoletano d’uso corrente in àmbito cittadino talvolta il monosillabo cca si trasforma in un rafforzato bissillabo ccanno nelle tipiche espressioni ‘a ‘í ccanno= vedila qua, proprio qua -, ‘o ‘í ccanno= vedilo qua, proprio qua - ‘e vví ccanno= vedili qua, proprio qua;

34.'A cera se struje e 'a prucessiona nun cammina.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere che non portano a nulla di concreto.

35. Tutto Po’ essere, fora ca ll'ommo priéno.
Tutto può essere, fuorchè l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, una sola cosa impossibile.
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VARIE 604

1 Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai. Cosí sarcasticamente viene appellato chi si va reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti.Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di A. Petito.
2 Paré 'o pastore d''a meraviglia.
Letteralmente: sembrare un pastore della meraviglia Id est: avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certuni pastori del presepe napoletano settecentesco raffiguratiin pose stupite ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista LUCA che scrisse: pastores mirati sunt.
3 Meglio a san Francisco ca 'ncopp'ô muolo.
Letteralmente: meglio (stare) in san Francesco che sul molo. Id est: di due situazioni ugualmente sfavorevoli conviene scegliere quella che comporti minor danno. Temporibus illis in piazza san Francesco, a Napoli erano ubicate le carceri, mentre sul Molo grande era innalzato il patibolo che poi fu spostato in piazza Mercato; per cui la locuzione significa: meglio carcerato e vivo, che morto impiccato.

4 Futtatenne!
Letteralmente:Infischiatene, non dar peso, lascia correre, non porvi attenzione. E' il pressante invito a lasciar correre dato a chi si sta adontando o si sta preoccupando eccessivamente per quanto malevolmente si stia dicendo sul suo conto o si stia operando a suo danno. Tale icastico invito fu scritto dai napoletani su parecchi muri cittadini nel 1969 allorché il santo patrono della città, san Gennaro, venne privato dalla Chiesa di Roma della obbligatorietà della "memoria" il 19 settembre con messa propria. I napoletani ritennero la cosa un declassamento del loro santo e allora scrissero sui muri cittadini: SAN GENNA' FUTTATENNE! Volevano lasciare intendere che essi, i napoletani, non si sarebbero dimenticati del santo quali che fossero stati i dettami di Roma.
5 Fà a uno tabbacco p''a pippa.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.
6 Fà trenta e una trentuno.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò, per mera liberalità (non essendovene reale necessità) un trentunesimo.
6 Essere carta canusciuta.
Letteralmente: essere carta nota. Id est: godere di cattiva fama, mostrarsi inaffidabile e facilmente riconoscibile alla medesima stregua di una carta da giuoco opportunamente "segnata" dal baro che se ne serve.
7 Essere cchiú fetente 'e 'na recchia 'e cunfessore.
Letteralmente: essere piú sporco di un orecchio di confessore. L'icastica espressione viene riferita ad ogni persona assolutamente priva di senso morale, capace di ogni nefandezza; tale individuo è parificato ad un orecchio di confessore, non perché i preti vivano con le orecchie sporche, ma perché i confessori devono, per il loro ufficio, prestare l'orecchio ad ogni nefandezza e alla summa dei peccati che vengono quasi depositati nell'orecchio del confessore, orecchio che ne rimane metaforicamente insozzato.
8 'O rialo ca facette Berta a' nepota: arapette 'a cascia e le dette 'na noce.
Letteralmente : il regalo che fece Berta alla nipote: aprí la cassa e le regalò una noce. La locuzione è usata per sottolineare l'inconsistenza di un dono, specialmente quando il donatore lascerebbe intendere di essere intenzionato a fare grosse elargizioni che, all'atto pratico, risultano invece essere parva res.
9 'E ppazzie d''e cane fernesceno a ccazze 'nculo.
Letteralmente: i giochi dei cani finiscono con pratiche sodomitiche. Id est: i giuochi di cattivo gusto finiscono inevitabilmente per degenerare, per cui sarebbe opportuno non porvi mano per nulla. La icastica locuzione prende l'avvio dalla osservazione della realtà allorché in una torma di cani randagi si comincia per gioco a rincorrersi e a latrarsi contro l'un l'altro e si finisce per montarsi vicendevolmente; la postura delle bestie fa pensare sia pure erroneamente a pratiche sodomitiche
10.Tre ccalle e mmescàmmece.
Letteralmente: tre calli(cioè mezzo tornese) e mescoliamoci. Cosí, sarcasticamente, è definito a Napoli colui che, senza verun sacrificio di mezzi o di azioni, si intromette nelle faccende altrui,volendo sempre, da saccente e supponente, dire la sua. Il tre calle era una moneta di piccolissimo valore; su una delle due facce v'era raffigurato un cavallo da cui per contrazione prese il nome di callo. La locuzione significa: con poca spesa si interessa delle faccende altrui.
11.Chi se fa masto, cade dint'ô mastrillo.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per fare la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare. Il mastrillo, dal lat. mustricula, è la piccola trappola per topi.
12.Tutto a Giesú e niente a Maria!
Letteralmente: Tutto a Gesú e niente a Maria! Ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú ed a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni, distribuzione di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente. Le parole in epigrafe ripetono quelle pronunciate da un anziano pievano che redarguí il proprio sacrestano che, delegato ad addobbare gli altari laterali della pieve, aveva riservato gli addobbi al solo altare del Cuore di Gesú, lesinando sugli addobbi all’altare della Vergine.
13.Chi guverna 'a rrobba 'e ll'ate nun se cocca senza cena
Letteralmente: chi amministra i beni altrui, non va a letto digiuno. Disincantata osservazione della realtà che piú che legittimare comportamenti che viceversa integrano ipotesi di reato, denuncia l'impossibilità di porvi riparo: gli amministratori di beni altrui sono incorreggibili ladri! Perché meravigliarsi se gli amministratori della cosa pubblica son usi a rimpiunguire i propri conti correnti? È un fatto ineluttabile a cui bisogna abituarsi!
14.Paré ll'ommo 'ncopp'â salera
Letteralmente: sembrare l'uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel Tom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad esibirsi in un circo equestre; fu uomo molto piccolo e ridicolo e per questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
15.Fà comme a santa Chiara: dopp' arrubbato ce mettetero 'e pporte 'e fierro.
Letteralmente: far come per santa Chiara; dopo che fu depredata le si apposero porte di ferro. Id est: correre ai ripari quando sia troppo tardi, quando si sia già subíto il danno paventato, alla stessa stregua di ciò che accadde per la basilica di santa Chiara che fu provvista di solide porte di ferro in luogo del preesistente debole uscio di legno, ma solo quando i ladri avevano già perpetrato i loro furti sacrileghi a danno della antica chiesa partenopea.
16.Essere 'a tina 'e miezo.
Letteralmente: essere il tino di mezzo. Id est: essere la massima somma di quanto piú sporco, piú laido, piú lercio possa esistere. Offesa gravissima che si rivolge a persona ritenuta cosí massimamente sporca, laida e lercia da essere paragonata al grosso tino di legno posto al centro del carro per la raccolta dei liquami da usare come fertilizzanti, nel quale tino venivano versati i liquami raccolti con due tini piú piccoli posti ai lati del tino di mezzo dove veniva riposto il letame raccolto.
Rammento che con il vocabolo tina (dal t. lat tina(m)←tinu(m)) si è creato il femminile di tino per indicare un oggetto piú grande del corrispondente maschile In napoletano infatti un oggetto che sia o sia inteso di volume o ampiezza piú grande e/o grosso di un corrispettivo oggetto maschile, viene inteso femminile (cfr. cucchiaro piú piccolo e cucchiara piú grande, carretto piú piccolo e carretta piú grande, tammurro piú piccolo e tammorra piú grande,tino piú piccolo e tina piú grande etc.; uniche eccezioni caccavella piú piccola, ma femminile e caccavo piú grande, ma maschile e tiana piú piccola, ma femminile e tiano piú grande, ma maschile).

17.'A capa 'e ll'ommo è 'na sfoglia 'e cepolla.
Letteralmente: la testa dell'uomo è una falda di cipolla. È il filosofico, icastico commento di un napoletano davanti a comportamenti che meriterebbero d'esser censurati e che si evita invece di criticare, partendo dall'umana considerazione che quei comportamenti siano stati generati non da cattiva volontà, ma da un fatto ineluttabile e cioé che il cervello umano è labile e deperibile ed inconsistente alla stessa stregua di una leggera, sottile falda di cipolla.
18.Nun tené voce 'ncapitulo.
Letteralmente: non aver voce nel capitolo. Il capitolo della locuzione è il consesso capitolare dei canonaci della Cattedrale; solo ad alcuni di essi era riservato il diritto di voto e di intervento in una discussione. La locuzione sta a significare che colui a cui è rivolta l'espressione non à né l'autorità, né la capacità di esprimere pareri o farli valere, non contando nulla.
19.Tu nun cuse, nun file e nun tiesse; tanta gliuommere 'a do' 'e ccacce?
Letteralmente: Tu non cuci, non fili e non tessi, tanti gomitoli da dove li tiri fuori? Tale domanda sarcastica la si rivolge a colui che fa mostra di una inesplicabile, improvvisa ricchezza; ed in effetti posto che colui cui viene rivolta la domanda non è impegnato in un lavoro che possa produrre ricchezza, si comprende che la domanda è del tipo retorico sottintendendo che probabilmente la ricchezza mostrata è frutto di mali affari. E' da ricordare anche che il termine gliuommero (dal lat. glomeru(m)(gomitolo))indicava, temporibus illis, anche una grossa somma di danaro corrispondente a circa 100 ducati d'argento.
20.Menarse dint' ê vrache...
Letteralmente: buttarsi nelle imbracature. Id est: rallentare il proprio ritmo lavorativo, lasciarsi prendere dalla pigrizia, procedere a rilento. L'icastica espressione che suole riferirsi al lento agire soprattutto dei giovani, prende l'avvio dall'osservazione del modo di procedere di cavalli che quando sono stanchi, sogliono appoggiarsi con le natiche sui finimenti posteriori detti vrache (b. lat. *braca(m)(imbracature)) proprio perché imbracano la bestia.
21.Chi poco tène, caro tène.
Letteralmente: Chi à poco, lo tiene da conto e ne è gelosissimo. Id est: il povero non può essere generoso.
22. Lassa ca va a ffunno 'o bastimento, abbasta ca mòrono 'e zzoccole!
Letteralmente: lascia che affondi la nave, purchè muoiano i ratti. Con questa locuzione si suole commentare l'azione spericolata di chi è disposto anche al peggio pur di raggiungere un suo precipuo scopo; proverbio nato nell'ambito marinaresco tenendo presente le lotte che combattevano i marinai con i ratti che infestavano le navi mercantili e non.

23.Si mine 'na sporta 'e taralle 'ncapo a chillo, nun ne va manco uno 'nterra
Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la testa e nelle quali, i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna.
24. Muntagne e muntagne nun s'affrontano.
Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...
25.Tu muscio-muscio siente e frusta llà, no!
Letteralmente: Tu senti il richiamo(l'invito)e l'allontanamento no. Il proverbio si riferisce a quelle persone che dalla vita si attendono solo fatti o gesti favorevoli e fanno le viste di rifiutare quelli sfavorevoli comportandosi come gatti che accorrono al richiamo per ricevere il cibo, ma scacciati, non vogliono allontanarsi; comportamento tipicamente fanciullesco che rifiuta di accettare il fatto che la vita è una continua alternanza di dolce ed amaro e tutto deve essere accettato; il termine frusta llà discende dal greco froutha-froutha col medesimo significato di :allontanati, sparisci.




26.Faccia 'e trent'anne 'e fave.
Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante, da galeotto, dal quale non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione o che quanto meno ne abbia l’aspetto, si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze.
27.Sparà a vrenna.
Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , i fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati con crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava.
28.'E sciabbule stanno appese e 'e fodere cumbattono.
Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare, spesso dolendosene, tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese.
29.'A taverna d''o trentuno.
Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga loro servito un pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola partenopea che prendeva il nome dal civico dove era ubicata, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte.
30. 'A vacca, pe nun movere 'a coda se facette magnà 'e ppacche da 'e mosche.
Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice degli indolenti e dei pigri che son disposti a subire gravi nocumenti e non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena!
31.Trasí o passà cu 'a scoppola.
Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che son soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni dove gratuitamente si ottengono benefíci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare.
32.Pozza murí 'e truono a chi nun le piace 'o bbuono.
Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tron(it)u(m))significa sia tuono che percosse violente.
33.'A forca è fatta p''e puverielle.
Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge vi incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione.

34. Darse 'e pizzeche 'ncopp' â panza.
Letteralmente: darsi pizzichi sulla pancia. Id est: sopportare, rassegnarsi, far buon viso a cattivo gioco. È il consiglio che si dà a chi ad una contrarietà sarebbe pronto a render la pariglia ed invece gli si consiglia di sopportare assestandosi dei pizzichi sulla pancia quasi che il dolore fisico che ne deriva servisse a lenire quello morale, in nome del quale ci si sentirebbe pronto a scatenare una guerra!
35. 'Ncopp' ô muorto se canta 'o miserere.
Letteralmente: sul morto si piange il miserere Id est: non bisogna precorrere i tempi, in ispece quelli delle lamentazioni che allora son lecite quando ci si trovi davanti al fatto compiuto del danno patito, mai prima.
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IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA.

IL VERBO PARÉ E LA SUA FRASEOLOGIA.
Il caro amico A.B., di cui – per i soliti motivi di privatezza – mi limito ad indicare le sole iniziali di nome e cognome,si è détto molto contento di ciò che sua richiesta ò scritto circa alcune espressioni modali partenopee costruite con il verbo parlare/à e mi à chiesto di illustrare qualche espressione costruita con il verbo parere/paré (sembrare, apparire). Per contentare l’amico che me ne à fatto richiesta e forse qualcun altro dei miei ventiquattro lettori tratterò perciò qui di sèguito di alcune espressioni partenopee costruite con il verbo parere/paré
Comincio con il darne un breve elenco per poi analiticamente trattarne:
1 – Paré ‘a cuccuvaja ‘e Puorto
2 - Paré ‘a funa e ‘a terocciola
3 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo
4 - Paré ‘a gatta d’ ‘a sié Marí: ‘nu poco chiagne e ‘nu poco rire: quanno sta moscia, rire e quann’è cuntenta, chiagne!
5 - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca fotte e s’allamenta variante
5bis - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca magna e s’allamenta
6 -Paré ‘a gatta ‘e madama quarti-quarte ca magna ‘nu chilo e pesa tre cquarte!
7 - Paré ‘a gatta purmunara
8 – Paré ‘a palata e ‘a jonta
9 - Paré ‘a lampa d’ ‘o Sacramento
10 - Paré ‘a limma e ‘a raspa
11 - Paré ‘a morte ‘ncopp’ ê cantarelle
12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle
13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato
14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo
15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente
16 – Paré variante fà ‘a sporta d’’o tarallaro
17 - Paré variante stà cazza e cucchiara
18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola
19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune

20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta
21 - Paré don Titta e 'o cane

22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone
23 - Paré mill'anne
24 – Paré Lillo e Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.
25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera
26 – Paré ‘na lacerta vermenara
27 – Paré n’anema pezzentella
28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche
29 – Paré ‘na úfara
30 – Paré ‘nu capone sturduto
31 - Paré n’auciello ‘e malaurio
32 -Paré 'na luna 'nquintadecima.

33 - Paré 'nu píreto annasprato
34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato
35 - Paré 'nu sorece 'nfuso 'a ll' uoglio
36 - Paré 'o diavulo e ll'acquasanta
37 - Paré Pascale passaguaje.
Ed a chiudere segnalo alcune espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito ma coniugato impersonalmente alla 3° p. sg. dell’ind. presente ; e sono :
38 - Pare brutto.
39 - Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo.
40 - Pare ca mo 'o vveco
41 – Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino
42 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia
43 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella : trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!

Terminata cosí l’elencazione e prima di analizzare le singole espressioni, mi pare comunque giusto se non necessario dilungarmi alquanto sul verbo parere/paré (che etimologicamente deriva dal latino volg. *paríre→parere = apparire,manifestarsi come ) che è quel verbo intransitivo con ausiliare avere che, come nell’italiano, sta per: 1 avere una certa apparenza; apparire, sembrare (può indicare contrapposizione tra apparenza e realtà): pareva ‘nu santo; me pare ‘na brava perzona; me pare sincero (pareva un santo; mi pare una brava persona; mi pare sincero) | pare ajere (pare ieri), di fatto accaduto molto tempo fa, ma che si ricorda come se fosse recente | pare impossibile, per esprimere disappunto, collera, stupore: me pare ‘mpussibbile ca nun capisce maje chello ca lle dico ( mi pare impossibile che non capisca mai quello che gli si dice) | nun me pare overo! (non mi par vero!), espressione con cui si manifesta contentezza, soddisfazione,gioia;
2 essere di una determinata opinione; credere, pensare: me pare ch’ aggiu capito bbuono…(mi pare di aver capito bene); me pareva ca fosse ll’ora ‘e partí(mi pareva che fosse tempo di partire) | con una determinazione che ne precisa il valore: me pare justo ca tu lle cirche scusa!(mi pare giusto che tu le chieda scusa); me pare fosse ora ca tu ‘a fernisce(mi pare ora che tu la smetta); che te ne pare ‘e chella perzona?, (che ti pare di quella persona?) | me pareva (bbuono)!(mi pareva (bene)!), avevo pensato, visto giusto | te pare?(ti pare?), nun te pare pure a tte?(non sembra anche a te?), per sollecitare l'assenso di altri, per chiedere l'approvazione: aggio raggione io , nun te pare?(ò ragione io, non ti pare?); si adopera anche per esprimere il proprio dissenso o per schermirsi e come formula di cortesia: «Sî stato tu a ffarlo?» «Ma te pare!»; («Sei stato tu a farlo?» «Ma ti pare!»); «Dongo ‘mpiccio?» «Ma te pare!» («Disturbo?» «Ma ti pare!») | (fam.) volere:fa’ comme te pare! (fai un po' come ti pare!)
3 (ant.) manifestarsi, mostrarsi, comparire:pare ‘na pupata ‘e ficusecche (sembra come una pupattola…) | ancóra usato in talune particolari espressioni esclamative : vo’ paré! (a fforza ‘nu bbuonu guaglione) ( vuol sembrare a ogni costo!,ma non è una brava persona), voler apparire, mettersi in mostra come…;pare a tte! (sembra cosí a te,ma in realtà non è come pensi!)cosí appare al tuo giudizio, ma ti sbagli. pe nun paré(per non apparire), per passare inosservato ||| v. intr. impers. apparire probabile, verosimile; sembrare: pare ca vo’ chiovere (sembra che voglia piovere); «È arraggiato?» «Pare».
(«È arrabbiato?» «Pare»).
E passiamo all’esame delle singole espressioni:
1 – Paré ‘a cuccuvaja ‘e Puorto
Letteralmente: Sembrare la civetta del Porto; icastica, antica espressione usata a mo’ di dileggio riferita ad una donna molto poco avvenente, arcigna e sgraziata, anziana, bassa, tracagnotta e grassa e che incuta spavento o timore. L’espressione in origine (fine XVI sec.) faceva riferimento alla civetta che accompagnava la statua della dea Minerva (dea della filosofia e della saggezza oltreché protettrice delle acque) una delle statue presenti sul basamento della Fontana degli Incanti: detta anche d’ ‘a Cuccuvaja in Piazza dell'Olmo, nel Quartiere Porto; la fontana fu détta degli Incanti perché (a voler credere ad una leggenda) una malefica, potente strega della città, usava frequentemente l'acqua della fontana per i suoi incantesmi; ma piú verosimilmente fu cosí chiamata prendendo a riferimento gli Incantatori (venditori di merce ai pubblici incanti) che svolgevano il loro lavoro all’aperto nei pressi della fontana che sorgeva nel mezzo della piazza all'ombra di un grande olmo che dava il nome alla piazza.
La fontana disegnata da Giovanni da Nola (Nola 1488 – †Napoli 1560) sorgeva, come ò détto, nel mezzo della Piazza su di una base quadrangolare formata da un monte con 4 grotte, nelle quali vi erano le statue di: Venere, Apollo, Cupido, Minerva; in cima al monte da una tazza rigurgitante acqua si ergeva un aquila con le Armi dell'Imperatore Carlo V e sull'esterno, in un tondo ortogonale alla grotta della Minerva, era scolpita una civetta (in napoletano cuccovaja); come è risaputo la fontana fu costruita nel XVI secolo nella piazza dell’ Olmo al Porto, quando il viceré Pedro Álvarez de Toledo(Salamanca 1484 – †Firenze 22/02/ 1553) volle realizzare una struttura idrica per l'approvvigionamento degli abitati del luogo. Fu disegnata, ripeto da Giovanni Merliano scultore noto come Giovanni da Nola, ma al rifacimento di alcune parti andate distrutte partecipò anche lo scultore Annibale Caccavello(Napoli 1515 – †Napoli 1570) che scolpí la statua di Venere.
Danneggiata nei tumulti (luglio 1647) di Masaniello (Tommaso Aniello d'Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello (Napoli, 29 giugno 1620 – †Napoli, 16 luglio 1647), la fontana venne riportata al nuovo splendore con i rifacimenti di alcune parti realizzate da tali non meglio identificati Francesco Castellano ed Antonio Iodice, sotto la supervisione di Francesco Antonio Picchiatti(Napoli1619 – †Napoli 1694); riparata piú volte nel corso del XVIII secolo, nel 1834, l'architetto Pietro Bianchi((Lugano 1787 -† Napoli 1849). ne ricostruí una buona parte;scampata alle demolizioni del Risanamento, venne smontata ed all'inizio del XX secolo ricostruita in piazza Salvatore Di Giacomo(Napoli 1860 -† ivi 1934) a Posillipo, ma per i napoletani d’antan rimase e rimane ancóra ‘a funtana d’ ‘a cuccuvaja ‘e Puorto;rammento poi che sul finire del 1800 ed i principi del 1900 con l’espressione ‘a cuccuvaja ‘e Puorto , pur continuando ad usarla quale insolente espressione di irrisione, non ci si riferiva piú all’antica tozza, brutta civetta che accompagnava la Minerva, ma ci si riferiva con sarcastica, malevola impertinenza a Matilde Serao(Patrasso 1856 - †Napoli 1927), la famosissima scrittrice e giornalista napoletana fondatrice a Napoli de Il Giorno con sede in Angiporto della Galleria, giornalista che per il vero era effettivamente una donna molto poco avvenente, arcigna e sgraziata, anziana, bassa, tracagnotta e grassa, la cui vista incuteva timore se non addirittura sgomento!
cuccuvaja s.vo f.le = civetta e talora nottola, ed anche donna brutta e sgraziata che incute timore; etimologicamente voce dal greco kikkabâu.
2 - Paré ‘a funa e ‘a teròcciola
Letteralmente: Sembrare la fune e la carrucola; icastica, antica espressione peraltro desueta preferendole l’uso della successiva (Paré variante stà cazza e cucchiara) ambedue usate per indicare due individui (amici,consanguinei etc.) che stiano sempre insieme procedendo di pari passo
quasi inscindibilmente legati; nell’espressione a margine gli oggetti presi a modello sono una fune ed una carrucola di pozzo, fune e carrucola che solo in unione posson concorrere ad issare il secchio colmo d’acqua; nell’espressione che segue gli oggetti presi a modello sono invece il secchio della calcina e la mestola strumenti usati dal muratore sempre insieme.
funa s.vo f.le = fune, insieme di piú fili di canapa, d'acciaio o di altro materiale ritorti e intrecciati fra di loro; corda, cavo,
etimologicamente dal lat.parlato *funa(m) per il cl. fune(m); teròcciola s.vo f.le = carrucola,macchina per sollevare pesi costituita da una ruota scanalata entro cui scorre una fune, paranco, girella ed altrove per traslato (semanticamente spiegato con il continuo cigolio della carrucola) anche viva parlantina, chiacchiera spesso fastidiosa; rammento ancora che la voce teròcciola usata al pl. teròcciole indicò un tempo le piccole carrucole metalliche che in tempi remoti regolavano le grosse bretelle di cuoio, che sorreggevano le braghe. Etimologicamente la voce a margine è forsedal lat. volg.torciola diminutivo di torcja variante di torca= collana, ma trovo piú perseguibile l’idea del lat. trochlĕa marcato sul greco trochiléia;
3 - Paré variante stà cazza e cucchiara
Letteralmente: sembrare variante stare (uniti come) secchio della calcina e cazzuola/mestola; détto di tutti coloro che sceltosi un amico o un compagno non si separano da lui che per brevissimo lasso di tempo;andare di pari passo, stare sempre insieme come càpita con il secchio della calcina e la cazzuola che vengono usate dal muratore di concerto durante il lavoro giornaliero ed anche quando questo sia terminato il muratore, nettati i ferri del mestiere è solito conservarli insieme ponendo la cazzuola nel secchio della calcina per modo che l’indomani possa facilmente ritrovarli ed usarli alla ripresa del lavoro.
La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. ky/athos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'.
Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni;
cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rj→r e chiusura di o in u in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande etc. con le sole eccezioni di caccavella piú piccola – caccavo piú grande e di tiana piú piccola – tiano piú grande );ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè), al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola).
Qualcuno, mi ripeto, meno esperto della tradizione e/o della parlata napoletane riferisce erroneamente il modo di dire con l’espressione:Paré oppure stà tazza e cucchiaro:sembrare oppure stare tazza e cucchiaio, espressione inesatta come ò spiegato ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani comporta la presenza della cucchiara arnese tipico dei muratori .

4 - Paré ‘a gatta d’ ‘a sié Marí: ‘nu poco chiagne e ‘nu poco rire: quanno sta moscia, rire e quann’è cuntenta, chiagne! Letteralmente: sembrare la gatta della signora Maria, un po’ piange ed un po’ ride:quando è triste, ride, quando è contenta piange! Caustica espressione che prende a modello la gatta d’una non meglio identificata signora Maria (nell’espressione, come si vede, in luogo di sié Maria di quest’ultimo nome è usato una forma apocopata Marí che torna comoda per rimare (sia pure solo fonicamente nel parlato) con il primo successivo rire (ride) (pronunciato come rí tenendo cioè ben evanescente l’ intera sillaba re ed escludendo addirittura a livello vocale la pronuncia della liquida r)) rammento che il gatto/la gatta è un animale domestico molto comune nelle case napoletane,quasi come componente di famiglia; presente anche in tantissime icastiche espressioni partenope non poteva mancare nel libro dei sogni;
; la gatta, animale protagonista(vedi ultra) come ò détto anche d’altre espressioni è accreditata nella fattispecie, quasi fosse un essere umano, di immotivatamente un po’ ridere ed un po’ piangere indecisa sempre su quale comportamento tenére;anzi è addirittura accreditata di tènere un comportamento sciocco, illogico e non spiegabile ridendo in tempo di mestizia e piangendo in quello della gioia. Della medesima strambe, sconcertanti, ma volute indecisione ed incongruenza sono accusate soprattutto le giovani donne lunatiche e capricciose incapaci di tenére un comportamento stabile, donne che infatti si abbandonano ad un costante altalenare spesso immotivato e/o incomprensibile, tra uggiose scontentezze ed inopinate gaiezze et versa vice!
gatta/’atta/jatta s.vo f.le ma usato senza differenza per indicare sia la bestia maschio che quella femmina; gatto, mammifero carnivoro domestico, con corpo agilissimo e flessuoso, capo rotondo, occhi fosforescenti, baffi (vibrisse) sul labbro superiore, zampe con artigli retrattili; la voce etimologicamente è dal lat. parl. *catta(m) per il class. cattu(m);
sié s.vo f.le = signora
quanto all’etimo è l’apocope ricostruita di signora dalla medesima voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur cioè da seigneuse→sie-(gneuse).
poco/u agg. indef. = poco, che è in piccola quantità o misura, in piccolo numero: pocu vvino; pocu ddenaro; poca pacienza; nce steva poca ggente; pe poche minute; ‘nfra pochi mise; essere ‘e pochi pparole, essere una persona riservata; pochi cchiacchiere, e sim., espressioni usate per tagliar corto | scarso, debole, insufficiente (con riferimento all'intensità): nce steva poco viento; ‘o ffa cu pocu ggenio con poco entusiasmo; tengo poca memmoria; tène pocu ggenio ‘e sturià | breve, corto: me ce vularrà poco tiempo; nc'è poca strata ‘a fà; cca ce sta pocu spazzio(c'è poco spazio qui) | piccolo, esiguo: cu poca spesa; è ppoca cosa, essere scarso di quantità, qualità, valore, importanza e sim. || nella loc. avv.’nu poco à valore attenuativo: è ‘nu poco cchiú ccurto; sta ‘nu poco meglio d’ ajere ; stongo ‘nu poco stanca; m’ à fatto arraggià ‘nu poco(mi à fatto inquietare un poco) | con valore enfatico: tiene mente ‘nu poco che mm’hê cumbinato!(guarda un po' che cosa mi ài combinato!); dimme ‘nu poco che ‘ntenzione tiene!(dimmi un po', che intenzioni ài!); rifliette ‘nu poco si te cummiene!(considera un po' tu se ti conviene!) | ‘nu bbellu ppoco , parecchio, molto: è cresciuto‘nu bbellu ppoco | ‘nu poco... ‘nu poco... , in parte... in parte...: ‘nu poco p’ ‘o ccavero, ‘nu poco p’ ‘o remmore se senteva stupetiato(un po' per il caldo, un po' per il rumore, si sentiva frastornato)
come pron. indef. [f. -a]
1 à gli stessi sign. dell'agg. e sottintende un sostantivo precedentemente espresso: «Tiene pane?» «Sí, ma ne tengo poco»; «Ce sta ancòra spazzio dint’ô baúglio? » «Poco» «Ài del pane?» «Sí, ma ne ò poco»; «C'è ancora spazio nel baule?» «Poco»
2 pl. non molte persone: èramo poche(eravamo in pochi); pochi / poche ‘e nuje; (pochi, poche di noi); tu, io e poch’ ate(tu, io e pochi altri)
3 con valore neutro, in espressioni ellittiche: è ppoco ca à scritto(è poco che à scritto), è poco tempo; starrà cca ‘nfra poco(sarà qui fra poco), fra poco tempo; da cca â stazzionance passa poco(da qui alla stazione c'è poco), poca distanza; oje aggiu spiso poco(oggi ò speso poco), poco denaro; ce corre poco (ci passa poco), c'è poca distanza o poca differenza; ogni poco, | con lo stesso uso della loc. ‘nu poco , un poco/un po’: aspettava ‘a ‘nu bbellu ppoco(aspettava da un bel po');avesse ‘a necessità ‘e guadagnà ‘nu poco ‘e cchiú( avrebbe bisogno di guadagnare un poco di piú).
4 con valore neutro, nel sign. di poca cosa, poche cose: oje ce sta poco ‘a fà; pe stasera me rummane poco ‘a sturià (oggi c'è poco da fare; per stasera mi rimane poco da studiare); se l'è ppigliata p’accussí ppoco?!; e chesto te pare poco? (se l'è presa per cosí poco?!; e questo ti sembra poco?) | | vulerce poco a…(volerci poco a…), per esprimere la facilità con cui può accadere o si può fare qualcosa: ce vo’ poco a ffà succedere ‘nu guajo(ci vuol poco a far succedere un guaio); ce vuleva poco a ‘ntennerlo!(ci voleva poco a capirlo!) | ce manca poco ca…(mancarci poco che), per indicare che un fatto sta per accadere (sempre seguito da frase negativa):ce mancaje poco ca nun cadesse (mancò poco che non cadesse) | pe poco nun, quasi: pe poco nun cadeva |
5 con valore neutro, nel sign. di piccole quantità:’nu poco ‘e pane, ‘nu poco ‘e vino; «Vuó ancòra zuccaro?» «Sí,’nu poco»; «Vuoi ancora zucchero?» «Sí, un poco»; pigliane ‘nu poco pe vvota(prendine un po' per volta); facimmo ‘nu poco peduno(facciamo un po' per ciascuno)
come s. m. ciò che è poco; in partic., pochi beni, poche sostanze: m’ accuntento ‘e poco; vive cu chellu ppoco ca ll’ à lassato ‘o marito;
la voce è dal lat. paucu(m).
quanno = quando, allorché ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo) giacché, dal momento che (con valore causale):: avv. di tempo derivato dal latino quando con assimilazione progressiva nd→nn;

sta voce verbale (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito stare = stare, fermarsi, restare ma anche come in questo caso essere voce dal lat. stare
chiagne voce verbale (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito chiagnere= piangere dal lat. plangere in origine 'battere, battersi il petto' con il tipico passaggio del gruppo pl + vocale al napoletano chi (cfr.plus→cchiú – plumbeu(m)→chiummo – plaga→chiaja etc.);
ride/rire voce verbale (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito ridere/rirere dal lat. tardo ridere, con mutamento di coniug. rispetto al class. ridíre e con rotacizzazione osco-mediterranea della dentale, che da ridere dà rirere;
moscia agg.vo f.le = mogia, depressa, abbattuta, avvilita, abbacchiata, mesta triste; etimologicamente è la femminilizzazione metafonetica del masch. muscio che è dal lat. musteu(m), deriv. di mustum 'mosto'; propr. 'simile a mosto
cuntenta agg.vo f.le soddisfatta, appagata, lieta, allegra etimologicamente è la femminilizzazione di cuntento che è dal lat. contentu(m), part. pass. di continíre 'contenere', propr. 'contenuto, appagato'.



5 - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca fótte e s’allamenta variante
5bis - Paré ‘a gatta d’ ‘o sturente ca magna e s’allamenta
Letteralmente la prima (5) Sembrare la gatta dello studente che coisce e si lamenta; la variante (5bis) Sembrare la gatta dello studente che mangia e si lamenta; ambedue usate per sarcasticamente bollare la pessima,incomprensibile abitudine delle persone (soprattutto donne che tengono, per partito preso, un ingiustificato comportamento immotivatamente lagnoso, uggioso e piagnucoloso anche in occasioni del tutto gradevoli, quali nel primo caso il coire, nel secondo il mangiare. Anche di queste due espressioni è protagonista una gatta (presumibilmente femmina) atteso che - come ò anticipato – le locuzioni vengon di preferenza riferite al comportamento di donne; in queste due espressioni in esame però la gatta non è piú la bestiola della sié Maria come nella locuzione sub 4, ma è la bestiola (forse tenuta come domestico animale di compagnia) d’un non meglio identificato studente che entra nelle due locuzioni soltanto per fornire una rima al verbo allamenta,tenendo presente che nell’idioma napoletano, quando non siano parole tronche accentate sull’ultima sillaba, le vocali finali delle parole son tutte pronunciate in modo evanescente e/o debole per cui un’acconcia rima con allamenta può esser fornita da qualsiasi parola terminante ovviamente in ènta, ma pure in ènte o ènto e sturente può rimare tranquillamente con allamenta!
Studente/sturente agg.vo e s,vo m.le (al f.le è sturentessa) = studente, chi è iscritto a una scuola media o ad una università: di per sé la voce è il p. pres. dell’infinito studià/sturià denominale dal lat. studiu(m)→sturiu(m)→sturio
fótte voce verbale (3° pers. sg. ind. pr. dell’infinito fottere = coire, possedere carnalmente dal lat.. volg. *futtere, per il class. Futuere;
allamenta voce verbale (3° pers. sg. ind. pr. dell’infinito allamentar(se) dal lat.parlato ad + lamentare, class. lamentari, deriv. di lamentum 'lamento'
magna voce verbale (3° pers. sg. ind. pr. dell’infinito magnà= mangiare etimologicamente magnare/magnà è forma metatetica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico.
6 -Paré ‘a gatta ‘e madama quatti-quarte ca magna ‘nu chilo e pesa tre cquarte!
Letteralmente: Sembrare la gatta della madama da quattro quarti(di nobiltà) che mangia (cibo per) un chilogrammo, ma pesa (solo) tre quarti di chilo; icastica espressione usata con evidenti risvolti a) ironici e/o giocosi, e b) velati d’invidia; i risvolti sono a) ironici e/o giocosi quando ci si intenda riferire a persone avare e possessive che temano possano andare perdute parte delle proprie sostanze e siano tanto spilorce al segno di rifiutarsi d’assimilare del tutto ciò che mangino per non eccedere nel consumo delle vettovaglie e/o dei beni posseduti; l’ espressione è poi usata con evidenti risvolti b) velati d’invidia quando con essa ci si intenda riferire a persone che, pur ingozzandosi di cibo a profusione, riescono (forse perché dotate d’un particolare metabolismo…) a non assimilarlo del tutto, mantenendosi magre ed asciutte a dispetto delle calorie assunte. La cosa che piú diverte nell’espressione in esame è che anche in questo caso il protagonista è un gatto che però non è quello delle precedenti locuzioni; infatti non è né il gatto d’uno studente, né quello della sié Maria ma si tratta della bestiola d’una non meglio identificata madama da quattro quarti(di nobiltà) cioè d’una persona falsamente nobile, d’una persona che ostenta raffinatezza che non à, cercando di assumere atteggiamenti attribuiti a classi sociali piú elevate o persona che segue mode nuove ed eccentriche, con l'intenzione di distinguersi dai piú; a Napoli una persona che tenga questi atteggiamenti, se donna, è détta appunto ironicamente madama ‘e quatti-quarte cioè signora da quattro quarti (di nobiltà) id est nobiltà di quattro quarti, cioè di padre, di madre, avolo ed avola paterni e materni, i quali abbiano sempre vissuto nobilmente, non abbiano fatto esercizio alcuno vile per il quale abbiano pregiudicata la nobiltà; persona tanto veramente nobile da potere esibire uno stemma derivato da quelli dei suoi,uno stemma inquartato, stemma cioè che in ognuno delle quattro sezioni dell’ arma di famiglia, siano riconoscibili gli stemmi d’origine di padre, di madre, avolo ed avola paterni e materni, che concorsero all’effige della nuova insegna.Faccio notare che nella stragrande maggioranza dei casi càpita che veramente la donna ironicamente détta madama ‘e quatti-quarte sia persona magra ed asciutta di talché,quasi per sineddoche, si possa riferire proprio a lei piuttosto che al suo gatto l’assunto ironico e/o invidioso di mangiare per un chilo e di pesare solo tre quarti di chilo!
madama s.vo f.le
1madama, signora, titolo di riguardo che veniva rivolto in passato a una signora; oggi usato solo in tono scherzoso o ironico
2 in epoca coloniale, concubina indigena di un bianco
3 nel gergo della malavita, la polizia.
Voce derivata dal fr. madame, comp. di ma 'mia' e dame 'signora';
quatti-quarte = quattro quarti; quatti sta per quatto = quattro agg. num. card. invar.
1 numero naturale che corrisponde a tre unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 4, in quella romana da IV: le quattro stagioni; i quattro Vangeli; i quattro punti cardinali; animali a quattro zampe; le quattro operazioni aritmetiche | sottintendendo il sostantivo: mettersi in fila per quattro, persone; un servizio da caffè per quattro, persone; rompere, dividere in quattro, parti; bob a quattro, posti; carrozza, tiro a quattro, cavalli
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale: l'articolo quattro della Costituzione; la citazione è a pagina quattro | sottintendendo il sostantivo: le (ore) quattro, antimeridiane o pomeridiane
3 indica un numero indeterminato, col significato di alcuni, pochi: faticà pe quatto sorde; ò venduto quelle quattro cianfrusaglie per liberare la casa | farsi in quattro per qualcuno, (fig.) adoperarsi in ogni modo per essergli utile | dirne quattro a qualcuno, (fig.) sgridarlo, trattarlo duramente | fare il diavolo a quattro, (fig.) fare gran baccano, buttare tutto sottosopra
voce dal lat. quatt(u)o(r);
quarte plur. di quarto= la quarta parte di un'unità; nella fattispecie il quarto è ognuno dei quattro campi che formano lo scudo gentilizio; voce dal lat. quartu(m);
chilo s. m. abbreviazione di chilogrammo ; unità di misura di peso corrispondente a 1000 grammi; si abbrevia come détto, in chilo; voce dal gr. chílioi 'mille' attrav. il fr. kilo;
tre cquarte = tre quarti (di chilo);
tre agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: tre libri; tre anni; le tre Parche, le tre Furie, le tre Grazie; le tre virtú teologali | sottintendendo il sostantivo: piegare il foglio in tre (parti); chi fa da sé fa per tre (persone)
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale: la stanza tre di un albergo; il primo capitolo inizia a pagina tre | sottintendendo il sostantivo: sono le (ore) tre; arriverà il (giorno) tre
3 con valore indeterminato indica una piccola quantità: dire una cosa in tre parole; non saper dire tre parole, (fig.) mancare di capacità espositiva | in qualche caso, indica molto, parecchio: prima di parlare è meglio pensarci tre volte
cquarte= quarte cfr. antea.
7 - Paré ‘a gatta purmunara
Ad litteram: Sembrare un gatto (ma piú esattemente un gatto femmina) goloso di polmone (vaccino). Divertito riferimento, prendendo a modello il comportamento del gatto che notoriamente è avido di polmone vaccino, a tutte quelle persone (ma segnatamente donne/massaie) che ripetutamente desiderose di cibo (quale che sia) ghiottonescamente si diano continuamente a piluccare assumendo piccoli, ma reiterati assaggi di ciò che stiano preparando in cucina.
purmunara agg.vo f.le dal m.le purmunaro =goloso/a di polmone; la voce purmunaro è, attraverso il suffisso di pertinenza aro/ara dal lat arius/ara→arus/ara, un denominale di purmone (polmone) dal lat. pulmone(m) con cambio espressivo della liquida l→r.

8 – Paré ‘a palata e ‘a jonta
Ad litteram:sembrare il filone di pane e la (sua) giunta Il paragone di questa espressione riguarda sempre due persone che incedano di conserva, e si tratti di due persone di cui l'una sia longilinea e prestante e l'altra piccola e piuttosto in carne per modo da essere paragonati ad un grosso filone di pane ed alla piccola giunta che il fornaio soleva accordare al compratore, per aggiustare il peso del filone di pane spesso inferiore al previsto chilogrammo della pezzatura.
palata s.vo f.le = filone di pane; pezzatura di pane che non eccede il peso d’ un chilogrammo ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala l’occupano le c.d. palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.);rammento che a Napoli il pane è venduto nelle piú varie forme o pezzature tra le quali da ricordare ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ) ambedue: ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg.; si à altresí ‘o palatone (grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli deriva dal fatto che , al momento di infornarlo, detto filone occupa per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata, ripeto, è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg. ed occupa la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupano le cosiddétte palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); sià ancóra la cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato dall’accoppiamento di due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito, pur mantenendo la pezzatura di 1 kg., corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma alquanto diversa e fu un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata.Si ànno infine panini, marsigliesi e ciabatte che sono tutti formati di pane molto contenuti, quasi delle monoporzioni adatte ad essere consumate farcite di salumi o formaggi o gustose frittate per un rapido, contenuto asciolvere o quale pasto da asporto comunemente détto marenna (che etimologicamente è un gerundivo lat. neutro pl. merenda→marenna inteso femm. sg. con tipica assimilazione progressiva nd→nn.
La voce palata è un denominale di pala (dal lat. pala(m)) con riferimento all’attrezzo (lungo e stretto asse di legno) usato per infornare il filone di pane.
Rammento infine che in napoletano esiste un’altra voce quasi simile a palata, ma di tutt’altro significato; dico cioè della voce palïata che vale un gran numero di gravi, dolorose batoste; quest’ultima voce (palïata) originariamente si riferiva al fatto che le percosse erano inferte con un palo donde il nome (palïata); in prosieguo di tempo è venuta meno la particolarità del palo, ma è rimasta l’idea della gran quantità di percosse che la palïata comporta.Rammento che morfologicamente dal sostantivo palo ci si sarebbe atteso come corretta derivazione la voce palata e non palïata, ma poi che il napoletano aveva già la voce palata con tutt’altro significato come ò détto ecco che per indicare la bastonatura inferta con un palo si ricorse al termine palïata che necessitò dell’anaptissi di comodo di una ï nella voce palata. La locuzione fà ‘na palïata (percuotere lungamente e dolorosamente) non è piú molto usata, un tempo, invece, era sulla bocca di tutte le mamme che con essa espressione minacciavano i loro vivaci figlioletti insensibili a piú dolci rimbrotti, affinché si calmassero e recedessero dal loro irrequieto atteggiamento.
jonta/ghionta s.vo f.le duplice morfologia d’una identica voce che vale giunta, aggiunta, sovrappiú; nella fattispecie piccolo pezzo di pane dato a complemento d’un filone di pane al fine di sistemarne il giusto peso. La voce è dal lat. (ad)iuncta→juncta→jonta/ghionta, '(le) cose aggiunte', part. pass. neutro pl.poi inteso femminile di adiungere 'aggiungere'.
9 - Paré ‘a lampa d’ ‘o Sacramento
Ad litteram: sembrare la lampada del Sacramento Id est: essere cosí di salute malferma e d’aspetto smunto e macilento da potersi paragonare al piccolo cero, dall’esile fiammella che arde davanti la custodia del SS. Sacramento nelle chiese cattoliche, cero che però si consuma rapidamente.
lampa – s.vo f.le di per sé fiamma, ma anche estensivamente lampada, lume ed altrove pure quantità di vino ingollata in un’unica bevuta; spesso è usata figuratamente per significare la vita ed il suo durare; etimologicamente dal nom. sing. del latino lamp(s)-lampa(dis);
sacramento s.vo m.le 1 (teol.) nel cristianesimo, rito istituito da Gesù Cristo per operare la salvezza dell'uomo; secondo alcune chiese (p. e. orientali e cattolica), conferisce o accresce la grazia; secondo altre, la testimonia nella fede: amministrare, impartire, ricevere i sacramenti | i sette sacramenti, nella chiesa cattolica, battesimo, cresima, eucaristia, penitenza o riconciliazione, unzione degli infermi, ordine e matrimonio: accostarsi ai sacramenti, confessarsi e fare la comunione | fare qualcosa con tutti i sacramenti, (fig. fam.) con tutte le regole, col massimo scrupolo
2 in particolare,come nel caso che ci occupa, scritto in segno di devozione e/o rispetto con l’iniziale maiuscola, il Sacramento dell'eucaristia | l'ostia consacrata: esporre il Sacramento, il SS. Sacramento
3 (ant. , lett.) giuramento solenne: a te guardando, / o bel sole di Dio, fo sacramento
dal lat. sacramentu(m), deriv. di sacrare 'consacrare'.

10 - Paré ‘a limma e ‘a raspa
Ad litteram: Sembrare una lima ed una raspa; id est: détto, con riferimento all’asperità dei due utensili da carpentieri che venendo a contatto posson suscitare anche delle scintille,détto di due persone che per la ruvidezza dei rispettivi caratteri, se entrano in una qualche relazione son usi contrastarsi ripetutamente sino a giungere a continuo litigio.
limma s.vo f.le = lima, utensile manuale costituito gener. da una barra di acciaio temprato sulla cui superficie sono ricavati numerosi denti a bordo tagliente; serve ad asportare piccole quantità di materiale da superfici dure in lavori di sgrossatura e di rifinitura; voce dal lat. lima(m) con raddoppiamento espressivo della nasale bilabiale.
raspa s.vo f.le = raspa, utensile manuale, attrezzo simile ad una lima, ma con denti piú grossi e piú radi, usato soprattutto nella lavorazione del legno; serve ad asportare rapidamente piccole quantità di materiale da superfici dure in lavori di sgrossatura, ma non di rifinitura; voce deverbale di raspare/raspà che è dal germ. raspôn 'grattare'.
11 - Paré ‘a morte ‘ncopp’ ê cantarelle
Ad litteram: Sembrare la morte ( id est:un morto) su gli scolatoi. Détto con divertita irriverenza di qualcuno che sia tanto smagrito e male in arnese da potersi paragonare ad uno di quei cadaveri che temporibus illis venivano per un certo tempo inumati (in catacombe o ipogei di talune chiese provviste di terra santa) posti a sedere su di una sorta di ampi càntari o cantèri (vasi di comodo) fino a che, perduti per scolatura i liquidi corporali non risultassero tanto asciutti ed incartapecoriti da poter daro loro acconcia sepoltura in terra consacrata o direttamente in nicchie senza la necessità di tenerli dapprima in una bara lignea.
‘ncopp’ ê locuzione che vale la preposizione articolata sulle o altrove sugli formata dall’ unione di ‘ncoppa a e dall’ articolo ‘e (=i/gli/le)che fuso con la preposizione a si rende graficamente con ê= a+’e come altrove (cfr. ultra) a+’a=â - a+’o=ô; rammento al proposito che con la preposizione su in italiano si ànno sul = su+il, sullo/a= su+lo/la sulle = su+ le, sugli = su+ gli; in napoletano per formare analoghe preposizioni, si fa ricorso alla preposizione impropria ‘ncoppa (sopra – su, dal lat in+cuppa(m)); le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sulla tavola o sopra la tavola , ma nel napoletano si esige sulla o sopra alla tavola e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano) per cui le locuzioni articolate formate da ‘ncoppa a e dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) saranno rispettivamente ‘ncopp’ô ‘ncopp’â, ‘ncopp’ê che rendono rispettivamente sul/sullo,sulla,sugli/sulle. Tutte le altre preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con le corrispondenti preposizioni semplici napoletane delle italiane per (pe) tra/fra(‘ntra/’nfra) ànno una forma rigorosamente scissa, ma solo per la preposizione pe, (mentre per ‘ntra/’nfra non è consentito) scissa o tutt’ al piú apostrofata: pe ‘o→p’’o (per il/lo), pe ‘a→p’’a (per la), pe ‘e→p’’e (per gli/le), mentre avremo solo ntra/’nfra ‘o ntra/’nfra ‘a ntra/’nfra ‘e. Per tutte le altre preposizione articolate formate dall’unione dei soliti articoli con preposizioni improprie (sotto, sopra, dietro, davanti, insieme,vicino, lontano etc.), ci si regolerà alla medesima maniera di quanto ò già detto circa le preposizioni formate da dinto o ‘ncoppa tenendo presente che in napoletano sotto, sopra,dietro, davanti, insieme,vicino, lontano sono rese rispettivamente con sotto, ‘ncoppa,arreto, annanze,’nzieme,vicino/bbicino,luntano e tenendo presente altresí che occorre sempre rammentare che le parole e le frasi da esse formate servono a riprodurre un pensiero; ora sia che si parli, sia che si scriva, un napoletano, nello scrivere in vernacolo, non potrà pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â casa (dove la â è la scrittura contratta(crasi) della preposizione articolata alla), che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) vicino al/allo (vicino a ‘o→vicino ô) e cosí via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la.
cantarelle s.vo f.le pl. del sg. cantarella di per sé ampio càntero/càntaro, ma qui e nell’inteso generale vaso scolatoio su cui venivano assisi i cadaveri a cedere i liquidi ed essiccarsi. La voce a margine etimologicamente è una femminilizzazione sia pure in incongrua forma di diminutivo della voce càntero/càntaro che è dal lat. dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce càntero/càntaro con l’altra voce partenopea - cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca 27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e/o poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
Ò parlato di incongruità circa la femminilizzazione diminutiva di càntaro in càntara e poi cantarella, in quanto è noto che in napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella. Ora atteso che una càntera/càntara è piú grossa o ampia del càntero/càntaro non à senso farne il diminutivo canterella/cantarella a meno che non lo si abbia fatto per tentar di rendere (con un diminutivo aggraziante) meno tetra una cosa lugubre quale è uno scolatoio per cadaveri!



12 - Paré ‘a mosca dint’ ô mmèle
Ad litteram: Sembrare la mosca nel miele. Détto icasticamente in riferimento a chi tenga un atteggiamento di contento piacere e grossa soddisfazione; costui viene rapportato ad una mosca che penetrata senza (per sua fortuna) restarne invischiata, in un barattolo di miele se ne satolli ad libitum traendone grande godimento.
mosca s.vo f.le mosca;
1 insetto dal corpo scuro, con proboscide protrattile e un paio di ali trasparenti (ord. Ditteri): uno sciame di mosche; scacciare una mosca | mosca carnaria, insetto dittero con livrea a riflessi metallici, le cui larve si sviluppano su sostanze in putrefazione (fam. Calliforidi) | mosca tse tse, insetto del genere glossina, diffuso nelle zone tropicali, che trasmette il tripanosoma, agente della malattia del sonno | essere ‘na mosca janca(essere una mosca bianca), (fig.) si dice di persona o cosa rarissima | nun facesse male a ‘na mosca(non farebbe male a una mosca), (fig.) si dice di persona molto mite | non si sentiva volare una mosca, (fig.) c'era un silenzio assoluto | mosca!, zitto e mosca!, (fam.) silenzio! | restà cu ‘e mmosche ‘mmano(restare con un pugno di mosche), (fig.) restare deluso, non aver ricavato il minimo profitto da qualcosa | fa zumpà ‘a mosca ô naso(far saltare la mosca al naso), (fig.) far perdere la pazienza, provocare uno scatto di collera | uccello mosca, specie di colibrí | pesi mosca, (sport) nel pugilato e nella lotta, categoria che comprende atleti del peso minimo; un (peso) mosca, atleta che appartiene a tale categoria.
2 (fig.) persona noiosa, petulante, insopportabile | ‘a mosca cucchiera( la mosca cocchiera), (lett.) chi si attribuisce, senza fondamento, i risultati di azioni altrui, credendo di svolgere compiti e avere responsabilità di direzione
3 nella pesca con l'amo, qualunque esca artificiale che imiti insetti, larve
4 neo finto che un tempo le donne si applicavano al viso o sulle spalle
5 pizzetto di barba, molto piccolo, portato sotto il labbro inferiore
6 chicco di caffè tostato che si aggiunge ad alcuni liquori: ànnese cu ‘a mosca – sammuca cu ‘a mosca(anice con la mosca -sambuca con la mosca).
dal lat. musca(m)
dint’ ô/ ‘int’ ô prep. art.m.le nel, dentro il preposizione formata da dinto (dal lat. de+intus) addizionato della preposizione articolata ô (= a + ‘o= allo, ); ricordo che si ànno altre preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte: â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); nel caso che ci occupa ci troviamo cioè di fronte ad un tipico caso della la parlata napoletana e della costruzione di espressioni con dentro, sopra, sotto ed altri avverbi/ preposizioni improprie del toscano. In questo caso accade che un napoletano che scrivesse in napoletano non potrebbe pensare in toscano e fare poi una sorta di traduzione:commetterebbe un gravissimo errore.Per esemplificare: un napoletano che dovesse scrivere: sono entrato dentro la casa, non potrebbe mai scrivere: so’ trasuto dint’ ‘a casa; ma dovrebbe scrivere: so’ trasuto dint’â (dove la â è la scrittura contratta della preposizione articolata alla) casa; che sarebbe l’esatta riproduzione del suo pensiero napoletano: sono entrato dentro alla casa. Allo stesso modo dovrà comportarsi usando sopra (‘ncopp’ a...) o sotto (sott’a....) in mezzo (‘mmiez’ a...) e così via, perché un napoletano articola mentalmente sopra al/alla/alle/ a gli... e non sopra il/la/le/gli... e parimenti pensa sotto al... etc. e non sotto il ... etc. D’ altro canto anche per la lingua italiana i piú moderni ed usati vocabolarî (TRECCANI) almeno per dentro non disdegnano le costruzioni: dentro al, dentro alla accanto alle piú classiche dentro il, dentro la. Peccato che la stragrande parte di sedicenti scrittori e/o poeti napoletani(grandi, meno grandi e grandissimi…) si ostinino a rifiutare l’uso dell’accento circonflesso e delle crasi e e si rifugiano negli erronei dint’ ‘a, dint’ ‘o - ‘ncopp’ ‘a, sott’ ‘o - annante ‘a, arret’ ‘o etc. intestardendosi cioè impropriamente ad usare, per far degli esempi dint’ ‘a casa, dint’ ‘o cunvento; dint’ ‘e stanze; dint’ ‘e vicule ; oppure ‘ncopp’ ‘a casa,oppure annante’ ‘a chiesa etc.in luogo come ò détto dei corretti dint’ â casa, dint’ ô cunvento; dint’ ê stanze; dint’ ê vicule ; oppure ‘ncopp’ â casa,oppure annante’ â chiesa incorrendo nel colpevole errore di ritenere il napoletano tributario dell’ italiano, laddove è risaputo che la parlata napoletana, se si esclude il latino tardo e/o parlato, che l’à generata non è tributaria di nessun linguaggio e men che meno della lingua di Alighieri Dante!
mèle s.vo neutro miele,
1 sostanza zuccherina, quasi sciropposa, di color biondo, molto dolce, prodotta dalle api: mèle naturale, vergine,’e castagno(miele naturale, vergine; miele di (fiori di) castagno), quello prodotto da api che si nutrono del nettare di tali fiori | doc e comm’ ô mmèle(dolce come il miele), dolcissimo | mèle rusato(miele rosato), (farm.) collutorio a base di miele e infuso di petali di rosa
2 (fig.) dolcezza, soavità: ‘na femmena tutta mèle(una donna tutta miele; parole ‘e mèle(parole di miele) zuccherose, eccessivamente leziose.
come agg. invar. si dice di colore biondo ambrato.
dal nom.vo lat. mel
13 - Paré ‘a mosca dint’ ô Viscuvato variante
13 bis È gghiuta ‘a mosca dint’ ô Viscuvato

Ad litteram: Sembrare la mosca nella cattedrale; variante È finita la mosca nella cattedrale.
Détti icasticamente di qualsiasi cosa che in un raffronto risulti estremamente piú piccola o contenuta dell’altra cui si ponga in rapporto. Segnatamente però l’espressione, (nella forma della variante) viene usata come icastico commento profferito da chi si lamenti d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli abbia tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco (adombrato sotto il nome di cattedrale), vi si sperde quasi, come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione e la sua variante vengono usate ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
Viscuvato s.vo m.le vescovado, di per sé 1 dignità, ufficio di vescovo: innalzare al vescovado
2 territorio sottoposto alla giurisdizione di un vescovo | l'edificio in cui il vescovo risiede; per ampliamento semantico la cattedrale (il tempio sede della cattedra del vescovo); voce dal lat. tardo episcopatu(m), deriv. di episcopus 'vescovo'
è gghiuta voce verbale (3° pers. sg. ind. pass. pross.) dell’infinito jí/ghí/gghí dal lat. ire

14 – Paré Arturo ‘ncopp’ ô filo
Ad litteram: Sembrare Arturo sul filo (corda). Détto con sarcastica ironia con due valenze: a) riferimento a tutti coloro che per necessità, ma piú spesso, per colpevole insipienza o temerarietà si mettano in situazioni insicure e/o difficoltose alla medesima stregua di quel non meglio identificato mitico Arturo saltimbanco acrobatico che si lucrava la giornata esibendosi in piazza del Mercato camminando pericolosamente su di una malferma ed oscillante corda tesa tra due edifici ad una altezza di circa dieci metri dal suolo; b) la seconda valenza fa riferimento a chiunque abbia un incedere malsicuro,esitante, vacillante o traballante alla maniera del suddetto Arturo.
‘ncopp’ ô locuzione prepositiva articolata m.le (sul, sopra il, sopra al) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’o cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12
filo s.vo m.le lett. filo, 1 il prodotto della filatura di una fibra tessile, naturale, artificiale o sintetica, che serve per tessere, cucire, ricamare ecc., 2 (estens.)ed è il caso che ci occupa: qualsiasi corpo assai lungo e sottile, di sezione circolare uniforme; cavo, corda, gomena, 3 (estens.) oggetto filiforme: filo d’erba, filo di paglia, 4 ognuno dei tiranti con cui vengono azionati dall'alto i burattini5 (fig.) quantità, cosa minima: un filo di vita, di speranza; 6 (fig.) andamento, ordine, direzione: il filo del discorso,
la voce è dal lat. filu(m).
15 – Paré ‘a zoccola cu ‘e llente
Ad litteram: Sembrare un topo con gli occhiali.
Divertente ed icastica espressione di dileggio riferita a tutti quegli anziani uomini spesso magri, secchi, scarni dal viso lungo ed affilato, provvisto di un congruo naso semita sotto il quale vegetano cespugliosi o affilati baffetti e sul quale poggiano spessi occhiali da miope o piú spesso da presbite; spesso costoro svolgono mansioni d’archivista presso studi notarili o uffici pubblici e segaligni, ossuti ed allampanati, si aggirano tra polverosi faldoni di documenti con il loro divertente aspetto di vecchio topo… provvisto d’occhiali.
Zoccola s.vo f.le grosso topo di fogna, ratto, surmolotto, roditore dannoso sia per la voracità sia per le malattie che puó trasmettere. La voce è dal lat. sorcula(m) con tipica assimilazione regressiva cr→cc e consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);
llente/lente s.vo f.le pl. di lenta = lente, occhiale
1 sistema ottico elementare costituito da una sostanza rifrangente, gener. vetro o plastica trasparente, limitata da due superfici di cui almeno una è curva: lente convergente o d'ingrandimento, con almeno una superficie convessa, che ingrandisce l'immagine e corregge la presbiopia e l'ipermetropia; lente divergente, con almeno una superficie concava, che rimpiccolisce l'immagine e corregge la miopia; lente biconvessa, biconcava, con entrambe le superfici curve con raggio di curvatura uguale e opposto; lente a menisco, con entrambe le superfici curve, ma con raggio di curvatura diverso e orientato nello stesso senso; lente sferica, con le due superfici sferiche o una sferica e l'altra piana; lente cilindrica, torica, con almeno una superficie cilindrica, torica, per correggere l'astigmatismo; lente prismatica, con le superfici ad assi concorrenti, per correggere la tendenza allo strabismo | lente a contatto o corneale, piccola lente di plastica che si applica alla cornea, dove è trattenuta da un velo di liquido lacrimale | lente cristallina, (anat.) il cristallino dell'occhio
2 pl.come nel caso che ci occupa, gli occhiali o altrove le lenti a contatto: portare le lenti
3 elemento, oggetto a forma di lente: la lente del pendolo, la massa metallica all'estremità inferiore dell'asta oscillante
4 (ant. , region.) lenticchia.
Voce dal lat. le°nte(m) 'lenticchia'; il sign. di 'lente ottica' si è sviluppato modernamente (dal sec. XVII).
16 – Paré variante fà ‘a sporta d’’o tarallaro
Ad litteram: Sembrare variante fare la cesta del venditore di taralli. Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione sia nella morfologia di Paré ‘a sporta d’’o tarallaro:
Sembrare la cesta del venditore dei taralli, che nella sua variante: fare la cesta del venditore di taralli è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposti continuamente, come appunto un venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione.
Poiché gli avventori dei venditori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli, per scegliere a proprio piacimento , alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, o di se stesso ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità, anche se poi se ne lamenta dicendo: - “Ma che m’avite pigliato p’’a sporta d’’o tarallaro?” (Mi avete forse confuso con la cesta del tarallaio?)
sporta = cesta dal lat. sporta(m)
tarallaro = venditore di taralli; voce formata dall’unione del s.vo tarallo + il suff. di pertinenza aro/aio dal lat. arius; Tarallo s.m. s. biscotto a forma di ciambella tipico dell'Italia meridionale, dolce se condito con zucchero e semi d'anice, rustico se condito con sugna e pepe o altro. DIM. taralletto, tarallino, taralluccio. Trattasi chiaramente di un meridionalismo, attese le regioni (tutte meridionali: Campania, Abruzzo, Calabria e Puglia) dove vengono prodotti tali tipici biscotti. Voce penetrata nel lessico dell’italiano vista la gran diffusione peninsulare ( per esportazione dalle regioni produttrici) del prodotto che va sotto il nome di tarallo. Quanto all’etimo della voce a margine non vi sono certezze e si vaga nel campo delle ipotesi; tutti i calepini a mia disposizione, a cominciare dal D.E.I. nicchiano o si rifugiano dietro il solito pilatesco etimo incerto;non so dire chi l’abbia formulata ma esiste un’ipotesi che riferirebbe la voce tarallo al greco toros (= toroide); personalmente ipotizzo il latino torus (= toro: modanatura inferiore della colonna,cordone); semanticamente in ambedue i casi ci si troverebbe nel giusto atteso che sia la forma del toroide che quella del toro di colonna, richiamano quella del tarallo, ma morfologicamente è alquanto complicato, tuttavia posto che in linguistica non sono importanti gli adattamenti vocalici (o→a) è un po’ piú complesso spiegare da dove salti fuori quel suffisso allo a meno che (ed è questa la mia ipotesi!), a meno che questo allo non sia un adattamento locale di un originario suffisso diminutivo ello←ellus proprio dei sostantivi con tema in r; oppure un adattamento metaplasmatico ed espressivo di un originario suffisso diminutivo olo←olus;accettando una delle due ipotesi si potrebbe ritenere il tar-allo un piccolo(per il suff.ello→allo oppure olo→alo→allo) cordone (torus); dopo lungo almanaccare, mi son fatto convinto di questa idea, quantunque neppure la grammatica del RHOLFS faccia menzione di questi adattamenti di suffisso... In ogni caso, se si accettasse, per l’etimo di tarallo la mia idea di tor-(us) + il suff. ello→allo oppure olo→alo→allo forse si potrebbe , indegnamente, dare scacco persino al D.E.I. che al proposito di tarallo elencò una sequenza di ipotesi giudicandole tutte però improponibili o non perseguibili..., con la sola eccezione, forse!, di una voce macedone: dràmis = focaccia, voce che però il curatore della lettera T (Giovanni Alessio) ipotizzò debba leggersi in modo paleograficamente corretto dràllis. Stimo, e quanto! G. Alessio, ma – nella fattispecie – penso che si fosse esibito in un doppio salto mortale (senza rete), pericoloso esercizio in cui, mancandomi forza e coraggio(lèggi: preparazione) non mi sento di seguirlo! Ed in ogni caso il passaggio morfologico da dràllis a tarallo d’acchito non si còglie!


A margine di questa espressione mi piace ricordare quello che fu uno degli ultimi, se non certamente l’ultimo venditore girovago di taralli, ch’io vidi tra gli anni ’50 e ’60 del 1900 percorrere in lungo e largo la città di Napoli armato della sua ballonzolante cesta colma di taralli,cesta mantenuta con l’epa e sorretta da una correggia di cuoio poggiata sul collo.All’epoca ch’io lo seppi, questo venditore girovago sempre allegro se non addirittura ridanciano, che rispondeva al nome di Fortunato era un vecchio ometto piccolo e grassoccio con delle gambette arcuate, nascoste da certe consunte braghe d’un colore indefinibile che, in origine, non dovevano essere state sue : erano infatti troppo larghe e sbuffanti; indossava nei mesi primaverili ed estivi una maglietta di cotone bianco a mezze maniche e portava sul capo un berretto a caciottella di panno bianco, del tipo di quelli indossati dai marinai sulle divise da fatica; d’inverno sostituiva la caciottella bianca con uno zucchetto di lana a piú colori ed infilava sulla solita maglietta di cotone bianco a mezze maniche, una sdrucita giacchetta del medesimo indefinito colore delle breghe, giacchetta che,anch’essa in origine, non doveva essere stata sua: troppo larga e sbuffante;completava l’abbigliamento invernale una unta e bisunta sciarpa di lana a piú colori ch’egli portava come un sacerdote porta la stola e che gli incorniciava il viso segnato dal tempo con una ragnatela di rughe profonde, ma sul quale tuttavia brillavano due occhi vivaci e talvolta addirittura lampeggianti. La piega amara (angoli all’ingiú) della bocca sdentata completava il disegno del volto di questo vecchio omettino che si annunziava di lontano con una sorta di squillante, musicale cantilena: “Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’!” E quale era mai la roba bella sottolineata da quello: ‘Nzogna, ‘nzo’ ?
Ma è chiaro che si trattava dei suoi gustosissimi, croccanti taralli ‘nzogna e ppepe ,impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, taralli ancóra caldi ( e sfido io: li portava in giro protetti sotto una doppia coltre di tela di sacco...) Poi passarono gli anni ed un giorno, anzi un brutto giorno improvvisamente non intesi piú quella squillante, musicale cantilena: Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’! Con ogni probabilità Fortunato aveva esteso il suo giro ed era passato a proporre a san Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e pepe ed io mi dovetti rassegnare a cercare altrove per trovare i taralli che Fortunato non mi avrebbe piú venduti. Per buona sorte mia (una volta nella vita!) facendo appena quattro passi in piú scovai proprio difronte all’Orto Botanico la bottega che don Leopoldo Infante aveva aperto. E mi andò da Dio; Furtunato teneva ‘a rrobba bbella? Ma don Liopoldo nun s’’o vedeva proprio!

17 - Paré ‘a gatta appesa ô llardo
Ad litteram: Sembrare un gatto aggrappato al lardo
Divertentissima sarcastica locuzione dal duplice significato; nel primo, con la similitudine rammentata (che parla di un gatto appigliato ad un gran pezzo di lardo sospeso al soffitto d’una cantina o cucina d’ antan) ci si riferisce mordacemente a taluni inguaribili ghiottoni (appaiati al gatto de quo) che desiderosi di rimpinzarsi d’ un qualche alimento, avutolo sottomano, lo ghermiscono avidamente, abbrancandolo con ingordigia,dando l’impressione di temere quasi che qualcun altro glielo possa sottrarre; nel secondo significato con la medesima similitudine ci si riferisce in maniera solo divertita, ma non scortese a quelle vecchie, malconce,esili signore che nell’incedere, per tema di cadere, si aggrappino vistosamente a chi le sorregga. Anche costoro, come i pregressi ghiottoni, sono appaiate ad un gatto avvinghiato ad un pezzo di lardo.
appesa voce verbale part. pass.f.le agg.vato dell’infinito appennere = attaccare, agganciare, appiccare; sospendere; appennere è, con consueta assimilazione progressiva nd→nn, dal lat. appendere 'pesare', poi 'appendere', comp. di ad e pendere 'sospendere'
ô preposizione art. m.le al, allo; morfologicamente è lacrasi di a + ‘o = a+il/lo come altrove â = a+ ‘a (a+ la), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le);
llardo/lardo s.vo neutro lardo
1 lo strato di grasso sottocutaneo del maiale, che si conserva salato o affumicato per uso di cucina: fare il battuto col lardo | nuotare nel lardo, (fig.) vivere nell'abbondanza
2 (estens.) grasso eccessivo | una palla di lardo, (scherz.) persona o animale molto grasso
3 (nell’italiano, impropriamente, anche) strutto.
La voce è dal lat. lār(ĭ)du(m)→lardu(m).

18 – Paré ca ‘o culo ll’arrobba ‘a péttola
Ad litteram: Sembrare che il culo gli sottragga la falda della camicia. Divertentissima icastica espressione riferita con sarcastico dileggio nei confronti di chiunque (uomo o donna) sia tanto inguaribilmente avaro/a, spilorcio/a, pidocchioso/a, tirchio/a ed al contempo preoccupato/a, dubbioso/a, allarmato/a da giungere a temere che il suo stesso fondo schiena gli porti via la falda della camicia che insiste sul medesimo fondo schiena.
culo s.vo m.le s.
1 deretano, sedere, fondo schiena | essere culo e cammisa,: stare sempre insieme, andare molto d'accordo.
2 fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia ' culi di bicchiere, (scherz.) brillanti falsi, di vetro.
Voce dal lat. culu(m) marcato sul greco koilos;
péttola/péttula s.vo f.le
Con tali termini si indica innanzi tutto l'ampia falda posteriore della camicia d’antan ,quella che dentro o fuori i pantaloni, insiste sul fondoschiena; estensivamente, con i medesimi termini, si indica quella che in toscano è detta sfoglia, che si ottiene con l’ausilio del mattèrello (e non mattarello che è un dialettismo romanesco) con il quale su di una apposita spianatoia si stende e si assottiglia, portandolo ad un consono spessore, l’impasto di farina, uova e/o altri ingredienti, per ottenerne, opportunamente tagliato e/o riempito, pasta alimentare o altre preparazioni culinarie; per traslato, con i termini in epigrafe, si indica una donnaccia o anche una donnetta ciarliera e petulante; ancóra: con il diminutivo:pettulélla che stranamente è inteso maschile ‘o pettulélla ci si suole riferire all’impenitente dongiovanni, al femminiere aduso a perennemente correr dietro le gonne femminili, mentre con 'o pettulélla ‘e mammà ci si riferisce ad un uomo, che a malgrado dell'età raggiunta, non si decide ad abbandonare le gonne materne anzi la falda della camicia della sua genitrice o l'ala protettiva di mammà!Ed oggi, a ben vedere, è la consueta situazione attuale quando la stragrande maggioranza dei giovani non intende metter su famiglia, abbandonando la casa dei genitori ed anche quando lo fa, resta legata a filo doppio con la propria genitrice dimostrando che ci si trova indefettibilmente davanti a dei pettulélle ‘e mamma!
Ciò detto, passiamo all'etimologia del termine péttola/péttula.
Cominciamo col dire che la radice pat che pure dà vita a parole latine come patulus= disteso o verbi greci come pètomai indicanti l’azione del distendere, allargare etc., non si può riferire alla péttola/péttula ;ciò è in tutti i testi da me compulsati al riguardo.
Molto piú prosaicamente le parole péttola e péttula si fanno derivare da un acc. latino: petula(m)con consueto raddoppiamento della dentale T in parole sdrucciole, con derivazione radicale dalla radice pet di peto lat.:peditum;e non se ne faccia meraviglia: si pensi a su cosa insiste la péttola!
Altra ipotesi, ma forse meno convincente, è che la péttola/péttula si riallacci al basso latino: pèttia(m)=pezza,nella forma diminutiva pettúla(m) e successivo cambio di accento che abbia dato péttula: questa etimologia può solleticare, ma è lontana dalla sostanza della péttola napoletana che non indica una piccola pezzuola quale appunto è la pettúla, ma, al contrario, un’ampia falda.
19 – Paré ca s’’o zúcano ‘e scarrafune
Ad litteram: Sembrare che lo suggono gli scarafaggi.
Va da sé che si tratta di un’enfatizzazione, non di un fatto reale; si tratta di una divertita presa in giro fatta nei confronti di soggetti tanto smunti, macilenti, sciupati, patiti, scavati, smagriti e rinsecchiti d’apparire quasi del tutto asciutti dei proprî umori vitali iperbolicamente succhiati da degli scarafaggi. Nella realtà ciò non è assolutamente possibile in quanto, pur essendo vero che le blatte sono avide di liquidi, non avrebbero mai possibilità o modo di prosciugare un corpo umano!
zúcano voce verbale (3°pers. pl.) ind. pres. dell’infinito zucare = suggere, succhiare,aspirare i succhi; voce dal lat. *sucare denominale del lat. sucus con il consueto passaggio della fricativa dentale sorda (s) all'affricata alveolare sorda (z);
scarrafune/i s.vo m.le pl.metafonetico del sg. scarrafone = blatta, scarafaggio; l’etimo di scarrafone è dal lat. scarabaeu(m) + il suff. accrescitivo one e con il passaggio di influsso osco della consonante occlusiva bilabiale sonora (b) alla consonante fricativa labiodentale sorda (f) cfr. enfrice← lat. imbrice(m), runfà← dal gr. rhómbos, scrofola← lat. scrobula(m).
20 – Paré Ciccibbacco ‘ncopp’ â votta
Alla lettera: Sembrare Ciccibbacco sulla botte. Ironico, colorito riferimento a chi non si lascia turbare da niente e nessuno e persegue il suo fine indifferente a tutto ciò che gli accada intorno; con l’espressione si prende a modello una tipica figurina presepiale: il mitico guidatore (cui la tradizione popolare assegnò l’intraducibile nome di Ciccibbacco) di un carro trainato da una pariglia di buoi, carro usato per il trasporto di botti di vino, sulle cui botti trionfalmente assiso il panciuto conducente con esasperata lentezza (i buoi non son trottatori ed il peso delle botti piene si fa sentire e rallenta il cammino…) ed incurante sia dell’evento natalizio che della folla dei pastori, folla che incolonnata si reca alla santa grotta, tira innanzi per la sua via deciso a portare a termine la lucrosa consegna delle botti alle rivendite sue clienti.
‘ncopp’ â prep. art. f.le (sulla, sopra la,al disopra della) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12;
votta s.vo f.le = botte, s. f.
1 recipiente di legno fatto di doghe arcuate e più strette alle estremità, tenute unite da cerchi di ferro, per cui ha forma simile a quella di un cilindro ma panciuta; serve per la conservazione e il trasporto di liquidi (spec. vino), o anche di pesci salati, olive e prodotti simili: spillare il vino dalla botte; una botte di aringhe | essere in una botte di ferro, (fig.) essere al sicuro da ogni rischio | dare un colpo al cerchio e uno alla botte, (fig.) barcamenarsi fra due persone, due partiti, due esigenze in contrasto fra loro | volere la botte piena e la moglie ubriaca, (fig.) cercare di ottenere contemporaneamente due cose fra loro incompatibili | prov. : nelle botti piccole sta il vino buono, per sottolineare le buone qualità di una persona di statura piccola. DIM. botticella, botticina
2 la quantità di liquido o di altra sostanza contenuta in una botte
3 appostamento galleggiante a forma di botte aperta nel lato superiore, usato per la caccia nelle paludi
4 volta a botte, (arch.) volta a sezione semicircolare
5 a Roma, carrozza pubblica a cavalli; botticella
6 antica unità di misura per liquidi, con valori diversi da regione a regione | (mar.) antica unità di misura di stazza, equivalente alla tonnellata.
Voce dal lat. butte(m) con tipica alternanza partenopea.
21 - Paré don Titta e 'o cane (in origine Paré san Rocco e ‘o cane)
Ad litteram:sembrare don Titta ed il cane Locuzione usata per fotografare la situazione che veda due individui che procedano indissolubilmente legati fra di loro al segno che quasi l'uno non possa fare a meno dell'altro e viceversa. Chiarisco qui che il don Titta della locuzione non à riferimenti né storici, né letterarî con alcun personaggio esistito o di fantasia; è usato nella locuzione per un malinteso senso di rispetto, al posto di san Rocco, che – come ò indicato – in origine fu il protagonista della locuzione; ed in effetti il santo pellegrino e taumaturgo, nella iconografia tradizionale è rappresentato accompagnato sempre da un cane; in seguito, per una sorta di bigottismo,la locuzione popolare fu modificata ed al nome del santo fu sostituito quello di un non meglio codificato don Titta, che non è -sia chiaro!- il boia pontificio, personaggio mai entrato nella cultura partenopea che aveva in un mastro Austino il boia di sua pertinenza.

22 – Paré ll’àseno ‘mmiez’ ê suone (in origine Paré ‘o ciuccio ‘mmiez’ ê suone)
Ad litteram: Sembrare un asino tra i suoni, cioè un asino frastrornato; détto ironicamente, soprattutto di ragazzo o persona anziana che in una situazione chiassosa (che magari, in caso di ragazzi, sia concorso a determinare)si senta intontito, istupidito, stranito, disorientato quando non incerto, indeciso, irresoluto alla medesima stregua d’un asino (bestia notoriamente e per solito paziente e paciosa) che nel vocío e nel tramestío di un mercato perde quasi la bussola comportandosi conseguentemente in maniera disorientata, strana, inconsueta,atipica.
In ordine al problema linguistico rammento che la locuzione nata, come tutte le altre esaminate, tra il popolo e sulla sua bocca ebbe in origine una formulazione che – come ò segnalato nell’epigrafe dell’espressione – prevedeva l’uso del termine napoletano e popolaresco:ciuccio in luogo della voce letteraria aseno = asino voce quasi certamente pedestremente adottata da un qualche sedicente uomo di lettere che pretese ignobilmente e scioccamente di italianizzare l’ espressione che invece sulla bocca del popolo suonava incisiva e robusta chiamando in causa il popolano ciuccio e non l’adattato aseno scimmiottatura di asino. Talora i letterati fanno, poveri loro delle sesquipedali, imperdonabili sciocchezze!
àseno s.vo m.le sciocco ed inutile adattamento dell’italiano asino
ciuccio s.vo m.le asino, ciuco, quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola :chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare.

23 - Paré mill'anne
Ad litteram: Sembrare (che debbano trascorrere) mille anni (prima che si giunga alla conclusione della faccenda o dell’opera intrapresa o ancóra prima che si verifichino le tanto auspicate evenienze attese ed ancóra in fieri.). Iperbolica espressione in tutto in linea con il consueto ampolloso, enfatico, prolisso magniloquente, spagnolesco ricercato, manierato, affettato eloquio partenopeo che ama l’iperbole e l’enfatizzazione tanto è vero che si è soliti usare l’espressione in esame anche quando la faccenda o l’opera si sia intrapresa da pochissimo, o le evenienze attese in realtà lo siano solo da poco tempo.
mille agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a dieci centinaia; nella numerazione araba è rappresentato da 1000, in quella romana da M;
2 con valore iperbolico, indica un numero indeterminato assai elevato; moltissimo; l’etimo è dal lat. mille
anne s.vo m.le pl. di anno s. m.
1 (astr.) tempo impiegato dal Sole per il suo ritorno apparente all'equinozio di primavera;
2 periodo di dodici mesi, compreso tra un primo gennaio e il successivo, che rappresenta l'unità di tempo fondamentale per la determinazione delle date, a partire dalla nascita di Cristo;
3 l'unità di tempo fondamentale per indicare l'età di una persona o l'epoca da cui una cosa esiste;
4 (iperb.) periodo di tempo indeterminato di cui si vuol sottolineare la lunghezza;
5 arco di tempo, non coincidente con l'anno civile, durante il quale si svolge un ciclo di attività.
La voce anno è dal lat. annu(m).
24 - Paré Lillo e Lélla ô pere ‘e sant’ Anna.
Ad litteram: Sembrare Lilloe Lélla al piede di sant’Anna.id est: prostrati ai piedi di Sant’Anna. Cosí con l’espressione in epigrafe ci si riferisce con bonario divertimento a tutte le attempate coppie di coniugi in ispecie quelli che si recano insieme a partecipare a quotidiane funzioni religiose o anche quelle coppie di anziani che non ricevono mai visite di parenti od amici e si devono contentare della reciproca compagnia; la locuzione rammenta una coppia di attempati coniugi realmente esistiti e dimoranti in quella strada napoletana détta ‘a ‘nfrascata, coniugi che non si volevano rassegnare alla mancanza di figli e solevano recarsi in una cappella privata della zona a prostarsi davanti all’effige di sant’Anna per impetrare la grazia di un erede,che ovviamente (data la tarda età) non ebbero e restarono indefettibilmente soli.
L’espressione in esame nacque in origine come Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna con riferimento ad un’abitudine invalsa nel popolino di recarsi a venerare una presunta reliquia di Sant’ANNA (un piede!) conservato nella cappella della propria abitazione napoletana dal conte Giovan Battista di Tocco di Montemiletto (abitazione ubicata appunto alla confluenza piú alta della suddetta strada detta ‘a ‘nfrascata) discendente del capostipite Guglielmo di Tocco che s’ebbe il titolo di conte di Montemiletto (Av) al tempo degli Angioini sotto Carlo III Durazzo. L’incredibile reliquia (oggetto della venerazione di creduli fedeli) era esposta dal conte in occasione della ricorrenza di sant’Anna (26 luglio) sull’altarino della propria cappella, conservata in una preziosa teca di cristallo tempestata di gemme preziose, ma a mio avviso – probabilmente si trattava – come è lecito supporre! - solo di un reperto artistico ligneo e/o di cartapesta che in quell’ epoca (fine ‘500 principio ‘600) di smaccata credulità popolare era stata accreditata come autentica reliquia; questo piede di sant’Anna faceva il paio con altra presunta reliquia (il bastone di san Giuseppe) protagonista d’un’altra espressione che suona Sfruculià 'a mazzarella 'e san Giuseppe
Ad litteram: sbreccare il bastoncino di san Giuseppe id est: annoiare, infastidire, tediare qualcuno molestandolo con continuità asfissiante.
La locuzione si riferisce ad un'espressione che la leggenda vuole affiorasse, a mo' di avvertimento, sulle labbra di un servitore veneto posto a guardia di un bastone ligneo ceduto da alcuni lestofanti al credulone tenore Nicola Grimaldi, come appartenuto al santo padre putativo di Gesú. Il settecentesco tenore espose nel suo palazzo il bastone e vi pose a guardia un suo servitore con il compito di rammentare ai visitatori di non sottrarre, a mo' di sacre reliquie, minuti pezzetti (frecole) della verga, insomma di non sfregolarla o sfruculià.
Normalmente, a mo' di ammonimento, la locuzione è usata come imperativo preceduta da un corposo NON.
Torniamo alla locuzione di partenza per la quale si può ipotizzare che correttamente l’originario Lillo, Lélla e ‘o pere ‘e sant’ Anna (Lillo, Lélla e il piede di sant’ Anna) sia stato poi trasformato in Lillo, Lélla ô pere ‘e sant’ Anna. (Lillo, Lélla al piede di sant’ Anna id est: Lillo, Lélla(prostrati) ai piedi di sant’Anna) quando ci si rese conto che il piede oggetto di venerazione non era una reliquia del corpo di sant’Anna, ma solo un pregevole (?) manufatto e con l’espressione si voleva indicare non la venerazione d’un piede della santa, ma si indicava l’abitudine di prostrarsi ai piedi della santa per chiedere grazie e/o protezione, per cui non l’articolo ‘o (il) ma la preposizione articolata ô (= al);ô è infatti la crasi di (a+ ‘o)= al).
25 - Paré ll'ommo 'ncopp'â salera
Ad litteram: Sembrare l’uomo sulla saliera. Id est: sembrare, meglio essere un uomo piccolo e goffo, un omuncolo simile a quel talTom Pouce,pagliaccio inglese, venuto a Napoli sul finire del 1860,ad esibirsi in un circo equestre; costui fu uomo molto piccolo e ridicolo e per questo fu preso a modello dagli artigiani napoletani che lo raffigurarono a tutto tondo sulle stoviglie in terracotta di uso quotidiano. Per traslato, l'espressione viene riferita con tono di scherno verso tutti quegli omettini che si danno le arie di esseri prestanti fisicamente e moralmente, laddove sono invece l'esatto opposto.
'ncopp'â locuzione prepositiva articolata f.le (sulla, sopra la, sopra alla) derivata da ‘ncoppa(←lat. in+cuppa(m))+ a+’a cfr. antea sub dint’ ô/ ‘int’ ô del n.ro 12
salera s.vo f.le = saliera recipiente in cui si mette il sale per l'uso di cucina o per la tavola. Denominale di sal-is addizionato del suff. di competenza era (al maschile iere cfr. ad es. salum-era ma salum –iere).


26 – Paré ‘na lacerta vermenara
Ad litteram: Sembrare una lucertola rimpinzantesi famelicamente di vermi. Divertente, ironico, beffardo riferimento a persona magra e/o macilenta, ma dotata di formidabile appetito, persona che, a malgrado che non l’assimili, continuamente assume cibo, per questo appaiata ad una lucertola notoriamente avida di vermi di cui è solita satollarsi.
lacerta s.vo f.le = geco: piccolo rettile terrestre dei paesi mediterranei, con i polpastrelli delle dita muniti di organi adesivi che gli consentono di arrampicarsi sui muri; si ciba di vermi; lucertola: genere di piccoli rettili terrestri con capo appiattito, corpo terminante in una lunga coda sottile, zampe corte, lingua bifida; in senso traslato con la voce a margine viene indicata una persona estremamente magra allampanata, denutrita, gracile, mingherlina, esile ; la voce è dritto per dritto dal lat. cl. lacerta(m) che diede poi il lucerta(m) del lat. volg. donde lucertola dell’italiano.
vermenara di per sé s.vo f.le e vale matassa di vermi; parassitosi, elmintosi (che,con derivazione da eliminto [ che è dal gr. ἕλμινς –ινϑος (elmins – elmintos) «verme»], nel linguaggio medico,indica la presenza di vermi parassiti nell’intestino, nell'apparato gastrointestinale, ma possono trovarsi anche nel fegato o in altri organi dell’uomo e degli animali, ma per traslato di causa ed effetto la voce a margine indica uno spavento ragguardevole, il massimo del panico tali da procurare, come un tempo si credette, nel pacco intestinale soprattutto dei ragazzi, la nascita di lunghi e sottili vermi;ovviamente la scienza medica stabilí che ben altre son le cause delle infestazioni da elminiti, cause sulle quali non mi esprimo o dilungo (mancandomene una competenza), ma anche quando la medicina si fu espressa, non venne meno la radicata credenza cui accennavo ed il termine vermenara continuò ed ancóra continua, tra il popolo della città bassa, ad essere usato per traslato di causa ed effetto indicando uno spavento ragguardevole, il massimo del panico.ò détto che la voce a margine è di per sé un s.vo f.le e vale matassa di vermi ma talora come nel caso che ci occupa è usato (sia pure impropriamente) come aggettivo in luogo di vermenosa per indicare chi, come la lucertola, sia ghiotto o avido di vermi. La voce è un denominale di vermen addizionato o del suff. ara (al m.le aro suffisso che continua il lat. –arius e compare in sostantivio agg.vo derivati dal latino, che indicano mestiere ( oppure persona luogo, ambiente, pieno di qualcosa o destinato a contenere o accogliere qualcosa) oppure addizionato o del suff. osa (al m.le oso suffisso di aggettivi derivati dal latino o tratti da nomi, dal lat. -osu(m) che indica presenza, caratteristica, qualità ecc.).

27 – Paré n’anema pezzentella
Ad litteram: Sembrare un’ anima poverella, un’ anima in pena; détto, per icastico traslato, di chi smunto, macilento, sciupato, patito, appaia sofferente e bisognoso di un aiuto materiale o morale; in realtà, come chiarisco qui di sèguito con il termine di anima pezzentella di per sé non ci si intenderebbe – se non per traslato - a persona viva e vegeta, ma ci si riferisce a quelle anime di defunti ipotizzati nel purgatorio. Pezzentella agg.vo f.le del m.le pezzentiello piccolo/a mendicante; sia pezzentiello che pezzentella (che non va confuso con analogo, omofono ed omografo s.vo f.le che indica tutt’altro) sono agg.vi diminutivi (cfr. i suffissi iello ed ella derivati dal s.vo pezzente : mendicante, straccione; persona che vive in condizioni di estrema miseria: andare vestito come un pezzente; sembrare un pezzente | persona meschina, eccessivamente attaccata al denaro: fare il pezzente. Si tratta di unavoce di orig. merid., pervenura anche nell’italiano, ed etimologicamente è propriamente il part. pres. del napol. pezzire 'chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pètere 'chiedere'; in effetti con la voce a margine in napoletano non si indica propriamente la piccola mendicante che chieda obolo di monete, ma si indica in unione al s.vo anema ( che è dal lat. anima(m)): anema pezzentella quell’anima che si trova in purgatorio che secondo la dottrina cattolica tradizionale è lo stato temporaneo di espiazione cui sono assogettate le anime di coloro che, pur morendo in stato di grazia, debbono espiare i peccati veniali e le pene conseguenti ai peccati mortali, di per sé già perdonati; si indica cioè quell’anima che trovandosi in uno dei regni dell'oltretomba cristiano, dove si espiano le colpe commesse sulla terra prima di poter passare in paradiso, e desiderando abbreviare – per quanto possibile – il loro transitorio, ma doloroso stato, chiedono, pietiscono dai vivi delle preci suffragatorie; ll’ anema pezzentella: l’anima poverella è comunque un’anima che soffre, che patisce e chiede refrigerio e ad essa è apparentato chi smunto, macilento, sciupato, patito,o sofferente per una qualsiasi ragione, appaia patire ed essere bisognoso di un aiuto materiale o morale che lenisca le sue pene. Ripeto ad abundantiam, in chiusura di questa espressione che la voce pezzentella è un denominale di pezzente (povero) ed è voce merid., propriamente part. pres. del napoletano pezzire/pezzí =chiedere l'elemosina', che è dal lat. volg. *petire, per il class. pete°re 'chiedere'; in coda a questo pezzire/pezzí rammento altresí che in napoletano se ne usa anche il participio passato pezzuto/a in unione quasi esclusiva con il sostantivo messa (‘a messa pezzuta che è quella messa fatta celebrare in suffragio delle anime dei defunti, elemosinando l’offerta necessaria alla sua celebrazione.
28 – Paré ‘na pupata ‘e ficusecche
Ad litteram:sembrare una pupattola di fichi secchi Antica locuzione, ora quasi desueta che si soleva un tempo riferire soprattutto alle attempate signore o piú spesso vecchie inguaribili nubili che andavano in giro con il volto cosparso di molta cipria o di più economica farina, nel vano tentativo di nascondere i danni del tempo; tali signorine erano paragonate alle pupattole che i venditori di frutta secca inalberavano sulle loro mostre durante le festività natalizie: le pupattole erano fatte con un congruo numero di fichi secchi imbiancati di glassa zuccherina ed infilzati su sottili stecchi di vimini. Rammento che l’abitudine di cospargersi il volto di molta cipria o farina era anche di taluni uomini attempati, ma soprattutto di taluni attori che a malgrado fossero avanti con gli anni, si ostinavano a sostenere in teatro parti da attor giovane ed erano perciò costretti a ricorrere, per lenire i danni del tempo, al pesante trucco di cipria o farina; a ciò si riferisce l’espressione (che mi piace ricordare qui in coda: fà 'o farenella.
Letteralmente:fare il farinello. Id est: comportarsi da vagheggino, da manierato cicisbeo. L'icastica espressione non si riferisce - come invece erroneamente pensa qualcuno - all'evirato cantore settecentescoCarlo Broschi detto Farinelli (Andria, 24 gennaio 1705 – † Bologna, 16 settembre 1782), considerato il piú famoso cantante lirico castrato della storia. detto Farinelli, ma prende le mosse dall'ambito teatrale dove, come ò détto e ripeto, le parti delle commedie erano assegnate secondo rigide divisioni. All'attor giovane erano riservate le parti dell'innamorato o del cicisbeo. E ciò avveniva sempre anche quando l'attore designato , per il trascorrere del tempo non era piú tanto giovane e allora per lenire i danni del tempo era costretto a ricorre piú che alla costosa cipria, alla economica farina.
pupata s.vo f.le = bambola, pupattola, pupazza e per traslato ragazza, giovane donna dalla bellezza alquanto leziosa o inespressiva. Voce dal lat. pupa(m).
ficusecche s.vo f.le = fichi secchi; in napoletano plurale della voce femminile: ficusecca con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che corrisponde al greco sýcon con cambio s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
A margine della voce fica da cui poi ficusecca rammento che il passaggio al femminile dal maschile fico è determinato dal fatto che nel napoletano con la voce fica si intende un frutto piú grosso del fico atteso che in napoletano s’usa femminilizzare un termine maschile quando si voglia indicare una cosa intesa piú grande della corrispondente maschile (cfr. cucchiara= mestola del muratore piú grande di cucchiaro= cucchiaio da minestra, tina piú grande di tino,tavula piú grande di tavulo, tammorra piú grande di tammurro, carretta piú grande di carretto etc.Fanno eccezione tiana piú piccola di tiano e caccavella piú piccola del caccavo). Rammento infine che con la voce ficusecca usata in senso furbesco, in napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che furbescamente la vulva.
29 – Paré ‘na úfara
Letteralmente: Sembrare una bufala; détto di chi in preda ad un rabbioso, virulento accesso di nervi si lasci andare a manifestazioni tese, ansiose, irrequiete; isteriche quando non impetuose, travolgenti, furiose, rovinose, violenti tali da poter esser messo a paragone al temibile comportamento di una bufala iraconda, rabbiosa, stizzosa, e si parla di bufola e non di bufalo perché è risaputo che nel mondo animale, ma forse pure in quello umano le manifestazioni piú violente, aggressive, isteriche,irruente,veementi,combattive, battagliere, bellicose son delle femmine e non dei maschi!
úfara s.vo f.le = bufala 1 femmina del bufalo;
2 (fig. scherz.) errore madornale; panzana, corbelleria;
3 notizia giornalistica totalmente infondata; voce dal lat. tardo *bufala(m)←bufalu(m), per il class. bubalu(m), dal gr. bóubalos 'antilope'
30 – Paré ‘nu capone sturduto
Ad litteram:sembrare un cappone stordito
Détto di chi si dimostri per le piú varie ragioni scombussolato, stonato, frastornato incerto e confuso al segno di essere incapace di attenderecompiutamente al suo dovuto, alla medesima stregua di un pollo che ridotto a cappone veda segnati i suoi inutili giorni dallo stordimento e viva solo per ingrassare. Rammento che un tempo le mamme che vedevano a tarda sera i propri figli stanchi e ciondolanti, incapaci di attendere allo studio, ma pure di portare a termine acconciamente il pasto serale, usavano bollare i ragazzi con la locuzione in epigrafe.
capone s.vo m.le = cappone, pollo maschio ma castrato, perciò piú grosso del gallo e con gustose carni piú tenere;
la voce napoletana deriva dritto per dritto dal lat. class. capone(m), in relazione con il gr. kóptein 'tagliare' piuttosto che dal lat. volg. *cappone(m) che à dato la voce italiana cappone.
sturduto =stordito, stonato, rintronato, scombussolato agg.vo m.le anzi p.p. agg.vato dell’infinito sturdí= stordire, stonare, rintronare, scombussolare; con derivazione da un basso lat. *exturdire da collegarsi a turdus= tordo e poi sciocco, confuso.
31 – Paré n’auciello ‘e malaurio
Ad litteram:sembrare un uccello del malaugurio
Détto di chi pessimista di natura profetizzianche velatamente o sommessamente per sé e/o per gli altri,guai e disgrazie continuate; costui a cui spesso il malaugurio si legge in volto viene assomigliato a quegli uccelli notturni quali gufi e civette, barbagianni e consimili ritenuti apportatori di disgrazie; rammento che già anticamente quando i presagi venivano tratti dagli àuguri dal volo degli uccelli, un inatteso passaggio di volatili notturni era ritenuto di cattivo auspicio.
auciello s.vo m.le = uccello, volatile voce dal lat. tardo aucĕllu(m)→auciello, accanto ad aucella(m), da *avicellus (*avicella), dim. del class. avis 'uccello'
malaurio s.vo m.le = cattivo presagio, spiacevole auspicio; voce formata dalla agglutinazione dimalo(cattivo,spiacevole,triste dal lat. malu(m)) + aurio (augurio, auspicio, presagio, pronostico, vaticinio dal lat. au(gu)riu(m)→aurio 'presagio'.
32 -Paré 'na luna 'nquintadecima.
Ad litteram:sembrare una luna nel quindicesimo giorno.
Cosí in tono scherzoso,simpatico ma non offensivo ci si suole rivolgere alle donne incinte di parecchi mesi che inalberino un pancione grosso e sferico paragonato, nella divertente locuzione alla luna che solo nel quindecesimo giorno dal novilunio è completamente piena; per traslato il paragone è usato a mo' di sfottò anche nei confronti di uomini vistosamente grassi e panciuti.
A margine rammento che al proposito della forma del pancione delle donne incinte prossime a condurre al termine la gestazione, un tempo vi fu un simpatico modo di dire che sostanziava un curioso, ma quasi sempre veridico metodo di conoscenza del sesso del nascituro, senza la necessità di ricorrere ad esami medici ed ecografie: panza tonna (cioè sferica) appronta ‘a scionna,panza a pponta,spunto e bbasso appronta (pancia sferica, prepara la fionda (gioco/arnese destinato ad un maschio) pancia a punta prepara fuso e gonna (destinate alle donne).
‘nquintadecima (jurnata) = nel quindicesimo giorno;
tonna agg.vo f.le metafonetico del m.le tunno lett. rotonda; che presenta una forma piena, rotondeggiante; ma qui piú esattamente, sferica; tunno/tonna derivano dal lat. lat. (ro)tundu(m)/*(ro)tunda, (deriv. di rota 'ruota') con normale assimilazione progressiva nd→nn: (ro)tundu(m)/*(ro)tunda→tunno/tonna.
scionna s.vo f.le = fionda, 1 arma da getto costituita da due strisce di corda o di cuoio collegate da una tasca entro cui si colloca il proiettile; si usa facendola roteare al di sopra della testa e lasciando poi una delle due strisce
2 arnese/giocattolo per lanciare sassi, formato da una forcella con un elastico assicurato alle due estremità.voce dal lat. flunda(m) con tipico passaggio del gruppo lat. fl + vocale al napoletano sci (cfr. flumen→sciummo – flos→sciore – flamma(m)→sciamma) ed assimilazione progressiva nd→nn.
spunto = fuso, spuntone s.vo m.le da non confondere con l’omografo ed omofono spunto agg.vo m.le di tutt’altro etimo (da ponta con protesi di una esse intensiva) e significato (acre, pungente,inacidito); invece questo s.vo a margine derivato dal lat. expunctu(m), part. pass. di expungere, vale fuso, arnese di legno, panciuto al centro ed assottigliato alle estremità,ma privo di vere punte, arnese che nella filatura a mano serve per torcere il filo e per avvolgerlo sulla spola; spuntone;
bbasso/basso s.vo m.le lunga ed ampia gonna; in napoletano il termine basso,(termine peraltro ampiamente desueto e che si può solo trovare in poeti e scrittori dal ‘600 al tardissimo ‘800 e fino ai principi del ‘900 cfr. Ernesto Murolo (Napoli, 4 aprile 1876 – † Napoli, 30 ottobre 1939)) fu usato per indicare un indumento femminile: un’ampia e lunga gonna, quella che partendo dalla vita non si limitava a coprir le ginocchia (cfr. l’etimo di gonna che piú che dal lat. tardo gunna(m) 'veste di pelliccia', di orig. gallica, pare sia da collegare al basso greco gouna= ginocchia (=veste che scende e copre le ginocchia ed a tal proposito mi pare di poter dire che non à senso chiamare gonna sia pure mini taluni risicatissimi pezzi di stoffa che coprono non le ginocchia, ma neppure le cosce!) dicevo non si limita a coprir le ginocchia, ma prosegue fino alle caviglie; tale lunga ed ampia gonna fu détta basso perché pare si indossasse non sollevandola, passandola sulla testa e facendola scivolare fino alla vita, ma inforcandola dal basso id est: dal di sotto ed ugualmente veniva tolta sfilandola dal basso : dal di sotto.
Questa è l’opinione mia che mi son dovuto formar senza aiuti ( ma che à ricevuto l’approvazione dell’amico prof. C.Iandolo) atteso che non ò trovato indicazioni precise circa la voce basso=gonna in nessuno dei numerosi calepini (anche etimologici) del napoletano, in mio possesso e che ò potuto consultare.
appronta voce verbale qui imperativo 2° pers. sg. altrove anche 3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito apprunt-are/à = preparare, tener pronto allestire, verbo che è un denominale del lat. ad+promptu(m) part. pass. di promere 'trarre fuori' con assimilazione regressiva dp→pp.
33 - Paré 'nu píreto annasprato(o, ma raramente, con riferimento ad una donna: paré 'na pereta annasprata).

Letteralmente: sembrare un peto inzuccherato. Lo
si dice salacemente quasi esclusivamente(è rarissima l’espressione coniugata al femminile) di tutti quegli uomini che arroganti, boriosi, superbi, presuntuosi e supponenti si diano troppe arie, atteggiandosi a superuomini, pur non essendo in possesso di nessuna dote fisica o morale atta all'uopo. Simili individui vengono ipso facto paragonati ad un peto che, ma non si sa come, risulti inzuccherato,o piú esattamente glassato di naspro, ma che - per quanto coperto di ghiaccia dolce - resta sempre un maleodorante, vacuo flatus ventris.
píreto s.vo m.le = peto, emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere 'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);
annasprato/a agg.vo m.le o f.le =coperto di naspro voce verbale part. pass. masch. sg. aggettivato dell’infinito *annasprà=coprire di naspro;
la voce naspro ed il conseguente denominale *annasprà (a quel che ò potuto indagare) sono espressioni in origine del linguaggio regionale della Lucania, poi trasferitosi in altre regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia) ed è difficile trovarne un esatto corrispettivo nella lingua nazionale; si può tentare di tradurre naspro con il termine glassa, ghiaccia atteso che nel linguaggio dei dolcieri meridionali la voce naspro indicò ed ancóra indica una spessa glassa zuccherina variamente aromatizzata e talora colorata, usata per ricoprire e migliorare dei biscotti in origine dall’impasto abbastanza semplice o povero; in sèguito si usò il naspro colorato per ricoprire delle torte dolci e quelle nuziali con un naspro rigorosamente bianco; a Napoli non vi fu festa nuziale che non si concludesse con un sacramentale gattò mariaggio coperto di spessa ghiaccia zuccherina bianca: la voce gattò mariaggio nel significato di torta del matrimonio fu dal francese gâteau (de) mariage.
Per ciò che riguarda l’etimo della voce naspro, non trattandosi di voce originaria partenopea, né della lingua nazionale (dove risulta sconosciuta), ma – come ò detto – del linguaggio lucano mi limito a riferire l’ipotesi della coppia Cortelazzo/Marcato che pensarono ad un greco àspros=bianco, ipotesi che quando ne venni a conoscenza poco mi convinse ed ancóra poco mi convince in quanto morfologicamente non chiarisce l’origine della n d’avvio che certamente non à origini eufoniche; penso di poter a proporre una mia ipotesi tuttavia non supportata da nessun riscontro; l’ipotesi che formulo (peraltro accolta con un sí convinto dall’amico glottologo prof. Carlo Iandolo) è che trattandosi di una preparazione molto dolce per naspro si potrebbe pensare ad un latino (no)n+ asperum→nasperum→naspro, piuttosto che ad un (n?)àspros.

34 - Paré 'nu píreto ‘ncantarato
(o con riferimento ad una donna: paré 'na pereta ‘ncantarata).
Letteralmente: Sembrare un peto esploso in un pitale, cioè sembrare un rumoroso peto che esploso in un pitale (che gli fa da cassa di risonanza) risulta fragorosissimo. Anche in questo caso con l’espressione a margine ci si intende riferire ad una donna (con la versione al femminile) o – piú spesso – con la primaria versione al maschile - ad un uomo saccente, supponente, vanesio, arrogante, presuntuoso, altezzoso, superbo, tracotante, protervo e sentenzioso che si dia, ma ovviamente a sproposito, le arie di valente superuomo, parli a casaccio ed a vanvera, dia consigli non richiesti,propugni per sé l’infallibilità papale ed essendo in realtà privo di ogni concreto supporto e fondamento alle sue pretese ed inesistenti virtú, mancante com’è di scienza o conoscenza può solo esser paragonato ad un peto che, sebbene risuonante e ridondante, rimane pur sempre la stomachevole, fetida cosa che è.
Per píreto vedi antea sub 33; pereta ne è il metafonetico femminile usato non solo come sinonimo maggiorato del maschile (ricordo che nel napoletano un oggetto o cosa che sia, è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella; nella fattispecie dunque una pereta è intesa piú vasta o rumorosa del maschile píreto); pereta è usato dicevo non solo come sinonimo accresciuto di píreto, ma per traslato è usato anche per riferirsi offensivamente ad una donna… di scarto, quale è ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi sia una demi vierge o che voglia apparir tale… una donna cioè dalle pessime qualità fisiche e/o morali che goda a strombazzare le sue pessimi qualità, comportandosi alla medesima stregua di un peto, manifestando cioè rumorosamente la sua presenza, donna che ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di pereta.
Per completezza dirò poi che tale donna becera e volgare, altrove, ma con medesima valenza è anche détta alternativamente lòcena, lumèra o anche lume a ggiorno; chiarisco: lòcena = di scarto;la voce è nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiata come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena che nel napoletano indica in primis un taglio di carne che pur essendo gustosissimo,forse il piú gustoso, è un taglio che ricavato dal quarto anteriore della bestia, (il taglio meno pregiato e meno costoso) è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto); lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumera) o di quello a petrolio ( lume a giorno) ambedue altresì maleolenti tali quale una pereta.
Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Pereta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine pereta da nome comune è divenuto quasi nome proprio.
‘ncantarato/a agg.vo m.le o f.le letteralmente: contenuto in un càntaro (pitale); agg.vo formato, come se fosse una voce verbale, quale part. pass. masch./f.le sing. aggettivato di un inesistente ’infinito *incantarà = contenere in càntaro;in pratica si ipotizza l’esistenza d’un verbo denominale di càntaro con prostesi di un in→’n illativo; a sua volta càntaro o càntero è un s.vo m.le che indica un antico, desueto alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere,vaso atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= circa un quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani (e tra costoro spiace trovare persino supponenti ed applauditi autori sedicenti esperti d’usi e costumi oltre che dell’idioma napoletani…) sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!


35- Paré 'nu sórece 'nfuso 'a ll' uoglio
Letteralmente: Sembrare un topo bagnato (id est: unto) dall’olio. Cosí, con icastica rappresentazione ci si riferisce a chi abbia il capo abbondantemente impomatato, lustro ed eccessivamente profumato, tanto da poter essere appaiato ad un sorcio che introdottosi in un contenitore d’olio, ne emerga completamente unto e luccicante; rammento che altrove l’uomo che appaia cosí tanto pettinato, lustro ed impomatato vien bollato con l’aggettivo alliffato (unto, impomatato, imbellettato) che è etimologicamente dal greco aléiphar = unguento, pomata e per estensione belletto;
sórece s.vo m.le = topino domestico, sorcio, dal lat. sorice(m);
'nfuso = bagnato, intriso, inzuppato e qui unto voce verb. part. pass. aggettivato dell’infinito ‘nfonnere =bagnare, aspergere,intridere etc. voce dal lat. in→’n+fúndere con la consueta assimilazione nd→nn;
uoglio s.vo neutro = olio; voce dal lat. oleu(m) dal greco élaion; dal lat. class. oleu(m) derivò il lat. volg. ŏlju(m) donde uoglio con tipica dittongazione della ŏ→uo e passaggio del gruppo lj a gli come per familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;
rammento in coda all’esame dell’espressione che talora i napoletani meno esperti la usano anche in riferimento a chi, vittima d’un improvviso acquazzone, a cui non sia sfuggito, risulti del tutto inzuppato ed intriso d’acqua; per la verità si tratta di un riferimento improprio: i napoletani d’antan ed amanti della propria cultura sanno che in caso di acquazzone il paragone da farsi e che meglio regge non è con un topo, ma con un polpo: cfr. farse/paré comme a ‘nu purpetiello id est: Bagnarsi fino alle ossa come un piccolo polpo tirato su grondante d'acqua.
36- Paré 'o diavulo e ll'acquasanta
Ad litteram: Sembrare il diavolo e l’acqua lustrale. Détto in riferimento a due individui l’uno (quello adombrato quale acquasanta) d’indole onesta, giusta, virtuosa, dabbene e proba, l’altro (inteso diavolo) d’indole cattiva se non pessima, malvagia, perfida, maligna,empia, crudele, sadica, turpe, spietata etc., di caratteri cioè cosí tanto contrastanti da essere addirittura antitetici ed incompatibili tali da risultare in perenne contrasto attesa la incociliabilità dei rispettivi intendimenti operativi ed i conseguenziali modi di agire.

diavulo s.vo m.le = diavolo, demonio, spirito del male, nemico di Dio e degli uomini, personificato in Satana, principe delle tenebre, identificato anche con Lucifero, capo degli angeli ribelli, variamente rappresentato in figura umana con corna, coda e talvolta ali. è voce che viene da un tardo latino diabōlu(m)→diavulo, dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare'
acquasanta s. f. acqua benedetta per uso liturgico, acqua lustrale, purificatoria; la voce è formata agglutinando il s.vo acqua (dal lat. aqua(m)) con l’agg.vo santa (dal lat. sancta(m), propr. part. pass.f.le di sancire 'sancire').
37- Paré Pascale passaguaje.
Letteralmente: sembrare Pasquale passaguai.
Cosí sarcasticamente viene appellato chi si vada reiteratamente lamentando di innumerevoli guai che gli occorrono, di sciagure che - a suo dire, ma non si sa quanto veridicamente - si abbattono su di lui in continuazione rendendogli la vita un calvario di cui lamentarsi, compiangendosi, con tutti. Il Pasquale richiamato nella locuzione fu un tal Pasquale Barilotto lamentoso personaggio di farse pulcinelleche del teatro di Antonio Petito ((Napoli, 22 giugno 1822 –† 24 marzo 1876).
passaguaje neologismo in forma d’agg.vo per significare poveretto, poveruomo, povero diavolo, malaugurato, infausto, sfortunato, sciagurato, formato agglutinando il so.vo pl. guaje (guai, sventure, avversità, traversie, incidenti; difficoltà, preoccupazioni, grattacapi; voce dal germ.*wai ) con, in posizione protetica, la voce verbale passa (3 pers. sg. ind. pres. dell’infinito passare/à = muoversi, transitare, ma qui subire, sopportare il passaggio di (dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo')
E veniamo infine alle espressioni nelle quali il verbo paré non appare all’infinito ma coniugato impersonalmente alla 3° p. sg. dell’ind. presente ; illustro cioè le espressioni :
38- Pare brutto!
Letteralmente : Sembra brutto ! nel senso di sta male !, è scorretto ! o quanto meno, può apparire tale. Espressione del piú vieto conformismo usata per ammantare di un perbenismo di maniera ed epidermico il consiglio fornito nei riguardi di taluni comportamenti che si raccomanda di non tenere, non perché ritenuti veramente errati o esecrabili, ma solo perché ipocritamente pensati riprovevoli a gli occhi del mondo.
brutto agg.vo m.le agg.
si dice di persona, animale o cosa di aspetto sgradevole, o che comunque produce un'analoga impressione;
2 cattivo, riprovevole, sconcio (detto di cosa): brutta abitudine; brutte parole;
3 sfavorevole, negativo: arrivare in un brutto momento; prendere un brutto voto; fare una brutta figura | grave, doloroso: una brutta malattia; una brutta notizia
4 che reca danno o molestia; che produce un effetto negativo
5 errato, scorretto, sleale, disonesto, scortese
Voce dal lat. brutu(m) 'bruto', con raddoppiamento consonantico espressivo.
39- Pare ca mo te veco vestuto 'a urzo. Ad litteram:sembra che adesso ti vedrò vestito da orso Locuzione garbatamente ironica da intendersi in senso antifrastico, id est: Mai ti vedrò vestito da orso!; locuzione che si rivolge a mo' di canzonatura davanti alle risibili imprese dei saccenti, boriosi e supponenti che si imbarcano (privi delle necessarie forze fisiche e/o capacità intellettive), in avventure ben superiori alle loro scarse possibilità; va da sé che a causa della penuria di forze e/o capacità le imprese in cui s’avventurano son destinate a fallire miseramente; il nascosto protagonista della locuzione si disporrebbe a catturare un orso per vestirsene della pelle, ma sciocco, presuntuoso ed incapace qual è non vi potrà mai riuscire, per cui è facile preconizzare che mai lo si potrà vedere vestito da orso e canzonarlo dicendogli l’espressione in esame; va da sé che l’orso e la sua cattura son solo un icastico esempio d’ogni altra impresa intrapresa e non realizzabile per pochezza di forze, mezzi e/o capacità.
ca cong. o ca/che pronome relativo che;
come congiunzione che corrisponde all’italiano che
1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive?
2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje;
3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà
4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male;
5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe;
6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse
7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia;
8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato;
9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa;
10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno;
11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...;
12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje;
13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim.
Circa l’etimo di questa congiunzione qualcuno ipotizza, ma poco convincentemente, un’aferesi di (poc)ca=poiche mentre mi appare piú corretto l’etimo dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; oltretutto se il ca congiunzione fosse derivata da un’aferesi (poc)ca sarebbe stata buona norma scrivere il ca congiunzione con un segno d’aferesi ‘ca che distinguesse anche visivamente il ‘ca congiunzione dal ca pronome!Ma i fatti, fortunatamente, non stanno cosí!
Per il pronome ca mi limito a ricordare che corrisponde al che pron. rel. invar. corrispondente all’italiano che, ma in napoletano è spesso usato nella forma ca
1) il quale, la quale, i quali, le quali (si riferisce sia a persona sia a cosa, e si usa normalmente nei casi diretti): chillu signore ca/ch’ è trasuto mo è ‘o direttore; ‘e perzone ca tu hê visto, so’ perzone meje; ‘o ggiurnale ca/che staje liggenno è chillo d’ajere
2) talvolta è usato come compl. indiretto, con o senza prep.) soprattutto nel linguaggio pop., spec. col valore di in cui (temporale e locale):’a staggiona ca/che ce simmo ‘ncuntrate; paese ca vaje/ che vvaje ausanze ca truove; piú fortemente popolare o dialettale in funzione di altri compl.: è cchesta ‘a carne ca ('con cui') se fa ‘o broro | in altre espressioni dell'uso comune è usato solo nella forma che : (nun) tene ‘e che s’ allamentà, (non) à motivo di lamentarsi; (nun) tene ‘e che vivere, (non) à risorse economiche; | nun c'è che ddicere, nulla da eccepire,espressione di consenso
3) la quale cosa (con valore neutro, preceduto dall'art. o da una prep.)anche in questo caso si usa sempre il che : te sî miso a sturià, ‘o cche te fa onore; nun s’ è ffatto cchiú vedé, ‘a che aggiu capito ca nun le passa manco p’’a capa chill’affare; | come pron. interr. [solo sing.] quale cosa è usato in prop. interr. dirette e indirette): che ne sarrà ‘e lloro?; che staje dicenno?; a cche pienze?; ma ‘e che te miette paura?; nun saccio che fà; nun capisco ‘e che te lamiente; è spesso rafforzato/seguíto o, nel linguaggio familiare, sostituito da cosa: (che) cosa vuó?; nun saccio (che) cosa penza ‘e fà | che cc’ è, che nun cc’ è, (fam.) tutt'a un tratto, improvvisamente | a cche?, a quale scopo?, a qual pro? | ‘e che?/ e cche?, ‘o che?, ma che?, rafforzativi di interrogazione che esprimono stupore polemico: e che? einisse che dicere? |talora come pron. escl. [solo sing.] quale cosa: che dice!; che m’aveva capità!; ma che m’ at- tocca ‘e sèntere! | come inter., nell'uso familiare, esprime meraviglia, stupore: «Ce vaje?» «Che! (ma piú spesso Addó?) Ma neanche a dicerlo!»; «Che! Staje pazzianno?» | ma che!, lo stesso che macché ; come pron. indef. (sempre che e non ca) indica qualcosa di indeterminato (solo in partic. locuzioni): ‘nu che, nun saccio che, ‘nu certo che, ‘nu certo nun saccio che, | (‘nu) gran che, (una) gran cosa: oje nun aggiu cunchiuso (‘nu) gran che; ne parlano tutti buono, ma pe mme nun è (‘nu) gran che | un, ogni minimo che, un, ogni nonnulla: ‘ncazzarse p’ ògne minimu che
come agg. interr. invar. quale, quali: che tipo è?; a che ora venarrà?; che llibre liegge ‘e solito?; nun saccio ch’ idee tene p’’a capa ||| come agg. escl. invar. quale, quali: ma che idee!; che bbella jurnata!; che perzone antipatiche! | (fam.) molto diffuso l'uso dell'agg. escl. in unione a un semplice agg., senza altra specificazione, in frasi del tipo: che bello!, che bellezza, com'è bello; che strano!, che stranezza, com'è strano | diffusa anche l'anteposizione dell'agg. qualificativo: scemo ca sî!, sei proprio stupido!
rarissimamente è s. m. anzi è usato solo nell'espressione il che e il come e sue varianti, nel senso di 'ogni cosa, tutto': voglio sapé bbuono ‘o cche e ‘o ccomme; t’addimannarrà ‘o cche, ‘o ccome e ’o quanno. L’etimo del che è dal lat. quid mentre la forma ca è un prestito di comodo della congiunzione.
Rammento che la cong. o pron. relativo a margine non va confuso con cca

cca ( e non ca)avv. di luogo = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (ec)cu(m) hac; da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero,come abbiamo visto, una cong. ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli ad alcuni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico accademico, colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche!
mo avv. di tempo ora, adesso
Nel napoletano vuoi nei testi scritti, che nel comune parlare si trova o si sente spessissimo il vocabolo in epigrafe usato – come ò détto - per significare: ora, adesso e, talvolta esso vocabolo trasmigra addirittura nell’italiano con il medesimo significato.Ciò che voglio segnalare è innanzitutto il suono da assegnare alla vocale (o) che nel parlato cittadino è pronunciata e va pronunciata con timbro aperto (mò) mentre nella provincia scivola verso una pronuncia chiusa (mó), dando modo a chi ascolta di poter tranquillamente definire cittadino o provinciale colui che pronunci l’avverbio mo che se è pronunciato con la o aperta connota il cittadino e se è pronunciato con la o chiusa connota il provinciale.
Questo mo è possibile passim trovarlo anche come mo' o ancóra mò), ma è pur sempre l’ avv. ora, adesso; poco fa. Concorrente di ora ed adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid.
nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo
Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe?
Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione;
vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘).
Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico.
È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba;
ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum per pe (per), per po (poi)che è dal lat. po(st) dove cadendo una sola o una doppia consonante ( m – r - st ) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle. C’è invece un napoletano po’ che necessita dell’apostrofo finale: è il po’= può (3° pr. sg. ind. pres. di potere) che derivando dal lat. po(te)(st) comporta la caduta d’una vera sillaba, caduta da indicarsi con l’apostrofo che serve altresí a distinguere gli omofoni po = poi e po’ = può.
Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu ( articolo un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie, inchiostro o appesantisse la pagina scritta e il non apporlo non fosse invece, quale a mio avviso invece è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo,E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo e chi piú ne à piú ne metta!)
Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo.
Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della caduta x , anche ammettendo, dicevo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo idioma, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione.
Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso).
Te pron. pers. di seconda pers. sg.
1 forma complementare tonica del pron. pers. tu, che si usa come compl. ogg. quando gli si vuol dare particolare rilievo e nei complementi retti da prep.; può essere rafforzato con stesso o medesimo: vonno proprio a tte(vogliono proprio te); pe tte fosse meglio(per te sarebbe meglio); fràteto venarrà cu tte o cu ttico(tuo fratello verrà con te); ce vedimmo dimane addu te(ci vedremo da te domani); fallo a ppe tte(fallo da te), da solo; quanto a tte, facimmo ‘e cunte aroppo(quanto a te, faremo i conti dopo), per ciò che ti riguarda; allora, pe tte è sbaggliato?(allora, per te è sbagliato?), secondo il tuo parere | si usa nelle esclamazioni: povero a tte!(povero te!) viato a tte!(beato te!); nelle comparazioni dopo come e quanto: ne saccio quanto a tte(ne so quanto te); nun è comme a tte (non è come te); come predicato dopo i verbi essere, parere, sembrare, a meno che il sogg. non sia tu (espresso o sottinteso): i’ nun songo te (io non sono te) (ma nun sî cchiú tu(non sei più tu
2 si usa in luogo del pron. pers. ti in presenza delle forme pronominali atone lo, la, li, le e della particella ne, in posizione sia enclitica sia proclitica: te ‘o ddico io(te lo dico io); te nn’ànno parlato?(te ne ànno parlato?); te ne pentarraje(te ne pentirai); accattatelo(compratelo); sturiàtelo(studiatelo) | nel linguaggio familiare, con semplice valore rafforzativo: e senza dicere ata t’ ‘o mettette for’ â porta(e senza aggiungere altro, te lo mise fuori dalla porta).
veco = vedo voce verbale (1° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vedé= vedere (dal lat. vid-íre), ma per la voce a margine che à una radice diversa da vid occorre riferirsi ad un lat. volg. *vidic-are frequentativo attraverso il suff. ico di vid-íre: la radice vidic è stata manipolata con la caduta della dentale e crasi delle due residue ii→e sino ad ottenere vi(d)ic→vec, con medesimo procedimento operato per talune le voci verbali del verbo andare dove accanto alle voci derivate dalla radice di ji-re si à la voce derivata da *vadic-are donde l’italiano vad(ic)→vado ed il napoletano va(di)c→vaco.
vestuto = vestito voce verbale: p. p. agg.to dell’infinitovèstere = vestire (dal lat. vestíre, deriv. di vestis 'veste' ).
‘a =1) la art. determ. f.le sg. si premette ai vocaboli femminili singolari (es.: ‘a mamma, ‘a scola, ‘a scala); deriva dal lat. (ill)a(m), f.le di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); 2) la prima di un verbo è pronome f.le (es.: ‘a veco cca = la vedo qui); 3) come nel ns. caso = da preposizione semplice dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc.

urzo s.vo m.le = orso, 1 (zool.) genere di grossi mammiferi plantigradi, dalle forme tozze e robuste, con testa grossa, arti brevi, forti unghioni, coda corta e pelo foltissimo, che vivono isolati o in gruppi poco numerosi (ord. Carnivori): orso bruno, specie europea e asiatica con pelliccia di colore bruno; orso bianco (o polare), specie che abita le zone artiche circumpolari; orso grigio, grizzly; orso nero, baribal | vendere la pelle dell'orso prima che sia morto (o prima che sia preso), (fig.) disporre di una cosa prima che la si abbia in possesso.
2 per le sue movenze lente e impacciate è assunto a simbolo di goffaggine fisica: muoversi, ballare come un orso, in maniera goffa, sgraziata | per le sue abitudini di animale solitario, può anche indicare una persona scontrosa, scarsamente socievole: è un orso, non ha amici, non vede mai nessuno
3 nel gergo della borsa, ribassista; anche, situazione di mercato tendente al ribasso.
Voce dal lat. ursu(m) con tipico passaggio della la fricativa dentale sorda (s) all’affricata alveolare sorda (z).
40 -Pare ca mo 'o vveco…
Ad litteram:sembra che adesso lo vedrò… Id est: campa cavallo!, mai vedrò (che ciò avvenga)! Locuzione sarcastica di portata molto simile alla precedente, ma di valore piú generico che si usa in presenza di una imprecisata previsione di un risultato fallimentare cui è comunque destinata l'azione intrapresa da chi è ritenuto incapace ed inadatto a sostenere un impegno qualsiasi e perciò a raggiungere un risultato.
‘o ‘o/’u = a) ‘o/’u lo art. determ. m. sing. si premette ai vocaboli maschili o neutri singolari; la forma ‘u è forma antica di ‘o ora ancora in uso in talune parlate provinciali e/o dell’entroterra; la derivazione sia di ‘o che di ‘u è dal lat. (ill)u(m), acc.vo di ille 'quello'; l’aferesi della prima sillaba (ill) comporta la doverosa indicazione di un segno diacritico (‘); la particolarità di questo articolo è che quando sia posto innanzi ad un vocabolo inteso neutro, ne comporta la geminazione della consonante iniziale (ad es.: ‘o pate voce maschile, ma ‘o ppane voce neutra etc.);
b) ed è il ns. caso ‘o talora anche lo ma sempre eliso in ll’ se proclitico; = lo pronome personale m.le di terza pers. sing. [forma complementare atona di isso(egli) (forma tonica lui), esso]
1 si usa come compl. ogg. riferito a persona o cosa, in posizione sia enclitica sia proclitica; si può elidere dinanzi a vocale purché non crei ambiguità: ‘o’ mmidio assaje (lo invidio molto); ll’aggiu accattato pe tte(l'ò comprato per te); liéggelo(leggilo); vulesse averlo(vorrei averlo); ‘o ‘í ccanno(eccolo);
2 può assumere il valore di ciò, riferito a una prop. precedente o con funzione prolettica: vo’ riturnà, me ll’à ditto isso(vuole ritornare, me lo ha detto lui); ‘o ssapevo ca succedeva(lo sapevo che sarebbe accaduto) | con lo stesso sign. in funzione predicativa: diceva d’essere figlio sujo, ma nun ll’era(diceva di essere suo figlio, ma non lo era); era janca ‘e capille, ll’era addiventata dinto a ppochi mise (era bianca di capelli, lo era diventata in pochi mesi). Amargine di tutto ciò rammento che nel napoletano oltre ‘o (articolo o pronome) esiste un altro ‘o di cui dico qui a seguire:

o’ non è come a prima vista potrebbe apparire un’errata scrittura del precedente articolo ‘o (lo/il) o del precedente pronome ‘o errata scrittura (tutti possiamo sbagliare!) che talvolta mi è capitato di ritrovare inopinatamente in talune pagine di giornali, vergata da indegni pennaruli che per mancanza di tempo o ignavia non usano piú rileggere e/o correggere ciò che scrivono (....mi rifiuto infatti di credere che un giornalista non sappia che in napoletano gli artt. lo/il ed il pronome lo vanno resi con ‘o e non con o’) a meno che quei tali pennaruli nel loro scrivere non errino lasciandosi condizionare dalla dimestichezza con lo O’ (apocope dello of inglese che vale l’italiano de/De).
L’ o’ napoletano a margine è anch’esso un’apocope, quella del vocativo oj→o’=oh e viene usata nei vocativi esclamativi del tipo o’ fra’!= fratello! oppure o’ no’!= nonno! La forma intera oj è usata in genere nei vocativi come oj ne’! – oj ni!’= ragazza! – ragazzo!. Rammento che il corretto vocativo oj viene – quasi sempre e nella maggioranza degli anche famosi e famosissimi scrittori e/o poeti partenopei – riportato in una scorrettissima forma oje con l’aggiunta di una pletorica inesatta semimuta e, aggiunta che costringe il vocativo oj a trasformarsi nel sostantivo oje = oggi con derivazione dal lat. (h)o(di)e→oje; ah, se tutti i sedicenti scrittori e/o poeti partenopei prima di mettere nero sul bianco facessero un atto di umiltà e consultassero una buona grammatica del napoletano, o quanto meno compulsassero un qualche dizionario, quante inesattezze o strafalcioni si eviterebbero! Purtroppo tra i piú o meno famosi o famosissi scrittori e/o poeti partenopei che reputano d’esser titolari di scienza infusa, l’umiltà non alligna, né trova terreno fertile! Il Cielo perdoni la loro supponenza spocchiosa...

41– Pare ‘o carro ‘e Bbattaglino
Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica, disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano precise notizie biografiche , ma tra il 1619ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che - nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494), figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici e cantori.In ricordo di détto accadimento carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione disordinata e chiassosa si dice che sembri il carro di Battaglino.
carro s.vo m.le carro, veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica.
42 – Pare ‘o pastore ‘a maraviglia
Letteralmente: Sembra un pastore della meraviglia.
Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o donna) mostri di avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine (pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca che scrisse: pastores mirati sunt.
pastore s.vo m.le letteralmente pastore, 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo: fare il pastore; la vita dei pastori; un pastore di pecore, di capre | (fig.) membro dell'Accademia dell'Arcadia.
2 (fig.) capo, guida; in partic., guida spirituale, sacerdote: pastore di anime; il Buon Pastore, Cristo | nelle chiese protestanti, il ministro del culto
3 denominazione di cani di diversa razza, adatti alla guardia delle greggi.
Ma nell’espressione con il termine pastore non si intende segnatamente l’accezione sub 1 chi guida al pascolo le greggi e ne à la cura e il governo:, ma qualsiasi personaggio (statuine di terracotta)che popoli il presepe napoletano settecentesco.
La voce è dal lat. pastore(m), deriv. di pascere 'pascolare'.
maraviglia s.vo f.le meraviglia, 1 (come nel caso che ci occupa) sentimento di viva sorpresa suscitato da qualcosa di nuovo, strano, straordinario o comunque inatteso; 2 persona o cosa che per la sua bellezza o il suo carattere straordinario suscita ammirazione.
La voce è dal lat. mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. poi inteso femminile dall'agg. mirabilis 'meraviglioso' da mirabilia si perviene a maraviglia per il tramite d’un’ assimilazione regressiva della prima i alla successiva a, alternanza b→v (cfr. bocca→vocca – barca→varca etc.) ed ilia→ilja→iglia (cfr. familia→familja→famiglia – filia→filja→figlia;)
43 – Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatré chiaje e pure ‘a cora fràceta!
Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929), usata in riferimento a chi realmente sia o a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi cosa che gli impedisce di attendere con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente) malmesso, malaticcio, cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.
ciuccio s.vo m.le = asino (cfr. antea sub 22);
trentatré agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a trenta unità più tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;
3 come s.vo m.le la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl. trigintatre(s);
chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi:tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.
2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú
3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione
4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).
Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo etc.)
córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.
fràceta agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)
con l’occlusiva dentale sorda (t).
Fechella letteralmente piccola fica in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. ella) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il significato osceno; piú spesso in luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930, servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo birroccio forniva servizio di piccolo trasporto di vettovaglie e/o masserizie. nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città cioè a Poggioreale, voluto da Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta don Mimí Ascione/Fechella ed il suo asino erano notissimi cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche, Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – †12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.
Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzzatti", sulle tribune costruite in legno dell'impianto, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune, tra i 20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce anonima d’uno spettatore, peraltro tifoso azzurro da quel momento diventato anonimamente famoso, che esclamò:” Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!); da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello.


E qui penso di poter chiudere queste lunghissime pagine, augurandomi d’avere accontentato l’amico A.B. ed interessato qualcuno dei miei ventiquattro lettori.
Satis est.
Raffaele Bracale