lunedì 4 aprile 2016

LA STRINGATEZZA DEL NAPOLETANO

LA STRINGATEZZA DEL NAPOLETANO Sollecitato dalla pressante richiesta dell’amico A.M. [di cui i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome] esemplifico con tre soli esempi che illustro qui di seguito l’assunto dell’epigrafe inteso come sono a dimostrare che l’idioma napoletano, nella sua icasticità espressiva non necessita di lunghi giri di parole per esprimersi concettuosamente e soddisfacentemente e gli è sufficiente una stringata laconica locuzione per commentare, riassumere o concludere una situazione o un avvenimento. Ed ecco gli esempi: 1) MO NCE VO’ Ad litteram: Adesso ci vuole! Id est: Questo proprio è il caso; tutto ciò si attaglia a quando vengo argomentando. Laconica locuzione usata appunto in luogo del giro di parole riportato per significare che ci si trovi giustappunto nella situazione di cui si stia parlando. Mi dilungo sulle componenti della lucuzione: --MO (è possibile trovarlo anche come mo' o ancóra mò) avv. - Ora, adesso; poco fa Concorrente di ora e adesso, mo à una lunga tradizione storica, ma non si è quasi mai affermato nell'uso scritto dell’italiano ; resta quindi limitato all'uso parlato di gran parte d'Italia, in partic. di quella centro-merid. nel napoletano anche nella forma iterata mmo mmo con tipico raddoppiamento espressivo della consonante d’avvio nel significato di súbito, immediatamente, senza por tempo in mezzo. Rammento che invece che nella forma reiterata mo, mo con la nasale scempia e separate da una virgola l’avverbio è da intendersi quale esclamazione nel senso di Un momento!, Con calma!, Senza affrettarsi! Detto ciò passiamo ad un altro problema; come si scrive la parola in epigrafe? Il problema non è di facilissima soluzione posto che non v’è identità di vedute circa l’etimologia della parola, unica strada forse da percorrere per poter addivenire – con buona approssimazione – ad una corretta soluzione; vi sono infatti parecchi scrittori e/o studiosi partenopei e non che fanno discendere il termine dall’ avv. latino modo che accanto a molti altri significati à pure quello di ora, adesso; ebbene, qualora si scegliesse questa strada sarebbe opportuno scrivere mo’ tenendo presente il fatto che allorché una parola viene apocopata di un’intera sillaba, tale fatto deve essere opportunamente indicato dall’apposizione di un segno diacritico (‘). Se invece si fa derivare la parola mo dall’avverbio latino mox = ora, súbito, come io reputo che sia, ecco che la faccenda diviene piú semplice e basterà scrivere mo senza alcun segno diacritico. È, infatti, quasi generalmente accettato il fatto che quando un termine, per motivi etimologici, perde una sola lettera (consonante)o piú consonanti in fin di parola e non per elisione (allorché – come noto – a cadere è una vocale), non è previsto che ciò si debba indicare graficamente come avverrebbe invece se a cadere fosse una intera sillaba ovviamente vocalica; ecco dunque che ciò che accade per il mo derivante da mox ugualmente accade, in napoletano, per la parola cu (con) derivante dal latino cum e per pe (per) dove cadendo una semplice consonante ( m oppure r) e non una sillaba non è necessario usare il segno dell’apocope (‘) ed il farlo è inutile, pleonastico, in una parola errato! La stessa cosa accade per l’avverbio napoletano di luogo lla (in quel luogo, ivi) avverbio che in italiano è là; sia l’avv. napoletano che quello italiano sono ambedue derivati dal lat. (i)lla(c): in napoletano mancando un omofono ed omografo lla non è necessario accentare distintivamente l’avverbio, come è invece necesario nell’italiano là dove è presente l’omofono ed omografo la art. determ. f.mle, Nel napoletano scritto c’è una sola parola nella quale cadendo una consonante finale è necessario fornire la parola residua di un segno d’apocope (‘): sto parlando della negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso l’uso di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta e non fosse invece, quale a mio avviso è, segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiamassero pure Di Giacomo,F.Russo, E. Nicolardi etc.e giú giú fino ad E.De Filippo.) Qualcuno mi à fatto notare che il termine mo non potrebbe derivare da mox in quanto, pare, che una doppia consonante come cs cioè x non possa cadere senza lasciar tracce, laddove ciò è invece possibile che accada specie per una dentale intervocalica come la d di modo. Ora,a parte il fatto che anche le piú ferree regole linguistiche posson comportare qualche eccezione (come avviene ad es. per la voce della lingua nazionale re che pur derivata dritto per dritto dal latino re(x),si scrive senza alcun segno diacritico traccia della x , anche ammettendo che il napoletano mo discenda da modo e non da mox non si capisce perché esso mo andrebbe apocopato (mo’) o addirittura accentato (mò) atteso che vige comunque la regola che i monosillabi vanno accentati solo quando,nell’àmbito di un medesimo sistema linguistico, esistano omologhi omofoni che potrebbero creare confusione. Penso perciò che forse sarebbe opportuno nel toscano/italiano accentare il mò (ora, adesso) per distinguerlo dall’apocope di modo (mo’ dell’espressione a mo’ d’esempio), ma nel napoletano non esistendo il termine modo né la sua apocope è inutile e pleonastico aggiunger qualsiasi segno diacritico (accento o apostrofo) al termine mo (ora/adesso). NCE forma eufonica di CE corrispondenti ambedue all’italiano ce o ci; pron. pers. di prima persona pl. atono; usato come compl. di termine in presenza delle forme pronominali atone‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] a noi: nce ‘o dicette; nce ‘a dette sana e salva; ce ‘o rialaje ; nce ‘o dette ; ce ne vulettero assaje; mannatecello; datencille; parlacene tale ce/nce è usato anche come part. avverbiale [ in presenza delle forme pronominali atone ‘o, ‘a, , ‘e e della particella ne, in posizione sia proclitica sia enclitica] qui, in questo luogo; lí, in quel luogo; nel luogo di cui si parla: nun ce ‘o truvaje; mettimmoncelo; ce n’êsseno (avesseno) essercene ancòra; nce ne stanno parecchie; l’etimo è dal lat. volg. *(hic)ce, forse per il class. hic 'qui’. VO’ corrisponde all’italiano vuole (3ª p. sg. ind. pres.) dell’infinito vulé con etimo dal lat. volg. *vōlere (accanto al lat. class. velle); normale il passaggio della vocale lunga o ad u; la grafia usata per la voce a margine è stata scelta in quanto vo’ è l’ apocope di vole) per cui la preferisco a vô (proposta da qualche pur valente linguista) dove però nella ô si riconosce la contrazione del dittongo uo di vuole; ma accettando tale tesi si corre il grosso rischio forse di far passare l’idea che il napoletano sia un derivato dell’italiano; ma non è assolutamente cosí: il napoletano, ripeto e sottolineo non è mai, proprio mai tributario dell’italiano, ma filiazione diretta del latino volgare e parlato. 2) E VVA’ CA NO! Ad litteram:E vai che no ! Id est:Non ritenere che non sia esatto ciò che sto affermando; non pensare ch’io mi stia sbagliando atteso che la disincantata osservazione della realtà ti dimostrerà di quanto siano giuste e corrette le mie azioni e/o considerazioni. E mi soffermo anche qui sulle voci ricorrenti componenti nella lucuzione: VVA’ = vai,va’ voce verbale seconda pers. sg. apocopata imperativo dell’infinito jí che in talune espressioni è ghí/gghí (cfr. a gghí a gghí= di misura) dove la j è sostituita per comodità espressiva dal suono gh; è pertanto assolutamente errato (come purtroppo càpita con la stragrande maggioranza di sedicenti scrittori napoletani noti o meno noti!) rendere in napoletano l’infinito di andare con la sola vocale i talvolta accentata (í) talvolta, peggio ancóra!, seguíta da uno scorretto segno d’apocope (i’); la (i’) in napoletano è l’apocope del pronome io→i’ e non può essere anche l’apocope dell’infinito ire; l’infnito di andare in corretto napoletano è jí oppure in talune esopressioni ghí/gghí cosí come espressamente sostenuto dal poeta Eduardo Nicolardi (Napoli 28/02/1878 -† ivi 26/02/1954) che era solito far coniugare per iscritto in napoletano il verbo andare (jí) a tutti coloro che gli sottoponevano i loro parti… poetici dialettali e quando errassero nello scrivere, vergando (í) oppure (i’) in luogo di jí oppure, ove del caso, ghí li metteva decisamente alla porta consigliando loro di abbandonare il napoletano e la poesia! A margine rammento che il verbo jí/ghí nella coniugazione dell’indicativo presente (1ª,2ª e 3ª pers. sg.) e dell’imperativo (2 ªsg.) si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) ed à nell’indicativo : i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl.usa il tema di ji –re ed à nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª pers. pl che è lloro vanno mentre nell’imperativo è: vai/va’- jate CA congiunzione che corrisponde all’italiano che 1) introduce prop. dichiarative (soggettive e oggettive) con il v. all’ind. o talvolta al congiunt..: se dice ca è partuto; fosse ora ca te decidisse; nun penzo ca chillo vene; te dico ca nun è overo; è inutile ca tu liegge chillu cartello, manco ‘o capisce... | può essere omesso quando il v. è al congiunt.: spero fosse accussí | con valore enfatico: nun è ca sta malato, pe ccerto è assaje stanco; è ca ‘e juorne nun passano maje!; forze ca nun ‘o sapive? 2) introduce prop. consecutive, con il v. all'indic. o al congiunt. (spesso in correlazione con accussí, tanto, talmente, tale ecc.): cammina ca pare ‘nu ‘mbriaco; parla pe mmodo ca te putesse capí; era talmente emozzionato ca nun riusciva a pparlà; stevo accussí stanco ca m’addurmette súbbeto; | entra nella formazione di locuzioni, come ô punto ca, pe mmodo ca etc : continuaje a bbevere pe mmodo ca se ‘mbriacaje; 3) introduce prop. causali con il v. all'indic. o al congiunt.: cummògliate ca fa friddo; nun è ca m’’a vulesse scapputtà 4) introduce prop. finali con il v. all’indicativo o al congiunt.: fa' ca tutto prucede bbuono! ; se stevano accorte ca nun se facesse male; 5) introduce prop. temporali con il v. all'indic., nelle quali à valore di quando, da quando: te ‘ncuntraje ca era ggià miezojuorno; aspetto ca isso parte; sarranno dduje mesi ca nun ‘o veco | entra nella formazione di numerose loc. cong., come ‘na volta ca, doppo ca, primma ca, ògne vvota ca, d’’o juorno ca,: ll’hê ‘a farlo, primma ca è troppo tarde; ògne vvota ca ‘a ‘ncontro me saluta sempe; 6) introduce prop. comparative: tutto è fernuto primma ca nun sperasse 7) introduce prop. condizionali con il v. al congiunt., in loc. come posto ca,datosi ca, ‘ncaso ca, a ppatto ca, nell'ipotesi ca ecc.: posto ca avesse tutte ‘e ragioni, nun s’aveva ‘acumportarse comme à fatto!; t’’o ffaccio, ‘ncaso ca t’’o mierete;datosi ca hê ‘a partí, te ‘mpresto ‘sta balicia; 8) introduce prop. eccettuative (in espressioni negative, correlata con ato, ati, ‘e n’ata manera, per lo piú sottintesi): non fa (ato) ca dicere fessaríe ; nun aggio potuto (altro) ca dicere ‘e sí!; nun putarria cumpurtarme (‘e n’ata manera) ca accussí | entra a far parte delle loc. cong. tranne ca, salvo ca, a meno ca, senza ca: tutto faciarria o facesse, tranne ca darle raggione; vengo a truvarte, a meno ca tu nun staje ggià ‘nampagna; è partuto senza ca nesciuno ne fosse ‘nfurmato; 9) introduce prop. imperative e ottative con il v. al congiunt.: ca nisciuno trasesse!; ca ‘o Cielo t’aonna! Dio ; ca ‘stu sparpetuo fernesse ampressa; 10) introduce prop. limitative con il v. al congiunt., con il valore di 'per quanto': ca i’ sapesse non à telefonato nisciuno; 11) con valore coordinativo in espressioni correlative sia ca... sia ca; o ca... o ca: sia ca te piace sia ca nun te piace,stasera avimm’’a ascí ;i’ parto oca chiove o ca nun chiove...; 12) introduce il secondo termine di paragone nei comparativi di maggioranza e di minoranza, in alternativa a di (‘e) (ma è obbligatorio quando il paragone si fa tra due agg., tra due part., tra due inf., tra due s. o pron. preceduti da prep.): Firenze è meno antica ca (o ‘e) Roma; sto’ cchiú arrepusato oje ca (o ‘e) ajere;tu sî cchiú sturiuso ca ‘nteliggente;; è cchiú difficile fà ca dicere; à scritto meglio dinto a ‘sta lettera ca dinto a cchella d’’o mese passato | (fam.) in correlazione con tanto, in luogo di quanto, nei comparativi di eguaglianza: la cosa riguarda tanto a mme ca a vvuje | in espressioni che ànno valore di superl.: songo cchiú ca certo; songo cchiú ccerto ca maje; 13) entra nella formazione di numerose cong. composte e loc. congiuntive: affinché, benché, cosicché, perché, poiché; sempe ca, in quanto ca, nonostante ca, pe mmodo ca e sim. Etimologicamente la congiunzione CA è derivato del francese car→ca(r)→ca di uguale significato mentre il pronome ca = (che) è dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca; ora sia la congiunzione che il pronome[riconoscibile dalla funzione sintattica] si rendono con la c iniziale scempia (ca), laddove l’avverbio di luogo cca è scritto sempre con la c iniziale geminata e basta ciò ad evitar confusione tra i tre monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dagliomofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. NO avv. olofrastico come il corrispondente no dell’italiano è negazione equivalente ad una intera frase negativa, usata specialmente nelle risposte (si contrappone a sí): «ll'hê visto?» «No»; «Parte oje?» «No, dimane!» («l’ài visto?» «No»; «Parte oggi?» «No, domani!»). NUN FACIMMO CA PO... Ad litteram:Non facciamo che poi Id est: Evitiamo di comportarci in maniera non esatta o confacente di talché poi avremo da pentircene o recriminare; comportiamoci con lealtà,schiettamente in modo di non trovarci in situazioni di cui dolersi e rammaricarsi, NUN attestato anche come ’UN/NU’/NUNN’ avv.di negazione[dal lat. non] = non 1 serve a negare il concetto espresso dal verbo a cui si riferisce o a rafforzare una frase che contiene già un pron. negativo: nun venette;nu’ ddicere fessarie; nu’ pparlaje pe tutt’ ‘o juorno(non venne; non dire sciocchezze; non parlò per tutto il giorno); nun ce sta nisciuno irre e òrre(non c'è alcun dubbio);’un c’è prubblema (non c'è problema);’un ce sta nisciuno(non c'è nessuno), | ch’è che nunn è(cosa è, cosa non è), (fam.) tutto a un tratto, senza una ragione evidente:ch’è, che nunn è, fernette ‘e parlà e se ne jette (cosa è, cosa non è, smise di parlare e se ne andò) | in espressioni ellittiche: no ca nun ce crero, ma(non che io non ci creda, ma...), non intendo dire di non crederci, ma...; 2 (ant.) col valore di no: nun po’ serví po dicere ’e no, si hê ditto ‘e sí pure ‘na vota sola!(non varrà poi dire di no, se avrai détto di sì anche una volta sola) 3 nelle contrapposizioni, anche col verbo sottinteso: nunn è bbello, ma ‘ntelliggente(non è bello, ma intelligente); isso fuje pe mme nun sulo ‘nu pate, ma pure n’amico(egli fu per me non solo un padre, ma un amico) | in espressioni ellittiche: vène o nun vène;prufessore o nun prufessore(venga o non venga; professore o non professore) (ma non quando non è ripetuto il primo elemento:vène o no, prufessore o no( venga o no, professore o no)) 4 nelle interrogative dirette e indirette che attendono una risposta affermativa e nelle interrogative retoriche: nun avive ‘a partí stasera?(non avresti dovuto partire stasera?); nunn è overo?( non è vero?); m’addimanno si nun fosse stato meglio a lassà perdere; comme facevo a nun crerelo?(mi chiedo se non sarebbe stato meglio rinunciare; come potevo non credergli?) 5 si usa pleonasticamente in alcune locuzioni: è cchiú facile ‘e chello ca tu nun cride(è più facile di quel che tu non creda);nunn appena( non appena), appena che; | in talune frasi esclamative ed in senso antifrastico: ‘e buscie ca nun m’à ditto!(le bugie che non mi à detto!); ‘e fessarie ca nun hê fatto(le sciocchezze che non ài fatto!) | quando il verbo a cui si riferisce è retto da congiunzioni o locuzioni come fino a cche, pe ppoco, a meno che, salvo che, ‘a fora ‘e che e sim.: t’aspettofino a cche nunn arrive( ti attenderò finché non arriverai); pe ppoco nun è caduto(per poco non è caduto 6 in litote, preposto a un aggettivo, un sostantivo o un avverbio: è stata ‘na facenna nun facile (è stata un'impresa non facile), difficile; nun poche ‘a penzano comme a nnuje(non pochi la pensano come noi), parecchi; aggiu faticato nun poco…(ò lavorato non poco), molto; nun sempe(non sempre), raramente; nun senza fatica(non senza fatica), con notevole fatica; rammento che il medesimo, originario avv. di negazione nun può esser reso secondo le occorrenze con altre morfologie:aferizzato, di solito in principio di frase[con indicazione dell’aferesi], ‘un: ‘un me faccio capace(non me ne convinco) ‘un ‘o ssaccio!(non lo so)’un me dicere niente(non dirmi nulla) ‘un ‘o saccio!(non lo conosco),apocopato nu’ che però (secondo il principio che la caduta finale di una o piú consonanti non necessita di una indicazione diacritica) si potrebbe anche rendere semplicemente nu Tuttavia è preferibile adottare la morfologia nu’ poi che nel napoletano scritto si potrebbe ingenerare confusione tra l’art. indeterminativo ‘nu/’no e la negazione nun= non che talvolta viene apocopata in nu da rendersi perciò nu’ (facendo un’eccezione rispetto alla regoletta per la quale i termini apocopati di cononante/i e non di sillaba [ovviamentevocalica], non necessitano di segni diacritici (ad es.: cu da cum – pe da per – mo da mox – po da post ) dicevo da rendersi però nu’ per evitarne la confusione con l’omofono articolo ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo,F. o V. Russo, E.De Filippo, EduardoNicolardi etc.). Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non potettero avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che furono inesistenti del tutto, mentre i pochissimi esistenti, (Galiani, Oliva, Serio) peraltro spesso in contrasto sulle soluzioni proposte furono malamente diffusi, né potettero far testo, vergati com’erano stati da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso, imprecisi e/o impreparati. Ancóra ricordo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo, R.Viviani etc.), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano un’ adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, E. Nicolardi etc. spessissimo la usarono maldestramente[soprattutto il Di Giacomo ed il Nicolardi] adattando le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato. Per concludere,e valga una volta per sempre, a mio avviso nel napoletano scritto gli articoli indeterminativi vanno sempre corredati del segno d’aferesi (etimologicamente esatti!)ed il non farlo è segno di sciatteria, pressappochismo e forse sicumera! Esempi di questo nun→nu(n)→nu’ usato per solito davanti a consonante e/o in frasi esclamative possono essere: e nu’ sta bene!(non sta fatto bene!), statte zitto, nu’ pparlà sempe tu!(taci, non parlar sempre tu!); si à infine la forma rafforzata nunn’ usata davanti a parole comincianti per a, o,e ed alla voce verbale hê; tale forma nunn è un calco del lat. nonn(e)→nunn’ e pertanto esige il segno diacritico dell’elisione, anche – eccezionalmente - davanti alla acca di hê: nunn’ ‘o ddicere! (non dirlo!)nunn’ ‘e ssiente? (non le/li senti?) nunn’ hê capito niente! (non ài compreso nulla!). FACIMMO = facciamo [voce verbale 1ª p. pl. Ind. Pres. dell’infinto fà (dal lat. fa(ce)re) ] Comincerò con il precisare che il verbo fare il cui infinito nel napoletano è fá/ffá che io contrariamente a tutti gli altri cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’) preferisco rendere con la Á accentata (fá/ffá ) per alcuni ben precisi motivi: 1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé - murire→murí- dicere→dí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2ª p.sg. dell’imperativo: fa’= fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: da’= dai, , come ancóra si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato di’ di dicere che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2ª p.sg. dell’imperativo: di’= dici, A proposito di infiniti rammento che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che, ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti, ma poi presuntuosamente da asini e supponenti, spocchiosi, tronfi, saccenti,quali mostran d’ essere!..., osano accusare di ignoranza e faciloneria chi non si adegua al loro inesatto modo di scrivere! In effetti nella grafia della parlata napoletana non v’à ragione (checché ne dica ad es. A. Altamura) accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima sillaba:l'accento, inglobando la doppia funzione, è piú che sufficiente alla bisogna; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico. Per esempio il verbo èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé! Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: véde e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fá, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fá in luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’, ma statte. A questo punto torniamo all’assunto dell’epigrafe per rammentare che in napoletano il verbo fare (fá/ffá ) che è dal lat. fa(ce)re à le medesime accezioni del corrispondente fare dell’italiano e cioè: 1 compiere un'azione; porre in essere, eseguire, operare: fá ‘nu passo, ‘o bbene, ‘nu discorzo,’nu suonno;che ffaje stasera?(fare un passo, il bene, un discorso, un sogno; che fai stasera?) | tené assaje che ffá(avere molto da fare), essere occupatissimo | sapé fá uno ‘e tutto(saper fare (di) tutto), essere versato in ogni campo | fá e sfá a ccapa soja( fare e disfare a suo piacimento), agire secondo il proprio comodo, senza render conto a nessuno | fa’ tu!(fai/fa’ tu!), decidi tu | avé a cche ffá cu quaccheduno(avere a che fare con qualcuno), trattare, avere rapporti con lui, ma anche entrare in contrasto con qualcuno | nun tené niente a cche ffá cu coccosa(non avere nulla a che fare con qualcosa), non entrarci, non avere relazione con essa | darse ‘a fa(darsi da fare), adoperarsi, brigare per ottenere qualcosa | lassà fá a quaccheduno(lasciar farequalcuno), non disturbarlo, lasciarlo libero di agire | fá ‘e tutto o ll’impussibbile(fare di tutto o l'impossibile), tentare ogni mezzo pur di raggiungere uno scopo | saperce fa(saperci fare), (fam.) essere in gamba, sapere il fatto proprio | fá ampressa, tarde(fare presto, tardi), agire con rapidità o con lentezza; anche, rientrare presto o tardi, spec. la sera | fá ‘e cunto(far di conto), (antiq.) conteggiare, computare secondo le regole dell'aritmetica | fá festa(fare festa), festeggiare, divertirsi | fá ‘a festa(o ‘a pelle) a quaccuno(fare la festa (o la pelle) a qualcuno, ucciderlo | fá fora a quaccuno(far fuori qualcuno), eliminarlo da una competizione; anche, ucciderlo; fá fora coccosa( fare fuori qualcosa), consumarla, distruggerla rapidamente | fá ‘a bbella vita(fare la bella vita), godersela, spassarsela | fá ‘na bbella, ‘na bbrutta vita(fare una bella, una brutta vita), vivere in buone, in cattive condizioni materiali o morali | fá fijura (far figura), dare una buona impressione | fá ‘na bbella, ‘na bbrutta fijura(fare una bella, una brutta figura), dare, lasciare una buona, una cattiva impressione | fá córpo(fare colpo), colpire, impressionare |fá caso a coccosa( fare caso a qualcosa), badarci | farse ‘e capille(farsi i capelli), tagliarli | farse’a varva( farsi la barba), raderla | fá fuoco( fare fuoco), sparare | fa furtuna( fare fortuna), crearsi una posizione | fa ‘e ccarte (fare le carte), al gioco, distribuirle; in cartomanzia, ricavarne predizioni; nell'uso fam., preparare i documenti necessari al disbrigo di una pratica, ma in questo caso s’usa l’espressione caccià ‘e ccarte | fá ‘o juoco ‘e quaccheduno (fare il gioco di qualcuno), assecondarlo, favorirlo | fá rotta o vela (far rotta o vela), dirigersi | fá scalo( fare scalo), sostare | farla a quaccheduno(farla a qualcuno), giocarlo, raggirarlo | farla sporca(farla sporca), commettere un'azione spregevole | farla grossa (farla grossa), commettere uno sproposito | farla corta, (farla corta, breve), affrettare la conclusione | farla fernuta (farla finita), tagliar corto, smettere; anche, uccidersi | farla franca (farla franca), cavarsela, sottrarsi alle conseguenze di una colpa o di un errore | farla longa (farla lunga), dilungarsi in un discorso, in una discussione |fá a ppiezze (fare a pezzi), rompere; spezzettare; sbranare; (fig.) battere clamorosamente, umiliare | fá ‘a famma (fare la fame), soffrirla; (fig.) essere in miseria | fá paura (fare paura), spaventare | fá curaggio(fare coraggio), incoraggiare | fá piacere a uno (far piaceri a qualcuno), render lieto, contento/favorirlo | fá strata(fare strada), aprire un passaggio; precedere indicando il cammino, la direzione | farsi strada, aprirsi un passaggio; (fig.) raggiungere una buona posizione | farsela ‘ncuollo, sotto, dint’ê cazune(farsela addosso, sotto, nei calzoni), imbrattarsi di feci o di orina; (fig.) spaventarsi |farne d’ògne culor, ‘e crude o ‘e cotte( farne di tutti i colori, di crude e di cotte), commettere ogni sorta di bricconerie | fá specie (far specie), far meraviglia | fá silenzio(fare silenzio), tacere | fá tesoro ‘e coccosa(fare tesoro di qualcosa), tenerla in gran pregio/ trarne esperienza | fá ‘a vocca, ‘o callo a coccosa(fare la bocca, il callo a qualcosa), abituarvisi | nun fá niente (non fare nulla), oziare | nun fa niente! (non fa nulla!), non importa | nun ffá nè ccaudo nè ffriddo (non fare né caldo né freddo), lasciare indifferenti |fá fronte ê spese (fare fronte alle spese), riuscire a pagarle | fá fronte ô nemico (far fronte al nemico), resistergli | farcela(farcela)riuscire in qualcosa: ce ll’aggiu fatta! (ce l'ò fatta!) | prov. : chi fa ‘a sé fa pe ttre (chi fa da sé fa per tre), è meglio fare da sé le proprie cose che affidarle ad altri; chi ‘a fa ca se ll’aspettasse(chi la fa l'aspetti), chi nuoce agli altri non può che aspettarsi il contraccambio; cosa fatta se ne vène a ccapo(cosa fatta se ne viene a capo), bisogna accettare il fatto compiuto; 2 unito a particelle pronominali, spec. nell'uso familiare, assume valore enfatico, esprimendo una partecipazione affettiva del soggetto all'azione: farse ‘na magnata, ‘na bbella passïata(farsi una mangiata, una bella passeggiata); facimmoce ddoje resate!(facciamoci due risate!);me ne faccio ‘nu bbaffo( me ne fo un baffo), infischiarsene; 3 con valore causativo, mettere in condizione di, permettere: fá fá ‘e primme passe ô criaturo(far fare i primi passi al bambino); fá vevere ê cavalle( far bere i cavalli); 4 creare, produrre, fabbricare: Ddio facette ‘o munno ‘a zzero(Dio fece il mondo dal nulla) 'fá figlie (fare figli), generarli | fá frutte( fare frutti), produrli | fá ‘nu libbro(fare un libro), scriverlo | fá ‘na casa( fare una casa), costruirla | fá ‘na menesta (fare una minestra), prepararla | fá ‘nu cuntratto (fare un contratto), stipularlo | fá luce( fare luce), rischiarare, illuminare; (fig.) svelare un mistero, scoprire la verità 5 dire, parlare (per lo piú introducendo il discorso diretto):me facette: «Viene cu mme!» (mi fece: «Vieni con me!») 6 credere, pensare:te facevo a Pparigge e ‘mmece staje cca!( ti facevo a Parigi e invece sei qui! ) 7 emettere, versare: fá sanco dô naso (fare sangue, sanguinare dal naso) 8 raccogliere, mettere insieme: fá legna,denaro,ccravone, acqua, benzina (fare legna,danaro, carbone, acqua, benzina), rifornirsene; chesta città fa trecientomila perzone(questa città fa trecentomila abitanti), ne conta trecentomila |fá acqua (fare acqua), detto di natante, imbarcarla da una falla; (fig.) essere in condizioni di dissesto, (volg.) mingere; 9 (fam.) comprare, regalare: ‘a mamma ll’à fatto ‘nu paro ‘e scarpe nove(la mamma gli à fatto un paio di scarpe nuove) | con la particella pronominale, comprare per sé, procurarsi: farse ‘a machina, ‘a casa(farsi l’automobile, la casa); 10 esercitare un'arte, una professione, un mestiere: fá ‘o pittore, ‘o salumiere(fare il pittore, il salumiere) | praticare: fá ‘o sporto,fá ‘e tuffe(fare sport, fare dei tuffi) 11 comportarsi da: fá ‘o spallettone, ‘o cretino(fare il superuomo, il cretino) | agire come: ll’à fatto ‘a mamma, da ‘nfermera( gli à fatto da mamma, da infermiera) 12 detto di cose, avere una determinata funzione: ‘e capille lle facevano curnice â faccia (i capelli le facevano da cornice intorno al viso); ‘na preta faceva ‘a scannetiello (una pietra faceva da sedile/sgabello) 13 rendere, mettere in una determinata condizione: fá bbella ‘a casa soja( far bella la propria casa) 14 eleggere, nominare: fove fatto generale(fu fatto generale) 15 dare come risultato (nelle operazioni aritmetiche): tre pe ttre fa nove; ddiece meno doje fa otto(tre per tre fa nove; dieci meno due fa otto) 16 (gerg.) rubare: se so’ ffatto ‘o muturino (si sono fatto il motorino) 17 farse n’ommo, ‘na femmena (farsi un uomo, una donna,) (volg.) averci un rapporto sessuale ||| Come v. intr. [aus. avere] 1 convenire, adattarsi, essere utile: chella casa nun fa pe nnuje; ‘a fatica nun fa pe tte(quella casa non fa per noi; il lavoro non fa per te ) 2 divenire, essere (con uso impers. quando è riferito alla temperatura, al clima, all'avvicendarsi del giorno e della notte):fa cavero; fa malu tiempo;( fa caldo; fa brutto tempo;) ‘e vierno fa scuro ambressa(d'inverno fa buio presto); 3 compiersi (di un determinato tempo):fa n’anno,fanno dduje anne ca ce sapimmo (fa un anno, fanno due anni da che ci conosciamo); 4 in altre locuzioni: fá a ccazzotte, a mmazzate, a curtellate(fare a pugni, a botte, a coltellate); fá a ttiempo o ‘ntiempo (fare a (o in) tempo), riuscire a fare qualcosa entro una scadenza prefissata; fá a mmeno ‘e coccosa(fare a meno di qualcosa), ||| farse/farese v. rifl. o intr. pron. 1 trasformarsi, diventare: farse ggiudio(farsi ebreo);farse russo russo ‘nfaccia( farsi rosso in viso); ‘stu cacciuttiello s’è ffatto gruosso!(questo cucciolo s'è fatto grosso!) | farse ‘nquatto(farsi in quattro, (fig.) moltiplicare i propri sforzi, il proprio impegno a favore di qualcuno o di qualcosa || Anche in costruzioni impersonali:s’è ffatto scuro; se sta facenno tarde( s'è fatto scuro; si sta facendo tardi); 2 (gerg.) drogarsi:farse ‘e cucaina (farsi di cocaina). CA (cfr. antea sub 2) PO avv. di tempo = poi [voce dal lat. post→po(st)→po,] avverbio che in napoletano non esige nessun segno diacritico finale (come invece succede quando a cadere è una sillaba vocalica e non un gruppo consonantico (cfr. qua(le)→qua’,ed invece mo (ora)←mo(x), re(monarca)←re(x)). E qui faccio punto convinto, con gli esempi fatti, d’avere dimostrato l’assunto ed accontentato l’amico A.M. e qualcuno dei miei ventiquattro lettori che dovesse imbattersi in queste paginette. R.Bracale

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