sabato 28 febbraio 2009

ACCATTARSE ‘O CCASO.

ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe bisogna intenderlo nel suo primo significato etimologico di portar via dal latino: adcaptare iterativo di capere (prendere).
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente o una metaforica esca approntatagli, ma se ne riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.
brak

A STRACCE E PETACCE

A STRACCE E PETACCE
Ad litteram: A stracci e brandelli; locuzione usata per indicare sarcasticamente tutte le azioni fatte in modo discontinuo, con scarsa applicazione, a morsi e bocconi, azioni che lasciano presagire risultati pessimi.
stracce s. m. plurale di straccio= pezzo di tessuto logoro, riutilizzabile industrialmente per la fabbricazione di carta e tessuti o impiegato in usi domestici per pulire e spolverare (in quest'ultimo caso, anche come prodotto commerciale specificamente fabbricato a tale scopo); nella loc. ‘nu straccio ‘e, (fam.) per indicare cosa o persona qualsiasi, di poco conto: nun tène ‘nu straccio ‘e vestito ‘a metterse ‘ncuollo=addosso; ‘nu straccio ‘e marito, ‘e mugliera; nun tene neppure ‘nu straccio ‘e amico pe se cunfidà; spec. pl. indumento logoro e dimesso: jí in giro vestuto ‘e stracce.
quanto all’etimo, straccio è un deverbale di stracci-are/à che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tractus, part. pass. di trahere 'trarre';
petacce s.f. plurale di petaccia = cencio, brandello, straccio ed estensivamente abito di tessuto logoro; piú in generale con tutte le accezioni del precedente straccio, ma con valore accresciuto nel negativo: cchiú ca ‘nu straccio era ‘na petaccia!
quanto all’etimo, petaccia appare a taluno un derivato dello spagnolo pedazo= pezzo ma a mio avviso non è errato vedervi un derivato del lat. volg. *pettia(m), di origine celtica = pezza secondo il seguente percorso morfologico: pettia(m)→pet(ti)a(m) + il suff. dispregiativo aceus/a→accio/a; tuttavia è anche ipotizzato un lat. volg. *pitacium accanto al classico pittacium/pittacia= cencio, brandello. C’è da scegliere, quantunque a me piaccia la derivazione dal lat. volg. *pettia(m).
raffaele bracale

‘A STAGGIONA (l’estate)

‘A STAGGIONA (l’estate)
A prima vista potrebbe sembrare strano il fatto che la lingua napoletana renda il toscano estate con il termine staggione anzi staggiona (correttamente scritto con la doppia G, come del resto tutte le parole del napoletano che terminano in zione,gione parole che invece il toscano rende con la consonante scempia) riferendo cioè all’estate il generico termine stagione usato in toscano per indicare uno qualsiasi dei quattro periodi di tempo in cui si è soliti suddivider l’anno e cioè ciascuno dei quattro periodi, di tre mesi ognuno, in cui i solstizi e gli equinozi suddividono l'anno solare; se si esamina un po’ più attentamente dal punto di vista etimologico, la parola stagione (staggiona/e in napoletano) ci si renderà conto che il fatto non è affatto strano, anzi il napoletano nel definire staggiona la sola estate, si dimostra alquanto piú preciso della lingua toscana; vediamo infatti che la parola stagione è dal lat. statione(m), propr. 'luogo e/o tempo di sosta', con riferimento alle apparenti soste del sole agli equinozi e ai solstizi; dalla medesima statione(m) latina il napoletano trae la sua staggiona intesa come tempo di sosta e riposo e quale periodo piú adatto dell’estate per prendersi una sosta o un riposo della fatica?
Di per sé infatti la parola estate dal lat. aestate(m), che in origine significava calore bruciante, come aestus da collegarsi al greco aìthos= calore, non richiama alla mente che il solo caldo fastidioso, non la piacevole sosta del napoletano staggiona.
Raffaele Bracale

‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO

‘A MONACA D’’O BBAMMENIELLO

‘A monaca d’’o Bbammeniello: ògne nove mise, fasciatóre e savaniello!
Antichissima desueta espressione che tradotta letteralmente suona:La monaca del Bambin Gesú: ogni nove mesi fasce e sottofasce; espressione che fino a tutti gli anni cinquanta fu usata con sarcasmo nei confronti di spose eccessivamente prolifiche ed usata altresí, per traslato giocoso, nei confronti di chiunque che, per colpevole iperattività in qualsivoglia campo d’azione, necessitasse di aiuti continui. L’espressione nacque in àmbito popolare con malevola cattiveria, chiamando in causa le pie Suore del Bambino Gesú, dell’omonimo Istituto Suore del Bambino Gesú sito in Napoli in san Giovanni Maggiore Pignatelli a ridosso dell’Università degli Studi in pieno centro storico; l’istituto era nato (per opera di un tal Nicola Barrè dell’Ordine dei Minimi di s. Francesco di Paola, noto professore di teologia e Bibliotecario a Parigi) in Francia nel 1666,(con il fine dell’assistenza ed istruzione di bambini, ragazzi/e bisognosi) e solo nel 1906 era approdato in Italia,dapprima nel Bergamasco e poi si era esteso , rispondendo agli appelli della Chiesa Italiana, con molte comunità in Calabria , nelle periferie di Roma, nel centro storico di Napoli ed in diversi luoghi della regione campana , dove le pie suore stavano accanto ai bambini, alle famiglie in difficoltà , condividendo la vita delle persone semplici. e distinguendosi per la catechesi e l’istruzione di tutti i ragazzi/e e facendosi amare per la loro presenza fattiva nei confronti di tutti coloro che ne avevano bisogno; tra coloro che si mostravano bisognosi di aiuto vi furono i primis le ragazze traviate che, per essere assistite, venivano spesso accolte nell’istituto (dove ricevevano accanto ad una migliore istruzione anche un avviamento ai lavori donneschi) e poiché moltissime di esse vi entravano da gravide, diventando madri nell’istituto, si diffuse l’infame credenza che i bimbi generati lo fossero stati, non dalle ragazze madri accolte nell’istituto, ma dalle stesse monache del Bambino Gesù e si coniò persino, con inusuale cattiveria,(per un popolo come il napoletano sempre paziente e comprensivo difronte ai casi della vita...), si coniò persino l’espressione in epigrafe con la quale si fa riferimento al continuo sciorinio di fasce e sottofasce imbandierate alle finestre del’Istituto.
monaca s.f. suora, appartenente a un ordine monastico femminile; voce che è dal lat. tardo monacha(m), che è dal gr. monaché;
fasciatóre s. f. plurale di fasciatóra =fascia per neonato, striscia di tessuto robusto usata un tempo per avvolgere strettamente i neonati; quanto all’etimo si tratta di un deverbale di fasciare (dal lat. tardo fasciare ) aggiungendo al part. pass. fasciato il suff. ora→ura usato per ottenere dei sostantivi verbali;
savaniello/ savanella s. m.o f. sottofascia, topponcino, pannolino in cui avvolgere il bacino del neonato prima fasciarlo; quanto all’etimo si tratta di un derivato dello spagnolo sabanilla; da notare che la voce savaniello maschilizzazione dell’originaria savanella fu coniato per indicare un pannolino alquanto piú piccolo della corrispondente voce femm.le savanella che indicò un pannolino piú ampio secondo il noto criterio che in napoletano considera femminile un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande, carretto piú piccolo – carrettapiú grande etc.)
raffaele bracale

‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO TIRITEPPETO

‘A FUNICELLA CORTA E ‘O STRUMMOLO TIRITEPPETO
ad litteram: la cordicella corta e la trottolina scentrata e ballonzolante. Piú esattamente a Napoli s’usa dire: s’è aunita ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppeto, ovvero: si sono uniti, in un fallimentare connubio, una cordicella troppo corta per poter imprimere con forza la necessaria spinta al movimento rotatorio dello strummolo a sua volta scentrato o con la punta malamente inclinata tale da conferire un movimento non esatto per cui la trottolina s’inclina e si muove ballonzolando e producendo un suono del tipo tirití-tirité donde per onomatopea il napoletano tiriteppeto;
strummolo s.m. trottolina lignea in forma di piccola pigna, con scanalature incise lungo tutta la superficie, disposte parallelamente dal fondo alla punta nella quale è infissa una punta metallica; per azionare la trottolina e farla prillare vorticosamente si arrotola strettamente una cordicella facendole seguire il percorso delle scanalature dalla base al vertice; si lancia verso terra la trottolina e si dà un deciso strappo alla cordicella che se è sufficientemente lunga riesce ad imprimere un duraturo moto rotatorio alla trottolina che se à la punta ben centrata e non inclinita rispetto all’asse della trottolina, regge il moto adeguatamente.
la voce strummolo à un’etimologia greca derivando dritto per dritto dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus con consueta assimilazione progressiva strummus da cui con il suffisso diminutivo olus, strummolo con il suo esatto significato di trottolina.
brak

venerdì 27 febbraio 2009

VARIE 122

1. Addó maje?
adlitteram: dove mai?
Domanda retorica che si suole rivolgere ai responsabili di azioni discutibili se non ripropevoli, per indurli a recedere dal loro comportamento ritenuto non esistente in nessun altro luogo e tanto sbagliato da doversi necessariamente evitare.
addó = dove? avv. in quale luogo (in prop. interrogative dirette e indirette, e talora in prop. esclamative): addó vaje?; addó maje s’è annascuso?; chissà addó è gghiuto..
dal lat. ad+ de ubi→addo(ve)→addó;
maje avv. nessuna volta, in nessun tempo, in nessun caso; normalmente rafforza una negazione, posponendosi al verbo: nun l’ aggiu maje liggiuto= non l’ò mai letto; nun à maje telefonato né m’à maje scritto =non à mai telefonato né mi à mai scritto; nisciuno l'à maje visto= nessuno l'à mai visto; dal lat. magis con caduta della sibilante, epitesi di una semimuta finale, caduta della gutturale ed epentesi del suono di transizione j .
2. Â ‘ntrasatta
ad litteram: all’improvviso detto di cose che accadono inaspettatamente, senza che nulla lo lasci prevedere, nel bel mezzo di altri avvenimenti proprio secondo la traduzione ad litteram del latino: intra res acta da cui scatuisce ‘ntrasatta della locuzione in epigrafe.
3. Â casa d’’o ferraro, ‘o spito ‘e lignammo.
ad litteram: in casa del fabbro, lo spiedo è di legno; locuzione usata ad ironico commento di tutte quelle situazioni nelle quali, per accidia o insipienza dei protagonisti vengono a mancare elementi che invece si presupponeva non potessero mancare e ci si deve accontentare di succedanei spesso non confacenti.
4. ‘A carna tosta e ‘o curtiello scugnato.
ad litteram: la carne dura ed il coltello senza taglio. Icastica locuzione che si usa a dolente commento di situazioni dove concorrano due o piú elementi negativi tali da prospettare un sicuro insuccesso delle operazioni intraprese. Altrove per significare la medesima cosa s’usa l’espressione illustrata alibi: ‘A funicella corta e ‘o strummolo tiriteppeto

5. Accussí à dda jí
Ad litteram : cosí deve andare; fatalistica espressione con la quale a Napoli si suole accettare tutte quelle situazioni che non possono essere eluse o evitate e alle quali perciò bisogna - sia pure obtorto collo - soggiacere.Talvolta per completamento della frase in epigrafe ed a significare un totale abbondono in un Ente supremo che, si pensa, muova tutti gli accadimenti umani, si aggiunge un religioso e rassegnato e accussí sia ( e cosí sia).
6. Accussí va ‘o munno
Ad litteram: cosí va il mondo: espressione analoga alla precedente, ma con un piú marcato senso di impotenza davanti alla ineluttabilità di taluni avvenimenti.
7. Avimmo perduto 'aparatura e 'e centrelle.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature o apparature (etimologicamente deverbale d’un basso latino ad+ parare =addobbare; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliassero, fino a distruggerli gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini o bullette(in napoletano centrelle dal greco kéntron= chiodo) usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
8 A stracce e petacce
Ad litteram: A stracci e brandelli; locuzione usata per significare tutte le azioni fatte in modo discontinuo, con scarsa applicazione, a morsi e bocconi, azioni che lasciano presagire risultati pessimi.
stracce s.m.pl. di straccio letteralmente straccio, pezzo di tessuto logoro, riutilizzabile industrialmente per la fabbricazione di carta e tessuti o impiegato in usi domestici per pulire e spolverare (in quest'ultimo caso, anche come prodotto commerciale specificamente fabbricato a tale scopo): il commercio, l'industria degli stracci; straccio per lavare i pavimenti, per spolverare; dare, passare lo straccio | ridursi uno straccio, (fig.) diventare magro, deperito | sentirsi uno straccio, (fig.) estremamente debole; voce deverbale di stracciare che è dal lat. volg. *extractiare, deriv. di tra°ctus, part. pass. di trahere 'trarre';
petacce s.f. pl. di petaccia = straccio, cencio, brandello; voce derivatata dal lat. pitacium ma attraverso lo spagnolo pedazo= pezzo, cencio.
9 ‘A sotto p’’e chiancarelle!
Ad litteram: Di sotto a causa dei penconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere; essa prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli: strette doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano l’impiantito dei solai.
‘a sotto loc. avverbiale che vale da/di sotto formata dalla preposizione ‘a= da che è dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; e dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc + l’avverbio sotto = sotto, in posizione inferiore dal tardo lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle s.f. pl. di chiancarella = panconcello/a: asse di legno di contenuti spessore e lunghezza, assericavata dal taglio longitudinale del tronco d'albero (per solito castagno) e destinata, dopo la stagionatura, a essere ulteriormente tagliata in assi piú sottili, un tempo destinata alla formazione dell’impiantito di solai e/o pavimenti; la voce napoletana è un diminutivo di chianca che è dal lat. planca (tavola): normale nel napoletano il passaggio del digramma pl a chi cfr. platea→chiazza - plumbeum→ chiummo - plus→ cchiú - pluere→chio(v)ere; rammento che in napoletano la voce chianca derivata di planca indica la macelleria, il negozio di vendita di carni al minuto in quanto in origine nelle macellerie la carne veniva esposta e sezionata su di una tavola (planca→chianca) di legno.
brak

VARIE 121

1 Signore mio scanza a mme e a chi coglie.
Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. È la locuzione invocazione che a mo’ di scongiuro viene rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da accertata perizia.
Scanza voce verbale qui 2° pers.sg. dell’imperativo,altrove anche 3° pers sg.ind. pres. dell’infinito scanzà/are= scansare, evitare con etimo da un cansare→canzare con protesi di una s intensiva; cansare→canzare collaterale di campsare= doppiare,piegare, girare intorno è voce marinaresca.
2 'O piezzo cchiú gruosso à dda essere 'a recchia.
Letteralmente: il pezzo piú grande deve essere l'orecchio. Iperbolica minaccia che un tempo veniva rivolta soprattutto ai ragazzini chiassosi e/o facinorosi cui si promettevano inenarrabili, iperboliche percosse tali da ridurli in pezzi di cui il piú grande avrebbe dovuto essere l'orecchio.
3 Essere 'na guallera cu 'e filosce.
Letteralmente: essere un'ernia corredata di frittate d'uova. Icastica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova.
Guallera= ernia scrotale voce femm.le derivata dall’arabo wadara.
filosce sost. neutro plurale del sing. filoscio= frittata morbida e sottile dal franc. filoche derivato di fil.
4 Oramaje à appiso 'e fierre a sant' Aloja.
Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...)Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare. Da questa consuetudine, il proverbio ammiccante nei confronti degli anziani.
5 Si me metto a ffà cappielle, nàsceno criature senza capa.
Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica.
6 A - Nun fa pérete a chi tène culo. B - Nun dà ponie a chi tène mane.
I due proverbi in epigrafe, in fondo con parole diverse mirano allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salva di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salva. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
7 'A sciorta 'e Cazzetta: jiette a piscià e se ne cadette.
Letteralmente: la cattiva fortuna di Cazzetta che si dispose a mingere e perse per caduta l'organo deputato alla bisogna. Iperbolica locuzione costruita dal popolo napoletano intorno ad un fantomatico Cazzetta ritenuto cosí sfortunato da non potersi permettere le piú elementari funzioni fisiologiche senza incorrere in danni incommensurabii. La locuzione è l'amaro commento fatto da chi veda le proprie opere non produrre gli sperati risultati positivi, ma al contrario negatività non prevedibili.
8 Quanno chiovono passe e ficusecche.
Letteralmente: quando cadono dal cielo uva passita e fichi secchi. Id est: mai. La locuzione viene usata quale risposta dispettosa a chi chiedesse quando si potrebbe verificare un accadimento ritenuto invece dalla maggioranza irrealizzabile.Poiché non è ipotizzabile una pioggia di uva passita o fichi secchi l’espressione icasticamente sottintende l’avverbio negativo mai.
9 'O culo 'e mal'assietto nun trova maje arricietto.
Letteralmente: il sedere che siede malvolentieri non trova mai tregua. Per solito, con la frase in epigrafe si fa riferimento al continuo dimenarsi anche da seduti che fanno i ragazzi incapaci di porre un freno alla loro voglia di muoversi.
Assietto s.m. = assetto, seduta, sistemazione, modo di sedere;quanto all’etimo è un deverbale dal lat. volg. *assedita¯re, frequent. di sedíre 'star seduto'
arricietto sost. masch. = tregua, calma, riposo ma pure sistemazione derivato del basso lat. *ad-receptu(m)→arrecettu(m)→ arricietto.
10 Fatte 'e cazze tuoje e vide chi t''e fa fà...
Letteramente: impicciati dei casi tuoi e procura di trovare qualcuno che ti aiuti in tal senso.Il mondo è pieno, purtroppo di gente incapace di restare nel proprio àmbito, gente che gode ad intromettersi negli affari altrui, comportandosi da saccenti e/o arroganti supponenti, dispensando perciò consigli non richiesti che, il piú delle volte, procurano ulteriori affanni, invece di lenire la situazione di coloro a cui vengon rivolti i sullodati consigli. A chi si comportasse in tal modo è buona norma rivolgere l'invito dell'epigrafe che è perentorio e non ammette repliche.
11 Essere all'abblativo.
Letteralmente: essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'ablativo della locuzione è appunto l'ultimo caso delle declinazioni latine.
12 Essere muro e mmuro cu 'a Vicaria.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti. La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era súbito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco site nella piazza omonima in quello che in origine fu il monastero dei monaci di sant’ Anna ed oggi accoglie gli uffici della Pretura.
13 Cu 'o tiempo e c 'a paglia... (s’ammaturano ‘e nespole)
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole fuori parentesi vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti.
14 Sî arrivato â monaca ‘e lignammo.
Letteralmente: sei giunto presso la monaca di legno. Id est: sei prossimo alla pazzia. Anticamente la frase in epigrafe veniva rivolta a coloro che davano segni di follía o davano ripetutamente in escandescenze. La monaca di legno dell’epigrafe altro non era che una statua lignea raffigurante una suora nell’atto di elemosinare . Détta statua era situata sulla soglia del monastero delle Pentite adiacente l’Ospedale Incurabili di Napoli, ospedale dove fin dal 1600 si curavano le malattie mentali.
15 Stammo all'evera.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
16 Hê sciupato ‘nu Sangradale.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il Santo Graal la mitica coppa in cui il Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
brak

VARIE 120

1. Aíza, ca venono ‘e gguardie
Ad litteram: alza (la merce e portala via giacché possono giungere i rappresentanti della forza,(sequestrarti la merce e contravvenzionarti.) Locuzione usata un tempo quando a Napoli era vivo e fiorente il contrabbando d’ogni genere e si volesse consigliare il venditore a portar via la merce per non incorrere nei rigori della legge rappresentata dai suoi tutori che qualora fossero intervenuti avrebbero potuto sia sequestrare la merce che elevare pesanti contravvenzioni.
Oggi la locuzione è usata per convincere un inopportuno interlocutore a liberarci della sua presenza anche se costui non abbia merce da portar via né si paventi reale intervento di polizia municipale o altri tutori della legge.
2. Arriciette ‘e fierre e ghiammuncenno
Ad litteram: raccogli i ferri del mestiere ed andiamo via. Locuzione usata a mo’ di perentorio comando dagli artieri e rivolta ai propri, meglio al proprio garzone affinché raccolti i ferri usati per svolgere il lavoro, li riponga in un contenitore da asporto e ci si possa allontanare dal luogo, ove si lavori o si sia lavorato, per far ritorno alla bottega. Il verbo arricettà, reso con l’italiano raccogliere deriva originariamente dal termine ricietto che significa tregua, pace e nella locuzione vorrebbe quasi intendere che ai ferri occorre dare,dopo una giornata di lavoro, finalmente tregua, non tenendoli piú sparsi a dritta e mancina, ma raccolti nel loro contenitore.
Modernamente la locuzione è usata all’incirca con la stessa valenza della precedente quando si voglia sollecitare un importuno a lasciarci liberandoci della sua sgradita presenza.
3. A pesielle pavammo oppure ne parlammo.
Ad litteram: al tempo dei piselli pagheremo oppure ne parleremo. Locuzione con la quale si tenta di rimandare la soluzione dei debiti o dei problemi a tempi migliori. In tempi remoti la locuzione posta sulla bocca di un contadino voleva dire: pagherò i miei debiti al tempo della raccolta dei piselli, quando farò i primi guadagni della stagione; posta invece sulla bocca di un medico o peggio d’un becchino aveva l’aria di una minaccia vvolendo significare: al tempo dei piselli ti necessiterà la mia opera o perché cadrai in preda di coliche che l’ortaggio ti procurerà, o - peggio ancora - ne decederai!
brak

VARIE 119

1.ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE
Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procurare, a colui cui è rivolta, un grave, gravissimo anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli francesi che nell’abbondonare l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata con due significati, uno meno grave, l’altro piú duro; nel significato meno duro l’espressione significa mancare a un impegno, a un appuntamento; nel significato piú minaccioso l’espressione è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; infatti con l’espressione T’aggi’ ‘abbruscià ‘o paglione! si vuol significare: Devo arrecarti tutto il danno possibile, bruciandoti persino il pagliericcio su cui dormi, per non darti piú modo neppure di riposare!
Anticamente l’espressione in epigrafe valeva (ma non si comprende per quale percorso semantico!) come minaccia di sodomizzazione.
abbruscià = bruciare, ardere, incendiare,consumare, distruggere, rovinare con l'azione del fuoco o del calore.
l’etimo è da un lat. volg. ad+brusiare→abbrusiare→abbrusciare/à
paglione s. m. = pagliericcio, saccone pieno di paglia o foglie secche usato come materasso; quanto all’etimo paglione è un evidente accrescitivo (cfr. suff. one) di paglia che è dal lat. palea
2. Â casa d’’o ferraro, ‘o spito ‘e lignammo.
ad litteram: in casa del fabbro, lo spiedo è di legno; locuzione usata ad ironico commento di tutte quelle situazioni nelle quali, per accidia o insipienza dei protagonisti vengono a mancare elementi che invece si presupponeva non potessero mancare e ci si deve accontentare di succedanei spesso non confacenti.
3. ‘A carna tosta e ‘o curtiello scugnato.
ad litteram: la carne dura ed il coltello senza taglio. Icastica locuzione che si usa a dolente commento di situazioni dove concorrano due o piú elementi negativi tali da prospettare un sicuro insuccesso delle operazioni intraprese. Altrove per significare la medesima cosa s’usa l’espressione illustrata al numero successivo.
4. Aizarse ‘nu cummò
ad litteram: caricarsi addosso un canterano; detto di chi abbia impalmato una donna anziana, non avvenente e, a maggior disdoro, priva di congrua dote. Si ritiene che chi abbia fatto un simile matrimonio, abbia compiuto uno sforzo simile a quello di quei facchini addetti a trasporti, facchini che sollevavano e si ponevano sulle spalle pesanti cassettoni di legno massello, sormontati da pesanti lastre di marmo.
aizar(se) = sollevar(si), alzar(si), caricar(si) di qualcosa; voce verbale infinito derivato dal lat. altiare→auziare→aizare;
cummò s.m. = canterano, cassettone voce derivata dal francese commo(de).
brak

VARIE 118

1.Ê cane dicenno
letteralmente: dicendo ai cani locuzione pronunciata magari accompagnata da un gesto scaramantico con la quale si vuol significare: non sia mai!, accada ai cani e non a noi, ciò che stiamo dicendo!
2. A mmorte ‘e subbeto.
Ad litteram: a morte subitanea id est: repentinamente, senza por tempo in mezzo; detto soprattutto in riferimento ad ordini da eseguirsi, come indicato in epigrafe, con la stessa immediatezza di una morte repentina.
3. Aggiu visto 'a morte cu ll' uocchie.
Ad litteram: Ò visto la morte con gli occhi Con questa tautologica locuzione si esprime chi voglia portare a conoscenza degli altri di aver corso un serio, grave pericolo tale d’averlo portato ad un passo dalla morte, vista da molto vicino e di esserne venuto fortunatamente fuori, tanto da poterlo raccontare.
4. Accurtà ‘e passe a quaccheduno
Ad litteram:accorciare (ridurre) i passi a qualcuno; id est: ridimensionare i movimenti di qualcuno al fine di impedirgli di procedere oltre; detto soprattutto di chi - mostratosi troppo saccente e supponente - si stia comportando, conseguentemente, con boria e vacua baldanza; ebbene è buona norma che costui venga ridimensionato, con parole ed atti, perché comprenda quali sono i limiti nei quali deve muoversi e non li ecceda.
5. Accussí à dda jí
Ad litteram : cosí deve andare; fatalistica espressione con la quale a Napoli si suole accettare tutte quelle situazioni che non possono essere eluse o evitate ed alle quali perciò bisogna - sia pure obtorto collo - soggiacere.Talvolta per completamento della frase in epigrafe ed a significare un totale abbondono nell’ Ente supremo che muove tutti gli accadimenti umani, si aggiunge un religioso e rassegnato e accussí sia ( e cosí sia).
6. Accussí va ‘o munno
Ad litteram: cosí va il mondo: espressione analoga alla precedente, ma con un piú marcato senso di impotenza davanti alla ineluttabilità di taluni avvenimenti, che – in qualsiasi parte del mondo – evolvono nella medesima maniera...
brak

GEMELLI CON SALSA DI PEPERONI E SALSICCIA

GEMELLI CON SALSA DI PEPERONI E SALSICCIA

Questa volta vi suggerisco un gustosissimo piatto di pasta nel quale sapientemente si sposano sapori morbidi e sapori forti in un connubio sapiente dal risultato esaltante.
I gemelli menzionati in questa ricetta sono un tipico, gustoso formato di pasta corta risultante quasi dall’intreccio di due fusilli lunghi bucati, poi troncati in pezzi di ca 4 cm. cadauno; l’intreccio fa sí che quando tale pasta sia lessata al dente resti decisamente, ma gustosamente croccante.

Ingredienti e dosi per 6 persone
6 etti di gemelli,
3 peperoni quadrilobati (2 rossi ed uno giallo) arrostiti (a fiamma alta di fornello,oppure in forno (240°), scapitozzati, spellati e privati di semi e costoline, sciacquati e tagliati in falde della grandezza d’un pollice,
6 rocchi di salsiccia co finocchietto, ad impasto doppio ( a punta di coltello) privati del budello e sbriciolati,
2 cucchiai di sugna,
1 cipolla dorata tritata,
1 bicchiere di vino bianco secco,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente,
un rametto di piperna lavato, asciugato e tritato finemente,
1 bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
2 cucchiai di concentrato di pomidoro,
1 peperoncino piccante inciso longitudinalmente, senza separarne le parti,
1 etto di pecorino grattugiato,
sale fino e pepe nero macinato a fresco, q.s.
sale doppio un pugno.


Preparazione
Ponete al fuoco una grande padella, provvista di coperchio, con i due cucchiai di sugna ed il bicchiere d’olio e fatevi dorare, a fuoco sostenuto, la cipolla; aggiungete i rocchi di salsiccia privati del budello e sbriciolati, bagnate con un bicchiere d’acqua calda, incoperchiate e portate a cottura la salsiccia in circa 15 minuti a mezza fiamma; alla fine versate il vino, alzate i fuochi e lasciate evaporare; indi aggiungete il concentrato di pomodoro diluito con mezzo bicchiere d’acqua calda,unite il peperoncino inciso,ma non separato,e tenete a mezza fiamma per altri 15 minuti; regolate di sale e pepe e mantenete in caldo. Súbito dopo arrostite i peperoni procedendo cosí come indicato precedentemente negli ingredienti. A fine cottura del sugo di salsiccia e concentrato , abbassate i fuochi ed unitevi le falde dei peperoni e lasciate sobbollire lentamente per gli ultimi cinque minuti. Lessate i gemelli al dente in molta (8 litri) di acqua bollente salata con il pugno di sale doppio. Scolate la pasta e versatela nella padella. Mantecate lentamente a mezza fiamma, aggiungendo a mano a mano il pecorino grattugiato. A fuochi spenti cospargete con il trito di prezzemolo e di piperna e con il pepe nero macinato a fresco. Impiattate e mandate súbito in tavola.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napule, bbona salute!
raffaele bracale

‘A SOTTO P’’E CHIANCARELLE!

‘A SOTTO P’’E CHIANCARELLE!
Ad litteram: Di sotto a causa dei panconcelli ma a senso: Attenti alla caduta dei panconcelli!
Locuzione esclamativa (in origine grido di avvertimento) con la quale si suole commentare tutti gli avvenimenti risultati o gravosi o pericolosi nel loro evolvere nella valenza di Accidenti!, Perbacco!; essa, come già accennato , prende l’avvio dal grido di avvertimento che erano soliti lanciare gli operai addetti alla demolizione di vecchi fabbricati affinché chi si trovasse a passare ponesse attenzione all’eventuale caduta dall’alto dei dissestati panconcelli.
‘a sotto = da/di sotto locuzione avverbiale e/o prepositiva formata da ‘a= da dal lat. de ab nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; o dal lat. de ad nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, modo, fine ecc. e da sotto avv. e preposiz. impropria = sotto dal lat. subtus, avv. deriv. di sub 'sotto';
chiancarelle = panconcelli, travicelli strette, ma abbastanza lunghe (un metro) doghe di stagionato castagno, doghe che poste trasversalmente sulle travi portanti sorreggevano (nelle costruzioni di una volta) l’impiantito dei solai. la voce è il plurale di chiancarella che etimologicamente è un derivato (diminutivo : vedi suff. ella+ l’infisso ar) del basso latino planca(m)=tavola lignea; dalla medesima planca(m)=tavola lignea il napoletano trasse la voce chianca = macelleria, rivendita di carni macellate; e ciò in quanto originariamente l’ esposizione e la sezionatura per la vendita al minuto delle carni avveniva tenendole poggiate su di un tavolo ligneo; tipico e normale il passaggio del gruppo latino pl come pure cl seguíto da vocale al napoletano chi (vedi plus→chiú=piú, platea→chiazza=piazza, plumbeum→chiummo=piombo, clausum→chiuso, etc.).
Raffaele Bracale

‘A SCÒLA

‘A SCÒLA


Questa volta mi si perdonerà se, preso da un improvviso quanto irrefrenabile attacco di nostalgia/malinconia, faccio un tuffo nel passato e ritorno agli anni intorno al 1950, quando nelle assolate aule di una scuola napoletana, peraltro stranamente intitolata ad una poetessa padovana, tale Gaspara Stampa (1523 – 1554) scuola ubicata in un antico palazzo di via Pontenuovo a Napoli, frequentai con gran profitto ‘a scòla (da un lat.:schóla luogo dove contrariamente alla idea originaria di ozio,riposo,quiete che si annetteva alla parola, si lavorava non poco per dare (da parte del docente) e ricevere (da parte dei discenti) una adeguata istruzione elementare o primaria; furono quelli i tempi in cui nelle aule erano sistemati numerosi alti banchi di color grigio scuro quando non nero, che ancóra qualcuno seguitava a chiamare, con nome antico: trasti ( dal latino: transtum in origine il banco di seduta dei rematori delle galee romane) banchi in cui – a due a due - trovavano posto gli alunni; al margine alto ed estremo del piano di scrittura erano collocati in appositi fori circolari i due (uno per alunno) calamare/i (dal latino calamus = penna + il suffisso di pertinenza areus (aro) cioè i contenitori vitrei in cui ogni mattina veniva versato dal bidello (dal basso latino: bedèllus = addetto ai servizi), meglio da una lercia, impataccata bidella,bassa e dalle gambe storte, un sufficiente quantitativo di gnosta/ia ( da una lettura metatetica del lat.: encaustum attraverso lo spagnolo encausto→engausto→gnosta ) inchiostro rigorosamente di color nero che veniva attinto con dei pennini metallici infissi all’estremità di certe cannucce lignee (cd. penne comuni) laccate in varî colori e trasferito per scrivere, ma molto spesso per produrvi immani macchie (lat. macula → mac’la→macchia ) che invano si tentava di arginare con la c.d. carta zucagnosta = carta assorbente, sulle immacolate pagine dei quaderni detti alternativamente manesiglie (dallo spagnolo manecilla = da poter tenere in una sola mano) o pure cartulare (dal lat. chartula diminutivo di charta + il consueto suffisso di pertinenza: areus = aro; ‘o cartularo aveva detto nome come che formato dall’aggregazione di piccole carte; rammenterò che in seguito con il termine cartularo (ma palese adattamento dell’italiano cartolaio) si indicò non il quaderno, ma il rivenditore di tutti i prodotti cartacei o meno occorrenti a chi frequentasse la scuola: penne, pennini, matite dette ovviamente làppese dritto per dritto dal latino lapis con vocale paragogica finale e raddoppiamento espressivo consonantico in parola divenuta sdrucciola, ed altri aggeggi quali nettapenne sorta di doppio feltrino entro cui si stringeva il pennino allo scopo di pulirlo, quando si finiva di scrivere e poi si riponeva con penna e matita nel sacrosanto pennarulo, ligneo portapenne con chiusura a scorrimento (dal latino pennarolium), dove accanto a penna e matita trovavano posto ‘o temperalàppese dal latino temperare + lapis = piccolo strumento fornito di minuscola lama atta ad appuntir le matite, ‘o nettapenne già visto e ‘a gomma pe cassà (dal latino cassus= vano, cioè reso inutile) o scancellà che è cancellare (in origine la cancellazione consisteva nel tracciare su scritti o disegni numerose righe fino a comporre una sorta di cancello sugli scritti o disegni rendendoli non
piú fruibili e dunque inutili) con tipica prostesi partenopea di una esse intensiva.
Il tutto: quaderni, portapenne etc., a fine lezione , finivano assieme al sussidiario ed al libro di lettura nella cartera (dall’omografo, omofono cartera spagnola) id est: cartella contenitore in forma di parallelepipedo, con coperchio, incernierato su uno dei lati lunghi e con maniglia fissata al centro del coperchio, in cartone pressato o fibra, per l’asporto di tutto quanto or ora elencato.
Nell’aula con i banchi prendevano posto numerosi/e ragazzi/e (in una mia foto dell’epoca ne ò contati addirittura cinquanta: quasi un esercito rispetto alle risibili classi d’oggidí formate da venti, vintidue alunni, risibili classi di cui tuttavia gli sfaticati docenti (maestre e maestri) d’oggi se ne dolgono; quegli alunni d’antan, tutti a qualsiasi ordine sociale appartenessero, indossavano su gli abiti un adeguato mantesino; la parola indicò in primis (con derivazione dal latino: mantu-m(ante)sinu-m→ man(tan)tesinu-m con evidente aplologia) lo zinale usato in cucina dalle donne per non imbrattarsi gli abiti durante la preparazione dei cibi, ed estensivamente il grembiule o la sorta di sopravveste, generalmente con maniche, che indossano i bambini e alcune categorie di lavoratori come divisa o per non rovinare gli abiti; ‘o mantesino degli alunni era corredato di un candido colletto al cui centro era appuntato un nastro annodato a mo’ di fiocco, nappa o per dirla alla maniera partenopea a mo’ di nocca (che probabilmente è dal latino nodica, sincopata in nod’ca e poi con assimilazione dc→cc = nocca, se non da un longobardo knohha ; il nastro era di diverso colore secondo le varie classi : si partiva dal nostro rosso della I° elementare, per finire, passando una varia gamma, con quello tricolore della V° che spesso i ragazzi portavano annodato al braccio sinistro piuttosto che al mezzo del colletto. La disciplina delle classi e l’insegnamento didattico era affidato ad un solo insegnante in luogo della inutile triade odierna;l’insegnante, se donna, in luogo di maesta =maestra (dal latino magistra(m))era detta sempre ‘a signurina di per sé diminutivo di signora femminile di signore che è dal latino: seniore(m), anche quando codesta signurina non fosse piú giovane o nubile, ma sposata ed avanti con gli anni; la faccenda è spiegabile tenendo presente che il termine maesta era riservato nel napoletano d’antan, sia pure nella forma ‘a sié maesta, alla bottegaia, padrona di bottega o anche ad una semplice popolana che però vestisse vistosamente, in maniera enfatica, pomposa con mantiglie quasi preziose dette scialle ‘e lusso, orecchini preziosi pendenti dai lobi, orecchini detti sciucquaglie dal latino iocalia attraverso lo spagnolo chocallos = vezzi, magari una dorata pettenessa (forgiata sul greco pektô) sorta di pettine ricurvo infisso a sostegno della crocchia di capelli inalberata al centro del capo, e fosse provvista di adeguate canacche (dall’arabo hannaqa)= collane vistose che rendono appunto ‘a sié maesta, ‘ncannaccata.Va da sé che una maestra di scuola mai e poi mai si sarebbe agghindata e presentata in classe in maniera tanto ridondante da farla appaiare ad una bottegaia o popolana!
Diverso il discorso se l’insegnante fosse uomo; a costui invece di dare, come era giusto che fosse e che si ritrova in qualche vecchia pièce teatrale partenopea l’appellativo di masto ‘e scola = maestro di scuola, che lo distinguesse da altri maste (pur sempre dal latino magister) maestri di arti e/o mestieri, li si accreditava del titolo di prufessore che è dal latino professore(m) derivato di profitiri= insegnar pubblicamente, sebbene il titolo spetti di per sé ad un insegnante laureato, ma – si sa – a Napoli basta possedere un’ auto per esser detto dottore e ‘o masto ‘e scola era pur sempre un insegnante pubblico e talvolta, forse, anche laureato.

Raffaele Bracale - Napoli

ESSERE ‘A CHIAVE ‘E LL’ACQUA

ESSERE ‘A CHIAVE ‘E LL’ACQUA
L’espressione partenopea : Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua che letteralmente si traduce: Tu sei la chiave (d’arresto del contatore)dell’acqua, prendendo a riferimento una cosa utile (la chiave d’arresto del contatore dell’acqua) chiave che opportunamente azionata può determinare l’utilizzo o meno d’un bene preziosissimo quale è quello dell’acqua, dovrebbe avere una valenza assolutamente positiva di talché chi fosse destinatario/a dell’espressione nella forma Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua, potrebbe sentirsi gratificato/a dall’espressione che parrebbe sottolineare la presenza – nella persona a cui sia rivolta - di doti assolutamente positive (bellezza, intelligenza, capacità, disponibilità etc.) e letta cosí l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua potrebbe sostanziare un corposo complimento rivolto al/alla destinatario/a.
Nella realtà le cose non stanno esattamente cosí; si notino infatti tutti i condizionali che ò usato nell’esposizione, condizionali che fanno chiaramente intendere che il significato dell’espressione lungi dall’essere un corposo complimento è in realtà una bruciante offesa. A Napoli, dove nacque nel linguaggio giovanile intorno agli anni ’50 del 1900, l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua ebbe sí un originario significato positivo,quantunque non fosse da intendere nel senso letterale di chiave dell’acqua, che era stata solo una curiosa storpiatura di un originaria ‘a chiave ‘e ll’arco con cui si intendeva qualcosa di estremamente positivo ed importante quale è la pietra centrale su cui aggettano le spinte laterali di un arco, pietra centrale che se viene meno determina il crollo dell’intero arco; come dicevo l’originaria espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’arco, fu poi corrotta in un Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua e tenne campo per lungo tempo in senso positivo, nel parlato giovanile, ma oggi à perduto l’originaria valenza positiva per assumerne una decisamente negativa ed ormai va letta esclusivamente in senso antifrastico significando (in luogo dell’originario: Tu sei la chiave di volta dell’arco e successivamente Tu sei la chiave (d’arresto del contatore)dell’acqua,) Tu sei una fogna, una porcheria, una sozzura, un essere spregevole e ciò perché nell’attuale linguaggio giovanile partenopeo l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua è usata efemisticamente, giocando con un’evidente assonanza, al posto di Tu sî ‘na chiaveca ( che è appunto la fogna o una porcheria o una sozzura etc.)
La voce Chiaveca con derivazione da un acc.vo tardo lat. clàvica(m) per il class. cloaca(m) indica una fogna o una porcheria o una sozzura etc. ed è molto assonante con la parola chiave, per cui dall’originario significato positivo di Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua, si è pervenuti all’attuale negativo e chi oggi fosse destinatario/a dell’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua se ne dovrebbe, anzi se ne deve adontare, non rallegrarsene!
Raffaele Bracale

VARIE 117

1.'A carne se venne â chianca
'A carne se venne â chianca. Ad litteram: La carne viene venduta in macelleria. Id est: per acquistare qualcosa bisogna rivolgersi al suo commerciante o per ottenere alcunché bisogna necessariamente rivolgersi a chi ne sia esperto; insomma per ottenere qualcosa, non si può improvvisare, ma bisogna rivolgersi sempre al competente.
Chianca beccheria, macelleria (dal lat. planca(m)=panca di legno perché un tempo la carne era esposta e sezionata per la vendita al minuto, su di un tavolo di legno; normale il passaggio di pl→chi (cfr. plus→cchiú – plena(m)→chiena etc.).
________________________________________
2 . Chi campa sturtariello campa bunariello, chi campa addritto...campa afflitto!
Chi vive di sotterfugi e di espedienti riesce sempre a sbarcare il lunario, chi vuol vivere in modo retto e corretto troverà sempre tante difficoltà sul suo cammino.

________________________________________
3. Ancora nun è prena Marianna e ggià ànno spase fasciatore e ppanne.
Letteralmente: Marianna non è ancora incinta e già ànno sciorinato fasce e pannolini Locuzione proverbiale usata a divertito commento delle azioni di chi si predispone e si prepara a qualcosa con evidente eccessivo anticipo.
________________________________________
4. A pavà e a murí, quanno cchiú tarde se po’
Ad litteram: A pagare ed a morire, quando piú tardi sia possibile... Id est:
È buona norma il tentare di rimandare sine die due cose ugualmente nocive: il pagare ed il decedere.

________________________________________
5.'E vruoccole so' bbuone dinte ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie"(prima di abdicare a questo nome – ceduto ai villici – per assumere quello di “mangiamaccheroni”), sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specialmente nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
________________________________________
6. Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
7. Amice e vvino ànno 'a essere viecchie! Adlitteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
8.'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare. Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
9'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano. Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
10.'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorrono.
11.'O galantomo appezzentùto, addeventa 'nu chiaveco. Ad litteram: il galantumo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui. 12. ‘E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo. Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo che hanno imbrattato. Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
________________________________________
13. Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare furtivamente o meno palpeggiamenti delle rotondità femminili.
________________________________________
14.Dicette ‘o pappice vicino â noce: "Damme ‘o tiempo ca te spertoso!"
Disse il tonchio alla noce "dammi il tempo che ti foro".Anche chi non sia dotato di molta prestanza fisica può ottenere – con il tempo e l’applicazione – i risultati sperati.

________________________________________
15.Chisto è ‘na galletta ca nun se spogna!
Ad litteram: Costui è una galletta che non si (riesce a) spugnare. Icastica espressione partenopea usata sarcasticamente nei confronti di qualcuno che sia cosí tanto avaro o cosí tanto restio a conferire la propria opera da poter esser messo a paragone ad una galletta (dal francese galette, deriv. di galet, ant. gal 'ciottolo', per la forma e/o durezza) quel tipico pane biscottato, a forma di focaccia, conservabile per lunghissimo tempo, pane impastato con pochissimo lievito e perciò durissimo; tali gallette un tempo entrarono a far parte delle razioni alimentari dei soldati (fanti o marinai) ma pure delle delle riserve alimentari dei pescatori che le preferirono al pane giacché non ammuffivano e si conservavano per un tempo quasi indeterminato. Per potersene nutrire militari e pescatori usavano mettere a mollo in acqua di fonte o addirittura di mare...) le gallette fino a che, non se ne fossero ben bene imbibite, diventando morbidi ed edibili; tale operazione fu detta in napoletano spugnatura che come significato non corrisponde alla omofona ed omografa spugnatura della lingua italiana dove significa, quale deverbale di spugnare:(che è un denominale di spugna dal lat. spongia(m), dal gr. sponghía) il bagnarsi, lo strofinarsi per mezzo di una spugna; in partic., lo spremere spugne imbevute di acqua o di liquidi medicamentosi su parti del corpo a scopo terapeutico; la spugnatura napoletana invece, quantunque pur essa derivata di spugna dal lat. spongia(m), dal gr. sponghía indica esattamente l’operazione di mettere a mollo in acqua o altro liquido (brodo) le gallette spezzettate per modo che si imbibiscano d’acqua, brodo etc. a mo’ di una spugna, ammorbidendosi; cosa che non si può dire del protagonista della locuzione in epigrafe, protagonista che è cosí duro di cuore e/o volontà che mai lo si riuscirebbe ad ammorbidire convincendolo ad allargare i cordoni della propria borsa o convincendolo a prestar la propria opera a pro di terzi. chisto = questo, costui ( dal lat. volg. *(ec)cu(m) istu(m), propr. 'ecco questo') agg.vo e qui pronome dimostrativo; come agg. dimostr. [precede sempre il sostantivo] indica persona o cosa vicina, nel tempo o nello spazio, a chi parla o indica persona o cosa di cui si sta parlando o anche vale simile, siffatto, di questo genere ( ad es. nun ascí cu chistu tiempo! = non sortire con un tempo simile!); come pron. dimostr. indica persona o cosa vicina a chi parla, o persona o cosa della quale si sta parlando; o ciò, la cosa di cui si parla;

________________________________________
16.Nun mannà bbene ô pezzente ca nce ‘o ppierde!
Ad litteram: Non far del bene ad un povero ché lo perdi. Id est: Il bene fatto a chi è veramente povero è irrimediabilmente perduto;infatti in caso di prestito il povero non sarà mai in grado di restituire la cosa avuta in prestito, in caso di liberalità non si otterrà nemmeno riconoscenza: chi è povero, veramente povero per il suo stesso status è purtroppo proclive all’invidia anche del proprio benefattore!
Raffaele Bracale

giovedì 26 febbraio 2009

‘NZULARCHIA

‘NZULARCHIA
La voce napoletana a margine traduce l’italiano itterizia, ittero e cioè l’accumulo di pigmenti biliari nel sangue, che determina una colorazione giallastra della cute, delle mucose e dei liquidi organici; le voci italiane itterizia, ittero derivano dal lat. icteru(m), che è dal gr. íkteros.
Ben diversa l’origine della voce napoletana ‘nzularchía che con il significato di itterizia, è un denominale dell’aggettivo e sost. masch. ‘nzularcato (affetto da itterizia, ittero etc.) la voce ‘nzularcato, come la derivata ‘nzularchía, è da collegarsi all’agg. latino subarquatus (id est: sub(sotto) +arcuatus (da arcus= arcobaleno); il popolo ritiene infatti che l’ittero sia causato da un pernicioso influsso dell’arcobaleno; non sembra accettabile l’ altra ipotesi pure proposta da qualcuno che ‘nzularcato e ‘nzularchía derivino dal lat. *insolearcatus/*insolearchía = di colore giallo come uno dei colori dell’iride simile al sole. Si tratta a mio avviso di una patente paretimologia, da cui dissentire!
Annoto, a margine di tutto quanto detto, che anche in numerosissime parlate centro-meridionali, per designare l’itterizia o chi sia affetto da tale disturbo, si ritrovano voci che ad un dipresso si rifanno alla voce arcobaleno o suoi derivati. Abbiamo infatti nel romanesco ammalorcato patente fusione di ammalato + arcato; nel calabrese arcatu; nel lucano/molisano si à male jarche = male de l’arca; nel pugliese (bari) male d’ uarche e tutte queste voci si rifanno alla voce arche= arcobaleno e non mette conto il fatto che attualmente in Basilicata e Molise con la voce arche si designi anche il calabrone da taluno (fra i piú giovani) ritenuto responsabile della malattia; gli anziani che sono i soli veri depositarî della parlata locale continuano a parlare per l’itterizia di male jarche – male de l’arca = male dell’arcobaleno.
Raffaele Bracale

ESSERE ‘A CHIAVE ‘E LL’ACQUA

ESSERE ‘A CHIAVE ‘E LL’ACQUA
L’espressione partenopea : Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua che letteralmente si traduce: Tu sei la chiave (d’arresto del contatore)dell’acqua, prendendo a riferimento una cosa utile (la chiave d’arresto del contatore dell’acqua) chiave che opportunamente azionata può determinare l’utilizzo o meno d’un bene preziosissimo quale è quello dell’acqua, dovrebbe avere una valenza assolutamente positiva di talché chi fosse destinatario/a dell’espressione nella forma Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua, potrebbe sentirsi gratificato/a dall’espressione che parrebbe sottolineare la presenza – nella persona a cui sia rivolta - di doti assolutamente positive (bellezza, intelligenza, capacità, disponibilità etc.) e letta cosí l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua potrebbe sostanziare un corposo complimento rivolto al/alla destinatario/a.
Nella realtà le cose non stanno esattamente cosí; si notino infatti tutti i condizionali che ò usato nell’esposizione, condizionali che fanno chiaramente intendere che il significato dell’espressione lungi dall’essere un corposo complimento è in realtà una bruciante offesa. A Napoli, dove nacque nel linguaggio giovanile intorno agli anni ’50 del 1900, l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua ebbe sí un originario significato positivo,quantunque non fosse da intendere nel senso letterale di chiave dell’acqua, che era stata solo una curiosa storpiatura di un originaria ‘a chiave ‘e ll’arco con cui si intendeva qualcosa di estremamente positivo ed importante quale è la pietra centrale su cui aggettano le spinte laterali di un arco, pietra centrale che se viene meno determina il crollo dell’intero arco; come dicevo l’originaria espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’arco, fu poi corrotta in un Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua e tenne campo per lungo tempo in senso positivo, nel parlato giovanile, ma oggi à perduto l’originaria valenza positiva per assumerne una decisamente negativa ed ormai va letta esclusivamente in senso antifrastico significando (in luogo dell’originario: Tu sei la chiave di volta dell’arco e successivamente Tu sei la chiave (d’arresto del contatore)dell’acqua,) Tu sei una fogna, una porcheria, una sozzura, un essere spregevole e ciò perché nell’attuale linguaggio giovanile partenopeo l’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua è usata efemisticamente, giocando con un’evidente assonanza, al posto di Tu sî ‘na chiaveca ( che è appunto la fogna o una porcheria o una sozzura etc.)
La voce Chiaveca con derivazione da un acc.vo tardo lat. clàvica(m) per il class. cloaca(m) indica una fogna o una porcheria o una sozzura etc. ed è molto assonante con la parola chiave, per cui dall’originario significato positivo di Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua, si è pervenuti all’attuale negativo e chi oggi fosse destinatario/a dell’espressione Tu sî ‘a chiave ‘e ll’acqua se ne dovrebbe, anzi se ne deve adontare, non rallegrarsene!
Raffaele Bracale

VARIE 116

1'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
2 E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagasse con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.
3 Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
4 Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce ed il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
5 A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
6 Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
7 Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
8 Vuó campà libbero e biato: meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato: meglio solo che male accompagnato Il proverbio in epigrafe, in fondo traduce l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo., ma precisa che se proprio si debba andare in compagnia, che questa sia buona e non foriera di danno.
9. Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di amante che soddisfi le sue voglie sessuali.
10 Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
brak

'O PATAPATO etc.

1. 'O patapato (o anche 'o parapato oppure 'o patabbate) 'e ll'acqua oppure ‘o patapato d''e mazzate etc.
Iperbolica locuzione, intraducibile ad litteram, con la quale si vuol significare che l'acqua o le percosse o quanto altro non richiamato dall'epigrafe è sparso in gran quantità e viene usata ad es. a commento di un improvviso copioso temporale o come pesante minaccia rivolta da un adulto nei confronti di un ragazzo al quale si promette una estesa gragnuola di percosse.
Premesso che, contrariamente da quanto affermato da taluno il termine patabbate non richiama nessuna gerarchia ecclesiastica, essendo solo la corruzione del termine cardine patapato,ricorderò che quest'ultimo deriva dal greco parapatto richiamato che significa spargere, distribuire copiosamente in giro, proprio nel senso che si attaglia alla locuzione in epigrafe.
2. 'O pizzo cchiú scuro è 'o fuculare
Ad litteram: il posto più buio è il focolare. Icastica espressione che si suole pronunciare per avvertire chi ci stia sollecitando d'un alcunché che non si è pronti, nè disposti all'azione, mancandone i relativi presupposti; in senso letterale l'espressione è usata per significare che il pasto richiestoci non è pronto, nè sarà pronto in quanto addirittura il fuoco non è stato acceso ancora di talché il focolare risulta essere il luogo piú buio della casa; per traslato l'espressione è usata per render noto che non si potrà addivenire al richiestoci, in quanto, volontariamente o involontariamente, ma chiaramente, impreparati all'occorrenza.
3. 'O sazzio nun crere ô diuno
Ad litteram: il sazio non crede al digiuno Amara constatazione di chi si trovi in istato di necessità e venuto a contatto con colui a cui, invece, non manchi nulla, non sia considerato da quest'ultimo, come chi, sazio o in buona salute, difficilmente può comprendere i disagi di uno che soffra la fame o sia ammalato.
4. 'O senzo d''a bonanema.
Ad litteram: il gusto della buonanima. Simpatica espressione con la quale si tenta di canzonare chi, pervenuto per disattenzione od insipienza ad un risultato errato e negativo voglia farlo ritenere giusto e migliore di quel che sia, dichiarandolo legato ad ottimi insegnamenti; si narra che un giovane sposo si lagnava dei manicaretti che la sua mogliettina gli preparava ed adduceva che non avevano mai il gusto di quelli che sua mamma soleva preparargli quando ancora era scapolo; le cose si misero a posto allorché la giovane mogliettina si adeguò al sistema della suocera e facendo bruciacchiare le pietanze, come era solita fare la di lei suocera,conferí alle pietanze il famoso gusto della buonanima, cosí gradito all’abituato palato dello sposo.
5. 'O signore cu ll'ogna spaccata
Ad litteram: il signore dall'unghia bipartita. Così, a mo' di dileggio, viene indicato chi si atteggia ad individuo raffinato ed elegante e magari vanti falsamente nobili prosapie ed invece sotto le mendaci spoglie di un gran signore, sia solo un signore con l'unghia bipartita e cioè un maiale.
6. 'O scarfalietto 'e Giesú Cristo
Ad litteram: Lo scaldino di Gesú Cristo. Non si direbbe, ma la locuzione in epigrafe è una dura, sia pure sorridente offesa che si rivolge agli uomini ritenuti ignoranti o anche becchi. Non v'è chi non sappia che Gesú Cristo fu riscaldato nella greppia di Betlemme da un bue ed un asinello; di talché affibbiare ad uno il titolo di scaldino di Gesú Cristo significa dargli dell' asino e del bue id est: ignorante e cornuto e perciò significa accusare sua moglie di infedeltà continuata.
7 - 'O spasso d''o cardillo è 'o pappamosca
Ad litteram:il divertimento del cardellino è il ragno. Cosí si suole commentare il fastidioso, reiterato comportamento di chi si diverte a tormentare, insolentendolo e molestandolo chi sia meno dotato soprattutto fisicamente, tenendo il medesimo comportamento che tiene il cardellino con il ragno o - secondo altri - con la cinciallegra, che - pare - sia continuatamente e provocatoriamente angariata immotivatamente dal cardellino.Ricorderò che usata come voce maschile: ‘o pappamosca significa il ragno, mentre usata al femminile ‘a pappamosca è la cinciallegra.
brak

VARIE 115

1 -Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche cazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te)Id est: non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano solo per carpirti qualcosa.
2 - Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
3 - Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
4 - 'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere buoni) devono essere di antica data.
5 - 'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato giocoso (ma non troppo) : la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
6 - 'O turco fatto crestiano, vo' 'mpalà tutte chille ca ghiastemmano.
Ad litteram: il turco diventato cristiano vuole impalare tutti i bestemmiatori. Id est: I neofiti sono spesso troppo zelanti e perciò pericolosissimi.
7 - 'O Pataterno addó vede 'a culata, llà spanne 'o sole
Ad litteram: il Padreterno dove vede un bucato sciorinato, lí invia il sole. Id est: la bontà e la provvidenza del Cielo sono sempre presenti là dove occorre.
8 - 'O galantomo appezzentúto, addeventa 'nu chiaveco.
Ad litteram: il galantuomo che va in miseria, diventa un essere spregevole. In effetti la disincantata osservazione della realtà dimostra che chi perde onori e gloria, diventa il peggior degli uomini giacché si lascia vincere dall'astio e dal livore verso coloro che il suo precedente status gli consentiva di tenere sottomessi e che nella nuova situazione possono permettersi di alzare la testa e contrattare alla pari con lui.
9 -'E fravecature, cacano 'nu poco pe parte e nun pulezzano maje a nisciunu pizzo.
Ad litteram: i muratori defecano un po' per parte, ma non nettano nessun luogo (che ànno imbrattato). Il proverbio, oltre che nel suo significato letterale è usato a Napoli per condannare l'operato di chi inizia ad occuparsi di cento faccende, ma non ne porta a compimento nessuna, lasciando ovunque le tracce del proprio passaggio.
10 - 'E vruoccole so' bbuone dinto ô lietto.
Letteralmente: i broccoli sono buoni nel letto. Per intendere il significato del proverbio bisogna rammentare che a Napoli con la parola vruoccole si intendono sia la tipica verdura che per secoli i napoletani mangiarono,tanto da esser ricordati come "mangiafoglie", sia le moine, le carezze che gli innamorati son soliti scambiarsi specie nell'intimità; il proverbio sembra ripudiare ormai la verdura per apprezzare solo i vezzi degli innamorati.
11 - Statte bbuono ê sante: è zumpata 'a vacca 'ncuollo ô vojo!
Letteralmente: buonanotte!La vacca à montato il bue. Id est: Accidenti: il mondo sta andando alla rovescia e non v'è rimedio: ci troviamo davanti a situazioni cosí tanto contrarie alla norma che è impossibile raddrizzarle.
12 - Quanno 'o vino è ddoce, se fa cchiú forte ‘acito.
Letteralmente: quando il vino è dolce si muta in un aceto piú forte, piú aspro.Id est: quando una persona è d'indole buona e remissiva e paziente, nel momento che dovesse inalberarsi, diventerebbe cosí cattiva, dura ed impaziente da produrre su i terzi effetti devastanti.
13 - 'O dulore è de chi 'o sente, no 'e chi passa e tène mente.
Letteralmente: il dolore è di chi lo avverte, non di coloro che assistono alle manifestazioni del dolente.Id est:per aver esatta contezza di un quid qualsiasi - in ispecie di un dolore - occorre riferirsi a chi prova sulla propria pelle quel dolore, non riferirsi al parere, spesso gratuito e non supportato da alcuna pratica esperienza, degli astanti che - per solito - o si limitano ad una fugace commiserazione del dolente , o - peggio! - affermano che chi si duole lo fa esagerando le ragioni del proprio dolere.
14 - 'O fatto d''e quatte surde.
Letteralmente: il racconto dei quattro sordi. Il raccontino che qui di seguito si narra, adombra il dramma della incomunicabilità e la locuzione in epigrafe viene pronunciata a Napoli a sapido commento in una situazione nella quale non ci si riesca a capire alla stregua di quei quattro sordi che viaggiatori del medesimo treno, giunti ad una stazione, così dialogarono: Il primo: Scusate simmo arrivate a Napule? (Scusate, siamo giunti a Napoli?) Il secondo: Nonzignore, cca è Napule!(Nossignore, qua è Napoli!) Il terzo: I' me penzavo ca stevamo a Napule (Io credevo che stessimo a Napoli). Il quarto concluse: Maje pe cumanno, quanno stammo a Napule, m'avvisate? (Per cortesia, quando saremo a Napoli, mi terrete informato?).
15 - A 'nu cetrangolo spremmuto, chiàvece 'nu caucio 'a coppa.
Schiaccia con una pedata una melarancia premuta.Id est: il danno e la beffa; la locuzione cattivissima nel suo enunciato, consiglia di calpestare un frutto già spremuto; ossia bisogna vilipendere e ridurre a mal partito chi sia già vilipeso e sfruttato, per modo che costui non abbia né la forza, nè il tempo di risollevarsi e riprendersi.Il tristo consiglio è dato nel convincimento che se si lascia ad uno sfruttato la maniera o l'occasione di riprendersi, costui si vendicherà in maniera violenta e allora sarà impossibile contrastarlo; per cui conviene infeierire sullo sfruttato e non dargli quartiere, addirittura ponendoselo sotto i tacchi come un frutto spremuto ed inutile ormai.
16 - Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia.
Letteralmente: chi corre questi mari può pescare solo questo tipo di pesce. Id est: chi si sofferma a compiere un tipo di operazione difficile e/o pericolosa, non può che sopportarne le conseguenze, né può attendersi risultati diversi o migliori.
17 -Ammore, tosse e rogna nun se ponno annasconnere.
Amore, tosse e scabbia non si posson celare; le manifestazioni di queste tre situazioni sono così eclatanti che nessuno può nasconderle; per quanto ci si ingegni in senso opposto amore, tosse e scabbia saranno sempre palesi; la locuzione è usata sempre che si voglia alludere a situazioni non celabili.
18 -'Mpàrate a parlà, no a faticà.
Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro,sarcastico, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la propria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA). In fondo la vita è dei furbi, cioè di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo.
19 -Chi troppo s''o sparagna, vene 'a gatta e se lu magna.
Letteralmente: chi troppo risparmia,viene la gatta e lo mangia. Il proverbio- che nella traduzione toscana assume l'aspetto di un anacoluto sta a significare che non conviene eccedere nel risparmiare, perché spesso ciò che è stato risparmiato viene dilapidato da un terzo profittatore che disperde o consuma tutto il messo da parte.
20 - 'A sotto p''e chiancarelle.
Letteralmente: attenti ai panconcelli! Esclamazione usata a sapido commento di una narrazione di fatti paurosi o misteriosi un po' piú colorita del toscano: accidenti!Essa esclamazione richiama l'avviso rivolto dagli operai che demoliscono un fabbricato affinché i passanti stiano attenti alle accidentali cadute di panconcelli(chiancarelle)le sottili assi trasversali di legno di castagno, assi che poste di traverso sulle travi portanti facevano, olim, da supporto ai solai e alle pavimentazione delle stanze.Al proposito a Napoli è noto l'aneddoto relativo al nobile cavaliere settecentesco Ferdinando Sanfelice che fattosi erigere un palazzo nella zona detta della Sanità, vi appose un'epigrafe dittante: “eques Ferdinandus Sanfelicius fecit”(il cav. Ferdinando Sanfelice edificò) ed un bello spirito partenopeo per irridere il Sanfelice paventando il crollo dello stabile, aggiunse a lettere cubitali LEVÀTEVE 'A SOTTO! (toglietevi di sotto! ).
21 - A 'stu nunno sulo 'o càntaro è nicessario.
Letteralmente: la sola cosa necessaria a questo mondo è il pitale. Id est: niente e - soprattutto - nessuno sono veramente necessarii alla buona riuascita dell'esistenza la sola cosa che conta è nutrirsi bene e digerire meglio. In effetti con la parola càntaro - oggetto destinato ad accogliere gli esiti fisiologici - si vuole proprio adombrare la buona salute indicata da una buona digestione, che intanto avviene se si è avuta la possibilità di nutrirsi. Si tenga presente che la parola càntaro non à l'esatto corrispettivo in italiano essendo il pitale(con la quale parola si è reso in italiano) destinato ad accogliere gli esiti prettamente liquidi, mentre il càntaro era destinato ad accogliere quelli solidi.
càntaro o càntero alto e vasto cilindrico vaso dall’ampia bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, atto a contenere le deiezioni solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere la voce a margine con un’altra voce partenopea cantàro (che è dall’arabo quintâr) diversa per accento tonico e significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di misura: cantàio= quintale ed è a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia nel culo (e non occorre spiegare cosa sia l’oncia richiamata…)); molti napoletani sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire, erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un altro peso (cantàro)!
22 Sparterse 'a cammisa 'e Cristo.
Letteralmente: dividersi la tunica di Cristo. Così a Napoli si dice di chi, esoso al massimo, si accanisca a fare proprie porzioni o parti di cose già di per sé esigue, come i quattro soldati che spogliato Cristo sul Golgota , divisero in quattro parti l'unica tunica di cui era ricoperto il Signore.
23 Essere aúrio 'e chiazza e tribbulo 'e casa.
Letteralmente: aver modi cordiali in piazza e lamentarsi in casa. Cosí a Napoli si suole dire - specie di uomini che in piazza si mostrano divertenti e disposti al colloquio aperto e simpatico, mentre in casa sono musoni e lamentosi dediti al piagnisteo continuo, anche immotivato.
Brak

mercoledì 25 febbraio 2009

CORDON BLEU RIPASSATI

CORDON BLEU RIPASSATI
Ingredienti e dosi (per 4 persone):
• 8 filetti di vitello o di manzo (spessi un cm.),
• 16 fette sottili di speck ,
• 8 fette di caciocavallo piccante affettato molto sottilmente,
• 2 bicchieri e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
• un litro di passata di pomidoro fresca o in bottiglia,
• 1 cipolla dorata affettata,
• 1 cucchiaio di origano secco,
• farina bianca q.s.
• pangrattato q.s.
• 4 uova,
• sale fino e pepe bianco q.s.
• 1 etto di pecorino grattugiato.
procedimento:
Approntare innanzi tutto a fuoco vivace in una padella antiaderente, uno spesso, veloce (15 minuti) sugo di pomidoro facendo dapprima rosolare in un bicchiere d’olio la cipolla affettata ed aggiungendo poi la passata,il sale,il pepe ed a fuochi spenti l’origano.Mantenere in caldo il sugo. A seguire, poggiare le fette di filetto su di un tagliere e tenerle ferme con una mano, mentre con l’altra, servendovi di un coltello affilatissimo a lama larga, sottile e flessibile, aprirle longitudinalmente seguendo lo spessore, in pratica dividendo lo spessore delle fette, ma senza separare le due parti in modo da ottenere delle fette di filetto che aperte risultino, per ampiezza, il doppio delle originarie fette e, per spessore, la metà; sciacquarle velocemente sotto un getto d’acqua fredda, asciugarle con carta assorbente da cucina e rimetterle aperte sul tagliere sistemando , in ogni fetta cosí aperta, una per lato, (non l’una sull’altra) due fettine di speck, fettine che si possono anche piegare in due se risultassero troppo ampie; sistemate infine al centro una o due sottili fettine di caciocavallo e richiudere le fette di filetto fermandole con un paio di curadenti per ogni fetta; sbattere a spuma le uova con un pizzico di sale fino e due di pepe bianco;porre un altro bicchiere d’olio in una padella di ferro nero e portarlo a temperatura; intanto infarinare i cordon bleu,intingeteli nell’uovo, rollarli nel pangrattato e friggerli nell’olio bollente per non piú di 3’ per lato, rivoltandoli delicatamente per non farli aprire; prelevarli con una schiumarola,salarli leggermente e sistemarli l’uno accanto all’altro in una teglia da forno unta con l’olio residuo; spolverizzare i cordon-bleu con tutto il pecorini e gratinare in forno caldo (160°) fino a che si formi una delicata crosticina. Distribuire a specchio in ogni singolo piatto alcune cucchiaiate di sugo, adagiarvi sopra due cordon-bleu e mandarli in tavola caldi di forno con un contorno di purea di patate o verdure stufate.
nota
È, per chi ama la carne, una ricetta gustosissima e tutta la difficoltà della ricetta sta nell’aprire a libro i filetti (i meno esperti possono ferirsi con il coltello affilatissimo…); se la faccenda risultasse troppo difficoltosa ci può pensare il macellaio!
In luogo dei filetti di vitello, con il medesimo procedimento ed identici ingredienti si posson prepare dei cordon bleu fatti con petti di pollo o tacchino, ma il filetto di vitello o manzo à tutt’un altro sapore, e la carne bianca lasciàmola alle cucine degli ospedali e delle cliniche!
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Npoli, bbona salute!
raffaele bracale

PRIEZZA & dintorni

PRIEZZA & dintorni
Questa volta, contrariamente a quanto succede spesso, non ò ricevuto da alcun amico la sollecitazione a parlare della parola in epigrafe e dei suoi eventuali dintorni; l’idea di parlarne mi è venuta ascoltando la canzone A Marechiaro in una pregevolissima interpretazione di Tito Schipa nome d'arte di Raffaele Attilio Amedeo Schipa (Lecce, 27 dicembre 1888 † New York, 16 dicembre 1965), che è stato un tenore considerato uno dei piú grandi "tenori di grazia" della storia dell'opera e che non à disdegnato di interpretare(lasciandone ottime incisioni) numerose canzoni napoletane, tra le quali per l’appunto quella A Marechiaro di Di Giacomo(Napoli, 12 marzo 1860,† ivi 4 aprile 1934) e Tosti (Ortona, 9 aprile 1846 –† Roma, 2 dicembre 1916) nella quale il poeta partenopeo scrive testualmente:
Quanno spónta la luna a Marechiaro,
pure li pisce nce fanno a ll'ammore...
Se revòtano ll'onne de lu mare:
pe' la priézza cágnano culore...
versi che a senso si posson rendere con:
Quando la luna appare (sul mare) di Marechiaro
Anche i pesci (si sentono spinti a) fare l’amore…
Si increspano le onde del mare:
per la gran gioia mutano di colore…
Colpito dalla bella immagine con la quale il poeta à inteso mettere in relazione l’increspatura delle onde con quel sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo che è proprio dell’essere umano, mi son deciso ad illustrare la voce napoletana in epigrafe, eventuali sinonimi e qualcuna delle corrispondenti voci dell’italiano.
Entriamo súbito in medias res parlando della napoletana priezza s. f. = gioia, allegria,ed addirittura tripudio,contentezza, letizia tutte voci che esprimono la festosa manifestazione di uno stato d'animo felice, gaio; in effetti la napoletana priezza (che un tempo fu registrata come prejezza (cfr. G.B. Basile , G.C. Cortese ed altri ) è vocabolo ( che ritroviamo con qualche diversa morfologia anche in altri linguaggi regionali centro-meridionali cfr. calabrese:prijízza, salentino: priscezza, pugliese: prescézze e varianti, abruzzese:prejézza) usato per significare qualcosa in piú della semplice gioia, qualcosa che va al di là anche della allegrezza vivace, della gaiezza giungendo addirittura ad una manifestazione vivace e rumorosa di felicità, di esultanza la stessa che si ritrova nei termini tripudio e letizia.
Non tranquillissima l’etimologia di priezza; c’è disparità di vedute tra gli addetti ai lavori di cui ò potuto compulsare i calepini; riferisco in primis l’idea dell’amico avv.to Renato de Falco che legge in priezza (cosa che del resto in ultima analisi fa pure il prof. M.Cortelazzo) una derivazione del lat. pretium nel senso di ricompensa remunerativa, appagante, allietante atteso che per l’amico de Falco la priezza è addirittura un giubilo ai confini dell’entusiasmo, un rallegramento intimo e profondo traboccante di soddisfatto appagamento, una gratificazione vera e propria che si può ritrovare appunto nel pretium latino. Voglio bene all’amico de Falco e molto lo stimo come glottologo e ricercatore del napoletano, ma questa volta penso che si sia lasciato trascinare dal suo amore per il latino e per il greco e non abbia colto la sforzatura semantica presente nella sua ipotesi;ragion per cui non mi sento di seguirlo lungo il percorso che à ipotizzato; ugualmente poco praticabili m’appaiono i sentieri etimologici imboccati dal defunto prof. F. D’Ascoli e dall’altro amico il carissimo prof. Carlo Iandolo; ambedue pensano ad un deverbale di priarse = rallegrarsi,gioire epperò per quanto riguarda l’etimo di priarse ànno idee diverse che semanticamente non mi convincono: Iandolo ipotizza (dubitativamente però) un lontano lat. precari sibi= pregare per sé con fiducia e speranza e francamente non trovo legami semantici fra un pregare (sia pure) per sé ed il rallegrarsi, lo gioire; il D’Ascoli (forse sulla scia del D.E.I.) pensa al catalano prehar che deriverebbe dal tardo lat. pretiare (ed ecco che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra il pretium ipotizzato da de Falco e dal Cortelazzo, portandosi però dietro, come ò detto – a mio avviso – una qualche incongruenza semantica che si legge nello sforzato legame tra la ricompensa remunerativa, appagante, allietante di pretium e la vera e e propria allegria e gioia che non mi pare siano obbligatoriamente frutto di remunerazione! No, non ci siamo! Non mi sento di seguire né D’Ascoli, né l’amico Iandolo, né Cortelazzo,né il D.E.I. e neppure l’amico de Falco. Meglio, a mio avviso,affidarsi al Rohlfs che lesse in priezza un ant. francese preister.
Sistemata cosí la voce priezza rammenterò che in napoletano i sinonimi di tale voce piú usati sono i seguenti:
addecrío/arrecrío s.m. = esultanza, piacere anche fisico, non solo spirituale, soddisfazione; come si vede si tratta di voce che si riferisce a sentimenti piú pregnanti e corposi dell’esaminata priezza; etimologicamente il vocabolo a margine ( ne parlo al singolare trattandosi infatti di un solo termine attestato sia come addecrío che nella forma arrecrío con la tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d che diventa r) è un deverbale di addecrià/arse/arrecrià/arse = allietare/arsi, sollazzare/arsi, provare allegria che etimologicamente è da un lat. volg. *ad-recreare→arrecreare→arrecriare= vivificare, dar conforto e ristoro.
allerézza/allería s.f. allegrezza vivace; gioia, gaiezza, ilarità pur senza giungere a manifestazioni di entusiasmo, festosità, tripudio, manifestazioni che appartengono invece alla esaminata priezza; etimologicamente ambedue le voci a margine derivano probabilmente dal fr. ant. allègre, che è dal lat. alacre(m):
alleria si è forse formata aggiungendo al tema alle(g)r il suffisso femminile di nomi astratti ía ( suffiso greco in quanto sposta sulla desinenza l’accento, mentre lo ia suff. latino mantiene l’accento radicale per cui si sarebbe ottenuto allèria e non l’attestata allería;
allerezza si è invece forse formata aggiungendo al tema alle(g)r il suffisso femminile ezza che ripete il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Però se non si vuole pensare per l’etimologia delle voci a margine al fr. ant. allègre con la successiva strada morfologica che ò indicato, si può ipotizzare, come fa il prof. C. Iandolo, direttamente un lat. volg. *allecritia→allegritia e successiva semplificazione gritia→ritia (cfr. gruosso→ruosso); questa strada (aggiungo io) ci consente poi forse di ottenere ambedue le voci allerézza ed allería:1)*allecritia→allegritia→alleritia→allerezza:
2) *allecritia→allegritia→alleritia→aller(it)ía;
Cuntentezza s.f. astratto contentezza, appagamento, soddisfazione intima, allegrezza anche vivace; gioia, gaiezza, ilarità che possono anche giungere a manifestazioni di entusiasmo, festosità, tripudio, manifestazioni che appartengono alla esaminata priezza; etimologicamente la voce è un derivato di contento ( dal lat. contentus, part. pass. di continēre "contenere", quindi propriamente "contenuto, pago di qualcosa, appagato)con l’aggiunta del suff. femminile ezza che ripete il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Contiento/cuntiento s.m. letteralmente oggi, sebbene voce in disuso,(con etimo dal lat. contentus, part. pass. di continēre "contenere", quindi propriamente "contenuto, pago di qualcosa, appagato) indica il sovrappiú, l’aggiunta, il contentino, ciò che si dà, o meglio si dava in piú di quanto stabilito o dovuto, per accontentare qualcuno, come nel caso delle derrate alimentari concesse gratuitamente dal negoziante in aggiunta o eccedenza sul peso;un tempo, soprattutto la prima delle due voci a margine venne invece usata quale esatto sinonimo della voce precedente;ò trovato altresí usata la voce cuntiento impropriamente in luogo di cuntento che è invece l’esatta forma in napoletano dell’italiano contento.
Joja s.f. astratto voce desueta e pochissimo usata anche nel passato nel significato di gioia, gaiezza etc. avendo i napoletani usato sempre una delle voci fin qui esaminate con preferenza per priezza o allerezza; la voce a margine (che a mio avviso deriva dal fr. joie, che è dal lat. gaudia, neutro pl. di gaudium ) fu registrata da R. D’Ambra nei soli significati di zacchera, bagattella,ciancia, baia per cui è giocoforza pensare che i significati di
1sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo; allegria, letizia, felicità,
2 persona, fatto o cosa che è causa di felicità, fonte di soddisfazione o di consolazione siano significati attribuiti alla voce a margine solo successivamente, tenendo dietro al significato della voce francese donde si trasse quella di cui parlo.
Rammento a margine della voce testé esaminata che il napoletano d’antan ebbe anche la voce gioja ma con etimo dallo spagnolo joja nel significato (che esula da quelli in esame) di gemma, gioia, monile
Scialata s.f. voce dall’ampio ventaglio di significati tra i quali in primis: largo e sovrabbondante uso di danaro o di beni, sfarzo, lusso smodato ma (ed è il caso che ci occupa) per ampiamento semantico il grandissimo godimento e l’enorme soddisfazione con relative allegria, letizia, felicità che se ne ricava. Etimologicamente è un deverbale di scialare che è dal lat. ex-halare= espirare, metter fuori, spandere.

Giunto a questo punto e prima di concludere illustrando qualcuna delle voci dell’italiano estranee al napoletano, ma riportate in queste paginette mi pare utile indicare una sorta di scala di valori delle voci napoletane riportate, partendo dalla voce che indica il moto d’allegrezza meno forte e/o profondo, per giungere a quello maggiore e/o piú corposo.
Abbiamo nell’ordine partendo dal basso: joja, cuntiento, cuntentezza, allerezza, priezza, addecrio, scialata.
Veniamo in coda alle accennate voci forti o strane o meno note dell’italiano, pur se mi limiterò, per non eccedere, ad illustrarne solo alcune;precisamente abbiamo:
esultanza: s. f. [dal lat. tardo exsultantia]. - Gioia intensa e anche chiassosa.In napoletano si rende con addecrio
letizia s. f. [dal lat. laetitia(m), deriv. di laetus 'lieto' ]. gioia, allegria molto intensa,soprattutto spirituale spesso accompagnata da manifestazioni esteriori. In napoletano si può rendere con priezza.
tripudio s. m. [ dal lat. tripudiu(m), comp. di tri- 'tri-' e pís pedis 'piede', prob. perché la danza aveva un ritmo di tre tempi che si batteva con il piede a terra. ]
1 nell'antica Roma, danza dei sacerdoti salii |
(poet.) danza
2 manifestazione vivace e rumorosa di gioia, di esultanza;
3 (fig.) aspetto gioioso. In napoletano si può rendere con allerezza.

Zacchera s. f.[dal longob. zahar 'goccia, lacrima ].
1 schizzo di fango sui vestiti o sulle scarpe; pillacchera:
2 (fig. non com.) inezia, bagattella, cosa da nulla;
ciancia s. f.[deverbale di cianciare voce onomatopeica= fare discorsi inutili ;2 divertirsi, scherzare. ]. 1 (spec. pl.) discorso inutile, sconclusionato o non rispondente al vero: raccontar ciance
2 (ant.) scherzo, burla.
baia s. f.[ dall'ant. baiare "abbaiare" ]. scherzo, canzonatura, spec. nella loc. dar la baia, prendere in giro, burlare; sciocchezza, inezia. Sia ciancia che baia nel significato di scherzo, burla, canzonatura si rendono in napoletano con pazzía voce deverbale del greco pàizō= giocare.
E qui penso di poter far punto, appagato di quel che ò scritto. Satis est.
Raffaele Bracale

SALSICCIA E DINTORNI

SALSICCIA E DINTORNI

Stavolta invito tutti i lettori a leccarsi con me le dita; intendo, infatti parlare di uno squisitissimo alimento e cioè della salsiccia famosissimo insaccato di carne e grasso di maiale tritati piú o meno sottilmente, addizionati di varie spezie, impastati ed insaccati appunto in un budello piú o meno grosso (seconda il tipo di salsiccia che se ne vuole ottenere) del medesimo maiale o talvolta d’agnello e può esser consumato crudo (seccato ed affumicato) o cotto (fritto, al forno o in umido); la salsiccia è preparata e venduta o in un unico pezzo di budello lungo circa 60 o 70 cm. o – piú spesso – tale lungo pezzo è suddiviso, mediante legatura in tante parti dette in lingua italiana rocchi che risultano alti all’incirca 5 o 6 cm. cadauno; i rocchi (al sing. rocchio) in napoletano son détti capa o capo ‘e sasiccia (vedi oltre); salsiccia etimologicamente risulta derivare molto probabilmente, se non certamente, da un incrocio tra l’aggettivo latino salsus/a ‘salato/a’ e la voce popolare ciccia (che può esser sincope di carniccia→c(arn)iccia = carne;
rocchio di cui rocchi è il plurale è in primis un blocco di pietra di forma cilindrica che compone il fusto di una colonna e poi estensivamente un pezzo cilindrico di qualcosa: un rocchio di salsiccia, ogni porzione di salsiccia compresa fra due nodi; un rocchio di carne, un pezzo di carne magra, senza osso. etimologicamente rocchio è un derivato metaplasmatico del lat. rotulu(m)→rot’lu(m)→roclu(m)→rocchio= ‘rotolo’
In napoletano salsiccia si rende con la voce saciccia che non è un adattamento corruttivo della voce italiana, ma etimologicamente deriva da un tardo lat. *salsicia, neutro pl.inteso poi femminile , incrocio di salsus 'salato' e insicia 'polpetta', deriv. di insecare 'tagliare';
la voce rocchio come porzione compresa fra due nodi, si rende in napoletano – come ò detto - con il termine capo/a (‘nu capo o ‘na capa ‘e saciccia) con derivazione dal basso latino capum per il classico caput =capo poi che, a mano a mano che i singoli rocchi della salsiccia vengon resecati il successivo risulterà pur sempre in testa, in capo alla lunga residua salsiccia.
Tra i varî tipi di salsiccia da rammentare sono la luganega o lucanica, la cervellata, la nnoglia, il biròldo.
luganega o lucanica: tipica salsiccia diffusa in un po’ tutta l’Italia; infatti molte nostre regioni si contendono le origini di questo straordinario prodotto di salumeria, i milanesi si tramandano una leggenda (e sottolineo leggenda) per la quale, pare che la regina longobarda Teodolinda abbia inventato la procedura di produzione della Luganega (questo è il nome piú comune nell'area milanese), anche i veneti ne reclamano le origini e come loro anche molte altre regioni, ma sono Cicerone e Marziale che ci liberano definitivamente del dubbio sulle origini di questa salsiccia: infatti nei loro scritti testimoniano apertis verbis che la lucanica venne introdotta a Roma dalle schiave lucane.
Anche Marco Terenzio Varrone, nel suo De re rustica, descriveva cosí la lucanica dando ulteriore testimonianza delle sue origini: “…una carne tritata,speziata, insaccata in un budello, cosí chiamata perché i nostri soldati ànno appreso il modo di prepararla dai Lucani”.Fa rabbia pensare che la salsiccia lucanica (della Lucania) , portata al nord dai soldati romani (tra i quali numerosissimi meridionali: campani, lucani, bretti, apuli etc.) abbia perduto la propria identità linguistica e sia corrotta in luganega; ancóra maggior rabbia fa il pensare che veneti e lombardi se ne siano appropriata ed arrogata l’origine e con il nuovo nome l’abbiano poi trasmessa ai posteri millantando d’esser loro gli ideatori di tale autentica leccornia che è invece incontrovertibilmente meridionale!
Apicio, poi, nella sua celebre opera De re coquinaria, ne fornisce chiaramente la ricetta (reperibile anche sul WEB);
cervellata o cerevellata è una tipica salsiccia d’origine pugliese, poi trasmigrata in molte altre regioni centro meridionali; in terra d’Apulia essa fu un tempo una salsiccia a base di carni miste (bovine,ovine,suine), cervello bovino o suino ed aromi: sale, pepe, basilico, prezzemolo, affine (quanto alla grandezza: 10-12cm. di lunghezza e 4 cm. di circonferenza per rocchio) alla lucanica; nel napoletano ove è conosciuta con il diminutivo cervellatina è salsiccia lunga tra gli 8 ed i 10 cm e 3 cm. di circonferenza per rocchio, ma è di sola carne suina tritata finissimamente e con l’aggiunta di aromi: sale, pepe e talvolta vino per rendere piú umido l’impasto; la voce cervellata o cerevellata ed il diminutivo cervellatina ànno il loro etimo nel latino cerebellu(m), dim. di cerebrum 'cervello'atteso, come detto, che un tempo (ora non piú!) la cervellata conteneva del cervello macinato con le altre carni, al fine di render l’impasto piú morbido ed umido.
A margine di tutto quanto detto fin qui rammenterò che a Napoli spesso le carni delle salsicce (in tutte le loro forme) non vengono macinate a macchina, ma triturate a mano con affilati coltelli ed in tal caso le salsicce cosí ottenute vengon dette sacicce a pponta ‘e curtiello (salsicce tagliate a punta di coltello), risultando piú gradite all’avventore, seppure piú costose; le carni triturate in tal guisa son dette allacciate che non è il part. plur. femm. dell’italiano allacciare= stringer con lacci, ma piuttosto il part. plur. femm. del napoletano allaccià o adaccià che con derivazione dal latino parlato ad + acia dal class. acies= tagli, sta appunto per tagliare minutamente con il coltello;al proposito rammenterò che nella cucina partenopea è ben noto il lardo allacciato (lardo pestato cioè lardo battuto lungamente con una affilatissima lama fino a che non risulti tanto spezzettato da ridursi in consistenza quasi di pomata) con cui si preparano squisiti intingoli.
nnoglie plurale di nnoglia: si tratta di una tipica salsiccia piccante, secca ed affumicata (dai rocchi brevi e stretti) in uso specialmente in provincia, che vien consumata al naturale o cotta in umido in talune minestre di vegetali, per insaporirle; tale salsiccia non è prodotta, come tutte le altre salsicce, con scelte carni dei suini, ma con carni di scarto e tritume d’interiora ed il suo nome nnoglia le deriva , attraverso il franc. andouille(con aferesi della a d’avvio e l’assimilazione progressiva nd→nn , forse da un tardo latino induviu(m) = ripieno(?).
Infine abbiamo o meglio avemmo (ché oggi purtroppo è di quasi impossibile reperimento anche nelle botteghe di macellai piú anziani) un tipico antichissimo salsicciotto che s’ebbe il nome di biròldo (con etimo dal lat. medioevale beroaldus); si tratta di un salsicciotto cilindrico di circa 10 cm. di altezza, di oltre 4 cm. di diametro confezionato con un trito abbastanza grosso di carni e grasso suini ricavati dalla pancetta della bestia, aromatizzati con sale, aglio trito e pepe e con l’aggiunta di sangue di maiale (almeno fino a quando fu possibile commerciarlo) o vino rosso; il salsicciotto insaccato in budello suino od equino era confezionato in singoli rocchi e veniva consumato al naturale con cottura alla brace viva o usato in alternativa alla nnoglia cotto in umido in talune minestre di vegetali, per insaporirle.Dispiace, e quanto!, dover ammettere che o per la insipienza di taluni legislatori, o per il mutar dei gusti taluni retaggi del desinare d’antan siano purtroppo andati perduti e spariti per sempre!

Raffaele Bracale