domenica 31 gennaio 2010

VARIE 535

1 - Quanno 'o mellone jesce russo, ogneduno ne vo’ 'na fella.
Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi (come l’italiano medio) è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore...
quanno = quando, allor che, nel momento che, ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo): avv. di tempo dal lat. quando con assimilazione progressiva nd→nn;
mellone = anguria, cocomero; in napoletano ‘o mellone è sia la pianta erbacea con foglie lobate e fusto strisciante, originaria dell'Asia e dell'Africa tropicale, coltivata nelle regioni temperate per i frutti commestibili (fam. Cucurbitacee) | il frutto di tale pianta, sferico od ovoidale, con polpa biancastra, gialla o arancione, dolce e profumata(mellone ‘e pane) sia la pianta erbacea con fusto strisciante, coltivata per il grosso frutto tondeggiante dalla polpa dolce, rossa e acquosa; anguria, (mellone d'acqua) (fam. Cucurbitacee); l’etimo della voce mellone è dal lat. tardo melone(m), nom. mìlo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mìlopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone; nella voce napoletana, al contrario della voce italiana melone che à mantenuto la scempia etimologica, si è avuto un tipico raddoppiamento popolare lella liquida l nella sillaba centrale;
jesce letteralmente esce e cioè si presenta, s’appalesa, si mostra voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ascí= uscire, sortire, venir fuori con etimo dal lat. volg. ab-exire→a(be)xire→axire→*assire→ascire;
russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;
ògneduno = ognuno pronome indef. [solo sing.] dal lat. omne(m) et de unu(m)
vo’/vole= vuole voce verb. (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulé/volere dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui;
‘na= una art. indeterm. femm. ed agg. numerale femm. nella sua grafia completa una; ‘na infatti è dall’acc. latino una(m) aferizzato;
fella= fetta, porzione ricavata per affettamento, pezzo di cibo tagliato largo e sottile: ‘na fella ‘e pane = una fetta di pane,’na fella ‘e pizza =una fetta di di torta; taglià a ffelle= tagliare a fette; l’etimo probabile è dal lat. volg. *offella(m), dim. di offa 'focaccia';
2 - Si 'o Signore me pruvvede, m'aggi' 'a fà 'nu quàcchero luongo nfino ê piere.
Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi, un po’ per sollevar l’invidia del prossimo e per modo che, ben coperto, non possa temere offese dall'esterno. .
Signore= signore, ma scritto con la maiuscola indica il Signore per antonomasia: il Padreterno, il Dio Padre; la voce a margine, che è presente anche nell’italiano è un derivato del Lat. seniore(m), compar. di senex senis , 'vecchio', ma è pervenuta nel napoletano probabilmente attraverso lo spagnolo señor o il franc. seigneur nel pari significato di piú vecchio, piú anziano;
pruvvede= dà provvidenza, dà assistenza ed aiuto voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pruvvedé =provvedere, disporre quanto è necessario affinché qualcosa non manchi o non subisca danni o avvenga felicemente; in partic., disporre il necessario per soddisfare un pubblico bisogno o per garantire una privata occorrenza; con etimo dal latino providíre, comp. di pro¯- a favore' e vidíre 'vedere'
m’ aggi’ ‘a fà = devo farmi; letteralmente: ò da fare per me ; locuzione verbale formata dalla 1° pers. sing. ind. pres. dell’infinito avé=avere (dal latino habíre; in napoletano l’aspirata d’avvio, intesa inutile e pletorica è eliminata) seguito dalla preposizione ‘a(da) e dall’infinito fà/fare (dal lat. sincopato fa(ce)re) nel significato di dover fare, dire etc. qlc.; il me d’avvio della locuzione vale il mihi latino dativo di vantaggio;
quàcchero neologismo di inizio 20° sec. sost. masch. intraducibile ad litteram, ma con attestato significato nel parlato di cappotto, lunga palandrana; la voce fu modellata sul termine quaccheri ( un movimento religioso appartenente al protestantesimo); il termine quàcchero proviene dall’inglese to quake che significa tremare, quindi significa "i tremolanti"; era l’appellativo con cui venivano indicati, in senso dispregiativo, gli appartenenti ad un movimento protestante, sorto nell’ambito della chiesa Anglicana in Inghilterra nel XVII secolo, perché nelle loro riunioni quando scendeva lo Spirito avevano alcune manifestazioni esteriori, fisiche, (tremori estatici), tra cui il tremare. Loro preferivano autodefinirsi: "Society of friends", ossia "Società degli amici" (di Gesù), e traevano questo nome dal Vangelo di Giovanni cap.15 ver.15, dove Gesù dice ai discepoli: "Io non vi chiamo piú servi; perché il servo non sa quel che fa il suo signore; ma voi vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio".
A Napoli, rammentando i lunghi, severi costumi indossati dagli aderenti al movimento suddetto fu assunto il sing. quàcchero come sinonimo di cappotto, palandrana;
luongo= lungo agg. qual. masch. dal lat. longu(m) con dittongazione popolare della sillaba d’avvio; la dittongazione manca nel femm. che è longa da longa(m);
nfino= fino, sino preposizione impropria ed altrove avv. dal lat. fine, abl. di finis 'limite', col significato preposizionale di 'fino a'; morfologicamente la n protetica di nfino nonè l’aferesi di (i)n, ma una consonante eufonica, per cui non va scritta con il segno d’aferesi ‘n ma semplicemente nfino;
ê piere = ai piedi; cominciamo con il sottolinere che ê (ai) è preposizione articolata plurale masch (ai – a gli). e femminile(alle) secondo una grafia fusa alternativamente di a + ‘e (li) o di a+ ‘e (le) e pertanto non vaconfusa con ‘e(i/le) art.determ. plur. maschile o femm; piere= piedi sost. masch. plurale del sing. pede/pèro= piede con etimo dal lat. pede(m) con la tipica rotacizzazione osco – mediterranea d/r nella variante pèro.

3- Ll'abbate Taccarella.
Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona;
abbate= abate, il superiore di un'abbazia o di un monastero
nel sec. XVIII, chiunque godesse di un beneficio ecclesiastico, pur avendo ricevuto i soli ordini minori, la voce a margine ed in epigrafe è usata in senso ironico essendo lo sparlatore, la malalingua, il tagliuzzatore persona non meritevole di alcun rispetto e/o considerazione, proprio al contrario di un autentico superiore di un'abbazia o di un monastero; l’etimo di abbate è dal lat. eccl. abbate(m), che è dall'aram. ab `padre', attrav. il gr. abbâ
il soprannome giocoso Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti, con derivazione dal sostantivo tacca= scheggia, pezzetto, a sua volta da un gotico taikn.
4 - T' hê pigliato 'e ccient' ove.
Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova. Id est: sei diventato pazzo. La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, quel tal Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo.
hê pigliato = ài preso, ài assunto, ài ingurgitato voce verbale (2° pers. sing. ind. pass. pross.) dell’infinito pigliare/piglià con etimo dal lat. volg. *piliare,per il class.pilare'rubare,saccheggiare';
ciento= cento agg. numerale dal lat. centu(m) con tipica dittongazione ie nella sillaba d’avvio intesa breve;
ove = uova sost. femm. plur. del masch. uovo, cellula germinativa o gamete femminile di forma per lo piú rotondeggiante o ellittica, di dimensioni variabili secondo la specie, con citoplasma piú o meno ricco di riserve nutritive; à origine nell'ovaio e da esso, all'interno o all'esterno del corpo materno, si forma l'embrione del futuro animale;
l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi; l’etimo è dal lat. volg. òvu(m), dal greco oòn.
5 - Moneca 'e casa: diavulo esce e trase, moneca 'e cunvento: diavulo ogni mumento.
Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, condannate a restar nubili, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; e la locuzione sostiene che tali monache di casa non fossero cosí irreprensibili come lasciavano intendere ed al contrario si dessero, di nascosto, alla buona vita; ai medesimi piaceri del corpo si riteneva di dessero anche le monacate dei monasteri e per ciò che attiene al convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca (1550 e ss.) e delle successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da quasi tutte suore ivi ospitate.( cfr. Cronaca del convento di Sant'Arcangelo a Bajano attribuito a Stendhal);
moneca ‘e casa letteralmente monaca di casa nel senso già spiegato; moneca= monaca, suora , colei che à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza sost. femm. del masch. monaco che deriva dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico';
casa = casa, dimora privata familiare con etimo dal lat. casa(m), propr. 'casa rustica'opposta alla domus, abitazione signorile del dominus;
diavulo= diavolo, nell'ebraismo e nel cristianesimo, potenza che guida le forze del male e si identifica con Lucifero, il capo degli angeli che si ribellarono a Dio, poi divenuto Satana, principe delle tenebre; per estens., ognuno degli altri angeli ribelli e la forza del male che essi incarnano | nella fantasia popolare è concepito per lo più come un mostro di forme umane con corna, ali, coda e altri attributi animaleschi, grande tentatore, amante di ogni disordine ed eccesso, con etimo dal lat. tardo diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabàllein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'; nella locuzione in epigrafe la voce a margine è usata – come ò già detto – in senso furbesco/osceno
jesce= esce, viene fuori voce verb. (3° pers. sing. pres.ind.) dell’infinito ascire/ascí = uscire venire fuori da un luogo chiuso, circoscritto o idealmente delimitato con etimo dal lat. volg. ab-exire→*axire→assire→ascire ;
trase = entra, penetra voce verb. (3° pers. sing. pres.ind.) dell’infinitotrasire/trasí = penetrare in un luogo, andar dentro, introdursi con etimo dal lat. volg. *trasire per il class. transíre;

cunvento =convento, edificio in cui vive una comunità di religiosi o religiose che ànno pronunciato voti solenni; nell'uso corrente, sin. di monastero sost. masch. con etimo, come per la corrispondente voce italiana, dal lat. conventu(m) 'adunanza, convegno', deriv. di convenire 'trovarsi insieme'; nella voce napoletana si è avuta la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
mumento = momento, periodo di tempo di varia durata, considerato in relazione alle condizioni che in esso si determinano; circostanza, occasione, opportunità con etimo dal lat. momentu(m),sincope di *movimentum, deriv. di movíre 'muovere'; propr. 'impulso, moto', poi 'peso che fa muovere (la bilancia)' e anche 'brevissimo periodo di tempo' con la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga;
6 - Frijere 'o pesce cu ll' acqua.
Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia, come sarebbe quello di una frittura, che d'altronde non si può acconciamente fare senza disporre di olio o di grasso;
frijere= friggere,cuocere nell'olio o in altro grasso bollente ed estensivamente rodersi, struggersi; fremerevoce verbale infinito dal verbo onomatopeico latino frígere con caduta della g sostituita dal suono di transizione intervocalico j;
pesce= pesce sost. masch. generico per indicare qualsiasi animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo più fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo che quando il pesce sia stato cotto e spolpato viene detto lisca da un tardo lat. lisca(m), di origine germanica; l’etimo di pesce è dal lat. pisce(m);
acqua= acqua, composto di idrogeno e ossigeno, presente in natura allo stato liquido (in mari, fiumi, laghi, nel sottosuolo o in forma di goccioline nelle nubi), allo stato solido (ghiaccio e neve) e allo stato di vapore (nell'atmosfera); costituente fondamentale degli organismi, in condizioni ordinarie è un liquido trasparente, inodore, insapore ed incolore, azzurrognolo se in grandi masse; l’etimo è dal lat. aqua(m) con raddoppiamento popolare della consonante q→cq.
7 - Meglio 'na mala jurnata, ca 'na mala vicina.
Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Id est: meglio sopportare gli effetti negativi di una giornata improduttiva o fastidiosa, che la frequentazione quotidiana con pessimi vicini, colleghi di lavoro ed assimilati… Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e probabilmente, con essa, i suoi effetti negativi, ma dei cattivi vicini, dei pessimi colleghi di lavoro, perdurante la loro stabile vicinanza, di giornate cattive ne possono procurare parecchie...ed a maggior ragione quando i cattivi vicini, i pessimi colleghi di lavoro siano di sesso femminile.
meglio = meglio, avv. e agg.nel senso di migliore con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, nell'uso pop. regionale, preceduto dall'art. determ. (‘o – il), à valore di superlativo relativo, equivalendo a il migliore (‘o meglio jucatore= il miglior giocatore, ‘o meglio attore= il migliore attore etc.);
con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, preceduto dall’art. determ. ‘o che comporta la geminazione della consonante m e seguíto dallo specificativo partitivo de (‘e) es.: ‘o mmeglio d’’o mmagnà= la cosa migliore del pranzo etc. l’etimo è dal lat. melius, neutro di melior -oris 'migliore'
mala= cattiva, non buona , brutta, trista agg. qual. femm. con etimo dal lat. malu(m) reso femm. *mala(m);
jurnata = giornata, il periodo compreso tra la mattina e la sera in rapporto al tempo atmosferico o al lavoro, all'attività che vi si svolge, oppure (come nel caso che ci occupa) agli avvenimenti che vi accadono; l’etimo è dal francese journée da un antico jornée derivati di journ/jorn= giorno;
vicina= vicina sost. femm. (dall’agg. qualif. vicino/a = che, chi non è lontano o è poco lontano nello spazio o nel tempo, confinante, anche chi à rapporti di parentela o di amicizia:
con etimo dal lat. vicina(m), deriv. di vicus 'villaggio'; propr. 'che appartiene allo stesso villaggio'.


8 - Fatte 'na bbona annummenata e va' scassanno chiesie.
Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese.Amara, disincantata osservazione della realtà dalla quale si ricava che ciò che conta nella vita è l’apparenza, piuttosto che la sostanza; in virtú di ciò, basta godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che goda di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma.
fatte= fatti= fa’ per te voce verbale (da non confondere con l’omografo ed omofono sost. masch. plur. di fatto= accadimento) (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito fà/fare
(con etimo dal lat. sincopato fa(ce)re) addizionato in posizione enclitica del pronome te→tte con valore di dativo di vantaggio per te;
bbona =buona, conforme al bene; onesta, moralmente positiva agg. qual. con etimo dal lat. bona(m);
annummenata/’nnummenata = nomea, rinomanza, nome, reputazione, fama letteralmente aggettivo poi sostantivato ricavato dal part. pass. femm. del verbo annummenà/’nnumenà= nominare, dare fama, reputazione con etimo dal lat.ad+ nominare,forma intensiva(vedi ad) di nominare deriv. di nomen -minis 'nome';
va’= vai voce verbale (2° pers. sing. imperativo) dell’infinito jí= andare ( con etimo dal lat. ire; ma per le forme che ànno per tema vad→vac derivano dal lat. vadere 'andare';
scassanno= rompendo,infrangendo ed estensivamente , come qui,rapinando, perpetrando furti voce verbale (gerundio)
dell’infinito scassare/scassà= rompere, infrangere etc. con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diversi; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto;
chiesie/chiese= chiese, luoghi di culto, sost. femm. plur. di chiesia/chiesa= comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane, ma piú spesso segnatamente il luogo, l’edificio dove si svolgono le riunioni e le cerimonie di culto delle confessioni cristiane (l’etimo è dal lat. ecclesia(m), derivato dal gr. ekklēsía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'.
9 -Ammacca e ssala, aulive 'e Gaeta.
Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo – lanciata dai venditori girovaghi o da quelli usi ad affacciarsi sulla imboccatura della propria bottega (per attirare a viva voce l’attenzioni di probabili clienti) di olive e con essa voce si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole sarcasticamente commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro (lavoranti e/o figliuoli) che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare.
ammacca= comprime, schiaccia, pigia voce verbale (3° pers. sing. ind. presente o altrove 2° pers. sing. imperativo) dell’infinito ammaccà = comprimere, schiacciare, pigiare (con etimo dal tardo latino ad+maccare forma intensiva (vedi ad) di maccare di pari significato; dal verbo maccare è derivata la voce maccarone (maccherone) = impasto schiacciato;
ssala= sala, cosparge di sale voce verbale (3° pers. sing. ind. presente o altrove 2° pers. sing. imperativo) dell’infinito salare/salà = c ondire un cibo col sale; e qui cospargere di sale un alimento per conservarlo ( denominale di sale ( lat. sale(m))
aulive = olive o ulive, s. f. plur. di auliva il frutto dell'olivo, costituito da una piccola drupa ovale, commestibile, ricca di olio commestibile: l’etimo della voce napoletana è dall’acc. lat. (il)la(m) uliva(m) con agglutinazione eufonica dell’ articolo ‘a da la;
Gaeta splendido comune laziale di 21mila abitanti circa, posizionato sul livello del mare nella parte bassa della Provincia di Latina, sede Arcivescovile, sede del Parco Regionale Riviera di Ulisse, dista circa 120 Km. da Roma e 80 Km. da Napoli. Le origini del nome di Gaeta sono tuttora avvolte nella leggenda:
Strabone indicò la sua provenienza dal termine Caiatasusato dai pescatori locali per indicare il sito, con chiaro riferimento all'ampia insenatura del suo golfo;
Diodoro Siculo collegò queste terre al mito degli argonauti facendo derivare il nome della città da Aietes, mitico padre di Medea (figlia di Circe), la maga innamorata di Giasone.
Virgilio, nell' "Eneide" (Eneide, VII, 1-4) trovò la sua origine nel nome della nutrice di Enea,Cajeta, sepolta dall'eroe troiano in quel sito durante il suo viaggio verso le coste laziali. Dante, quasi a significare la storicità dell'Eneide, confermò l'avvenimento (Inferno, XXVI, 92).
Salto a pie’ pari gli abbondanti riferimenti storici della città di Gaeta, rammentando solo che essa subí ben quattordici assedi che coincisero con importanti avvenimenti, a partire dalla sconfitta del ducato di Gaeta ( 1140 ca con annessione al Regno di Sicilia) fino all'ultimo assedio, quello tenuto dalle truppe del generale piemontese Cialdini nel 1861 (che sarà nominato duca di Gaeta) e che diede inizio all'unità d'Italia. In coda ricorderò che il 25 novembre 1848 il papa Pio IX si rifugiò a Gaeta, ospite dei Borbone, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, e vi rimase fino al 4 settembre 1849, periodo durante il quale Gaeta assunse la denominazione di "Secondo Stato della Chiesa". E fu proprio durante questo soggiorno che papa Pio IX venne illuminato dallo Spirito Santo durante le sue preghiere presso la Cappella d'Oro e proclamò il Dogma dell'Immacolata Concezione al suo ritorno a Roma.
Il 13 febbraio 1861 Francesco II di Borbone si arrese a Gaeta, ultimo baluardo del suo regno, capitolando all'assedio delle truppe del generale Enrico Cialdini (assedio di Gaeta (1860-1861)): determinando la fine del Reame delle Due Sicilie e iniziò l'unità d'Italia ad opera dei Savoia. Da questo momento in poi iniziò la lenta decadenza di Gaeta come importante centro politico, militare e amministrativo.
Storicamente parte dell'antica provincia di Terra di Lavoro in Campania, fu trasferita al Lazio nel periodo fascista, quando venne incorporata nella nascente Provincia di Littoria (Latina).

10 - Cca 'e ppezze e cca 'o sapone.
Letteralmente: di qui le pezze e di là il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do e il dai devono verificarsi senza soluzione di continuità, quasi contemporaneamente.
Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti sapunari appunto perché cedevano in cambio di abiti dismessi o stoviglie ed oggetti usati un tot di sapone quale merce di scambio.
cca = qua, in questo luogo, (indica il luogo dov'è chi parla o un luogo molto vicino a chi parla; è meno determinato di qui, non altrove avv. di luogo, talvolta usato impropriamente quale rafforzativo anche in locuzioni di tempo del tipo cca mmo mmo= immantinente, senza indugio; l’etimo è dal lat. ec)cu(m) hac, propr. 'ecco per di qua'; rammento che in napoletano esiste un altro monosillabo ca = che quasi omofono dell’avv. a margine, ma non si tratta di un avverbio, bensí di una cong. o pronome relativo; trattandosi di due monosillabi simili regola grammaticale vorrebbe che o l’uno o l’altro fosse corredato d’un segno diacritico (accento, apostrofo ); ò usato il condizionale in quanto si è trovata la strada piú immediata e comoda di usare sempre la geminazione della c iniziale, evitando erronei, pletorici ed inutili accenti per l’avverbio di luogo, per modo di avere non l’errato ccà (come talvolta mi è capitato di trovare negli scritti perfino di commediografi famosi) ma l’esatto cca= qua,mentre per la congiunzione/pronome ca si usa la c iniziale scempia ed in tal modo viene evitata la confusione tra ca e cca;
ppezze= pezze, stracci, ritagli di tessuti usati, cenci; altrove la voce a margine indicò pure delle grosse monete d’argento
sost. femm. plurale di pezza che è dal lat. pettia(m) forse dall’ant. tedesco pfetzen= brandello, pezzo, brano;
sapone= sapone, generico nome dei sali alcalini di acidi grassi, di consistenza pastosa o solida, usati come detergenti con etimo dal lat. sapone(m) affine a sapiu(m) ed all’ant. ted. sapp/sap= succo; propriamente il latino sapone(m), fu una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. (vedi sapp) e solo successivamente indicò le paste usate quali detergenti. In chiusura rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette che conosciamo , ma un tipo di sapone molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria non per la pulizia personale),di produzione artigianale, che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, affettato, staccandolo con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone di piazza, perché venduto non in negozio, ma esclusivamente per istrada /piazza da venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari )che ne erano anche i produttori.
Raffaele Bracale

VARIE 534

1 -Rompere 'o chitarrino
Ad litteram: rompere la piccola chitarra id est: infastidire, tediare, annoiare e molestare al punto di procurare sia pure figuratamente la rottura del sedere che, nella locuzione è detto con riferimento alla sua sonorità, chitarrino usando uno degli oltri venti sinonimi con cui nel napoletano, si indica il culo.
2 -Rompere 'o 'nciarmo
Ad litteram: rompere l'incantesimo Locuzione dalla doppia valenza. in primis, tenuto presente che la parola 'nciarmo viene dal latino carmen nel significato di malía, incanto, la si usa per significare: scongiurare un malocchio, scoprire un inganno.
In una differente valenza la locuzione la si usa per indicare che ci si è decisi finalmente a principiare con decisione alcunché, abbandonando una incantata posizione di stallo e quiete accidiosa.
3 -Rompere ll'ova dint’ô panaro
Ad litteram: rompere le uova nel paniere id est: infastidire qualcuno oltremodo mettendogli i bastoni tra le ruote fino al punto di pregiudicargli e far fallire quanto da lui intrapreso, come chi si divertisse a frantumare le uova che la contadina avesse pazientemente raccolte in un cestino.
4-Romperse 'e gamme
Ad litteram: rompersi le gambe Locuzione usata soprattutta in forma di imperativo: rúmpete 'e gamme o rumpíteve 'e gamme (rómpiti le gambe o rompétevi le gambe) Id est: sii o siate solleciti nel fare quanto vi è stato detto di fare; precipitatevi all'azione con tanta rapida foga al punto che, iperbolicamente, ve ne derivi la rottura delle gambe.
5-Rutto pe rutto
Ad litteram: rotto per rotto id est:Locuzione usata per significare: giacché si è giunti alla rottura di un rapporto, di un'amicizia o di quant'altro si voglia, è inutile stare a recriminare o a baloccarsi con i relativi cocci, tanto vale dare un definitivo taglio netto e pervenire alla totale eliminazione di ogni tipo di frequentazioni.ovvero: giacché siamo a questo punto, perveniamo pure alle estreme conseguenze!
6 - Sapé 'a lecca e 'a mecca
Ad litteram:sapere la lecca e la mecca Id est: essere a conoscenza di un po' tutto quel che c'è da sapere e anche addirittura di quel che è inopportuno conoscere.
Locuzione usata a stupíto commento delle meraviglie narrate da coloro che avendo girato il mondo usano riferirle ad attoniti ascoltatori ; con altra valenza è usata per indicare che ci si fa meraviglie di quante cose siano a conoscenza di taluni giovani che, data la loro tenera età, non si presupporrebbe potessero conoscere tante cose.
Intorno alla locuzione in epigrafe ed alla sua genesi svariate sono le ipotesi. Io stesso nei lontani anni '70 del 1900 proposi sulle colonne del quotidiano napoletano ROMA, nella rubrica Mosconi tenuta dalla prof.ssa Settimia Cicinnati un'opinione che poi - pare - abbia trovato parecchi proseliti tra i cultori di cose napoletane. Orbene posto che la locuzione nasce storicamente in Sicilia e lí recita: firriari lecca e Mecca ovvero: girare tra Lecca e Mecca, reputo che la Mecca della locuzione non possa esser altro che la città sacra dei mussulmani e atteso che i siciliani dell'anno 1000, di quei loro invasori che vedevano firriari a dritta e mancina sulla terra siciliana a stento conoscevano il nome de La Mecca a loro si vollero riferire coniando la locuzione dove è chiaro che il termine Lecca non corrisponde a niente di concreto e reale, ma sia stato coniato per bisticcio ed allitterazione con il seguente Mecca
Successivamente la locuzione trasmigrò dalla Sicilia alla Campania, mantenendo la duplice valenza cui accennavo , anzi aggiungo che i napoletani piú anziani e dunque i piú facili a scandalizzarsi davanti ad irriverenti conoscenze dei giovani solevano completare la locuzione in epigrafe aggiungendovi un: e 'a via smaldetta (e la via maledetta)dicendo di un giovane che si mostrasse troppo addentrato nelle segrete cose che egli sapeva 'a lecca, 'a Mecca e 'a via smaldetta id est: conosce la lecca la Mecca e la via maledetta ossiaquella della perdizione.
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VARIE 533

1Fà zite e murticielle e battesime bunarielle.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco.
2 Vieste Ciccone, ca pare barone.
Letteralmente:vesti Ceccone e sembrerà un barone. La locuzione napoletana stravolge completamente quella toscana che afferma: l'abito non fa il monaco. Il detto partenopeo, al contrario, afferma che basta vestire accuratamente un qualsiasi Ceccone (villano) per farlo apparire un barone...
3.Pigliarse 'e penziere d''o Russo.
Letteralmente: Prendersi i pensieri del Rosso. Id est: preoccuparsi di faccende senza importanza, trascurandone altre ben più importanti.Il Rosso della locuzione fu un famoso ladro, che condannato al capestro, invece di preoccuparsi della propria sorte, si chiedeva chi sarebbe stato incaricato di portare la scala necessaria all'esecuzione.
4.Jí facenno 'e ssette chiesie.
Letteralmente: Andar visitando le sette chiese. Id est: andar perdendo tempo occupato nella visita delle altrui abitazioni e non per una reale necessità o incombenza, ma per il gusto di bighellonare, soffermandosi nelle case di amici e conoscenti. Le sette chiese indicate nella locuzione, a Napoli sono ben note a tutti essendo quelle disseminate sulla famosa strada di Toledo partendo da piazza Dante per giungere a piazza del plebiscito o Largo di PALAZZO. Esse nell'ordine sono:Spirito santo - San Nicola alla Carità - San Liborio - Santa Maria delle Grazie - Santa Brigida - San Ferdinando - San Francesco di Paola e vengon visitate da tutti i napoletani che nel pomeriggio del giovedì santo si recano a fare il tradizionale "struscio" ossia la passeggiata rituale che comporta la visita (da farsi in numero dispari)dei così detti Sepolcri ossia delle solenni esposizioni del SS. Sacremento, che si tiene in tutte le chiese cattoliche per ricordare l'istituzione del sacramento dell' Eucarestia.
5.Vestirse 'a fesso.
Letteralmente: indossare l'abito dello stupido. Id est: comportarsi in maniera volutamente sciocca, fare lo gnorri, tenere un comportamento da stupido nella speranza che così facendo si possa indurre una ipotetica controparte a non calcar la mano con pretese e richieste e raggiungere così il fine sperato con poca fatica e minimo impegno.E' l'atteggiamento che temporibus illis tenevano taluni chiamati alle armi per evitare la partenza per il fronte.Il fatto era compendiato nella frase: fà 'o fesso pe nun gghí a' guerra(fare lo sciocco per non andare in battaglia; spesso si raggiungeva lo scopo, giacché non erano graditi soldati stupidi.
6.Fà 'nu sizia-sizia.
Letteralmente: fare un sitio- sitio Id est: richiedere ripetutamente e lamentosamente qualcosa con ossessiva petulanza. La locuzione nasce prendendo spunto dal Sitio! pronunciato da Cristo sulla croce. Alla richiesta del Signore i soldati risposero offrendogli dell'aceto che misto ad acqua è la bevanda più adatta a spegnere l'arsura.
7.Essere 'na pimmice 'e canapé.
Letteralmente: essere una cimice annidata in un divano. Id est: essere inaffidabile, subdolo e perfido come una cimice che - secondo la credenza popolare - è pronta a tradire il proprio simile o colui che abbia la sventura di tenerla nascosta nel proprio divano; il primo ad essere morsicato sarà proprio il padrone del divano.
8.Ma tenisse 'e gghiorde?
Letteralmente: fossi affetto da giarda? Domanda retorica che con aria insolente, viene rivolta a Napoli, a qualcuno che appaia pigro, indolente, scansafatiche, che non si muove, nè fa alcunché, quasi fosse affetto da giarda la malattia che colpisce le giunture ed in ispecie il collo del piede dei cavalli producendo eccessiva enfiagione delle zampe delle bestie, impossibilitate, per ciò a procedere speditamente.
9.Jí cercanno 'mbruoglio, aiutame!
Letteralmente: andare alla ricerca di un imbroglio che possa aiutare. Id est: quando ci si trovi in situazioni o circostanze tali che non lascino intravedere vie d’uscita, l’unico mezzo di trarsi d’impaccio è quello di rifugiarsi in un non meglio identificato ‘mbroglio (imbroglio,astuzia, inganno, moto di destrezza) che in un modo o in un altro consenta di risolver la faccenda. La locuzione a Napoli è usata a salace commento delle azioni di chi, per abitudine, non è avvezzo ad agire con rettitudine o chiarezza e per habitus mentale si rifugia nell’imbroglio, pescando nel torbido.
10.Appíla ca esce feccia!
Letteralmente: tura che esce feccia. È questo il comando imperioso dato dall'oste al garzone che stia aiutandolo a travasare il vino affinché ponga lo stoppaccio o zipolo alla botte quando, oramai vuotata, questa comincia a metter fuori la feccia o (in gergo) la mamma del vino; per traslato è il caustico ed imperioso comando che a Napoli si suole dare a chi - colloquiando - cominci a metter fuori sciocchezze o, peggio ancora, offese gratuite.
11. pprimma entratura, guardateve 'e ssacche!
Letteralmente: entrando per la prima volta, in qualche sito sconosciuto, badate alle tasche; id est: state attenti alle nuove frequentazioni specie di sconosciuti che possono derubarvi o procurare altri danni.
12.Meglio scommunicato, ca communicato 'e pressa.
Letteralmente: meglio scomunicato che comunicato di fretta.Id est: il danno morale è da preferirsi al danno fisico, soprattutto quando questo sia il danno ultimo, definitivo:la morte; communicato 'e pressa significa: ricevere il Viatico.
13.Doppo magnato e víppeto" â salute vosta".
Letteralmente: Dopo d'aver mangiato e bevuto:"alla vostra salute". L'espressione in epigrafe si usa a Napoli, per commentare sarcasticamente il comportamento scorretto di chi approfitti di una situazione proficua e posticipi gli atteggiamenti augurali, dopo di aver già goduto di benefici per i quali la buona norma vorrebbe che gli auguri venissero fatti antecedentemente prima cioè di godere dei frutti di azioni comuni; a mo' d'es.: un brindisi va fatto prima, non dopo una bevuta corale.
14.Metterse 'e casa e puteca.
Letteralmente: porsi di casa e bottega. Id est:accingersi ad un lavoro con massima attenzione ed attaccamento puntiglioso come chi dura la propria vita in quella che sia contemporaneamente casa e sede del proprio operare cui potersi dedicare senza soluzione di continuità e senza perdite di tempo che invece ci sarebbero qualora ci si dovesse spostare dalla bottega alla casa e viceversa.
15.Fà 'o scrupolo d''o ricuttaro.
Letteralmente: fare lo scrupolo del magnaccia. Id est: scandalizzarsi grandemente al cospetto di altrui veniali mancanze, alla stregua di un lenone abituato a compiere gravi mancanze che si scandalizzasse di piccoli reati compiuti da altre persone.La locuzione è usata a Napoli appunto per bollare il comportamento chiaramente falso di chi abitualmente incline a delinquere mostra di scandalizzarsi davanti a piccole mancanze...
16.Purtà p''e viche.
Letteralmente: menare per i vicoli. Id est: comportarsi truffaldinamente nei confronti di qualcuno, imbrogliandolo, confondendolo, rimandando sine die il compimento di promesse formulategli, conducendolo per tortuosi e dispersivi vicoli in luogo della retta e più breve via maestra. L'espressione è normalmente intesa in senso figurato, ma potrebbe esserlo anche in senso concreto nel deprecato caso del furbo tassista che,invece di andare diritto alla meta, porti il povero passeggero in giro per la città prima di depositarlo a destinazione.
17.'A raggione s''a pigliano 'e fesse.
Letteralmente: la ragione se la prendono gli sciocchi. La locuzione con aria risentita viene profferita da chi si vede tacitato con vuote chiacchiere, in luogo delle attese concrete opere.
18.Se so' stutate 'e llampiuncelle.
Letteralmente: si sono spente le luminarie. Id est: siamo alla fine, non c'è più rimedio, non c'è più tempo per porre rimedio ad alcunché, la festa è finita.
19.Truòvate chiuso e piérdete chisto accunto.
Letteralmente: Tròvati chiuso(fatti cogliere inopinatamente con l’esercizio commerciale chiuso) e pèrditi questo cliente.La divertita locuzione viene usata in senso ironico a commento della situazione antipatica in cui qualcuno abbia a che fare con persona pronta ad infastidire o a richiedere i maggior vantaggi da un quid senza voler conferire il giusto corrispettivo, come nel caso ad es. di un cliente che entri in un esercizio commerciale soloosservare la merce senza mai comprarla o di un cliente che pretenda di accaparrarsi la miglior merce, ma sia restio a pagare il giusto prezzo dovuto.
Anticamente l’espressione veniva ironicamente usata anche nei confronti d’un pretendente che osasse chiedere in isposa una fanciulla fornita di adeguata dote, senza offrire adeguato corrispettivo.
Il s.vo m.le accunto = cliente deriva dal latino: adcognitus→accognitus=conosciuto, noto.
20.Fà tre fiche nove rotele.
Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli. Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera con le parole e si ammanta di meriti che non possiede, né può possedere. Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle Due Sicilie e corrispondeva in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario,ad 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, è in uso ancora oggi a Malta che, prima di divenire colonia inglese, apparteneva al Regno delle Due Sicilie. Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.
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VARIE 532

1. Barba, capille e ppalluccella ‘mmocca specialmente nell’espressione serví ‘e barba etc.
Ad litteram: barba, capelli e pallina in bocca specialmente nell’espressione servir di barba etc. Cosí, un tempo, veniva indicato il “servizio” completo offerto dai barbitonsori girovaghi, che per pochi soldi servivano il cliente di rasatura di barba e taglio di capelli, offrendo per sopramercato al cliente una piccola sfera che inserita in bocca e trattenuta tra denti e guancia, consentiva a questa di tendersi in maniera da favorire la rasatura; la sfera offerta, naturalmente monouso, era costituita o da una piccolissima mela che, terminata la rasatura veniva mangiata, o da un congruo confetto (pralina), (ricoperto da una friabilissima glassa zuccherina),prodotto in quel di Sulmona, confetto che, assolta la sua funzione, veniva mangiato.
Oggi l’espressione in epigrafe è usata da chi voglia significare che il suo comportamento, nei riguardi del destinario della locuzione, non è suscettibile di miglioramento in quanto è un comportamento pieno e completo in ogni sua parte o manifestazione.
2. Buono pe scerià ‘a ramma
Ad litteram: buono per soffregare le stoviglie di rame
Un tempo, quando la chimica non aveva ancóra prodotto tutti i detergenti o detersivi che, aiutando la massaia, inquinano il mondo, e quando l’acciaio 18/10
non era entrato ancóra in cucina sotto forma di stoviglie, queste erano di lucente rame opportunamente, per le parti che venivano a contatto con il cibo, ricoperte di stagno .Per procedere alla pulizia delle stoviglie di rame si usavano due ingredienti naturali: sabbia ‘e vitrera (sabbia da vetrai, ricca di silice) e limoni ; orbene quegli agrumi non edibili perché o di sapore eccessivamente aspro o perché carenti di succo, erano destinati allo scopo di pulire e rendere luccicanti le stoviglie; per cui di essi frutti si diceva che erano bbuone pe scerià ‘a ramma. Per traslato, oggi di chi, uomo o cosa, manchi alla sua primaria destinazione, si dice ironicamente che è buono etc. il verbo
scerià id est: soffregare, nettare, lucidare viene da un tardo latino: flicare da cui felericare e poi flericare, donde scericare e infine scerià tutti con il significato di soffregare.
3. Accunciarse quatt' ove dinto a 'nu piatto.
Ad litteram:Sistemarsi quattro uova in un piatto - cioè:assicurarsi una comoda rendita di posizione, magari a danno di altra persona (per solito la porzione canonica di uova è in numero di due...tutte quelle in eccedenza probabilmente sono state sottratte ad altri).
4. Bbuono p’aparà ‘o mastrillo
Ad litteram: buono per armare la trappolina id est: appena sufficiente a predisporre l’esca di una trappolina. La locuzione si usa nei confronti di qualcosa, soprattutto edibile, che sia cosí parva res da non poter soddisfare un sia pur modesto appetito, ma appena appena sufficiente a far da esca; per traslato la locuzione è usata nei confronti di tutto ciò che sia palesemente piccolo e/o modesto.
5. Bene in salute e scarzo a denare
Ad litteram:Bene in salute, ma poco provvisto di danaro.
Spesso alla semplice, spontanea domanda : “Come state?” fatta da un conoscente incontrato per caso, a Napoli si suole rispondere con la locuzione in epigrafe con la quale ci si vuol mettere al riparo da eventuali sorprese, volendo quasi dire: “Se la tua domanda è stata fatta con la semplice intenzione di informarti sul mio stato di salute, sappi che sto bene; ma se la domanda era propedeutica ad una richiesta di prestito, sappi allora che le mie condizioni economiche attuali, non mi permettono di fare prestiti o elargizioni; evita perciò di farmene richiesta!”La locuzione è divenuta col tempo, quasi una frase idiomatica e viene usata sempre in risposta alla domanda de quo, indipendentemente se esistano o meno condizioni economiche precarie.
6. Caccià ‘e ccarte
Ad litteram: tirar fuori le carte Non si tratta però, chiaramente di tra fuori da un cassetto le 40 carte di cui è formato il mazzo napoletano di carte da giuoco per principiare una partita.
Si tratta, invece, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.In particolare la locuzione in epigrafe è usata dai promessi sposi che, intendendo contrarre il loro matrimonio, devono sobbarcarsi all’impresa di procurarsi presso uffici pubblici e/o luoghi di culto le prescritte documentazioni, dette in maniera onnicomprensiva: carte, senza le quali, non è possibile pervenire alla celebrazione delle nozze. Va da sè che quasi tutti i negozi giuridici necessitano di ineludibili carte da procacciare e ciò à dato modo a taluni napoletani, disperatamente senza lavoro, di inventarsi un mestiere: quello di procacciatore di carte; questo utilissimo individuo, per poche lire si accolla l’onere di fare lunghissime file davanti agli sportelli degli uffici dell’anagrafe pubblica, o si accolla la fatica di raggiungere posti lontani e impervi da raggiungere per procurare al richiedente le carte necessarie.
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VARIE 531

1.È 'na bbella jurnata e nisciuno se 'mpenne.
Ad litteram: E' una bella giornata e nessuno viene impiccato.Con la frase in epigrafe, un tempo erano soliti lamentarsi i commercianti che aprivano bottega a Napoli nei pressi di piazza Mercato dove erano innalzate le forche per le esecuzioni capitali; i commercianti si dolevano che in presenza di una bella giornata non ci fossero esecuzioni cosa che, richiamando gran pubblico, poteva far aumentare il numero dei possibili clienti. Oggi la locuzione viene usata quando si voglia significare che ci si trova in una situazione a cui mancano purtroppo le necessarie premesse per il conseguimento di un risultato positivo.
2. 'E meglio affare so' cchille ca nun se fanno.
Ad litteram: i migliori affari sono quelli che non vengono portati a compimento; siccome gli affari - in ispecie quelli grossi - comportano una aleatorietà, spesso pericolosa, è piú conveniente non principiarne o non portarne a compimento alcuno.
3. Quanno 'e figlie fòttono, 'e pate so' futtute.
Ad litteram: quando i figli copulano, i padri restano buggerati Id est: quando i figli conducono una vita dissoluta e perciò dispendiosa, i padri ne sopportano le conseguenze o ne portano il peso; va da sé che con la parola fòttono (voce verbale 3° p. pl. ind. pres. dell’infinito fóttere dal lat. futúere)non si deve intendere il semplice, naturale, atto sessuale, ma piú chiaramente quello compiuto a pagamento per divertimento o vizio; il medesimo atto compiuto nell’àmbito del rapporto coniugale esula da quanto affermato in epigrafe.
4. Primma t'aggi''a 'mparà e ppo t'aggi''a perdere....
Ad litteram: prima devo insegnarti(il mestiere) e poi devo perderti. Cosí son soliti lamentarsi, dolendosene, gli artigiani partenopei davanti ad un fatto incontrovertibile: prima devono impegnarsi per insegnare il mestiere agli apprendisti, e poi devono sopportare il fatto che costoro, diventati provetti, lasciano la bottega dove ànno imparato il mestiere e si mettono in proprio, magari facendo concorrenza al vecchio maestro.
5.'Na mela vermenosa ne 'nfraceta 'nu muntone
Basta una sola mela marcia per render marce tutte quelle con cui sia a contatto. Id est: in una cerchia di persone, basta che ve ne sia una sola cattiva, sleale, di indole malvagia o peggiore, per rovinare tutti gli altri.
6. Chella ca ll'aíza 'na vota, ll'aíza sempe.
Ad litteram: quella che la solleva una volta, la solleverà sempre. Id est: una donna che, per darsi, tiri su le gonne una volta, le tirerà su sempre; piú estesamente: chi commette una cattiva azione, la ripeterà per sempre; non bisogna mai principiare a delinquere, o a comportarsi male altrimenti si corre il rischio di farlo sempre.
7. Chella cammisa ca nun vo' stà cu tte, pigliala e stracciala!
Ad litteram: quella camicia che non vuole star con te, strappala! Id est: allontana, anche violentemente, da te chi non accetta la tua amicizia o la tua vicinanza.

8. Â sera so' bastimienti, â matina so' varchetelle.
Ad litteram: a sera sono grosse navi, di mattina piccole barche.Con il mutare delle ore del giorno, mutano le prospettive o le proporzioni delle cose; cosí quegli accadimenti che di sera sembrano insormontabili problemi, passata la notte, alla luce del giorno, si rivelano per piccoli insignificanti intoppi.
9. O chesto, o cheste!
Ad litteram: o questo, o queste.La locuzione viene profferita, a Napoli quando si voglia schernire qualcuno con riferimento alla sua ottima posizione economica-finanziaria; alle parole devono essere accompagnati però precisi gesti: e cioè: pronunciando la parola chesto bisogna far sfarfallare le dita tese delle mano destra con moto rotatorio principiando dal dito mignolo e terminando col pollice nel gesto significante il rubare; pronunciando la parola cheste bisogna agitare la mano destra atteggiandola a mo' di corna,(tenendo cioè tesi e distesi indice e mignolo e serrate contro il palmo le altre dita) per significare complessivamente che le fortune di chi è preso in giro sono state procurate o con il furto o con le disonorevoli azioni della di lui moglie, figlia, o sorella, inclini a farsi possedere per danaro.
10.Cu 'o furastiero, 'a frusta e cu 'o paisano 'arrusto.
Ad litteram: con il forestiero occorre usare la frusta (per scacciarlo)mentre con il compaesano bisogna servirlo di adeguato sostentamento, proverbio che viene di lontano ed è attualissimo, quantunque proverbio un po’ strano per la filosofia comportamentale del popolo napoletano,abituato da sempre ad accogliere chicchessia e per solito ligio ai precetti divini del soccorso e dell’aiuto fraterno anche verso gli stranieri.
Furastiero s.vo ed agg.vo m.le= che, chi proviene da un altro paese; voce che è dal fr. ant. forestier, deriv. del lat. foris 'fuori';
paisano s.vo ed agg.vo m.le =1 abitante di paese (talora con sfumatura spreg.)
2 e qui compaesano; voce derivata del sost. paese (che a sua volta è dal lat. *pagensis agg.vo, der. di pagus «villaggio») con l’aggiunta del suff. di appartenenza aneus→ano.
11. A lume 'e cannela spedocchiame 'o pettenale.
Ad litteram: a lume di candela, spidocchiami il pettinale (id est: monte di Venere). Il proverbio è usato per prendersi giuoco o sarcasticamente redarguire chi, per ignavia, rimanda alle ore notturne ciò che potrebbe fare piú agevolmente e proficuamente alla luce diurna.
pettenale s.m. = monte di Venere, pube, pettignone dal lat. pectinale(m).
12.Chi tène mali ccerevelle, à da tené bboni ccosce.
Ad litteram: chi à cattiva testa, deve avere buone gambe. Id est: chi è incline a delinquere, deve avere buone gambe per potersi sottrarre con la fuga al castigo che dovesse seguire al delitto.Inteso in senso meno grave il proverbio significa che chi dimentica di operare alcunché deve sopperirvi con buone gambe per recarsi a pigliare o a fare ciò che si è dimenticato di fare o prendere.
13.Quanno 'e mulinare fanno a ponie, strigne 'e sacche.
Ad litteram: quando litigano gli addetti al mulino, conviene stringere le bocche dei sacchi. Id est: non conviene lasciarsi coinvolgere nelle altrui lotte, altrimenti si finisce per rimetterci del proprio.
14.Meglio magnà poco e spisso ca fà unu muorzo.
Ad litteram: meglio mangiar poco e spesso che consumar tutto in un solo boccone. Contrariamente a quel che si possa pensare, il proverbio non è una norma statuita da qualche scuola medica che consigli di alimentarsi parcamente senza dar fondo alle vettovaglie; è invece un consiglio epicureo che spinge a piluccare, (per estendere al massimo - nel tempo -il piacere della tavola), piuttosto che esaurirlo in pochissimo spazio di tempo.
15.Tre songo 'e ccose ca strudeno 'na casa: zeppole, pane caudo e maccarune.
Ad litteram:Tre sono le cose che mandano alla rovina una casa: focaccine dolci, pane caldo, maccheroni. Da sempre a Napoli, le spese per l'alimentazione ànno costituito un grosso problema; il proverbio in epigrafe elenca quali furono una volta gli alimenti molto cari, che producevano grossi problemi alle vuote tasche dei napoletani; essi alimenti erano: le focaccine dolci, molto appetite dai golosi, il pane caldo cioè fresco che veniva consumato in quantità maggiore di quello raffermo, ed i famosi maccheroni che all'epoca costavano molto piú della verdura; oggi tutto costa di piú, per cui è difficile fare un elenco delle cose che posson mandare in malora l'economia di una casa.
16.Addó hê fatto 'o palummaro? Dinto â vasca d''e capitune?!
Ad litteram: dove ài imparato a fare il sommozzatore? Nella tinozza dei capitoni?!La frase è usata sarcasticamente quando ci si voglia prender giuoco di qualcuno che si atteggia a baldanzoso esperto di qualcosa di cui in realtà non à esperienza, come di un operaio subacqueo che, in luogo delle profondità marine, manichette o pompe idrovore abbia avuto rapporti con la sola acqua contenuta nelle tinozze dove vengono messi le anguille o i piú grossi capitoni.
Palummaro s.vo m.le = Chi fa il mestiere di scendere sott’acqua, completamente immerso, per compiere una determinata operazione; voce napoletana, voce poi pervenuta nell’italiano come palombaro, usata come ò detto per indicare chi esegue lavori sott'acqua (pesca, ricerche, ricuperi ecc.) munito di scafandro; è voce che deriva per metafora da un lat. tardo *palumbariu(m) 'sparviero', perché chi fa tale mestiere, immergendosi richiama l'immagine dello sparviero che cali sulla preda.

17. 'A vipera ca muzzecaje a cchella murette 'e tuosseco.
Ad litteram: la vipera che morsicò quella donna, perí di veleno; per significare che persino la vipera che è solita avvelenare con i suoi morsi le persone, dovette cedere e soccombere davanti alla cattiveria e alla perversione di una donna molto piú pericolosa di essa vipera.
18. E sempe Carulina, e sempe Carulina...
Ad litteram Sempre Carolina... sempre Carolina Id est: a consumare sempre la stessa pietanza, ci si stufa. La frase in epigrafe veniva pronunciata dal re Ferdinando I Borbone Napoli quando volesse giustificarsi delle frequenti scappatelle fatte a tutto danno di sua moglie Maria Carolina d'Austria, che - però, si dice - lo ripagava con la medesima moneta; per traslato la locuzione è usata a mo' di giustificazione, in tutte le occasioni in cui qualcuno abbia svicolato dalla consueta strada o condotta di vita, per evidente scocciatura di far sempre le medesime cose.


19.Tre cose stanno male a 'stu munno: n'auciello 'mmano a 'nu piccerillo, 'nu fiasco 'mmano a 'nu terisco, 'na zita 'mmano a 'nu viecchio.
Ad litteram: tre cose sono sbagliate nel mondo: un uccello nelle mani di un bambino, un fiasco in mano ad un tedesco e una giovane donna in mano ad un vecchio; in effetti l'esperienza dimostra che i bambini sono, sia pure involontariamente, crudeli e finirebbero per ammazzare l'uccellino che gli fosse stato affidato,il tedesco, notoriamente crapulone, finirebbe per ubriacarsi ed il vecchio, per definizione lussurioso, finirebbe per nuocere ad una giovane donna che egli possedesse.
20.Uovo 'e n'ora, pane 'e 'nu juorno, vino 'e n'anno e guagliona 'e vint'anne.
Ad litteram: uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, e ragazza di vent'anni. Questa è la ricetta di una vita sana e contenutamente epicurea. Ad essa non devono mancare uova freschissime, pane riposato per lo meno un giorno, quando pur mantenendo la sua fragranza à avuto tempo di rilasciare tutta l'umidità dovuta alla cottura, vino giovane che è il piú dolce e il meno alcoolico, ed una ragazza ancora nel fior degli anni,capace di concedere tutte le sue grazie ancora intatte.
21.A chi piace lu spito, nun piace la spata.
Ad litteram: a chi piace lo spiedo, non piace la spada. Id est: chi ama le riunioni conviviali(adombrate - nel proverbio - dal termine "spito" cioè spiedo), tenute intorno ad un desco imbandito, è di spirito ed indole pacifici, per cui rifugge dalla guerra (la spata cioè spada del proverbio).
22.Addó nun miette ll'aco, nce miette 'a capa.
Ad litteram: dove non metti l'ago, ci metterai il capo.Id est: occorre porre subito riparo anche ai piccoli danni, ché - se lasciati a se stessi - possono ingigantirsi al punto di dare gran nocumento; come un piccolo buco su di un abito, se non riparato in fretta può diventare cosí grande da lasciar passare il capo, cosí un qualsiasi piccolo e fugace danno va riparato subito, prima che ingrandendosi, non produca effetti irreparabili.
23.Zitto chi sape 'o juoco!
Ad litteram: zitto chi conosce il giuoco! Id est: faccia silenzio chi è a conoscenza del trucco o dell'imbroglio. Con la frase in epigrafe olim si solevano raccomandare ai monelli spettatori dei loro giochi, i prestigitatori di strada, affinché non rivelassero il trucco compromettendo la buona riuscita del giuoco da cui dipendeva una piú o meno congrua raccolta di moneta.
24.Vuó campà libbero e biato? Meglio sulo ca male accumpagnato.
Ad litteram: vuoi vivere libero e beato? Meglio solo che male accompagnato. Il proverbio in epigrafe, in fondo rende l'adagio latino: beata solitudo, oh sola beatitudo!
25.Quanno 'na femmena s'acconcia 'o quarto 'e coppa, vo' affittà chillo 'e sotto.
Ad litteram: quando una donna cura eccessivamente il suo aspetto esteriore, magari esponendo le grazie di cui è portatrice, lo fa nella speranza di trovar partito sotto forma o di marito o di uno che le soddisfi le voglie sessuali.
26.Quanno quacche amico te vene a truvà, quacche ccazzo le mancarrà.
Ad litteram: quando qualche amico ti viene a visitare, qualcosa gli manca (e la vuole da te). Amaro, pessimistico proverbio con il quale si significa che, nella vita, non bisogna mai attendersi gesti di liberalità o di affetto; anche quelli che reputiamo amici, sono forse - in fondo - degli sfruttatori, che ti frequentano soltanto per carpirti qualcosa.
27.Ll'uocchie so' ffatte pe guardà, ma 'e mmane pe tuccà.
Ad litteram: gli occhi sono fatti per guardare, ma le mani (son fatte) per toccare. Con questo proverbio, a Napoli, sogliono difendere (quasi a mo' di giustificazione) il proprio operato, quelli che - giovani o vecchi che siano - sogliono azzardare palpeggiamenti delle rotondità femminili.
28. Zappa 'e femmena e surco 'e vacca, mala chella terra ca l'ancappa.
Ad litteram:Povera quella terra che sopporta una zappatura operata da una donna ed un solco prodotto dal lavoro di una mucca(invece che di un bue).Proverbio marcatamente maschilista, nato in ambito contadino, nel quale è adombrata la convinzione che il lavoro femmineo, non produce buoni frutti e sia anzi deleterio per la terra.
29.'Amice e vino ànno 'a essere viecchie!
Ad litteram: gli amici ed il vino (per essere veramente buoni) devono essere di antica data.
30.'A meglia vita è cchella d''e vaccare pecché, tutta 'a jurnata, manejano zizze e denare.
Ad litteram: la vita migliore è quella degli allevatori di bovini perché trascorrono l'intera giornata palpando mammelle (per la mungitura delle vacche)e contando il denaro (guadagnato con la vendita dei prodotti caseari); per traslato: la vita migliore è quella che si trascorre tra donne e danaro.
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sabato 30 gennaio 2010

PEZZÓGNA AL SALE

PEZZÓGNA AL SALE
Questa volta voglio illustrare ai miei affezionati ventiquattro lettori una mia particolare ricetta per servire un pesce gustoso qual è il pagello (a Napoli: pezzógna) di media o grossa taglia.Prima di passare ad illustrare la ricetta soffermiamoci però un po’ a parlare del pesce protagonista di questa preparazione.
Cominciamo con il dire che il
pagello ( dal lat. volg. *pagellu(m), dim. del lat. class. p(h)ager, che è dal gr. phágros, propr. 'pietra per affilare' in quanto la sua forma ovale ed appiattita richiama quella di talune pietre per affilare) è un gustoso pesce di mare dalle carni morbide e bianche, dal corpo ovale compresso lateralmente con testa corta, bocca e occhi grandi, di colore argenteo-scuro per quello di taglia medio-grande ( dai tre – quattro etti ai due chilogrammi) - di colore grigio - rossastro per quello di taglia medio-piccola (sino ai tre etti); è un pesce comune nel Mediterraneo (ord. Perciformi) però è conosciuto con molti altri nomi a seconda delle zone di pesca:
1)besugo cosí in Liguria e zone limitrofe;la voce a margine (il cui etimo è sconosciuto e neppure il D.E.I. o il Cortelazzo/Marcato si sono espressi) è usato nelle medesime zone come agg.vo/sost.vo nel significato di grullo, sciocco,idiota, deficiente.il pesce détto besugo è un pagello di taglia medio-grande, non molto combattivo, che si lascia abbastanza facilmente pescare (e perciò forse si è meritato il nome di besugo= sciocco) ed è una delle specie piú ambite dagli appassionati di bolentino (s. m. lenza di nailon con piú ami e con un piombo all'estremità che si cala a mano da un'imbarcazione per effettuare la pesca di media e grande profondità sul fondo, pesca détta appunto pesca al bolentino); è un pesce, ripeto, non molto combattivo e dalle carni squisite; presenta il corpo ovale compresso lateralmente con testa corta, bocca e occhi grandi. Il colore é grigio sulla pancia e rosa sulla groppa, e presenta una macchia scura, a volte non evidente,alla base della pinna pettorale.
Vive sia lungo le coste (soprattutto nelle scogliere dove trova cibo in abbondanza), ma anche in zone molto profonde con fondali accidentati e ricchi di anfratti. Preferisce acquartierarsi tra i relitti e soprattutto tra i 100 ed i 200 metri di profondità. Questo pesce à abitudini gregarie per cui una volta individuato un branco non è difficile fare numerose catture multiple. Raggiunge i 40/50 cm. di lunghezza ed un peso che può giungere ai due chilogrammi.
2) lúvaro imperiale (pesce imperatore) cosí in Calabria e in talune zone costiere di Basilicata, Lazio e Campania: si tratta di un pesce che va dalle taglie piccole (ma in tal caso è détto fragolino), sino a quelle medio-grandi (giunge ad oltre i cinque chili); è un pesce che à corpo compresso lateralmente, ovale, arrotondato nel lato frontale e rastremato all'estremità posteriore; è dotato di uno strettissimo peduncolo codale, su cui si trova una piccola chiglia dermica per lato, laterale e sporgente. Il corpo è ricoperto di squame piccole, soffici e caduche. La testa, arrotondata nella parte dorsale, discende in basso, dando al muso un profilo molto ripido;l'occhio è piccolissimo e ciò lo fa rapidamente distinguere tra i pagelli che l’ànno in genere molto sviluppato ( occhioni o occhialoni); Il muso è carenato e dall'estremità inferiore parte una cresta orizzontale sporgente che passa al disopra dell'occhio e termina nella parte alta dell'apertura branchiale; la bocca è molto piccola, orizzontale e situata in basso con mascelle prive di veri denti,sostituiti da una rugosità palatale.
La pinna dorsale è unica ed è sposta nella metà posteriore del corpo simmetricamente a quell'anale. La pinna codale è ampia, semilunare, con i lobi divergenti, quasi verticali. Le pinne pettorali sono spatolate e lunghe ed aderiscono ai fianchi incastrandosi in una apposita depressione. Le ventrali sono ridotte a due raggi spinosi saldati insieme, tali da formare una placchetta triangolare, che copre una depressione del lato ventrale, dove è situata l'apertura anale.
Il dorso è nero azzurro, i fianchi ed il ventre bianco argenteo. Il muso, la fronte, la bocca ed i lati della testa ànno sfumature rosse e rosa, maggiormente apprezzabili nei pesci di taglia medio-piccola détti fragolini appunto per il colore rosso-fragola della loro livrea. Nei pesci di taglia grande la pinna anale è bianca alla base per passare ad azzurro scuro verso il margine e l'estremità posteriore della pinna, mentre le pinne pettorali, i raggi della dorsale ed anale e la codale sono di colore rosso -scarlatto. I primi tre o quattro spazi interradiali della dorsale sono scarlatti come il primo dell'anale. Il resto della dorsale è di colore azzurro nerastro.È proprio questa particolarità del colore rosso scarlatto di pinne ed altre appendici di questo pesce ad offrire l’etimo alla voce lúvaro imperiale; lúvaro è infatti dal lat. rubru(m)= rosso donde lúvaro con alternanza r/l della prima liquida, alternanza b/v e metatesi ru→ur mentre l’aggettivo imperiale è stato aggiunto per connotare l’imponenza e/o maestosità del proporsi di questo grosso e gustoso pagello noto pure, in tutto il Mediterraneo, col nome di pesce imperatore.
3) occhione o occhialone altri nomi del pesce pagello in uso nel livornese; si tratta del medesimo pesce pagello di taglia medio-grande, descritto antea sotto il nome di besugo e, come quello è una delle specie piú ambite dagli appassionati di bolentino; in particolare l’occhione o occhialone è una varietà di pagello che à una macchia nerastra dietro l'opercolo e grandi occhi (da cui il nome) rossi (ord. Perciformi). Corpo allungato e compresso lateralmente, testa corta ed ottusa. Nei grossi esemplari è evidente una bozza frontale.
Il muso è tondeggiante e la bocca, terminale inferiore, non molto grande. È dotato di denti piccoli e in serie fitte e strette che posteriormente sono modestamente molariforme.
Gli occhi sono molto grandi (donde i nomi di occhione/occhialone)e negli esemplari in pescheria spesso sono estroflessi per rapido sbalzo di pressione durante la pesca in fondali profondi.
À un'unica pinna dorsale, composta da 12 raggi spinosi nella prima metà, che si ripiegano ad unghia in un apposito solco.
La pinna anale à 3 raggi spinosi e 12 raggi molli. Le pinne pettorali sono falciformi e quelle ventrali toraciche con una sola spina. La colorazione è grigiastra che può tendere al giallastro o al rossastro, piú scura dorsalmente. Una macchia nerastra è presente all'inizio della linea laterale e un'altra, meno evidente, alla base della pinna pettorale
Frequenta nei mesi estivi fondali rocciosi intorno ai 30-50 metri. Normalmente si trova su fondali fangosi o a coralline anche a profondità notevoli (600m)
Le forme giovanili di 10-15 cm nel periodo primaverile ed estivo si avvicinano molto alla costa.
È un pesce che si raggruppa in branchi di individui della stessa taglia.
Il periodo di maturità sessuale è all'inizio della primavera. Le uova sono galleggianti
À alimentazione carnivora.
Gli adulti misurano tra i 30 e i 40 cm di lunghezza, ma possono raggiungere anche il mezzo metro. Ottima la carne.
Comune nei mari d'Italia.
Tralasciando ora di illustrare altri nomi regionali in uso in tutta la penisola per indicare il pagello in esame, (parago a Portoferraio – scazzatiedde a Taranto ed Otranto – chialà a Giulianova - molo, alboretto a Rimini – albaro bastardo a Venezia – basucu(evidente adattamento locale di besugo) a Cagliari e mopu/mopa a Messina e Catania) veniamo finalmente a dire della voce napoletana che ci occupa:
pezzógna è il nome usato a Napoli ed adiacenze, oltre che in talune zone lucane ed a Molfetta per indicare un pesce che si pesca esclusivamente nel Mediterraneo basso ad una profondità maggiore dei 50m. Dalle altre parti, come ò già detto si chiama diversamente: con il generico nome di pagello, "besugo", ecc. ma comunque l’autentica pezzógna (non per campanilismo culinario!) è quella del golfo di Napoli prevalentemente al largo di Pozzuoli, Baia etc. Non bisogna confondere la carne della pezzógna con quella dei piccoli lúvari o fragolini: la pezzógna è sempre di taglia medio-grande e di colore argenteo scuro; per l’ottima qualità della sua carne, la pezzógna è ritenuto tra i migliori pesci esistenti alla pari con l'orata,la spigola, la cernia, il dentice, la ricciola etc. e da molti è ritenuta superiore a tutti questi pesci or ora elencati; per taluni è secondo solo al baccalà, ma a mio avviso il paragone non è proponibile in quanto la pezzógna è un pesce fresco, laddove il baccalà (ottimo soprattutto per la parte (groppa) détta mussillo!) è un pesce (nasello/merluzzo) eviscerato, salato e conservato in barile.
Come ò ricordato, questa pezzógna è l'obbiettivo principale del bolentino di profondità. La sua presenza è omogenea in tutto il Mediterraneo, Adriatico a parte che – pur se pescoso è un mare fesso per la fauna ittica . Predilige i fondali misti di roccia e fango a profondità comprese tra i 140 e 750 metri. Si nutre prevalentemente di piccoli crostacei e cefalopodi, ma non disdegna tutti i piccoli organismi presenti sul fondo ad alte profondità. Negli ultimi anni le profondità ottimali di pesca si sono stabilizzate tra i 350 e i 600 metri, a causa del prelievo indiscriminato con i palamiti di profondità a profondità inferiori. La pezzógna può arrivare a oltre 5 chilogrammi di peso, ma sono considerati grandi già gli esemplari che passano i 2 chilogrammi. Vive in fitti banchi.
La pesca della pezzógna si effettua con canne abbastanza sensibili, in modo da avvertire súbito la beccata del pesce, per altro voracissimo;bisogna perciò usare ami ad alta penetrazione, con punta ad artiglio d'aquila; l'esca regina sono polpi e seppie, ma anche la sardina dà ottimi risultati. Si pesca tutto l'anno, con una diradazione considerevole delle catture nei mesi di febbraio e marzo, quando la pezzógna va in riproduzione.
Questo pesce è particolarmente ricercato per l'eccezionale bontà delle sue carni. In Campania viene considerato, a ragion veduta,mi ripeto, uno dei pesci di maggior valore culinario.
Affrontiamo ora il problema etimologico del nome.
Premesso che la voce pezzógna è quasi del tutto ignota sia ai vocabolarî della lingua nazionale che a quelli dell’idioma partenopeo, il compito che m’ero assegnato di trovarne un plausibile e/o convincente e semanticamente apprezzabile etimo(senza trincerarmi dietro un pilatesco etimo ignoto) mi è costato molto lavoro e m’auguro che troverò un qualche consenso quando avrò esposto la mia idea.
Come ò détto la voce pezzógna è quasi del tutto ignota sia ai vocabolarî della lingua nazionale che a quelli dell’idioma partenopeo; pensavo che mi potesse soccorrere il D.E.I., ma rimasi deluso: il compianto prof. Giovanni Alessio che nel D.E.I. curò – tra le altre – le voci sotto la lettera P registra sí una voce pezzogno ,ma - annotato che si tratta di un termine ittico -,non s’esprime circa l’etimo, in barba al fatto che il D.E.I. sia (o dovrebbe essere) un dizionario etimologico né mi convinse quel registrare la voce al maschile (pezzogno) e non al femminile(pezzogna).
Visto dunque che non ò trovato occorrenze per la voce in esame in nessun altro calepino in circolazione, mi son visto costretto a far da solo ed ò pensato che fosse cosa giusta, per formulare un’ ipotesi etimologica apprezzabile e semanticamente credibile, farsi guidare dal medesimo criterio seguíto nella formazione e/o spiegazione degli altri nomi con i quali si indica regionalmente il pagello: ò pensato cioè che si dovesse far riferimento ad una connotazione morfologica del pesce summenzionato, come avviene, se si esclude la voce ligure besugo (che non prende in considerazione una connotazione morfologica del pesce, ma un suo modo comportamentale: agire da sciocco con il lasciarsi facilmente catturare, abboccando rapidamente a gli ami), se si esclude la voce ligure besugo tutte le altre voci fanno riferimento ad una connotazione morfologica del pesce: lúvaro o fragolino =di colore rosso – pagaro=schiacciato - occhione/occhialone= dall’occhio grande etc.,mi è sembrato esatto per ciò che riguarda la voce pezzógna far riferimento ad una morfologia del pesce in esame e precisamente alla morfologia della sua pinna dorsale composta da 12 raggi a punta (a Napoli pizzo), che si ripiegano quasi a mo’ di artiglio o unghia (a Napoli ógna) di modo che m’è parso che nulla di strano ci sia stato se i pescatori partenopei,non scolarizzati, ma dotati di gran fantasia e nel cui àmbito nacque la voce in esame, colpiti dalla morfologia della gran pinna dorsale di questo pesce gli abbiano dato un nome che richiamasse appunto la forma di tale pinna a punte unghiate (in napoletano a pizzo (e) ógna→pizzógna donde per comodità di pronuncia (la e semimuta si pronuncia piú facilmente della i…) pezzógna.
E qui penso finalmente di avere completato questa lunga, ma spero interessante ed esauriente, se non necessaria, premessa e di poter passare senz’ altri indugi alla vera e propria ricetta della mia pezzógna al sale:
ingredienti e dosi per 6 persone
una o due pezzógne per complessivi due chilogrammi,
sale doppio alle erbette un chilogrammo,
7 etti di pomidorini d’’o piennolo,
1 bicchiere e mezzo di olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
4 spicchi d’agli mondati e tritati finemente,
sale fino e pepe decorticato q.s.
abbondantissimo trito di prezzemolo fresco lavato ed asciugato.

procedimento
Approntare innnanzi tutto il/i pesce/i per la cottura: eliminare occhi, branchie e pinne laterali, sbuzzare longitudinalmente il ventre ed eviscerare il/i pesce/i, eliminare con un netto taglio alla francese (lama poggiata a 45° e deciso taglio inferto spingendo verso l’esterno un’affilatissima lama)le parti della pancia troppo molli e ricche di spine, sciacquare abbondantemente il/i pesce/i, sotto acqua fredda corrente , poggiarlo/i aperto/i a libro su di un tagliere e sistemare in ognuno una cucchiaiata d’aglio mondato e tritato finemente; richiudere il/i pesce/i e sistemarlo/i nella placca del forno su di un letto fatto con mezzo chilo di sale grosso alle erbette e ricoprirlo/i con uno strato di altro mezzo chilo di sale grosso alle erbette; mandare in forno (180°) per circa un’ora. A cottura ultimata si formerà sui pesci una spessa crosta che, eliminata quando il pesce è ancora caldo, permetterà d’eliminare contemporaneamente pelle e squame e mettere a nudo la gustosa carne bianca della pezzógna; mentre il pesce è in cottura al forno, approntare un abbondante, ma leggero sughetto con pomidorini del piennolo, sughetto necessario e sufficiente per irrorare e presentare tutte le singoli porzioni di pezzógna al sale; ecco come procedere: porre in una pentolina tutto l’olio con due spicchi d’aglio mondato e tritato finemente, mandare a temperatura a fuoco vivo e quando tutti i pezzetti d’aglio saranno dorati, ma non bruciati aggiungere i pomidorini lavati, asciugati, privati di corone e piccioli ed incisi alla sommità ortogonalmente a croce: schiacciarne con una forchetta una parte, lasciandone alcuni non schiacciati per la guarnizione finale, salare e pepare ad libitum e portare a cottura il sughetto in circa venti primi.Tenere in caldo il sugo e dedicarsi alla porzionatura a caldo della/e pezzógna/e appena tirata/e fuori dal forno, staccando le croste e contemporaneamente eliminando pelle e squame; eliminare testa e lisca mettendo a nudo la gustosa carne bianca della pezzogna e porzionare il/i pesce/i, irrorando alla fine abbondantemente le porzioni con il sughetto tenuto in caldo e guarnendo ogni piatto con alcuni pomidorini cotti, ma non schiacciati ed abbondante trito di prezzemolo fresco. Servire in tavola quando il pesce è ancóra caldo accompagnandolo con patate in insalata o con una fresca insalata incappucciata condita all’agro con olio e.v. p. s. a f. sale doppio, aglio trito ed aceto di vino bianco.
Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!

raffaele bracale

SARDE O ALICI A BECCAFICO

SARDE O ALICI A BECCAFICO
Le sarde/alici vanno squamate, sventrate, decapitate, disiliscate, lavate ed aperte a libro. Il ripieno si prepara mescolando i seguenti ingredienti nelle proporzioni di: 100 gr. di mollica di pane tostato; 1 cucchiaio d'olio di oliva; 1 cucchiaio di succo di limone; la buccia di un limone grattugiata; mezzo cucchiaino di zucchero; poco sale; pepe; la salsetta di 4 acciughe salate e sfaldate in olio; un ciuffo abbondante di prezzemolo trito; 50 gr. di capperi; 50 gr. di olive nere snocciolate e tritate fini; 40 gr. di sultanina; 40 gr. di pinoli; 20 gr. di mandorle tostate e tritate. Alcuni aggiungono, inoltre: 1 aglio tritato; 1 scalogno, o pezzettini di cipolla ben trita; 60 gr. di formaggio pecorino grattugiato. Quando il ripieno è stato ben mescolato, e reso omogeneo, se ne spalma un poco sulla sarda/alice (aperta a libro), che ora va rinchiusa con una leggera pressione delle dita. La sarda/alice va ora arrotolata su se stessa (facendo attenzione a che non fuoriesca il ripieno), ad anello, in modo che la codina spunti verso l'alto. Le sarde/alici cosí preparate vanno sistemate in teglia ben unta, e separate una dall'altra da una fogliolina d'alloro. Si sparge un poco di olio, si sformaggia un poco di pane grattugiato (ma non tostato), e si passa al forno caldissimo per 15-20 minuti.
Varianti. Nella Sicilia orientale e centrale le sarde, farcite come sopra, vanno accoppiate (a chiappa/coppia), cioè una sull'altra; quindi legate con un filo, passate in uovo e pangrattato, e fritte in olio.


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SEPPIE E PISELLI IN UMIDO

SEPPIE E PISELLI IN UMIDO

1 kg di seppie pulite
350 gr di piselli freschi sgranati o uguale peso di pisellini surgelati,
1 bicchiere d'olio d’oliva e.v. p. s. a f.,
Un trito fatto con 1 carota, 1 costa di sedano, 1 cipolla dorata media,
2 foglie d’alloro,
5 chiodi di garofano,
1 peperoncino piccante aperto longitudinalmente

2 spicchi d'aglio mondati e tritati finemente,
1 bicchiere di vino bianco secco
una scatola da 5 etti di pomidoro pelati,
sale doppio alle erbette una presa,
2 cucchiai di pimpinella tritata finemente,

pepe nero macinato a fresco q.s.

Procedimento
Sciacquate bene le seppie, poi staccate i ciuffi di tentacoli e tagliate le sacche a strisce di circa un centimetro.
Approntate il trito di ortaggi e soffriggetelo a fuoco medio in una casseruola assieme a gli agli, alle 2 foglie d’alloro, ai 5 chiodi di garofanoed al peperoncino piccante aperto longitudinalmente . Quando gli ortaggi saranno appassiti unite le seppie e lasciatele cuocere per cinque minuti. Alzate il fuoco e sfumatele con il vino facendone evaporare la metà. Abbassate di nuovo la fiamma, unite i pelati schiacciati con la forchetta, salate, pepate e lasciate cuocere a fuoco basso per 35’. Se le seppie si asciugassero troppo, bagnate con un mestolo di acqua calda.
Aggiungete i piselli e cuocete per altri 15’ o fino a che questi siano teneri ma non disfatti.
A cottura ultimata, aggiungete il trito di pimpinella e servite.
Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! e diciteme: Grazie!

raffaele bracale

BACCALÀ ALLA NAPOLETANA

BACCALÀ ALLA NAPOLETANA

NOTA
Gustosissimo piatto che esalta la povera cosa che è il merluzzo da dove si ricava il baccalà (merluzzo eviscerato salato e conservato in barile) di cui i napoletani ed i genovesi sono i ghiottissimi maggior consumatori; i vicentini consumano invece lo stocco (merluzzo eviscerato seccato ed affumicato) sebbene chiamino una loro tipica ricetta baccalà alla vicentina, laddove sarebbe piú corretto che dicessero stocco alla vicentina!
baccalà = merluzzo eviscerato, salato e seccato conservato in barile; l’etimo è dallo sp. bacalao, o dal portoghese bacalhao ed ambedue dal fiammingo kabeljauw.
stocco o stoccafisso = pesce bastone e cioè merluzzo eviscerato, seccato all’aria aperta ed affumicato; l’etimo non è (come erroneamente pensa taluno dall’inglese) ma dall'ol. ant. stokvisch 'pesce a bastone ossia essiccato all’aria fredda fino a divenire duro come un bastone’ oppure 'seccato sui bastoni', prob. attraverso lo sp. estocafis.


ingredienti e dosi per 4 persone:

baccalà già ammollato, 1,500 kg
pomidori freschi Roma o San Marzano, lavati sbollentati e pelati, 500 gr.
olio e.v. p.s. a f. , 1 bicchiere
1 spicchio d’aglio mondato della camicia, tritato finemente
olive nere di Gaeta denocciolate, 150 gr.
capperini di Pantelleria dissalati e lavati, 50 gr.
6 filetti d’acciughe sott’olio
origano un pizzico
prezzemolo tritato – due cucchiai.
sale doppio alle erbette, pepe bianco, q.s.
farina q.s.
olio per frittura q.s.

procedimento
Risciacquate il baccalà già ammollato, privatelo accuratamente di pelle e soprattutto di spine e tagliatelo a pezzi di circa 5 cm. per 5 cm., infarinatelo adeguatamente da tutti i lati e friggetelo in olio di semi bollente e profondo e tenetelo in caldo. In una teglia soffriggete l'aglio nell'olio d’oliva e.v. p. s. a f. , aggiungetevi i pomidoro , le olive di Gaeta denocciolate, i capperi e le acciughe tritate. Fate cuocere per una ventina di minuti la salsetta, salate e pepate con parsimonia,cospargete con metà del prezzemolo tritato indi allineate in una teglia da forno, unta con un po’ di sugo, i pezzi di baccalà fritto, ricopriteli con tutta la salsa e fate stufare in forno a calore medio (140°) per una decina di minuti. Al momento di servire, spruzzate il baccalà con il rimanente prezzemolo ed un po’ di pepe. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!

Raffaele Bracale

VELLUTATA DI GAMBERONI CON FRITTURA ‘E MUSCARIELLE

VELLUTATA DI GAMBERONI CON FRITTURA ‘E MUSCARIELLE( MOSCARDINI)
NOTA
Gustosissima preparazione che sposa il sapore delicato dei gamberoni lessati con quello deciso dei moscardini in frittura.
I Muscarielle o in italiano moscardini sono una classe a parte di cefalopodi: sono quei piccolissimi e tenerissimi polpi da consumar, si dice, in un sol boccone e tali piccolissimi polpi vengono détti in italiano moscardini ed in napoletano muscarielle (per l’intenso odore di muschio che emanano): sia per moscardini che per muscarielle l’etimo è il medesimo: derivano ambedue da moscado, forma ant. di moscato (nel sign. di 'muschio'), con influsso di moscardo (per la presenza di piccole macchie sul mantello); per il napoletano muscarielle occorre ricordare che nell’area osco- mediterranea spesso una D diventaR (cfr. Madonna/Maronna – Dito/rito – dinto/rinto etc.).


Ingredienti per 6 persone:
1 kg. di moscardini mondati e lavati
1 kg. di gamberoni
50 g. di strutto
1 cipolla mondata e tritata
1 bicchiere di vino bianco secco
1 cucchiaio di farina bianca
Farina gialla q.s.
1 bicchiere di panna vegetale
50 g. di caciocavallo piccante finemente grattugiato
5 dl di brodo vegetale
2 cucchiai di prezzemolo tritato finemente
½ bicchiere di olio di oliva e.v. prima spremitura a freddo
Abbondante olio per friggere
Sale fino q.s.
Pepe decorticato q.s.
Si comincia approntando come segue la Vellutata di Gamberoni: Tagliare la testa ai gamberoni e sgusciarli, eleminare il budellino nero e tenere gli scarti (teste e carapaci) da parte. In una pentola mettere l’olio e fare rosolare il trito di cipolla. Aggiungere le teste ed il guscio dei gamberoni, rosolare ancóra per un paio di minuti e bagnare con il vino bianco. Lasciare evaporare, unire il brodo, salare, pepare e fare cuocere per 15 minuti. Lasciare intiepidire e filtrare. Nella stessa pentola utilizzata in precedenza fare sciogliere lo strutto. Aggiungere il cucchiaio di farina bianca, mescolando bene e unire il brodo filtrato. Aggiungere i gamberoni a bollore suscitato e fare cuocere per 10 minuti. Prelevare dalla pentola alcuni (12) gamberoni che serviranno per la decorazione finale e passare il resto ad un mixer con lame da umido. Unire la panna e rimettere sul fuoco basso per qualche minuto per fare addensare. Spegnere e incorporare il caciocavallo piccante. Versare a specchio la crema ottenuta in piatti individuali, spolverizzata con il prezzemolo e decorata con un paio di gamberoni tenuti da parte. Nel frattempo in una padella di ferro nero larga e profonda mandare a temperatura abbondante olio per friggere, lavare ripetutemente i moscardini mondati,rollarli nella farina gialla e friggerli per tre minuti nell’olio bollente e profondo. Prelevarli con una schiumarola, poggiarli su carta assorbente a perdere l’eccesso d’unto ed impiattarne, opportunamente salati e pepati, quattro o piú per porzione sistemandoli sullo specchio di crema di gamberoni.

Vini: secchi e profumati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute! E scialàteve!

raffaele bracale

POLPETTE ALLA NAPOLETANA

POLPETTE ALLA NAPOLETANA





ingredienti e dosi per 6 persone:

300 g di carne di manzo macinata,

300 g di carne di maiale macinata,

200 g di mollica di pane raffermo,
3 uova,
1 etto di pecorino grattugiato,
1 ciuffo di prezzemolo lavato,ascigato e tritato finemente,
uno spicchio d'aglio mondato e tritato,
30 g di sugna,
80 g di uva passita ammollata in acqua calda,
50 g di pinoli tostati,
400 g di pomidoro pelati,
50 g di concentrato di pomodoro,
1/2 grossacipolla dorata, tritata grossolanamente,
1 bicchiere di olio d’oliva e.v.p. s. a f.,
sale fino e pepe nero q.s.,
abbondante olio per friggere (arachidi, mais etc.).

procedimento
Bagnate il pane, strizzatelo e mescolatelo in una terrina con i due tipi di carne macinata, il prezzemolo e l'aglio tritati. Unite le uova, una presa di sale e due di pepe,la sugna, l'uva passita ammollata, i pinoli tostati a parte, il pecorino macinato e lavorate amalgamando bene tutti gli ingredienti. Formate delle polpette leggermente schiacciate, della grandezza d’un mandarino e friggetele, badando che restino morbide, in abbondante olio di semi bollente, sgocciolatele e tenetele da parte. Preparate in circa 10’ uno spesso sugo con l’olio e.v., i pelati, il concentrato, la cipolla affettata, sale e pepe.Immergete nel sugo le polpette e fatele insaporire per 10 minuti.
Servitele calde di fornello con contorno di patate fritte o in umido oppure con contorno di verdure bollite.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
CANTA NAPOLI, CU SALUTE!
raffaele bracale

FILETTO DI MANZO IN SALSA ROSATA

FILETTO DI MANZO IN SALSA ROSATA

Ingredienti e dosi per 4 persone
4 bistecche di filetto di manzo per complessivi 700 gr circa ,
• 1 bicchiere e mezzo d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
• 3 cucchiai di doppio concentrato di pomodoro,
• 6 cucchiai di ricotta ovina,
• 4 cucchiai di pepe verde in grani ,
• 2 bicchierini di cognac o di brandy ,
• Sale fino q.s.,
• farina (eventuale) q.s.

Procedimento
Versare metà dell’olio in una bistecchiera d’acciaio e portarlo a temperatura; adagiarvi le bistecche e rosolarle 2 minuti per lato, spolverizzandole con quasi un cucchiaio di pepe verde appena tritato, poi aggiungere il cognac o il brandy, farlo riscaldare e fiammeggiarlo, inclinando la bistecchiera per far entrare in contatto il liquore con la fiamma.
Spenta che sia la fiamma, togliere le bistecche, salarle e tenerle in caldo. In un altro tegame versare il rimanente olio, sciogliervi i cucchiai di concentrato e far sobbollire per 5 minuti;
aggiungere i cucchiai di ricotta , ancóra un cucchiaio di pepe tritato e mescolare aggiungendo eventualmente (se la salsina fosse troppo lenta) un po’ di farina ed ancóra un pizzico di sale.
Quando la salsina avrà la consistenza voluta, unirla al fondo di cottura delle bistecche ed adagiare nella salsa otenuta le bistecche facendole sobbollire per 5 minuti. Servire calde di fornello.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

venerdì 29 gennaio 2010

VITELLO SPEZIATO

VITELLO SPEZIATO


Ingredienti e dosi per 4 persone
1,2 kg. di polpa (spalla) di vitello (non manzo!) tagliata in pezzi di cm. 5 x 3 x2,
farina bianca q.s.,
½ bicchiere di olio di semi
2 spicchi di aglio mondati e schiacciati,
2 cipolle dorate sbucciate affettate finemente,
1 peperone verde scapitozzato del picciolo, privato di semi e costoline interne e tritato in piccoli pezzi cm. 2 x 2,
una costa di sedano lavata e tagliata a tocchetti di 2 cm.,
1 cucchiaino di curry in polvere,
sale fino q.s.
pepe bianco q.s.
800 g di pomidoro ramati lavati, sbollentati, pelati e tagliati in piccoli pezzi,
Per servire:
1 cucchiaio di strutto,
100 g di filetti di mandorle pelate,
250 g di riso carnaroli bollito per 20 minuti in acqua salata,
100 g di uvetta sultanina ammollata in acqua calda,
un ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.




procedimento
Passate i pezzi di vitello nella farina
Scaldate l'olio in un largo tegame e indorate i pezzi di vitello da ogni lato, pochi per volta.
Toglieteli dalla padella e metteteli da parte.
Mettete nel medesimo tegame l’ aglio, la cipolla, il peperone, il sedano, curry ed un pizzico di sale; cuocete per 5 minuti mescolando.
Unite quindi i pezzi di pomidoro
Aggiungete i pezzi di vitello, incoperchiate ed a fuoco vivace portare a bollore.
Abbassate la fiamma, e sobbollite per 30 - 40 minuti finché la carne sia tenera. Regolate di sale ed aggiungete il curry ed il pepe bianco. Nel frattempo lessate il riso (se non l’avete fatto precedentemente, cosa che consiglio!).
A questo punto sciogliete lo strutto in una padella e saltatevi i filetti di mandorle dorandole appena.
Mescolate insieme riso ed uvetta.
Sistemare la mistura di riso ed uvetta come letto dei pezzi di vitello su un piatto da portata largo, riscaldato.
Eliminate gli spicchi d'aglio, irrorate con la salsa di pomidoro ed il fondo di cottura e spargete uniformemente sul vitello e riso le mandorle saltate ed il prezzemolo tritato.
Servite caldo di fornello.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale.

FILETTO DI MANZO AL PEPE VERDE

FILETTO DI MANZO AL PEPE VERDE
Eccovi una ricetta che nella preparazione classica prevede l’uso del burro,ma io la ò rivisitata sostituendo il burro con olio e.v.p.s. a f., e panna vegetale; il risultato mi pare ugualmente ottimo.
Ingredienti e dosi per 2 persone
2 bistecche di filetto di manzo per complessivi 450 gr circa ,
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.,
4 cucchiai di panna vegetale,
3 cucchiai di pepe verde in grani ,
1 bicchierino di cognac o di brandy ,
Sale fino q.s.,
farina (eventuale) q.s.

Procedimento
Versare l’olio in una bistecchiera d’acciaio e portarlo a temperatura; adagiarvi le bistecche e rosolarle 2 minuti per lato, spolverizzandole con quasi un cucchiaio di pepe verde appena tritato, poi aggiungere il cognac o il brandy, farlo riscaldare e fiammeggiarlo, inclinando la bistecchiera per far entrare in contatto il liquore con la fiamma.
Spenta che sia la fiamma, togliere le bistecche, salarle e tenerle in caldo.
Aggiungere i cucchiai di panna nel fondo di cottura, ancòra un cucchiaio di pepe tritato e mescolare aggiungendo eventualmente (se la salsina fosse troppo lenta) un po’ di farina ed ancòra un pizzico di sale
Quando la salsina avrà la consistenza voluta, aggiungervi il pepe residuo in grani e versarla sulle bistecche.

Servire molto caldo con del buon corposo vino rosso campano (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) servito a temperatura ambiente.
Nota
Rammento che il pepe è il frutto di un arbusto rampicante originario dell’India, ma viene altresí coltivato in altri paesi tropicali o subtropicali donde viene importato pervenendo sulle nostre tavole in tre forme: quello nero, quello verde e quello bianco, derivanti tutti dalla stessa pianta ma lavorate in tre modi diversi. Il pepe nero (quello piú comune, dal profumo intenso) è il frutto maturo, quello verde è costituito dalla bacche che non ànno ancòra iniziato la maturazione, quello bianco infine (dal gusto piú delicato) è il frutto maturo a cui è stata tolta la buccia, per cui è detto anche decorticato. Il pepe viene utilizzato macinato o in grani; spezia dal carattere forte, è da dosare con attenzione per non coprire del tutto gli altri sapori. Si può usare per tutte le preparazioni, ma l’uso più congeniale è per insaporire le carni, gli insaccati e su piatti di pasta al sugo o risotti;in particolare, il pepe verde, di solito usato in grani per sfruttare al meglio le sue caratteristiche, à un gusto pungente ed esotico ed un sapore deciso. Il pepe verde non è di facilissimo reperimento e talvolta lo si trova soltanto in salamoia; in tal caso, per usarlo, va dapprima sciacquato, poi asciugato in piena aria ed infine triturato o usato in grani.
raffaele bracale

SPEZZATINO AFFUMICATO ALLA BIRRA SCURA

SPEZZATINO AFFUMICATO ALLA BIRRA SCURA
dosi per 6 persone:

1,200 kg di spezzatino (possibilmente muscolo) di manzo
120 g di pancetta affumicata a dadini (da qui il nome)
1 bicchiere di birra scura (doppio malto)
1 grossa carota
1 cipolla dorata
½ litro di brodo vegetale (anche di dado)
2 foglie di alloro
½ bicchiere d’olio d’oliva e.v.p.s. a f.
farina, sale fino e pepe nero macinato a fresco q.s.
procedimento
Affettate la cipolla e la carota mondate, lavate ed asciugate e soffriggetele in un tegame con l’olio, con la pancetta e l’alloro. Aggiungete quindi lo spezzatino appena infarinato e fate rosolare qualche minuto a fuoco vivo.
A questo punto versate la birra e lasciatela sfumare completamente.
Abbassate il fuoco e versate il brodo vegetale e regolate di sale e pepe. Coprite e lasciate cuocere per 2 ore circa.
Impiattate e servite quando lo stufato è ancòra ben caldo, con un contorno di patate fritte o verdure lesse.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
raffaele bracale

giovedì 28 gennaio 2010

PASTA E CAVOLI ALL’ANTICA

PASTA E CAVOLI ALL’ANTICA
Ingredienti e dosi per 6 persone
: 1 cavolfiore bianco di media grandezza o due piccoli,
5 o 6 filetti d'acciuga (sotto sale o sott'olio o, in mancanza d'altro, pasta d'acciughe in eguale peso),
500 grammi di pasta corta o pasta mista,
1 bicchiere d'olio d'oliva e.v. p. s. a f.,
2 spicchi d'aglio mondati e schiacciati,
1 pizzico di peperoncino rosso macinato (non polvere),
2 pomidoro tipo Roma o san Marzano sbollentati, pelati e tagliati a cubetti,
sale grosso un pugno + una presa,
pepe nero q.s. 100 gr. di formaggio pecorino di cui la metà grattugiato e l’altra metà tagliata in cubetti da cm. 0,5 di spigolo,
5 cucchiai di pane grattugiato,
1 cotenna di prosciutto di maiale ricca di grasso,o in alternativa 2 etti e mezzo di strutto,
1 ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente.
Preparazione:
Liberate il cavolo dalle foglie, tagliatelo seguendo la struttura delle infiorescenze e mettetelo a lavare in acqua e bicarbonato per non più di 15 minuti, sciacquate e sgocciolate in uno scolapasta, e lessatelo per non piú di 10 o 15 minuti in acqua bollente salata. In una pentola larga e bassa versate l'olio, aggiungete gli spicchi d’aglio mondato e schiacciato , il peperoncino, le acciughe o la pasta d'acciughe.
Quando l'aglio comincia a soffriggere, rompete con un cucchiaio di legno i filetti d'acciuga, che si scioglieranno rapidamente. A questo punto mettete il cavolo lessato ed affettato,aggiungete i cubetti di pomidoro, salate ad libitum col sale grosso e rigirate per qualche minuto. (Nel frattempo mettete a bollire l'acqua salata (8 litri) per cuocere la pasta). Lasciar proseguire la cottura dei cavoli a fuoco lento per 10 minuti. con il cucchiaio di legno rompete le infiorescenze del cavolo, rimestate e ricoprite. (Nell'altra pentola, non appena l'acqua bolle, calate la pasta e colatela a metà cottura). Dopo altri venti minuti togliete nuovamente il coperchio al tegame con il cavolo in cottura e rompete ulteriormente le infiorescenze. Oramai dovrebbe essere ridotto tutto ad una gustosa poltiglia, versatevi la pasta a metà cottura, aggiungete il pecorino a cubetti ed il pane grattugiato e rimestando lasciate cuocere per altri cinque minuti. Alla fine aggiungete il trito di prezzemolo e versate il tutto in una zuppiera facendo riposare per circa 2 ore. Mezz’ora prima di servire in tavola, porre a fuoco vivacissimo una padella di ferro nero unta a fondo con la cotenna di maiale o con lo strutto , fatela riscaldare fino a che diventi quasi ardente e ponetevi un mestolo (porzione singola) della minestra riposata, spolverizzate di pecorino e rimestando con un cucchiaio di legno fate arsicciare a fondo la pasta e cavolo; ripetere l’operazione per ogni singola porzione, ungendo ancora ripetutamente di strutto la padella.
Servire calda di padella.con, una generosa spolverata di pepe nero.
Vini: Corposi vini rossi campani (Solopaca, Aglianico, Piedirosso, Taurasi) serviti a temperatura ambiente.
mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale

CALAMARATA

CALAMARATA

Ingredienti per 6 persone:

Calamarata ( particolare formato di pasta corta ad anelli da Gragnano di recente produzione ) 600 gr;
4 calamari(1/2kg) freschi di media grandezza;
5 etti di gamberetti freschi o surgelati,
6 acciughe dissalate e spinate o ugual peso di filetti d’acciuga sott’olio ;
3 pomodori rossi tondi ramati maturi di media grandezza;
1 grosso ciuffo di prezzemolo lavato, asciugato e tritato finemente con uno spicchio d’aglio mondato;
1 bicchiere di olio d'oliva e.v. p. s. a f. ;
3 spicchi d'aglio mondati e schiacciati;
mezzo bicchiere di vino bianco;
sale doppio alle erbette – un pugno
sale fino alle erbette e pepe bianco q.s.



Procedimento:

Pulire bene i calamari sotto acqua corrente fredda. Eviscerarli, separando i tentacoli e le aluzze dal corpo, avendo cura di eliminare anche la pellicina chiara, oltre che becco, occhi. Tagliuzzare le aluzze ed i tentacoli e tenerli in una ciotola irrorati da un filo di olio d'oliva e.v. p. s. a f..
In una piccola padella mettere due cucchiai d’olio e le acciughe e tenerle sul fuoco a fiamma lentissima.Sminuzzare le acciughe con un cucchiaio di legno, quindi versare il contenuto della ciotola contenente i tentacoli ed aluzze e tenere al fuoco mescolando dolcemente per circa 5 minuti. Spegnere la fiamma.
In una padella grande mettere a soffriggere gli spicchi d'aglio con l'olio residuo e quando sono imbionditi,tirarli via dalla padella ed aggiungere i pomodori fatti a tocchetti precedentemente sbollentati e privati della pelle e dei semi.
Aggiungere i calamari tagliati a striscie sottili, larghe come un indice, nonché i gamberetti sgusciati, privati del budellino nero e lavati. Regolare di sale e pepe e lasciar cuocere a fiamma moderata per circa 15 minuti, avendo cura di controllare che i calamari cuociano senza bruciacchiare,quindi versare il mezzo bicchiere di vino alzando la fiamma al massimo.
Dopo 5 minuti portare la fiamma al minimo ed incoperchiare la padella. Dopo altri due minuti aggiungere il contenuto della padellina nella quale ci sono le acciughe i tentacoli e le aluzze e, dopo ancora tre minuti circa, spegnere e spruzzare con parte del trito di prezzemolo ed aglio.
Nella pentola con l'acqua bollente salata (sale doppio), immergere la calamarata e lessarla al dente: (in genere 10 minuti sono sufficienti), ma è preferibile controllare procedendo ad uno o piú assaggi. Scolare la pasta e versarla nella padella grande, mescolare ed aggiungere il residuo del trito di prezzemolo ed aglio; pepare generosamente ed impiattar caldo di fornello. Vini: secchi e profunati bianchi campani ( Solopaca, Capri, Ischia, Falanghina, Fiano, Greco di Tufo) freddi di frigo.
Mangia Napoli, bbona salute!
raffaele bracale