lunedì 31 ottobre 2011

VARIE 1457

1. ESSERE LL'URDEMU LAMPIONE 'E FOREROTTA.
Letteralmente:essere l'ultimo fanale di Fuorigrotta. Id est: Non contare nulla, non servire a niente. La locuzione prese piede verso la fine dell' '800 quando l'illuminazione stradale napoletana era fornita da fanali a gas in numero di 666; l'ultimo lampione (fanale) contraddistinto appunto col numero 666 era situato nel quartiere di Fuorigrotta, zona limitrofa di Napoli, per cui il fanale veniva acceso per ultimo, quando già splendevano le prime luci dell' alba e la di lui utilità veniva ad essere molto limitata.
2. JÍ TRUVANNO A CRISTO DINTO A LA PINA.
Letteralmente: cercare Cristo nella pigna. Id est:impegnarsi in una azione difficoltosa,lunga e faticosa destinata a non aver sempre successo. Anticamente il piccolo ciuffetto a cinque punte che si trova sui pinoli freschi era detto manina di Cristo, andarne alla ricerca comportava un lungo lavorio consistente in primis nell'arrostimento della pigna per poi cavarne gli involucri contenenti i pinoli, procedere alla loro frantumazione e giungere infine all'estrazione dei pinoli contenuti;spesso però i singoli contenitori risultavano vuoti e di conseguenza la fatica sprecata.
3.QUANNO TE MIETTE 'NCOPP' A DDOJE SELLE, PRIMMA O DOPPO VAJE CU 'O CULO 'NTERRA.
Quando ti metti su due selle, prima o poi finisci col sedere in terra. Id est: il doppio gioco alla fine è sempre deleterio
4.'E FATTE D' 'A TIANA 'E SSAPE 'A CUCCHIARA.
Letteralmente:i fatti della pentola li conosce il mestolo. La locuzione sta a significare che solo gli intimi possono essere a conoscenza dell'esatto svolgimento di una faccenda intercorsa tra due o piú persone e solo agli intimi di costoro ci si deve rivolgere se si vogliono notizie certe e circostanziate. La locuzione è anche usata da chi non voglia riferire ad altri notizie di cui sia a conoscenza.
5.SENZA 'E FESSE NUN CAMPANO 'E DERITTE
Senza gli sciocchi, non vivrebbero i dritti. Id est: i furbi prosperano perché c'è chi glielo permette, non per loro forza intrinseca.
6.NUN FÀ PÍRETE A CHI TENE CULO..., NUN DÀ PONIE A CHI TÈNE MANE!
Non fare scorregge contro chi à sedere…., non dar pugni a chi à mani Id est: Non metterti contro chi à mezzi adeguati e sufficienti per risponderti per le rime...
7.QUANNO 'O PIRO È AMMATURO, CADE SENZA TURCETURO.
Quando la pera è matura, cade senza il bastone. IL turceturo è un bastone uncinato atto a pigare il ramo al fine di scuoterlo per far cadere il frutto.Id Est: Quando un'azione è compiuta fino alle sue ultime conseguenze queste non si lasciano attendere.
8.Jirsene a cascetta(te ne vaie a cascetta!)
Letteralmente: Andarsene a cassetta.(te ne vai a cassetta!). La cassetta in questione è quella del vespillone: il posto piú alto, ma anche il piú scomodo e il piú faticoso da raggiungere, delle antiche vetture da trasporto passeggeri. L'espressione viene usata quando si voglia sottolineare la dispendiosità o la fatica cui si va incontro, impegnandosi in un'azione ritenuta eccessivamente gravosa per cui se ne sconsiglia il porvi mano.
9. Â CASA D' 'O FERRARO, 'O SPITO 'E LIGNAMMO...
Letteralmente: In casa del ferraio, lo spiedo è di legno. La locuzione è usata a commento sapido allorché ci si imbatta in persone dalle quali, per la loro supposta, vantata professionalità ci si attenderebbero nelle loro azioni, risultati adeguati ben diversi da quelli che invece sono sotto gli occhi di tutti.
10. PIGLIATÉLLA BBELLA E CÓCCATE PE TTERRA.
Letteralmente:sposala bella e coricati in terra. Id est: accasati con una donna bella, ma tieniti pronto a sopportarne le peggiori conseguenze;la bellezza di una moglie comporta danno e sofferenze.
11. ABBACCÀ CU CHI VENCE.
Colludere col vincitore - Schierarsi dalla parte del vincitore. Comportamento nel quale gli Italiani sono maestri: si racconta, ad esempio, che al tempo dell'ultima guerra, all'arrivo degli americani non fu possibile trovare un fascista. Tutti quelli che per un ventennio avevano indossato la camicia nera, salirono sul carro dei vincitori e i militari anglo-americani si chiedevano, riferendosi a Mussolini: Ma come à fatto quell'uomo a resistere vent'anni se non aveva nessuno dalla sua parte?
12.QUANNO 'A CUNNIMMA È PPOCA, SE NE VA P' 'A TIELLA.
Quando il condimento è poco, si disperde nel tegame, invece di attaccarsi alle pietanze; id est: chi non à mezzi sufficienti, facilmente li disperde e non riesce ad usarli per portare a compimento un'opera cominciata.
13.A LU FFRIJERE SIENTE 'ADDORE, ALLU CAGNO,SIENTE 'O CHIANTO.
Letteralmente: al momento di friggere sentirai l'odore, al momento del cambio, piangerai. Un disonesto pescivendolo aveva ceduto ad un povero prete un pesce tutt' altro che fresco e richiesto dall'avventore intorno alla bontà della merce si vantava di avergli dato una fregatura asserendo che l'odore del pesce fresco si sarebbe manifestato al momento di cucinarlo, ma il furbo sacerdote , che aveva capito tutto e lo aveva ripagato con danaro falso, gli replicò per rime dicendogli che al momento che avesse tentato di scambiare la moneta ricevuta, avrebbe avuto la cattiva ventura di doversene dolere in quanto si sarebbe accorto della falsità del danaro.La locuzione è usata nei confronti di chi pensa di aver furbescamente dato una fregatura a qualcuno e non intende di esser stato ripagato con medesima moneta...
14.VOCA FORA CA 'O MARE È MARETTA...
Rema verso il largo ché il mare è agitato...Consiglio pressante, quasi ingiunzione ad allontanarsi, rivolto a chi chieda insistentemente qualcosa che non gli spetti.In effetti i marinai sanno che quando il mare è molto agitato è conveniente remare verso il largo piuttosto che bordeggiare a ridosso della riva contro cui ci si potrebbe infrangere.
marétta s.vo f.le. – 1. Condizione, anche temporanea, del mare (che si può avere spec. in acque ristrette), caratterizzata dall’accentuarsi dell’increspatura dell’acqua con brevi ondicelle irregolari, appuntite, formatesi per lo spirare di venti locali, di direzione e intensità spesso mutevoli: oggi c’è m., c’è un po’ di m.
2. In senso fig., stato di tensione, di agitazione e di malcontento latenti o solo parzialmente repressi.
la voce è derivato di mare attreverso il suffisso ètta
15.METTERE LL'UOGLIO 'A COPP' Ô PERETTO.
Letteralmente: aggiungere olio al contenitore del vino. Id est:colmare la misura. La locuzione viene usata sia per indicare che è impossibile procedere oltre in una situazione, perché la misura è colma, sia per dolersi di chi, richiesto d'aiuto, à invece completato un'azione distruttrice o contraria al richiedente. Un tempo sulle damigiane colme di vino veniva versato un piccolo strato d'olio a mo' di suggello e poi si procedeva alla tappatura, avvolgendo una tela di sacco intorno alla imboccatura del contenitore vitreo.
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VARIE 1456

1.A PPAVÀ E A MMURÍ, QUANNO CCHIÚ TTARDE SE PO’.
A pagare e morire, quando piú tardi sia possibile! È la comoda filosofia e/o strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
2.'NA VOTA È PPRENA, 'NA VOTA ALLATTA, NUN 'A POZZO MAJE VÀTTE'
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
Nota linguistica
Vàtte’ è l’infinito apocopato di vatte(re), ma pur essendo apocopato mantiene il primitivo accento tonico e va dunque letto vàtte’ e non vattè come pure erroneamente fa qualcuno confondendosi con ciò accade per tutti gli altri infiniti del napoletano che pur apocopati si trascinano dietro l’accento tonico, risultando, anche graficamente, accentati sull’ultima sillaba.Nella fattispecie vàtte’ pur apocopato, à mantenuto necessariamente il primitivo accento tonico per consentire l’esatta rima tra allatta e vàtte’.
3.LÈVATE 'A MIEZO, FAMME FÀ 'O SPEZZIALE.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo speziale era il farmacista, l'erborista, non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi in farmacopea non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
4. ARTICOLO QUINTO:CHI TÈNE 'MMANO À VINTO!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titolo. Infatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
5.CU MUONECE, PRIEVETE E CCANE, HÊ 'A STÀ SEMPE CU 'A MAZZA 'MMANO.
Con monaci, preti e cani devi tener sempre un bastone fra le mani. Id est: ti devi sempre difendere.Sarcastico consiglio (appartenente alla antica cultura popolare)che accomuna tra i soggetti fastidiosi o pericolosi monaci, preti e cani: i primi due adusi ad elemosinare e/o chiedere offerte son fastidiosi o pericolosi per le poco fornite tasche e/o sostanze personali, i cani (soprattutto i randagi) attentano continuamente all’incolumità fisica, per cui occorre difendersi da tutti, magari ricorrendo alle maniere forti; rammento che un tempo (relativamente ai cani, soprattutto nelle chiesuole dei paesini rurali) vi fu un soggetto che addetto alle pulizie ed alla sorveglianza della chiesa,aveva anche il còmpito di scacciare i cani che entrassero in chiesa e tale mansione fece assegnare a tale individuo il nome di scaccino parola che poi successivamente divenne sinonimo di sagrestano/sacrista.
6. CHI FRAVECA E SFRAVECA, NUN PERDE MAJE TIEMPO.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi, ironicamente, in senso antifrastico, si usa a commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
7.'A SCIORTA D' 'O PIECORO: NASCETTE CURNUTO E MURETTE SCANNATO...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
8. È FERNUTA 'A ZEZZENELLA!
Letteralmente: È terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami!
La voce zezzenella è un collaterale di zezzella ambedue diminutivi di zizza (=mammella) che viene per adattamento dall’ accusativo tardo latino *titta(m)= capezzolo forse attraverso una forma aggettivale tittja(m) dove il ttj intervocalico diede zz che influenzò anche la sillaba d’avvio ti→zi. .
9. È MMUORTO 'ALIFANTE!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussiego, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussiego , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grandissima importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...
10. CHI SE FA PUNTONE, 'O CANE 'O PISCIA 'NCUOLLO...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro, il cane gli minge addosso. È l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se lo mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a far valere la propria personalità, mostrandosi eccessivamente succubi e/o remissivi.
11.TRÒVATE CHIUSO E PIÉRDETE CHIST' ACCUNTO...
Letteralmente: Tròvati (mettiti nell’(errata)condizione di stare) chiuso perdendoti questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si stia per compiere, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
Accunto s. m. = cliente dal lat. adcognitus= molto conosciuto, la voce semanticamente si spiega con il fatto che chi è cliente frequentando continuamente una bottega finisce per essere molto noto e/o conosciuto.
12.È MMEGLIO A ESSERE PARENTE Ô FAZZULETTO CA Â COPPOLA.
Conviene esser parente della donna piuttosto che dell' uomo. In effetti, formandosi una nuova famiglia, è tenuta maggiormente in considerazione la famiglia d'origine della sposa piuttosto che quella dello sposo.
13.OGNE STRUNZO TENE 'O FUMMO SUJO.
Letteralmente: Ogni stronzo sprigiona un fumo. Id est:ogni sciocco à sempre modo di farsi notare
14.CUNSIGLIO 'E VORPE, RAMMAGGIO 'E GALLINE.
Lett.:consiglio di volpi, danno di galline. Id est: Quando confabulano furbi o malintenzionati, ne deriva certamente un danno per i piú sciocchi o piú buoni. Per traslato: se parlottano tra di loro i superiori, gli inferiori ne subiranno le conseguenze.
15.CHIACCHIERE E TABBACCHERE 'E LIGNAMMO, 'O BBANCO NUN NE 'MPEGNA.
Letteralmente: chiacchiere e tabacchiere di legno non sono prese in pegno dal banco. Il banco in questione era il Monte dei Pegni sorto a Napoli nel 1539 per combattere la piaga dell'usura. Da esso prese vita il Banco di Napoli, fiore all'occhiello di tutta l'economia meridionale, Banco che è durato sino all'anno 2000 quando, a completamento dell'opera iniziata nel 1860 da Cavour e Garibaldi e da casa Savoia, non è stato fagocitato dal piemontese Istituto bancario San Paolo di Torino e poi da Banca Intesa. La locuzione proclama la necessaria concretezza dei beni offerti in pegno, beni che non possono essere evanescenti come le parole o oggetti non preziosi. Per traslato l'espressione si usa nei confronti di chi vorrebbe offrirci in luogo di serie e conclamate azioni, improbabili e vacue promesse.
16.FEMMENE E GRAVUNE: STUTATE TÉGNONO E APPICCIATE CÒCENO.
Letteralmente: donne e carboni (son sempre pericolosi): spenti tingono e accesi bruciano. Id est: quale che sia il loro stato, donne e carboni sono ugulmente deleterii.
17.VENÍ ARMATO 'E PIETRA POMMECE, CUGLIE CUGLI E FFIERRE 'E CAZETTE.
Letteralmente: giungere munito di pietra pomice, aghi sottili e ferri(piú doppi)da calze ossia di tutto il necessario ed occorrente per portare a termine qualsivoglia operazione cui si sia stati chiamati. Id est: esser pronti alla bisogna, essere in condizione di attendere al richiesto in quanto armati degli strumenti adatti.
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VARIE 1455

1.AJE VOGLIA 'E METTERE RUMMA, 'NU STRUNZO NUN ADDIVENTA MAJE BABBÀ.
Letteralmente: Puoi anche irrorarlo con parecchio rum,tuttavia uno stronzo non diventerà mai un babà. Id est: un cretino, uno sciocco per quanto si cerchi di truccarlo, edulcorare o esteriormente migliorare, non potrà mai essere una cosa diversa da ciò che è...
2.SI 'A MORTE TENESSE CRIANZA, ABBIASSE A CHI STA 'NNANZE.
Letteralmente: Se la morte avesse educazione porterebbe via per primi chi è piú innanzi, ossia è piú vecchio... Ma, come altre volte si dice, la morte non à educazione, per cui non è possibile tenere conti sulla priorità dei decessi.
3.PURE 'E CUFFIATE VANNO 'MPARAVISO.
Anche i corbellati vanno in Paradiso. Cosí vengono consolati o si autoconsolano i dileggiati prefigurando loro o auto prefigurandosi il premio eterno per ciò che son costretti a sopportare in vita. Il cuffiato è chiaramente il corbellato cioè il portatore di corbello (in arabo: quffa)
4.'O PURPO SE COCE CU LL'ACQUA SOJA.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
5. 'A GATTA, PE GGHÍ 'E PRESSA, FACETTE 'E FIGLIE CECATE.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
6.FÀ 'E CCOSE A CAPA 'E 'MBRELLO.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione è usata sarcasticamente a commento di chi colpevolmente agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
7.CHI NUN SENTE A MMAMMA E PPATE, VA A MURÍ ADDÓ NUN È NATO...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
8.È GGHIUTA 'A MOSCA DINT' Ô VISCUVATO...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta di un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco, vi si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che ciò che si riceve è parva res, rispetto alle attese...
9.CU 'NU SÍ TE 'MPICCE E CU 'NU NO TE SPICCE.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
10.TENÉ'A SALUTE D' 'A CARRAFA 'E ZECCA.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di poco meno di un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli, caraffa che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
11.TENGO 'E LAPPESE A QUADRIGLIÈ, CA M'ABBALLANO PE CAPA.
Letteralmente: Ò le matite a quadretti che mi ballano in testa. Presa alla lettera la locuzione non significherebbe niente. In realtà "lappese a quadrigliè" è la corruzione dell'espressione latina lapis quadrella(tus)←lapis quadratus o opus reticulatum antica tecnica di costruzione muraria romana consistente nel sovrapporre, facendo combaciare le facce laterali e tenendo la base rivolta verso l'esterno, ed il vertice verso l'interno, piccole piramidi di tufo o altra pietra, per modo che chi guardasse il muro, cosí costruito, avesse l'impressione di vedere una serie di quadratini orizzontati diagonalmente. Questa costruzione richiedeva notevole precisione ed attenzione con conseguente applicazione mentale tale da procurare nervosismo et similia.
12.PARÉ 'A SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa piú per indolenza che per magnanimità.
13.LÀSSEME STÀ CA STONGO'NQUARTATO!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
14.SE FRUSCIA PINTAURO, D''E SFUGLIATELLE JUTE 'ACITO.
Si vanta PINTAURO delle sfogliatelle inacidite. Occorre sapere che Pintauro era un antico pasticciere napoletano che, normalmente, produceva delle ottime sfogliatelle dolce tipico derivato per altro da uno analogo inventato dalle suore del convento amalfitano (Furore) di Santa Rosa e prodotte poi nel convento partenopeo detto Croce di Lucca. La locuzione è usata nei confronti di chi continua a pavoneggiarsi vantandosi di propri supposti meriti, anche quando invece i risultati delle sue azioni sono piuttosto deprecabili.
15.CARCERE, MALATIA E NECISSITÀ, SE SCANAGLIA 'O CORE 'E LL'AMICE.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
16.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini, tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancóra i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
17.NISCIUNO TE DICE: LAVATE 'A FACCIA CA PARE CCHIÚ BBELLO 'E ME.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
18.QUANN' UNO S'À DDA 'MBRIANCÀ, È MMEGLIO CA 'O FFA CU 'O VINO BBUONO.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.
19.SCIORTA E CAUCE 'NCULO, VIATO A CCHI 'E TTÈNE!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni!
20.ANCAPPA PE PRIMMO, FOSSERO PURE MAZZATE!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche rischiando le percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
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VARIE 1454

1. CCA SOTTO NUN CE CHIOVE!
Letteralmente: Qui sotto non ci piove. L'espressione, tassativamente accompagnata dal gesto dell' indice destro puntato contro il palmo rovesciato della mano sinistra, sta a significare che oramai la misura è colma e non si è piú disposti a sopportare certe prese di posizioni o certi comportamenti soprattutto quelli di certuni che sono adusi a voler comandare, impartire ordini et similia, non avendone né l'autorità, né il carisma; la locuzione è anche usata col significato di: son pronto a render pane per focaccia , nei confronti di chi à negato un favore, avendolo invece reiteratamente promesso.
2. 'A CERA SE STRUJE E 'A PRUCESSIONA NUN CAMMINA.
Letteralmente: le candele si consumano, e la processione non cammina. La locuzione viene usata quando si voglia con sarcasmo e/o dispetto sottolineare una situazione nella quale, invece di affrontare concretamente i problemi, ci si impelaga in discussioni oziose, vani cavilli e dispersive chiacchiere pretestuose che non portano a nulla di concreto.

3.TUTTO PO’ ESSERE, FORA CA LL'OMMO PRIÉNO.
Tutto può essere, fuorché l'uomo incinto. La cosa è ancora vera anche se l'alchimie della moderna scienza non ci permette di essere sicuri... La locuzione viene usata per sottolineare che non ci si deve meravigliare di nulla, essendo, nella visione popolare della vita, almeno fino a che la scienza con i suoi marchingegni sòliti non provi il contrario, una sola cosa impossibile: la gravidanza maschile.
4.ABBIARSE A CCURALLE.
Letteralmente: avviarsi verso i coralli. Id est: Anticiparsi, muovere rapidamente e prima degli altri verso qualcosa. Segnatamente lo si dice delle donne violate ed incinte che devono affrettare le nozze. La locuzione nasce nell'ambito dei pescatori torresi (Torre del Greco -NA ), che al momento di mettersi in mare lasciavano che partissero per primi coloro che andavano alla pesca del corallo.
5.AGGIU VISTO 'A MORTE CU LL' UOCCHIE.
Letteralmente: Ò veduto la morte con gli occhi. Con questa locuzione tautologica si esprime chi voglia evidenziare di aver corso un serio pericolo o rischio mortale tale da portarlo ad un passo dalla morte e di esserne fortunatamente restato indenne.
6. VULÉ PISCIÀ E GGHÍ 'NCARROZZA.
Letteralmente: voler mingere e al tempo stesso andare in carrozza Id est: pretendere di voler conseguire due risultati utili, ma incompatibili fra di essi.Altrove con identico significato si dice: Vulé fottere e sbattere ‘e mmane. Td est: voler coire sbattendo le mani cosa impossibile soprattutto per l’uomo nella posizione détta del missionario.
Piscià = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat. pi(ti)ssare→pisciare;
gghí = andare; forma collaterale di jí che è dal lat. ire. fottere/ffottere = 1coire, congiungersi carnalmente possedere sessualmente; (assol.) avere rapporti sessuali | va' a farti fottere!, lo stesso che 'va' all'inferno, al diavolo'
2 (fig.) imbrogliare, raggirare, rubare:m’ànnu futtuto!( mi ànno fottuto) sono stato derubato ||| fotterse v. intr. pron. (volg.) infischiarsi di qualcuno o di qualcosa (usato per lo piú nella forma fottersene): se ne fotte ‘e chello ca fa (se ne infischia di ciò che fa.) il verbo napoletano è dritto per dritto dal lat. volg. *fottere, per il class. futuere

7. VE DICO 'NA BUSCÍA.
Vi dico una bugia. È il modo sbrigativo e piuttosto ipocrita di liberarsi dall'incombenza di dare una risposta, quando non si voglia prender posizione in ordine al richiesto e si avverte allora l'interlocutore di non continuare a chiedere perché la risposta potrebbe essere una fandonia, una bugia...
buscía (al pl. buscíe ) = bugia, menzogna ed altrove piattello ansato per ragger le candele; nel significato di bugia/menzogna è parola derivante dal provenzale bauzía che è dal francone bausi = menzogna, malignità; nel senso di piattello ansato per regger candele deriva dal nome della città algerina Bugiaya dove si producevano tali piattelli e da dove, pare, s’importasse la cera per produrre le candele;

8. FÀ 'O FRANCESE.
Letteralmente: fare il francese, id est: mostrare, dare a vedere o - meglio - fingere di non comprendere, di non capire quanto vien detto, allo scoperto scopo di non dare risposte, specie trattandosi di impegnative richieste o ordini perentorii. È l'equivalente dell'italiano: fare l'indiano, espressione che, storicamente, a Napoli non si comprende, non avendo i napoletani avuto nulla a che spartire con gli indiani, sia d'India che d' America, mentre ànno subíto piú di una dominazione francese ed ànno avuto a che fare con gente d'oltralpe.
9.'O PESCE FÈTE DÂ CAPA.
Letteralmente: Il pesce puzza dalla testa. Id est: il cattivo esempio viene dall'alto, gli errori maggiori vengon commessi dai capi. Per cui: ove necessario, se si vogliono raddrizzare le cose, bisogna cominciare a prender provvedimenti innanzi tutto contro i comandanti.













10.'A SCIORTA 'E CAZZETTE:JETTE A PISCIÀ E SE NE CADETTE.
La cattiva fortuna di Cazzetta: si dispose a mingere e perse...il pene. Iperbolica notazione per significare l'estrema malasorte di un ipotetico personaggio cui persino lo svolgimento delle piú ovvie necessità fisiologiche comportano gravissimo nocumento.
11.ATTACCA 'O CIUCCIO ADDÓ VO’ 'O PATRONE
Letteralmente: Lega l'asino dove vuole il padrone Id est: Rassegnati ad adattarti alla volontà altrui, specie se è quella del capintesta(e non curarti delle conseguenze) È una sorta di trasposizione del militaresco: gli ordini non si discutono... Una curiosità: Un tempo vi fu chi usava dire e forse piú acconciamente, come chiarirò: Attacca ‘o ciuccio addó va ‘o varrone id est: Lega l’asino sul lato del carro dove la stanga principale tende ad inclinare (affinché faccia acconciamente da bilancino e secondi la fatica del cavallo o mulo che sopportano il peso principale); successivamente visto che l’espressione non era intesa pienamente se non da gli addetti ai lavori di trasporto, essa fu mutata in quella assonante in esame che comunque ne stravolse alquanto il significato originario che connotava un esatto consiglio pratico ed efficiente.

12.'E MACCARUNE SE MAGNANO TENIENTE TENIENTE
Letteralmente: i maccheroni vanno mangiati molto al dente. La locuzione a Napoli oltre a compendiare un consiglio gastronomico ineludibile, viene usata anche per significare che gli affari devono esser conclusi sollecitamente, senza por troppe remore in mezzo.
Teniente è il participio presente aggettivato del verbo tené (che è dal lat. teníre); nella fattispecie il verbo sta per mantenere (la cottura) e (poi che il participio è reiterato vale quase superlativo come quasi sempre nel napoletano) significa molto al dente; altrove l’espressione è riportata come 'E maccarune se magnano vierde vierde dove l’aggettivo reiterato vierde vierde = verdi verdi à la medesima valenza del teniente teniente: molto al dente e ciò perché qualunque cosa sia détta verde vale immatura perciò non ammorbidita, ancóra duretta, quasi acerba.
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VARIE 1453

1 -STÀ BBUONO MALATO
Questa icastica locuzione, che (se tradotta pedissequamente ad litteram) si risolverebbe in un patente ossimoro, in realtà configura e rappresenta la deprecabile situazione di chi versa in una grave malattia risultando molto malato; come si vede l'aggettivo buono è qui usato in una particolare accezione forse impropria, ma certamente efficace, per indicare una quantità (molto), non una qualità.
2 -STÀ A STECCHETTO
Ad litteram:stare a stecco Id est: essere costretto a rigide norme comportamentali ,risultandone come stretto fra stecchi, ma anche potersi nutrire - per necessità o -meno spesso - per volontà, del poco solo strettamente necessario assumendolo, data la parva quantità,quasi come si fa con gli uccellini, sulla punta di un piccolo stecco.
3 -STÀ CAURO/CAUDO
Ad litteram:stare caldo; ma non riferito alla temperatura corporea, quanto a quella della tasca che è intesa calda in quanto ben provvista di danaro.
4 -STÀ CCHIÚ 'A LLA CA 'A CCA
Ad litteram:stare piú di là che di qua. Detto di chi versa in pessime condizioni di salute tali da lasciar preconizzare un'imminente fine e da farlo ritenere piú prossimo all'altro che a questo mondo; locuzione usata correttamente nel caso menzionato, ma usata - a volte - enfaticamente in situazioni non veramente gravi , ma solo paventatate tali.
5 -STÀ COMME A CCRISTO 'NCROCE
Ad litteram:stare come Cristo in croce Id est:aver perso ogni libertà ed autonomia, essere astretto e costretto trovandosi perciò nella impossibilità di agire e provvedere ai propri bisogni, iperbolicamente come un Cristo inchiodato alla croce e dover perciò dipendere in tutto e per tutto dagli altri.
6 -STÀ CU 'E PPACCHE DINT' A LL' ACQUA.
Ad litteram:stare con le natiche nell'acqua. Id est: versare in grave miseria e trovarsi a combatterla abbassandosi al mestiere (un tempo ritenuto povero) del pescatore che per meglio tirare la rete, entra in acqua fino a sentirsi bagnato il fondoschiena.
7 -STÀ CU DDUJE PIEDE DINT’ A UNA SCARPA
Ad litteram:stare con ambedue i piedi in una sola scarpa. Id est: stare costretti e quieti tenendo un atteggiamento succubo e remissivo evitando addirittura di muoversi per non dare fastidio o intralcio ai terzi; tutto ciò sarebbe favorito dal fatto iperbolico di avere ambedue i piedi calzati in un’unica scarpa (cosa materialmente impossibile!).
8. STÀ CAZZA E CUCCHIARA.
Ad litteram:stare secchio della calcina e cucchiaia. - Cioè:andare di pari passo, stare sempre insieme.
Erroneamente qualcuno riferisce il modo di dire con l’espressione: Stà tazza e cucchiaro (stare tazza e cucchiaio), espressione inesatta innanzi tutto perché la posata che accompagna la tazza, a Napoli è esclusivamente riportata come diminutivo: ‘o cucchiarino (il cucchiaino) o come ‘o cucchiaro (il cucchiaio) nel caso che con la voce tazza ci si riferisca non alla chicchera per il caffé, ma all’ampia scodella per il latte, ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani comporta la presenza della grossa cucchiara arnese tipico dei muratori,arnese che non viene ovviamente usato né per accompagnare la tazzina da caffè, né il tazzone/scodella da latte!


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domenica 30 ottobre 2011

SCOTTATE D’ANNECCHIA CON CREMA DI RICOTTA E PATÉ D’OLIVE VERDI

SCOTTATE D’ANNECCHIA CON CREMA DI RICOTTA E PATÉ D’OLIVE VERDI

Nota
Per la preparazione di questa succulenta ricetta, se si vuole ottener il miglior risultato occorre fornirsi in macelleria di fettine di carne non di manzo, ma rigorosamente di vitello/a anzi di annecchia che con derivazione dal lat. annicula→anniclja→annecchia indica il vitello o la vitella molto giovane quella bestia cioè che sia stata macellata quando non abbia superato l’anno d’età ed abbia gustose carni sode, morbide e non grasse.


ingredienti e dosi per 6 persone
per le scottate
1,5 kg. di polpa di spalla di annecchia in fettine di cm. 8 x 5 x 1,5
1 etto di strutto,
3 etti di ricotta ovina,
sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.



per il paté
4 etti di olive verdi in salamoia denocciolate,
1 etto di mandorle spellate e tostate,
1 bicchiere di olio extravergine di oliva p.s. a f.,
1 spicchio d’aglio mondato e tritato,
sale fino q.s.
1 peperoncino piccante lavato, asciugato, privato di corona e picciuolo e tritato.
procedimento
Si inizia approntando dapprima il paté nel modo che segue: Lavare le olive con l’acqua corrente e asciugarle.
Mettere in un mixer con lame da umido le olive, l’aglio e le mandorle tostate; avviare il mixer e mentre è in funzione aggiungere il sale, il peperoncino e l’olio a filo.
Frullare sino ad ottenere un paté morbido e cremoso.Tenerlo da parte.
A seguire in una padella di ferro nero mandare a temperatura e sciogliere lo strutto e scottarvi tre minuti per faccia le fettine di vitello, regolarle di sale e pepe e mantenerle in caldo; a questo punto versare in un pentolino la ricotta ed il paté ed a mezza fiamma farne sposare i sapori.
Impiattare le scottate verniciandole abbondantemente con la crema di ricotta e paté.Servire in tavola calde di fornello. Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi), stappati un’ora prima di usarli, possibilmente scaraffati e serviti a temperatura ambiente
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
Raffaele Bracale

VERICELLONI MANTECATI CON CREMA DI CARCIOFI

VERICELLONI MANTECATI CON CREMA DI CARCIOFI

ingredienti e dosi per 6 persone
per i vermicelloni
6 etti di vermicelloni,
3 etti di ricotta ovina,
1 bicchiere di latte intero caldo,
sale fino un pizzico
1 pugno di sale grosso,
noce moscata q.s.
1 etto di pecorino grattugiato.
pepe decorticato macinato a fresco q.s.
per la crema di carciofi
12 carciofi giovani e teneri,
1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
1 spicchio d’aglio mondato e schiacciato,
1 cipolla dorata mondata e tritata,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 etto di pancetta affumicata a cubetti da ½ cm. di spigolo,
6 fascetti di rucola,
il succo filtrato di un limone non trattato,
sale fino alle erbette q.s.,
pepe decorticato macinato a fresco q.s.

procedimento
Si comincia approntando la crema di carciofi nel modo che segue: Mondare i carciofi delle brattee esterne piú dure, spuntarli ed aprirli longitudinalmente in due parti eliminando il fieno centrale, indi sempre longitudinalmente affettarli allo spessore di ½ cm.; lavarli velocemente in acqua acidulata con il succo d’un limone e sgrondarli. Nel frattempo in un ampio tegame provvisto di coperchio, a fuoco vivace fare imbiondire nell’olio lo spicchio d’aglio schiacciato ed il trito di cipolla;eliminare lo spicchio d’aglio aggiungere la pancetta e farla rosolare per cinque minuti, indi aggiungere i carciofi sgrondati, bagnare con il bicchiere di vino bianco secco, farlo evaporare ed aggiungete una mezza ramaiolata d’acqua calda, incoperchiare, abbassare i fuochi e far cuocere per circa 30’ fino a che i carciofi diventino quasi una purea; solo a fine cottura salare e pepare ad libitum e trasferire i carciofi assieme al fondo di cottura in un mixer con lame da umido;unire i mazzetti di rucola lavati ed asciugati ed a bassa velocità ottenere una crema spumosa e sottile da tenere da parte. Súbito dopo approntar la manteca stemperando in una zuppiera la ricotta addizionata del latte caldo, un pizzico di sale fino ed una grattugiata di noce moscata.
A seguire lessare a dente in abbondante (8 litri) acqua salata (pugno di sale doppio) i vermicelloni, sgrondarli e versarli nella zuppiera con la ricotta; rimestare ed aggiungere la metà della crema di carciofi; aggiungere il pecorino, rimestare ancóra e stendere a specchio nei singoli piatti la crema di carciofi residua posizionando sullo specchio di crema ad libitum alcuni gomitoli di vermicelloni sui quali distribuire abbondante pepe decorticato macinato a fresco. Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale

RICCE ‘E FURETANE AI FUNGHI PORCINI E SALSICCIA

RICCE ‘E FURETANE AI FUNGHI PORCINI E SALSICCIA

Nota
Per la preparazione di questa gustosissima ricetta autunnale ci serviremo di un tipo particolare di pasta détta Ricce ‘e furetane: riccioli di contadina;
ricce: plur. di riccio s.m.= ricciolo dal lat. . ericiu(m), deriv. di ìr ìris 'riccio';
furetane: plur. di furetana s.f.= contadina, campagnola dal lat. foritanus/a derivato di foris + il suff. etnico aggettivale itanus/a )
i riccioli di contadine è il nome usato a Napoli per indicare i fusilli lunghi bucati che sono un tipo di lunghi vermicelloni bucati ed arricciati per tutta la loro lunghezza a mo’ del verme del cavatappi; questo tipo di pasta dev’esser lessata senza spezzettarla; à la caratteristica, se lessata molto al dente, di mantenere una sorta di gustosa croccantezza.


Dosi per 6 persone
6 etti di ricci di contadine,
6 grossi funghi porcini freschi o surgelati,
10 rocchi di salsiccia spellati e sgranati,
1 bicchiere di vino bianco secco,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
1 grosso cucchiaio di strutto,
2 spicchi d’aglio mondati e tritati finemente,
½ cipolla dorata mondata e tritata finemente,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato in centrifuga e tritato finemente,
1 etto di uvetta ammollata in acqua calda e poi strizzata,
1 etto di formaggio pecorino grattugiato,
6 cucchiai di pinoli tostati in forno,
sale doppio un pugno,
sale fino q.s.
pepe bianco q. s.




procedimento.
In una padella di ferro nero sciogliere a temperatura sostenuta lo strutto, unire la cipolla tritata e rosolarla, indi aggiungere i rocchi di salsiccia spellati e sgranati, bagnarli con il vino e lasciarlo evaporare, aggiungere un po’ d’acqua bollente e far rosolare la salsiccia; mantenere in caldo;nel frattempo pulire bene i funghi nettandoli con uno straccetto umido e con un coltellino affilatissimo, e tagliarli in pezzi abbastanza grossi;è essenziale operare il taglio alla francese, sfettando cioè i funghi in diagonale, appoggiando la lama lungo l’asse maggiore dei funghi, con un’inclinazione di 45°. Porre i pezzi ricavati in un’ altra padella nell'olio già caldo, aromatizzato con i due spicchi aglio, e farli soffriggere, aggiungendo poca acqua bollente.Regolare di sale.
Frattanto lessare i riccioli in abbondante acqua salata(pugno di sale grosso); scolarli e versarli nella padella con il sugo di funghi,unire le salsicce rosolate,l’uvetta ammollata in acqua calda e poi strizzata, rimestare per alcuni minuti a fiamma dolce ed infine aggiungere a fuochi spenti il prezzemolo fresco tritato finemente.
Impiattare cospargendo ogni porzione di pecorino, un cucchiaio di pinoli tostati ed abbondante pepe bianco macinato al momento. Servire ben caldo.
Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!

Raffaele Bracale

CANNARUNCIELLI INCACIATI CON FRICASSEA ORTICOLA

CANNARUNCIELLI INCACIATI CON FRICASSEA ORTICOLA
Nota
1)Per la preparazione di questa ricetta ci serviremo di una gustosissima crema di carciofi e come pasta useremo i cannaruncielle détti pure don ciccille ‘ncruvattate ossia dei grossi tubettoni rigati noti anche come pasta militare
Tale pasta avendo la forma d’un grosso tubetto cilindrico viene appaiato, nella concezione popolare a quegli alti colletti rigidi delle camicie d’antan corredati per solito da grossi cravattoni, donde il nome di don ciccille ‘ncruvattate dove il don ciccillo (che è il sig. di don ciccille, è il nome dell’ipotetico individuo che indossava quei tronfi colletti rigidi; il nome cannaruncielle deriva invece dal fatto che quei tronfi colletti insistono sul collo o gola che in napoletano è canna((che deriva dal latino/greco kanna e questo dal semitico qaneh) dove ovviamente con canna si intende il canale della gola) o cannarone donde cannaruncielle.
2)Di per sé la voce fricassea derivata dal francese fricassée, propriamente part. pass. f. di fricasser 'cuocere in salsa'
indicherebbe uno spezzatino di vitello, agnello, maiale o pollo, dapprima stufato in tegame e poi condito con una salsa a base di uova e limone; qui invece l’ò usata nel significato traslato di disordinata, ma gustosa mescolanza di cose diverse (nella fattispecie i varii ortaggi).
E veniamo alla ricetta:
Ingredienti e dosi per 6 persone

per i cannaruncielli incaciati
6 etti dicannaruncielle (tubettoni rigati),
3 etti di pecorino (laticauda) grattugiato finemente,
abbondante pepe decorticato macinato a fresco,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v.p. s. a f. ,
1 gran ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.
sale doppio mezzo pugno.


per la fricassea orticola
5 melanzane lunghe violette napoletane,
5 zucchine piccole verdi e sode,
3 peperoni quadrilobati (1 giallo, 1 rosso, 1 verde),
5 pomidoro tipo ROMA o SANMARZANO maturi,
3 grosse cipolle dorate,
5 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
1 bicchiere e mezzo di olio d'oliva e.v. p. s. a f.,
alune foglie di basilico,
sale doppio alle erbette una presa abbondante,
pepe decorticato macinato a fresco q.s.
procedimento
Si comincia approntando la fricassea nel modo che segue: Pulire le verdure e lavarle accuratamente. Poi versare metà dell'olio in un tegame di terracotta, unirvi le cipolle affettate sottilmente e farle appassire a fuoco dolce. Tagliare le melanzane(senza sbucciarle) e le zucchine in piccoli cubi di 1,5 cm di spigolo; versarli in una padella antiaderente e farli saltare a fiamma allegra con l'olio rimanente.
A fine cottura, trasferire melanzane e zucchine nel tegame delle cipolle, aggiungere i peperoni tagliati a falde della grandezza d’un pollice e soffriggere il tutto, a fiamma viva, per 5 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno.
Quindi unire i pomodori lavati, sbollentati e pelati, tagliati a pezzi, l'aglio schiacciato e alune foglie di basilico spezzettate. Salare con sale doppio alle erbette, insaporire con del pepe macinato al momento, incoperchiare e lasciare cuocere a fuoco moderato per un’ora e mezza, mescolando di tanto in tanto. Tenere in caldo.
A seguire mettere a lessare la pasta in abbondante acqua leggermente (mezzo pugno di sale doppio) salata.Nel frattempo mandare a temperatura un bicchiere d'olio in un tegame unendovi una generosa quantità di pepe decorticato macinato a fresco; a seguire porre in
un’ insalatiera 3 etti di pecorino laticauda grattugiato finemente ed un po' d' acqua di cottura della pasta; amalgamare il tutto con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una crema liscia. Si scolano i tubettoni lessati al dente, trasferendoli nell’insalatiera con il formaggio; si aggiunge la fricassea e si rimesta il tutto accuratamente; si porzionano i tubettoni e si completano i piatti distribuendo su ogni porzione abbondante prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.

Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!
raffaele bracale

CATANIA – NAPOLI 29/10/11 (2 A 1)LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ

CATANIA – NAPOLI 29/10/11 (2 A 1)
LL’AGGIU VISTA ACCUSSÍ

E stammo â terza delusione guagliú; ce simmo ‘ntussecato n’atu sàpato a nnotte! Me dispiace d’ ‘o ddicere ma proprio nun ce simmo: ‘sta cazza ‘e fissazzione ca tene Mazzarri cu ‘o turnover(ro) proprio nun se ne scenne; pussibbile ca proprio nun le trase dint’ê cchiocche ca ‘o Napule nun tène riserve a ll’aldezza d’ ‘e titulare? Pussibile ca s’ànn’ ‘a fà ddoje cumpetizzione ‘mpurtante comme campiunato e ciampionsa senza tené ‘e sostitute decenti per ttre ghiucature fundamentali: Cavani, Inler e Campagnaro? Turnammo â partita d’ajere: fuje proprio ‘ndispenzabbile ‘o turnover(ro)? Nun fósse stato meglio puntà a vvencere ‘a partita restanno dint’â stèla (nella scia) d’ ‘o vertice allimmeno nfi’ ô scontro ‘e dummeneca ca vène cu ‘a zoccola janca e nnera (juventus)? Quaccuno me po’ vení a ddicere ca Mazzarri giustamente penzaje â partita ‘e ciampionsa ‘e miercurí a vvení, ma i’ penzo ca si a Mmonaco avessemo pigliato ‘na mazzata pesante, ma comunque jucannosela cu ddignità, nisciuno se fósse sunnato ‘e mettere ‘ncroce a Mmazzarri!.. Voglio dicere ca se po’ tranquillamente perdere ‘na partita d’ ‘o ggirone pure pecché me pare e penzo ‘e nun sbagliarme ca nun simmo attrezzate p’ arrivà chi sa’ quanto luntano! Avesse capito, ma maje giustificato ‘a formazione d’ ajere a ssera si ‘a partita ‘e coppa ‘a jucà fósse stata chella contro ô City, ‘n casa e â purtata nosta , o contro ô Villareal ca è tutto summato d’ ‘o stesso livello nuosto. Pe ‘na scunfitta a Mnonaco nisciunu tifoso se fósse asquitato (indignato). A chisto punto, nun me dicite niente ma nun veco ll’ora ‘e ascí dâ Ciampionsa pe tturà a gghiucà bbuono e a vvencere ‘ncampiunato. Pe ddirla tutta, ajere a ssera m’asquitaje assaje vedenno ‘e scennere ‘ncampo dô primmo minuto a Santana ô posto ‘e Marekiaro e cchiú assaje ancòra m’asquitaje quanno vedette ca Mazzarri, doppo d’ ‘o primmo cartellino jalizzo ca Santana s’abbuscaje, nun ‘o sostituette súbbeto e ‘o facette cuntinuà a gghiucà cu ‘o risultato ca sapimmo... Passammo ê ppaggelle va’!
DE SANCTIS 5,5 - Nisciuna corpa p’ ‘a primma redda, ma ‘ncopp’â siconna avesse pututo ascí... ‘Mmiez’ê pale dètte caranzia!
FIDELEFF 5,5 –P’ ‘o tiempo ca stette ‘ncampo nun facette granni ccose, ma manco guaje; forze nun è ‘nu campione, ma ‘e capa se fa sempe valé.
(dô 58', MAGGIO 5,5 Ll’êsse vuluto fà, ma nun fuje serata; sfurtunato se travestette ‘a difenzore agggiuntato d’ ‘o Catania ô mumento d’ ‘a cranne uccasiona capitata a Dzemaili.)
CANNAVARO 5,5 – Facette ‘o pussibbile contro ê pponte catanese, ma ‘ncopp’â primma redda s’addurmette cu ‘a zizza ‘mmocca e détte via libbera a Marchesi ca aspettaje ‘o Napule pe ssignà ‘a primma redda ‘ncampiunato. .
FERNANDEZ 5,5 – Assaje meglio cu ‘a difesa a cquatto (tutte ‘o ssanno ch’ è ‘nu centrale difenzivo all’antica),peccato ca ‘ncopp’â siconna redda se perdette a Berghessio.
ZUNIGA 5 – Affannaje ‘ncuntinuazzione pe ttutta ‘a partita. Sulo ‘nu paro ‘e jucate ‘ntelliggente; p’ ‘o riesto tutto fummo e nniente arrusto!
INLER 5,5 – ‘Nrecressione rispetto â partita cu ll’Udinese
SANTANA 4 – Facette pure ‘nu pare ‘e cose ‘nteressante, po smarrunaje malamente e s’abbuscaje ‘ngenuamente dduje cartelline jalizze. Nun po’ gghiucà a mmità ccampo... Sperimento falluto.
DOSSENA 5,5 ‘A fora d’ ‘a bbella ajuda ô pprincipio, quase nient’ ato; sparette troppo ampressa.
(dô 67', HASMSIK 5,5 – Trasette troppo tarde e nun riuscette a cumbinà niente).
MASCARA 5,5 - L'azzione d’ ‘o vantaggio napulitano fuje pure merito suĵo; po’, male assistito, sparette dâ partita...
( dô 49°DZEMAILI 5,5 - Pe sfurtuna e ‘mprecisione fallette ‘a redda d’ ‘o pareggio. Ajere avesse avuto jucà titulare).
LAVEZZI 5 – Poco o niente ‘ncisivo, poco o niente cuncreto, ce pruvaje assaje poco. Avesse pututo pure tirà ô mumento ‘e ll’urdema uccasiona sull'ultima occasione d’ ‘a partita, ma ll'ajuda pe Dzemaili era stata ‘ntelliggente.
CAVANI 6,5 – Redda sudàjena (repentina) ca servette a ppoco p’ ‘o risultato finale, ma ‘mpurtante p’ ‘o murale d’ ‘o guaglione; Mazzarri però ll’avesse fà capí ca ‘a posizziona soja è cchella ‘e primma ponta centrale e ca nun s’êss’ ‘a spumpà tanto a ccorrere pe ttutt’ ‘o campo!


All. MAZZARRI 4,5 - Partita assurda,ca nun sta ‘ncielo, nè ‘nterra e ppure sfurtunata. Aunestamente scegliere ‘e fà fà a Santana ‘o centrocampista centrale è stata cumpletamente sbagliata comme è stato ‘nfelice ‘a decisione ‘e tenerlo ‘ncampo doppo ca s’era abbuscato ‘o primmo cartellino jalizzo. Dzemaili avesse avuto partí isso titolare. Fà ‘o chiagnazzaro cu ‘e dichiarazzioni d’ ‘o post-partita è sballato e nun serve proprio a ‘stu mumento. N’ata enorme fessaria chella ‘e nun servirse ‘e Campagnaro ca serve ‘ndifesa e ‘mmiez’ ô campo!
l’arbitro CELI 5 Troppo pignuolo e punto e virgula, s’êsse pututo pure sparagnà ‘e duje cartelline jalizze (specie ‘o siconno!) a Ssantana ca nun êv’acciso a nnisciuno!
Ce sentimmo. Staveti bbe’!
R.Bracale Brak

sabato 29 ottobre 2011

VARIE 1452

1. STÀ A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: stare, essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione estrema di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'abblativo della locuzione è appunto l'ablativo, cioè l’ultimo caso delle declinazioni latine, caso che indica il luogo in cui o da cui avviene/proviene l'azione, lo strumento o il modo dell'azione, la causa ecc.; la denominazione di ablativo è stata estesa poi anche ai casi terminali delle declinazioni di altre lingue indoeuropee: ed ambedue le voci derivano dal lat. ablativu(m) (casum), deriv. di ablatus, part. pass. di auferre 'portare via'; nella voce napoletana abbiamo il tipico raddoppiamento rafforzativo espressivo della labiale esplosiva b;
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un movimento; stare, trovarsi, essere;
2. STÀ MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per traslato adiacente, collegato, unito espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato ad altro, ma anche traslato riferito a cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m) o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
3 CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA...
Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso ciò che avviene per le famose mele annurche che raccolte non ancóra completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della maturazione che rendono annurco=indulcato→annulca(t)o→annurco il frutto.
tiempo= tempo dal lat. tempus con tipica dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve: ie←ĕ;
paglia = paglia, l'insieme degli steli disseccati dei cereali già mietuti e battuti con etimo dal basso lat.palia(m) o palea(m), ma nel napoletano forse per il tramite del catalano palla (cfr. pronunzia paglia)
ammaturano= maturano voce verbale (3° pers. plur.ind. pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv. di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost. femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat. mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare= addolcire deriva la voce annurca secondo il percorso indulcata→annulcata→annurca(ta),come ò già indicato, quantunque qualcuno un po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è limite!

5. STAMMO ALL'EVERA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
6. HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: ÀI sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
7. FATTE CAPITANO E MAGNE GALLINE.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere un capitano e gòdine i benefici.
8 CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
9 A CHI PARLA ARRETO, 'O CULO LE RISPONNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salve di peti.
10 A CRAJE A CRAJE COMME Â CURNACCHIA.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non ha seria intenzione di lavorare .
11 CHELLO CA NUN SE FA NUN SE SAPE.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
12 'O PESCE GRUOSSO,SE MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande si mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è certamente lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande, checché ne dicano taluni arruffapopolo che blaterano di pretestuose lotte vittoriose condotte da poveri e deboli, accreditati di essere comandati da eroi senza macchia e senza paura… Sciocchezze! Gli eroi non esistono…
13 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
14 JÍ METTENNO 'A FUNE 'E NOTTE.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
15 SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
16 PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina âespleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.
17 PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova,adiacente l’attuale via Nuova Marina infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri partiti dal centro storico della città e diretti al Camposanto.
18 CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
BRAK

VARIE 1451

1-Fà scennere 'na cosa dê ccoglie 'Abramo.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si faccia eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid ( sia esso un'opera o una cosa) lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile o faticoso ottenimento accreditandone quasi la augusta provenienza.
fà scennere = far discendere voci verbali degli infiniti fà di fare forma sincopata del latino fa(ce)re l’infinito troncato fa è scritto fà preferito all’apocopato fa’ per evitare una possibile confusione con il fa’= fai 2° pers. sing. dell’imperativo dello stesso fare/fa; scénnere= scendere discendere, portar giú derivato dal latino (de)scendere, comp. di dí- 'de-' e scandere 'salire'; nella voce napoletana si è verificata la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
cosa= cosa, termine generico usato per indicare qualsiasi entità, concreta o astratta, che sia oggetto dell'attenzione di chi parla o di chi scrive e che riceve... sost. femm. derivato dal basso lat. causa(m)=cagione che produsse *cosa(m) ed il verbo *cosare usato in luogo di causare;
coglie= testicoli sostantivo femm. plur. del sing. coglia che dal neutro latino coleum (pl. colea inteso poi femm.) indicò (cosí come i greci koleòs e koleòn donde il latino coleum,) una borsa, un fodero e segnatamente quella dei testicoli, che finirono per assumere il nome della borsa che li conteneva
2 -Fà tre ffiche nove ròtele
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.
Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare il comportamento o - meglio - il vaniloquio di chi esagera e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere.
Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba rate/ ratl,trasformazione a sua volta della parola greca litra, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la litra divenne poi in epoca romana libra (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
tre agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a due unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 3, in quella romana da III: l’etimo è dal latino tre(s);
fiche sost. femm. plurale di fica che è il frutto del fico, frutto che invece in italiano è maschile: fico, come la pianta da cui deriva; l’etimo di fica (che in napoletano vale (alla medesima stregua della voce nordica figa) anche vulva, vagina con riferimento alla boccuccia, fenditura rosseggiante presente sulla base del frutto) è dal maschile latino ficus reso femminile; ficus è da collegarsi al greco phýo= produco a sua volta dall’ebraico phag il tutto a cagione della fecondità della pianta; il significato osceno è già presente nel greco sûkon che indica sia il frutto che la vulva;
nove agg. num. card. numero naturale corrispondente a otto unità piú una; nella numerazione araba è rappresentato da 9, in quella romana da IX con etimo dal latino nove(m);
ròtele sost. masch. plurale metafonetico di ruotolo= rotolo di cui ò già detto.
3 - Fà fetecchia:
I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che, giunto a maturazione , esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresí lo scoppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e piú in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine.
Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino: la voce esatta latina deverbale di foetere, che à dato fetecchia è un acc. lat. volgare feticula(m) per il class. foeticula(m).

4 – fettiare o fittiare
I verbi in epigrafe(per l’esattezza, però si tratta di un solo verbo, scritto con due grafie leggermente diverse) sono caduti completamente in disuso tanto da non esser riportati da alcun dizionario, ma fino agli anni ’60 dello scorso secolo ebbero un loro uso continuato soprattutto fra i giovani napoletani.
Essi verbi servirono ad identificare un’azione ben precisa: quella di sogguardare insistentemente una persona o anche solo un quid, in maniera però concupiscente fino a determinare fastidio nella persona guardata; in particolare i giovanotti che si fossero messi sulle piste di un’avvenente ragazza insistentemente se la fettiavano
fino a che la ragazza infastidita, o non cedeva alle non dichiarate, ma chiaramente sottintese, avances o non chiamasse a propria difesa un fratello, un cugino, un fidato amico che convinceva con le buone o le tristi il disturbatore esortato a fettiare altrove.Il verbo veniva usato anche nei riguardi di cose desiderate, ma – per mancanza di soldi – mai conquistate,; a mo’ d’es. dirò che in quegli anni se fettiavano un abito, un paio di scarpe, una cravatta, o anche l’intera vetrina di una pasticceria o trattoria.
Finita l’epoca della ritrosia delle donne, avendo raggiunta un po’ tutti una certa disponibilità economica e diventate, le ragazze, prede di facile caccia, è venuta meno la necessità di fettiare e con l’azione son caduti in disuso e nel dimenticatoio i verbi che la rappresentavano.
E passiamo all’etimologia; tenendo presente che in napoletano conserva anche il vocabolo fettíglie con il significato di noie, molestie e consimili, penso che sia per il sostantivo che per i due verbi in epigrafe si possa risalire al latino figere (colpire di lontano).giacché, specie per i due verbi la molestia si traduce solo nell’insistente sogguardare di lontano, non seguito da altre piú prossime azioni, un infastidire di lontano.


5- Chello ca nun se fa nun se sape o nun s’appura
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o pure le vivaci chiacchiere della gente diffondono le notizie e le propagano , per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo e solo il non fatto (sempre che non ci si trovi in presenza di malevole calunnie) non viene propalato e non si viene a sapere, né (appurato) cioè verificato;
chello = quello, ciò che pron. dimostrativo neutro che indica cosa lontana da chi parla e da chi ascolta, o cosa non presente della quale si sta parlando; l’etimo è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(d), propr. 'ecco quello; il maschile di detto pronome è chillo dal lat. volg. *(ec)cu(m) illu(m),mentre il femm. chella è dal lat. volg. *(ec)cu(m) illa(m),
sape = sa voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito sapere/sapé = sapere,venire a conoscenza, apprendere con etimo dal lat. volg. *sapíre, per il class. sapere 'aver sapore', poi 'essere saggio',
appura=, viene a conoscenza, si sincera voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito appurà=sapere,venire a conoscenza,sincerarsi, ricercare la verità di una cosa, controllarne l'esattezza; mettere in chiaro (e nel linguaggio tecnico: quadrare i conti) l’etimo è dallo spagnolo apurar= depurare→verificare.
6 -'O pesce gruosso, magna ô piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella se combattuta apertamente da un piccolo contro un grande.
pesce = pesce, animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo, usato nel proverbio a figurare l’individuo potente(gruosso) opposto al soggetto debole o di scarsa valenza economica- sociale (piccerillo) l’etimo è dal lat. pisce(m);
gruosso= grosso, che/chi à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione ecc.): ed estensivamente ricco, facoltoso, potente, importante agg. qual. masch. con etimo dal lat. tardo grossu(m) con normale dittongazione uo←o di sillaba intesa breve nel masch. e nel neutro (che peraltro, preceduto dall’art. ‘o prevede la geminazione della gutturale d’avvio: ‘o ggruosso=ciò che è grosso;) nel femm. grossa la dittongazione non avviene ;
magna = mangia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito magnà= mangiare, divorare anche in senso traslato, con etimo da una lettura metatetica del franc. manger da un lat. manducare;
a margine faccio notare come il successivo complemento oggetto del verbo a margine non sia introdotto dal semplice articolo determinativo ‘o (il) come càpita nella lingua italiana, ma è introdotto dalla prep. articolata ô = a+ ‘o(allo) in quanto la parlata napoletana, sulla scorta di un antico latino volgare parlato esige per i complementi oggetti (persone o esseri animati, ma non cose; es. aggiu visto a pàteto ( ò visto tuo padre), aggiu chiammato ô cane(ò chiamato il cane, ma aggiu pigliato ‘o bicchiere(ò preso il bicchiere) una a segnacaso che unita all’articolo di pertinenza del complemento oggetto determina una preposizione articolata ô = a+ ‘o(al, allo),â(= a + ‘a= alla ) ê (a +’e = a gli – alle);
piccerillo = piccolino, piccino, minuto, spec. per età, statura, dimensioni e per estensione debole, di scarsa valenza socio-economica; l’etimo della voce napoletana a margine è da un lemma fonosimbolico pikk (il medesimo che à dato piccino) con ampliamento della base attraverso un suffisso rillo ( o riéllo femm. rella – altrove reniéllo –femm. renèlla) che indica pochezza, parvità: es.: cusariéllo – cusarèlla (cosino,cosetta) panariello/panareniéllo (panierino) – picceréniello, piccerenèlla(piccino/a);
7 - 'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che , dalla disincantata osservazione della realtà, si deduce che nessuno fa del bene disinteressatamente; anzi chiunque faccia del bene ad un altro, in realtà mira certamente al proprio tornaconto che da tale azione apparentemente benefica gliene deriverà o potrà derivare prima o poi , come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci mangiare ingrassando al fine di togliergli la fame facendogli cosí del bene; infatti in realtà e fuor di vane illusioni, il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce (che sono emblematiche di tutti gli insaccati ed affini che dalla macellazione del maiale si posson ricavare)
puorco sost. masch. = maiale, porco , animale da ingrasso carne di maiale: salsicce di porco , figuratamente persona che fa o dice cose oscene; con funzione di agg. in imprecazioni o bestemmie, o anche come rafforzativo di tono pop. o volg,con etimo dal lat. porcu(m) con tipica dittongazione popolare nel masch. uo←o dittongazione che manca nel femm.: si à infatti puorco masch. ma porca femm.
‘ngrassa =ingrassa voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ‘ngrassà= ingrassare, impinguire, allevare all’ingrasso con etimo denominale da un lat.tardo in (illativo) + grassu(m), da crassus 'grasso', per incrocio con grossus 'grosso';
sacicce = salsicce sost. femm. plur. di saciccia, salciccia plurale di saciccia, tipico notissimo insaccato di carne di maiale; ; etimologicamente derivante da un tardo lat. salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare;
8 –Te pienze ca vaco mettenno 'a funa 'e notte?
Letteralmente: Pensi forse che io vada tendendo la fune di notte? Domanda retorica rivolta sarcasticamente nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, per significar loro che si è impossibilitati ad aderire alle loro esose richieste in quanto persone oneste non aduse ad andar tendendo funi di notte; la medesima espressione interrogativa la si usa anche nei confronti di tutti coloro che vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di costoro - bottegai e salariati – tende a significar loro che chi parla non si può certamente equiparare a quei masnadieri d’antan che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri. Va da sé che solo quei masnadieri potevano essere in possesso di tanto denaro, latronescamente fruito, con il quale far fronte alle esose richieste di bottegai, salariati e/o figlioli incontentabili.
te pienze = pensi tu? voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito penzà= pensare, opinare, supporre etc.con etimo dal tardo lat. pensare, intensivo di pendere 'pesare'; propr. 'pesare con precisione', poi 'ponderare, esaminare'normale in napoletano il passaggio di ns→nz;
vaco mettenno vado mettendo, mi occupo di mettere, porre locuzione verbale formata da vaco=vado (1° pers. sing. ind. presente) dell’infinito jí= andare con etimo dal latino ire; le forme(i’ vaco, tu vaje, isso va) che ànno come tema vac= vad sono derivate dal lat volgare vadere 'andare'come quelle italiane(vado,vai,va); mettenno= mettendo voce verbale (gerundio) dell’infinito mettere= mettere, porre, situare etc.
con etimo dallat. mittere'mandare' e 'porre, mettere';
funa= fune, corda, cavo sost. femm. dal lat. volg. *funa(m) per il class. fune(m);
‘e notte= di notte loc. avv. temporale dove ‘e= di sta per durante e notte è il sostantivo femminile indicante la parte del giorno solare, dal tramonto all'alba, in cui il sole rimane sotto l'orizzonte; l’etimo è dal lat. nocte(m) con assimilazione regressiva ct→tt.



9 - Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È un malevolo augurio che vale : Possa tu morire. Infatti per la zona della Loggia di Genova, , temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro antico e diretti al Camposanto, per cui augurare a qualcuno di passar per la Loggia di Genova (e non certo al sèguito d’un corteo funebre) equivaleva ad augurargli di decedere diventando il protagonista di quel transito per la Loggia di Genova;
puozze= possa tu voce verbale (2° pers. sing. congiunt. pres. con valore ottativo) dell’infinito puté= potere derivato dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su po°tens -e°ntis;

passà= passare, transitare voce verbale infinito passare/passà con etimo dal lat. volg. *passare, deriv. di passus 'passo';
loggia = loggia di per sé edificio o parte di edificio aperti su uno o più lati, con copertura sorretta da pilastri o colonne, ma anche, nel medioevo, tale edificio o piú edifici attigui come luogo di riunione di persone che esercitavano la stessa arte(loggia dei lanaioli) o appartenenti alla medesima consorteria (loggia massonica) o – ed è il nostro caso – appartenenti ad una stessa città di provenienza, nel nostro caso Genova, che in un determinato territorio della città,(loggia) per solito concesso in fitto, tenevano i loro traffici e commerci autoamministrandosi;attualmente la Loggia di Genova, ubicata un tempo a Napoli tra il c.d. Rettifilo e quello che poi sarebbe diventato il Borgo degli Orefici, non esiste piú ed il suo nome resiste solo oltre che nel detto in epigrafe, sulla tabella viaria di una stradina aperta dove un tempo vi fu la Loggia ‘e Genova;
loggia sost. femm. talvolta a Napoli, impropriamente sinonimo di terrazzo (la loggia napoletana come elemento architettonico in realtà è sempre scoperta,ubicata alla sommità del fabbricato, quasi mai con calpestio piastrellato ed è circondata su tre lati da un parapetto in muratura, mentre il terrazzo con impiantito calpestabile e piastrellato può essere anche coperto, sporgere da qualsiasi piano d’un fabbricato ed à una ringhiera in ferro non un parapetto in muratura) loggia etimologicamente è dal fr. loge, che è dal lat. tardo laubia(m), e questo dal francone *laubja 'pergola, chiosco';
Genova è la città marinara capoluogo della regione Liguria; un tempo fu una della quattro Repubbliche marinare d’Italia (Venezia, Pisa,Amalfi, Genova) ed ebbe notevoli rapporti d’affari con Napoli, dove un congruo numero di mercanti si stabilirono automministrandosi ed aprendo botteghe per i loro traffici e commerci, bettole e locande per avventori genovesi e/o napoletani, in un ben delimitato territorio (la Loggia di Genova) concesso (1503 circa) in fitto dal vicereame napoletano;
10 - Core cuntento â Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo partenopeo suole apostrofare ogni persona che faccia le viste d’esser perennemente spensierata e senza problemi propensa com’è , anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che, come ò detto, era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, territorio dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi; il medesimo appellativo se lo meritò uno scrittore nolano tale Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi appunto della Loggia de’ Genovesi dove stazionava la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli, e dove fu ideata da certi cuochi che vi aprivono osteria la cosiddetta genovese gustosissima salsa a base di cipolle e carne di manzo,salsa che doveva sostituire (nell’inteso degli ideatori) il ragú, salsa a base di carne di manzo e pomodoro (ortaggio che da taluno non venne súbito accettato come commestibile, ma solo come pianta ornamentale; la genovese non riuscí comunque a soppiantare il ragú e si dovette contentare d’affiancarlo, diventandola seconda salsa tradizionale della cucina partenopea; la cosa strana è che sebbene la genovese sia stata ideata da cuochi genovesi non amanti del pomodoro (ritenuto a torto poco commestibile in quanto velenoso!) a Genova la salsa è completamente sconosciuta e non è riuscita neppure ad affiancare il famosissimo pesto alla genovese. Ora qui di sèguito, segnalo la tradizionale ricetta della napoletana genovese.
Dosi per 6 persone
2 Kg cipolle dorate
1 Kg di Spezzato di manzo adulto (preferibilmente ricavato dalla pancia o dalla corazza)
o in alternativa 1 kg. di fette
di locena (soggolo) di manzo da cui ricavare involti (brasciole) imbottiti di uva passita, pinoli,cubetti di pecorino, prezzemolo tritato, sale, pepe nero e legati con spago da cucina
una carota
una costa di sedano
due bicchieri vino bianco secco
un bicchiere e mezzo di olio extravergine di oliva

Un pomodoro pelato (facoltativo)
sale fino e pepe nero macinato q.s.
600 gr. di rigatoni
1 etto di pecorino possibilmente laticauda grattugiato

Procedimento
Affettate a velo le cipolle, (piangerete per un po’, ma pazienza; dopo ne sarete contenti! ), mettétele in una pentola con la carne, l’olio, la carota e il sedano tagliati a cubetti, eventualmente il pomodoro spezzettato; coprite, e fate cuocere per un’oretta a fuoco vivace – le cipolle dovranno diventare trasparenti e dovrà evaporare tutto il liquido; solo quando la cipolle saranno abbastanza asciutte versate il primo bicchiere di vino bianco, questa volta a fuoco bassissimo, e fate cuocere per circa altri 40 minuti.

Versare l’altro bicchiere di vino, il sale e il pepe, e ripetere l’operazione precedente, tenendo il sugo a fuoco vivace per altri 50 minuti: (complessivamente il sugo dovrà stare al fuoco per un’ora e mezza!) facendo ben attenzione a non far attaccare il sugo alla pentola! se il sugo dovesse asciugarsi troppo, basterà aggiungere piccole ramaiolate di acqua bollente, correggendo eventualmente di sale.
Con questo sugo condite i rigatoni lessati al dente e mandateli in tavola spolverizzati di formaggio grattugiato e di abbondante pepe nero.
La carne la servirete come pietanza accompagnata da un’insalata verde o patate fritte.
Mangia Napoli, bbona salute!!!! e ringraziatemi.
Raffaele Bracale

VARIE 1450

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1 - QUANNO SI 'NCUNIA STATTE E QUANNO SI MARTIELLO VATTE
Letteralmente: quando sei incudine sta’ fermo, quando sei martello, percuoti. Id est: ogni cosa va fatta nel momento giusto, sopportando quando c'è da sopportare e passando al contrattacco nel momento che la sorte lo consente perché ci è favorevole.
quanno avv. di tempo = quando, in quale tempo, in quale momento, nel tempo in cui, nel momento in cui (con valore temporale), ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo), giacché, dal momento che (con valore causale), mentre (con valore avversativo) se, qualora (con valore condizionale, seguito dal verbo al congiunt.) derivato del latino quando con consueta assimilazione progressiva nd→nn;
‘ncunia sost. femm. = incudine con etimo da un aferizzato lat. volgare parlato *ancunia ed *incunia da collegarsi ad un lat. tardo incudine(m), deriv. di incudere 'battere col martello', comp. di in-(illativo) e cudere 'battere'; talvolta in napoletano, specialmente antico (Basile ed altri) in vece della voce a margine aferizzata ‘ncunia si trova il pretto latino volgare parlato ancunia senza variazioni di sorta;
statte = ad litteram: sta’/stai+ tu voce verbale (2° pers. sing. Imperativo ) dell’infinito stare/stà= fermarsi interrompendo un movimento; restare immobile, ma anche costare (es.: quanto sta?= quanto costa) ed anche accettare, prestar fede (es.: me stongo a cchello ca tu dice= presto fede a ciò che tu dici.) estensivamente: accettare sopportando con etimo dal lat. stare;
martiello sost. masch. = martello con etimo dal lat. martellu(m)=martulu(m) diminutivo di *martus sinonimo del classico marcus;
vatte =batti, picchia, percuoti voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito vàttere= picchiare, percuotere, colpire, percuotere con le mani o con un arnese; urtare con forza con etimo dal lat. tardo bàttere, per il class. battúere con consueta alternanza partenopea b/v.

2 - 'MMARCARSE SENZA VISCUOTTE.
Letteralmente:Imbarcarsi senza biscotti. Id est: agire da sprovveduti, accingersi ad un'operazione, senza disporre dei mezzi necessari o talvolta, senza le occorrenti capacità mentali e/o pratiche.
Anticamenti i pescatori che si mettevano in mare per un periodo che poteva durare anche piú giorni si cibavano di carni salate, pesci sotto sale e gallette o biscotti, preferiti al pane perché non ammuffivano, ed anche secchi erano sempre edibili ammollati nell'acqua anche marina non ancora inquinata.
‘mbarcarse/’mmarcarse = imbarcarsi voce verbale infinito riflessivo dell’infinito ‘mbarcà = imbarcare, salire da passeggeri o merci su di una nave, su di una imbarcazione e, per estens., anche su altri mezzi di trasporto; voce denominale di barca questa volta stranamente, senza la tipica alternanza partenopea b/v che rende barca→varca;
senza= senza, privi di, indica mancanza, esclusione, privazione (si unisce ai nomi direttamente e ai pronomi personali o dimostrativi mediante la prep.’e= di); l’etimo è dal lat. (ab)sentia, che all'ablativo significa 'in mancanza di'
viscuotte sost. masch. plur. di viscuotto= biscotto innanzitutto piccola pasta dolce a base di farina, zucchero, uova e varî altri ingredienti, a seconda delle forme e dei tipi, cotta a lungo in forno perché risulti asciutta e croccante, ma qui, piú acconciamente: pane cotto due volte perché sia conservabile a lungo; etimologicamente dal lat. biscoctu(m) 'cotto (coctum) due volte (bis)
con consueta alternanza di b/v, ed assimilazione progressiva di ct→tt.
3 -'O SPARAGNO NUN È MAJE GUARAGNO...
Il risparmio non è mai un guadagno..Le merci acquistate ad un prezzo palesemente inferiore a quello di mercato, il piú delle volte nascondono una magagna (difetto di fabbricazione nel caso di strumentazioni, specialmente elettroniche, prossimità della scadenza in caso di prodotti alimentari) di talché alla fine il preteso o atteso risparmio si tramuterà in una perdita secca quando occorrerà ricomprare la strumentazione difettosa, o buttare il prodotto alimentare per acquistarne di piú fresco, dimostrando la veridicità dell’assunto che cioè quasi sempre ciò che appare essere un profitto, è in realtà si è rivelato come una perdita, un passivo, una rimessa.
sparagno= risparmio, economia, profitto etimologicamente deverbale di sparagnà(= risparmiare, consumare con parsimonia ) che è forgiato su un antico italico * sparmiare che con l’anaptissi della a diede *sparamiare e con la variazione di mi→gn come in scigna←simia;
guaragno/guadambio sostantivo masch. = utilità ,frutto, vantaggio;
deverbale di guaragnà/guadagnà derivato dal francone *waidanjan, da waida 'pascolo'; propr. 'pascolare', quindi 'trarre un profitto; per la forma guadambio che è deverbale di guadambià,ci troviamo di fronte ad una voce frutto di un fuorviante ipercorrettismo popolare che attesa erronea la desinenza agno di guadagno/guaragno, ipotizzò di renderla migliore mutandola in un ambio inteso piú elegante di agno.
4 - S'À DDA FÀ 'O PÍRETO PE CQUANTO È GGRUOSSO 'O CULO.
Becero, ma icastico consiglio che letteralmente è : occorre fare il peto secondo la grandezza dell'ano. In forma meno cruda, a senso può rendersi: occorre fare il passo per quanto è lunga la gamba (evitando strappi muscolari o dei pantaloni!)Id est: bisogna commisurare le proprie azioni alle proprie forze e capacità fisiche e/o morali, evitando di eccedere per non incorrere o in brutte figure o in pessimi risultati. Nell’inteso partenopeo la brutta figura preconizzabile o i pessimi risultati producili, nel caso di ostinarsi a far peti piú vasti del proprio deretano, sarebbero rappresentati dall’imbrattamento dei vestiti operato dalle proprie feci emesse in uno con gli ampi peti eccedenti le possibilità fisiche, o – per traslato – qualsiasi altro effetto negativo prodotto dalle azioni eccedenti di chi operasse al di là delle proprie possibilità o facoltà.
s’à dda fà ad litteram è: si à da fare che è il modo napoletano di rendere il si deve fare, occorre fare; si à è la voce verbale impersonale (3° pers. sing. indicativo presente) dell’infinito avere/avé = avere, tenere, possedere ma in unione con la preposizione semplice da id est: avere ‘a = avere da vale dovere, occorrere; avere/avé etimologicamente è dal lat. habére da una radice indo-europea sah= hab= tenere; nel napoletano c’è la tipica alternanza b/v ed aferesi dell’aspirata d’avvio h intesa superflua ed inutile;
fà = fare infinito della voce verbale fare/fà con etimo dalla sincope del latino fa(ce)re; chiarisco qui che molti scrittori napoletani usano scrivere in napoletano l’infinito a margine: fa’ con una forma apocopata che non ritengo esatta: il monosillabo fa’ può anche adombrare la 2° pers. sing. dell’imperativo apocopato di fare e cioè: fai= fa’; preferisco per ciò usare per l’infinito la forma tronca fà forma omologa di quasi tutti gli infiniti dei verbi napoletani che risultano apocopati, ma tonicamente accentati sulla sillaba finale (es.: mangià=mangiare, campà=campare, saglí = salire, sentí = sentire, cadé= cadere;etc. );
píreto sost. masch. = peto, emissione gassosa intestinale, rumorosa, ma raramente fetida al contrario della loffa, emissione gassosa intestinale, silenziosa, ma olfattivamente tremenda; etimologicamente pireto è dal lat. peditum deriv. di pedere ' fare scorregge', mentre loffa è da collegarsi al tedesco luft/loft= aria;
pe cquanto locuz. avverbiale con vari valori: concessivo, limitativo (ed è il ns. caso)= per quanto, nella misura in cui, limitatamente a;
quanto etimologicamente è dal lat. quantum;
gruosso aggettivo qualif.= grosso, che à dimensioni notevoli (per volume, capacità, spessore, corporatura, estensione) con etimo dal tardo latino grossu(m) tipica la dittongazione uo←o nella sillaba d’avvio intesa breve;
culo sost. masch. culo, sedere, deretano ed estensimamente fondo di un sacco, fondo di un recipiente di vetro: il culo di un fiasco, di una bottiglia, culi di bicchiere; etimologicamente dal tardo latino culu(m) da un greco koîlon e kolon (intestino).
5 - CHI SE METTE CU 'E CRIATURE, CACATO SE TROVA.
Letteralmente: chi intrattiene rapporti con i bambini, si ritrova sporco d'escrementi. Id est: chi entra in competizione con persone molto piú giovani di lui o intrattiene rapporti con persone non particolarmente serie, è destinato a fine ingloriosa; per solito chi contratta con i bambini dovrà sopportarne le amare conseguenze, derivanti dalla naturale mancanza di serietà ed immaturità dei bambini, la medesima immaturità che denotano coloro che non ànno serietà di comportamento o di pensiero.
mette = mette,ma pure intrattiene rapporti, contratta; voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) dell’infinito mettere= mettere, porre ma pure, come qui intrattenere rapporti, contrattare con etimo dal lat. mittere 'mandare' e 'porre, mettere';
criature esattamente sost. plurale di criaturo/ra= bambino/bambina; il plurale criature che in napoletano vale sia per il maschile che per il femminile con la sola differenza che preceduto dall’art. determ. plurale, il maschile ‘e (i) criature= i bambini si scrive con la c scempia, mentre il femminile ‘e (le) ccriature= le bambine vuole la c geminata; rammenterò che nel caso del proverbio in epigrafe è stato usato il termine maschile ‘e criature, inteso termine generico indicante un determinato lasso di età, onnicomprensivo dei maschi e delle femmine e non dei soli bambini maschi;
cacato di per sé cacato, defecato ma qui vale lordato, sporco d’escrementi e per traslasto perdente, sconfitto; voce verbale (part. passato aggettivato masch.) dell’infinito cacare/cacà che è dal basso latino cacare;
se trova = si trova, ne ricava voce verbale (3° p.sing. indicativo presente) dell’infinito truvar-se= riceverne, ricavarne, ottenerne;
incerto l’etimo del verbo truvà ; quasi tutti concordemente parlano di un lat. volg. *tropare= esprimersi mediante tropi, dal class. tropus 'tropo' (qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio a un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia ecc.), ma io reputo piú semanticamente esatta e quindi perseguibile l’idea che l'etimo sia dal lat. volg. *truare propriamente rimestare in un brodo quasi andando alla ricerca di qualcosa; tipico del napoletano la epentesi eufonica di una consonante (qui v) donde *truare→truvare ;


6 - MO ABBRÚSCIALE PURE 'A BBARBA E PPO DICE CA SO' STAT' IO!
Letteralmente: Adesso àrdigli anche la barba e poi di' che sono stato io... La locuzione viene usata con gran risentimento da chi si voglia difendere da un'accusa, manifestamente falsa.
Si narra che durante un'Agonia (predica del venerdí santo)un agitato predicatore brandendo un crocefisso accusava, quasi ad personam, i fedeli presenti in chiesa dicendo volta a volta che essi, peccatori, avevano forato mani e piedi del Cristo, gli avevano inferto il colpo nel costato, gli avevano calzato in testa la corona di spine lo avevano flaggellato con i loro peccati e cosí via. Nell'agitazione dell'eloquio finí per avvicinare il crocefisso in maniera maldestra ad un cero acceso correndo il rischio di bruciare la barba del Cristo. Al che, uno dei fedeli lo apostrofò con la frase in epigrafe, entrata a far parte della cultura popolare...
mo avv. di tempo =ora, adesso, in questo momento ed anche talora, come nel caso in esame, nel significato estensivo di anche, in aggiunta; la maggior parte degli addetti ai lavori fa derivare l’avverbio da quello latino modo= ora, adesso e qualche vocabolarista della lingua italiana dove il napoletano mo vi è pervenuto negli identici significati di ora, adesso, in questo momento , è costretto a scriverlo mo’ con il segno dell’apocope indicante la caduta della sillaba do, incorrendo però fatalmente nella confusione tra il mo’ avverbio di tempo ed il mo’ s. m. troncamento del sostantivo modo, usato solo nella loc. a mo' di, a guisa di, in funzione di: a mo' d'esempio; per non incorrere in simili confusioni preferisco ritenere il mo avv. nap. a margine, derivato dall’avv. latino mox con caduta della sola consonante x , caduta che non necessita di alcun segno diacritico come avviene anche per co/cu(con) derivato di cum o pe (per) e ciò a malgrado si ritenga che, secondo le regole della glottologia, la caduta di una consonante doppia x=cs dovrebbe pur lasciare un residuo, fosse anche un segno diacritico, ma le eccezioni esistono proprio perché vi son le regole!;
abbrúsciale= brucia+gli voce verbale (2° per. sing. imperativo) (addizionata in posizione enclitica del pronome obliquo le=gli, a lui )
dell’infinito abbruscià=bruciare, ardere che è dal latino volgare *adbrusiare→abbrusiare→abbrusciare rafforzativo di brusiare;
pure congiunzione =nondimeno, eppure, al fine di (introduce una prop. finale implicita con il verbo all'inf.)
oppure avverbio= anche (con valore aggiuntivo), proprio, davvero (con valore asseverativo) derivato dal lat. pure 'puramente, semplicemente' e anche, nel lat. tardo, 'senza riserve, senza condizione;
barba sost. femm.= barba l'insieme dei peli che crescono sulle guance e sul mento dell'uomo; per estens., i peli del muso di alcuni animali dal latino barba(m); talora in napoletano con tipica alternanza b/v si trova pure varva e si tratta dello stesso sostantivo;

po/ppo= poi, in seguito, dopo, appresso avv. di tempo dal lat. po(st); la caduta delle consonanti, come ò ricordato, non necessitano in napoletano di segni diacritici d’apocope, in questo caso poi anche inutile perché in napoletano esiste già un po’ ma è l’apocope, ovviamente sillabica di po(te)= puó 3° p. sg. ind. pres. di puté ;
dice= dici, di’ voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito dícere dal latino dicere;
ca cong. ed altrove anche pronome relativo= che con etimo dal latino q(ui)a; come pronome deriva dal lat. quid;
so’ stato/songo stato = sono stato voce verbale (1° pers. sing. pass. pross.) dell’infinito essere dritto per dritto dal lat. volg. *essere, per il class. esse.

7 - PUOZZ'AVÉ MEZ'ORA 'E PETRÏATA DINTO A 'NU VICULO ASTRITTO E CA NUN SPONTA, FARMACÍE NCHIUSE E MIERECE GUALLARUSE!
Imprecazione divertente, ma malevola, se non cattiva, rivolta contro un inveterato nemico cui, con spirito esacerbato, si augura di sottostare ad una mezz'ora di lapidazione subíta in un vicolo stretto e cieco, (che non offra cioè possibilità di fuga) e a maggior cordoglio gli si augura di non trovare farmacie aperte e di imbattersi in medici erniosi e pertanto lenti a prestar soccorso.
puozz’ avé = possa avere id est: possa subire; puozze= possa voce verbale (2° pers. sing. cong. pres.) dell’infinito puté =potere, avere la forza, la facoltà, la capacità, la possibilità, la libertà di fare qualcosa, mancando ostacoli di ordine materiale o non materiale che lo impediscano; nell’espressione a margine puozze vale ti auguro; l’etimo di puté/potere è dal lat. volg. *potíre (accanto al lat. class. posse), formato su potens -entis; avé= avere e molti altri significati positivi come: conseguire, ottenere; ricevere; entrare in possesso o negativi come: subire; per l’etimo vedi sopra;
petrïata/petrata sost.vi femm diversi l’uno dall’altro: letteralmente la voce petrata è la sassata,il tiro e il colpo di una singola pietra, mentre con la voce petrïata si intende una prolungata gragnuola di colpi di pietra, quasi una lapidazione; anticamente a far tempo dalla fine del ‘500, a Napoli soprattutto in talune zone della città quali Arenaccia, Arena alla Sanità, San Carlo Arena,san Giovanni a Carbonara ricche di detriti sassosi, residuali di piogge che trasportavano a valle terriccio e sassi provenienti dalle alture di Capodimonte, Fontanelle etc. o, nelle stagioni secche, residui di fiumiciattoli (es. Sebéto) in secca si svolgevano, tra opposte bande di scugnizzi e/o bassa plebaglia, delle autentiche battaglie(petrïate o guainelle) a colpi di pietre e sassi con feriti spesso gravi; ai primi del ‘600 tali battaglie divennero cosí cruente che i viceré dell’epoca furono costretti ad emanar prammatiche, nel (peraltro) vano tentativo di limitare il fenomeno… Si ricorda una divertente espressione in uso tra i contendenti di tali petrïate: Menàte ‘e grosse, pecché ‘e piccerelle vanno dint’ a ll’uocchie! (Tirate le (pietre) grandi, giacché quelle piccole vanno negli occhi!).
Etimologicamente sia petrata che petrïata sono un derivato metatetico di preta metatesi del lat. . petra(m), che è dal gr. pétra; nella voce petrïata generata dopo petrata si è avuta l’anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico o tra una consonante ed una vocale; epentesi vocalica) di una i durativa allo scopo di espander nel tempo il senso della parola d’origine;l’anaptissi di questa i à determinato altresí la ritrazione dell’accento tonico e si è avuto petrïata→petríata in luogo di petriàta;
dinto (a) = dentro (ad) avverbio e prep. impropria dal basso lat. de intus; da notare che in napoletano, come prep. impropria, dinto debba sempre essere accompagnata dalla prep. semplice a o dalle sue articolate â = a + ‘a (alla ) ô= a + lo ( al/allo) ê= a + i/a + le (ai/alle) per modo che si abbia ad es. dint’ ô treno (dentro al treno ) di contro il corrispondente italiano dentro il treno. La medesima cosa càpita come alibi dissi per ‘ncoppa (sopra) ,sotto (sotto), ‘mmiezo (in mezzo) fora (fuori) ed ogni altro avverbio e/o preposizione impropria;
viculo = vicolo, vico via molto stretta e di secondaria importanza, in un centro urbano ; l’etimo è dal lat. viculu(m), dim. di vicus;
astritto o astrinto agg. qual. masch. stretto, poco sviluppato nel senso della larghezza; non largo, non ampio; angusto; l’etimo è dal lat. *a(d)strictus part. pass. di un *a(d)stringere, rafforzativo di stringere;
ca nun sponta letteralmente: che non sfocia in altra strada cioè: vicolo (stretto e) cieco; sponta =sfocia voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito spuntà= sbottonare, spuntare, comparire all’improvviso,sfociare; in primis spuntare con etimo dal latino *ex-punctare vale toglier la punta, metter fuori la punta ed il senso di spuntare, comparire all’improvviso,sfociare deriva dal fatto che chi spunta (appare), compare all’improvviso o sfocia in qualche luogo proveniente da un altro, non lo fa di colpo, ma paulatim et gradatim quasi mettendo fuori innanzi tutto la propria punta e poi il resto del corpo; ugualmente il senso di sbottonare è dato dal fatto che il bottone vien fuori dall’asola prima per la parte limitrofa(punta.) poi tutt’intero;
farmacíe sost. femm. plurale di farmacía che in napoletano, piú restrettivamente del corrispondente italiano,( dove con derivazione dal greco pharmakéia 'medicina, rimedio', da phármakon 'farmaco'si intende l'insieme degli studi e delle pratiche che ànno per oggetto le proprietà, l'uso terapeutico e la preparazione dei medicinali) si intende, derivato dal francese pharmacie esclusivamente il locale destinato alla vendita e, soprattutto nel passato, anche alla preparazione dei medicinali;
nchiuse agg. plur. femm. = chiuse, serrate, strette etimologicamente trattasi del part. pass. aggettivato femm. del verbo nchiurere= chiudere, ostruire, sbarrare, impedire un accesso; bloccare un passaggio con etimo dal basso latino cludere, per il class. claudere; faccio notare come nel verbo napoletano nchiurere si è avuta la consueta trasformazione di cl→chi come altrove ad es.: chiesia←(ec)clesia, chiuovo←clavus etc, la tipica rotacizzazione mediterranea d→r e la protesi di una n eufonica che non va marcata con alcun segno diacritico (‘n) in quanto essa n non è l’aferesi di in, ma solo una consonante eufonica come nel caso di nc’è= c’è, ragion per cui erra chi dovesse scrivere la voce a margine ‘nchiuse da un inesatto ‘nchiurere atteso che , come ò detto, nchiurere deriva da n(eufonica)+ cludere non da in(illativo)→’n+cludere;
mierece sost. masch. plurale di miedeco/miereco= medico, chi professa la medicina avendo conseguito il titolo accademico e l'abilitazione all'esercizio della professione; l’etimo è dal lat.medicu(m), deriv. di medíri 'curare, soccorrere'con dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve ie←e, e rotacizzazione mediterranea d/r;
guallaruse agg. masch. plur. di guallaruso= affetto da ernia probabilmente inguinale tale da limitare il movimento deambulatorio; la voce a margine (che è maschile, come dal suff. use plurale di uso, il femminile avrebbe avuto il metafonetico suff. ose pl. di osa) è un derivato del sostantivo guallera(= ernia) che è dall’arabo wadara.
8 -JÍ ASCIANNO OVA ‘E LUPO E PIETTENE ‘E QUINNECE.
Ad litteram: andar cercando di uova di lupo e pettini da quindici (denti) id est: impegnarsi in ricerche assurde , faticose, ma vane come sarebbe l’andare in cerca di uova di lupo che – mammifero - è un animale viviparo e non deposita uova,oppure cercare pettini di quindici denti, laddove tradizionalmente i pettini da cardatura non ne contavano mai piú di tredici.Cominciamo a rammentare ai piú giovani, che un tempo – quando non esistevano materassi ortopedici e/o in lattice, quelli in uso erano dei sacconi di cotone riempiti di lana ovina, lana che periodicamente occorreva smuovere, lavare e pettinare (cardare) in profondità per ridarle volume e morbidezza; tale operazione consistente, come détto nel parallelizzare le fibre tessili in fiocco, naturali (p. e. lana, cotone, canapa) o artificiali (p. e. raion), era fatta da tipici operai, detti lanaioli o cardatori che all’uopo si servivano di uno strumento dentato detto scardasso o in origine della pianta di cardo (dal lat. tardo cardu(m), per il class. carduus) le cui infiorescenze uncinate si usavano appunto per cardare la lana; la pianta cardo cedette il nome all’azione cardare; dismesso l’uso del cardo, i lanaioli napoletani presero a servirsi prima che dello scardasso (attrezzo a forma di cavalletto in cui due serie di punte d'acciaio, una delle quali montata su una parte mobile azionata a mano, provvedono alla sfioccatura delle fibre tessili; voce derivata di cardo con protesi di una s intensiva ed un suffisso dispregiativo (l’attrezzo fu brutto da vedersi e – se non usato con cautela – spesso produceva danni ai fiocchi cardati, strappandoli anzi che pareggiarli) asso per accio), di particolari pettini fabbricati all’uopo, pettini che in Campania ( e segnatamente a Napoli) non contavano mai piú di tredici denti.
jí ascianno letteralmente andar cercando locuzione verbale formata dall’infinito jí= andare (dal lat. ire) e dal gerundio ascianno = cercando dell’infinito asciare/ascià=cercare con insistenza ed applicazione; l’etimo di ascià potrebbe essere da un lat. volg. *anxiare(ansimare, anelare) denom. di *anxia; ma preferisco l’ipotesi che ascià derivi dal tardo lat. *adflare (annusare) verbo nel quale è riconoscibile il digramma fl che in napoletano è sempre sci (es.: sciore←flos,sciummo←flumen, scioccele ←flacces etc. ) da a(d)flare→aflare→asciare;
ova sost. neutro plur. di uovo da un lat. volg. òvu(m) per il class. óvu(m); in napoletano il plur. ova giustamente perde la u del dittongo mobile uovo laddove in italiano ( l’uovo – le uova) essa u viene conservata, ma non se ne comprende il motivo.
lupo sost. masch.= lupo, mammifero carnivoro selvatico simile al cane, che vive prevalentemente in branchi ed è caratterizzato da muso aguzzo, orecchie grandi ed erette, pelame folto; la femmina, che da mammifera non depone uova, genera vivipari; l’etimo di lupo è dal lat. lupu(m) per *vlupu(m),*vlucu(m) che come il greco lýkos, * vlýkos il gotico vulfas, l’ant. ted. wolf ed altre lingue son tutti riconducibili alla radice vark o valk/vlak= strappare, lacerare;
piéttene sost. masch. plur. di pèttene= pettine, arnese di materiale vario, costituito di una serie di denti piú o meno fitti innestati su una costola che serve da impugnatura; è usato per mettere in ordine capelli o pelame similare; quello usato dai cardatori non contava mai piú di tredici denti.
la voce pettene sing. di piettene (in cui è da notare la tipica dittongazione ie di un’iniziale e intesa breve, con successiva chiusura della é in sillaba tonica del maschile plurale dell’aperta tonica è del singolare; es.: ‘o scèmo – ‘e sciéme, ma se femm.: ‘a scèma – ‘e scème; ) etimologicamente è dall’acc. lat. pectine(m) deverbale di pectere 'pettinare' con tipica assimilazione regressiva ct→tt ;
quinnece agg. numerale cardinale = quindici dal lat. quindece(m), comp. di quinque 'cinque' e decem 'dieci'nella voce napoletana si è avuta la tipica assimilazione progressiva nd→nn.
Raffaele Bracale