mercoledì 20 settembre 2017

RAFFAELE VIVIANI –GUAGLIONE



RAFFAELE VIVIANI –GUAGLIONE

Questa volta,per illustrare alcune parole della parlata napoletana, mi servirò di una poesia di Raffaele Viviani, illustre ed apprezzato poeta, commediografo ed attore del teatro partenopeo; egli nacque a Castellammare di Stabia il 10 gennaio del 1888 da famiglia povera, il padre, Raffaele, fu  cappellaio e poi vestiarista teatrale e la madre una  umile e squattrinata  casalinga. Ad appena 4 anni e mezzo fece il suo esordio (indossando un minuscolo frac, confezionatogli da suo padre) in un teatrino di marionette sito in Napoli nella via Foria(strada limitrofa del centro storico, frequentata ed abitata   da operai e medio- bassa borghesia, abituati a frequentare quei piccoli e rabberciati teatri  di cui pullulava la strada e quelle adiacenti), di proprietà di Aniello Scarpati. A soli dodici anni Raffaele, rimasto orfano del padre, piombò  in un profondo stato d'indigenza e si dovette accollare il   gravoso compito di badare alla madre ed alla sorella Luisella. La tragicità della condizione familiare di Papiluccio traspare, in maniera straziante, dall'opera autobiografica La Boheme dei comici che egli scrisse nel 1930. Negli anni seguenti  divenne uno dei maggiori esponenti della drammaturgia napoletana,e son da  ricordare, tra le sue piú belle opere: 'O vico, Tuledo 'e notte,’O sposarizio, Circo equestre Squeglia, I pescatori e la notissima  Morte di Carnevale. Si spense il 22 marzo del 1950 a Napoli nella sua casa del Corso Vittorio Emanuele II (la magnifica strada panoramica che – a mezza costa della collina del Vomero - fu aperta per volere del re Borbone Ferdinando II col nome di C.so Maria Teresa, poi per opportunismo politico mutato in C.so Vittorio Emanuele II in omaggio al 1° re della scellerata Italia unita!), e  prima di morire, dopo esser stato zitto per piú di 12 ore, trovò la forza di chiedere, con un ultimo sforzo e con un tenue filo di voce: Arapite, faciteme vedé Napule.(Aprite (il balcone) e fatemi vedere Napoli!). La poesia, di cui mi servirò per la mia ricerca, apre la raccolta completa delle poesie di R. Viviani e si intitola: Guaglione.  Eccone qui di sèguito il testo completo  con la relativa traduzione.
GUAGLIONE
Quanno jucavo ô strummolo,
â liscia, ê ffijurelle, 
a cciaccia, a mmazza e ppívezo,
ô juoco d''e ffurmelle,

stevo 'int' â capa retena
d’'e figlie 'e bbona mamma,   
e me scurdavo ô ssolito,
ca me murevo 'e famma.

E comme ce sfrenàvamo:
sempe chine 'e sudore!  
'E mamme ce lavàvano
minute e quarte d'ore!
Junchee fatte cu 'a canapa
'ntrezzata, pe ffà  a pprete;  
sagliute 'ncopp'a ll'asteche,
p'annarià cuméte;

p’ ‘o  mare ce menàvamo
spisso cu tutte 'e panne;  
e 'ncuollo ce 'asciuttàvamo,
senza piglià malanne.
'E gguardie? sempe a sfotterle,
pe' ffà secutatune;           
ma ê vvote ce afferravano
cu schiaffe e scuzzettune

  e â casa ce purtavano:
Tu, pate, ll'hê 'a 'mparà!   
Ma  manco 'e figlie lloro
sapevano educà.

A dudece anne, a tridece,
tanta piezz''e stucchiune: 
ca niente maje capévamo
pecché sempe guagliune!

  'A scola ce 'a sàlavamo
p''arteteca e p''a foja:     
'o cchiú 'struvito, ô massimo,
faceva 'a firma soja.

Po gruosse, senza studio,
senz'arte e senza parte,
fernévamo pe perderce:
femmene, vino, carte,

dichiaramiente, appicceche;
e sciure 'e giuventú 
scurdate 'int'a ‘nu carcere,
senza puté ascí cchiú.

Pur'io jucavo ô strummolo,
â liscia, ê ffijurelle,  
a cciaccia, a mmazza e pívezo,
ô juoco d''e ffurmelle:
  ma, a dudece anne, a tridece,
cu 'a famma e cu 'o ccapí, 
dicette: Nun po’ essere:
sta vita à dda ferní.

        Pigliaje ‘nu sillabbario:
Rafele mio, fa' tu!          
E me mettette a correre
cu A, E, I, O, U.

Eccone la traduzione:

Guaglione (Ragazzo)
Quando giocavo con la trottolina, alla liscia, alle figurine,
 a cciaccia , alla lippa, al giuoco dei bottoni,

stavo nella maggior combriccola dei  figli di buona mamma (buona lana),
e dimenticavo, al solito, di avere fame;

e  quanto chiasso facevamo, sempre molto sudati:
le mamme ci lavavano  continuamente!

Fionde fatte di canapa intrecciata, per lanciar pietre,
salite sui lastrici  solari per innalzare aquiloni;

spesso ci tuffavamo in mare con  i vestiti
e li asciugavamo tenendoli indosso, senza prender alcun malanno.

Gli agenti di polizia? Sempre  a prenderli in giro, per farci inseguire,
però – a volte – ci prendevano  con schiaffi e scappellotti

e a casa ci conducevano (dicendo): Tu padre, devi insegnargli (a comportarsi bene) !
ma neppure i loro figlioli sapevano educare…

A dodici anni, tredici, tanto alti e sviluppati
che (però)  nulla mai comprendevamo, perché sempre (con la testa di) ragazzi

la scuola la marinavamo  per la vivacità  e la furia,
il piú istruito, al massimo, sapeva firmare;

poi (diventati) grandi, ignoranti, senza avere un mestiere o un partito (un’inclinazione )
finivamo per perderci: donne, vino e carte
sfide cruente, litigi  e giovanissimi
rinchiusi in carcere, senza poterne uscire piú;

Anch’io giocavo con la trottolina, alla liscia, con le figurine,
a ciaccia, alla lippa, al giuco dei bottoni,
ma a dodici anni, a tredici, per la fame e per aver compreso,
dissi: Non può durare, questo (tipo di) vita deve finire;
mi procurai un sillabario, (mi dissi): Raffaele, mettici impegno!
e presi a correre con A E I O U .
                                                       Raffaele Viviani
Ed arriviamo in medias res, occupandoci delle singole parole e/o espressioni, cominciando con il titolo della poesia: guaglione; si tratta di parola che pur essendo napoletana è ormai approdata nella lingua nazionale e non mette conto darne una traduzione, essendo termine largamente inteso e compreso; d’esso già ebbi modo di dire abbondantemente alibi;  ne reitero qui, per amor di completezza;
- guaglione:
La parola  a margine , pur se accolta in tutti i dizionarii della lingua toscana, nasce a Napoli e poi di qui trasmigra, come tante altre parole quali camorra e suoi derivati, guappo e consimili, vongola, scarola etc.  e con il termine guaglione viene indicato l’adolescente, il ragazzo  poco piú che decenne che abbia eletto per proprio regno la strada nel cui
rutilante chiasso, si diverte, gioca e magari presta la sua piccola opera servizievole nell’intento di lucrare piccolo guadagno: ‘o guaglione d’’e servizie, ‘o guaglione ‘e puteca quando si tratti di ragazzo avviato ad un lavoro piú o meno stabilmente retribuito Pertanto con il termine guaglione a Napoli non si indica il bambino, che è detto propriamente: criaturo o anche ninno o nennillo e  (quando si tratti di piccolissimo) anche anema ‘e dDio.
Per ciò che riguarda l’etimologia, la questione è di non poca cosa,
avendo il vocabolo  scatenato la fantasia di addetti ai lavori o filologi della domenica e sono state avanzate le ipotesi piú disparate ed è molto difficile bordeggiandole attingere un sicuro approdo.
Ecco perché mi limiterò a dare un sommario elenco di dette ipotesi,  e a suggerire alla fine, l’ipotesi che ritengo piú perseguibile.
A – si cominciò, temporibus illis, a scomodare il greco kallos, kallion: bellino, grazioso, nella pretesa forse che il guaglione dovesse essere per forza grazioso, ma  chiunque si può render conto che si trattava di una pretesa non supportata da alcuna documentata prova, per cui escluderei senz’altro l’ipotesi.
B –Si congetturò pure che guaglione potesse derivare sempre dal greco, ma dalla parola gala = latte, ma non si vede cosa possa mettere in rapporto il latte con il ragazzo di strada che non è certamente un poppante; l’ipotesi è pertanto – a mio avviso  - da scartare.
Come è, a mio avviso,  da scartare l’ipotesi C, sebbene caldeggiata dall’Alessio nel suo dottissimo D.E.I.,  che fa derivare la parola di cui ci occupiamo  dal latino gàneone(m) che sta ad indicare il frequentatore di bettole, l’ubriacone, o peggio! il frequentatore di postriboli: personaggi che non posson certo  configurare, d’acchito, il guaglione. Non nego che, talvolta, il guaglione  possa aver alzato il gomito o frequentato bordelli, ma da ciò a ritenerle  sue precipue attività (tanto da farne derivare il nome...)mi pare ce ne corra!
D – Ugualmente non perseguibile mi pare l’opinione espressa dal pur grandissimo Ròlfs, che accosta la parola guaglione a guagnone  e cioè: colui che piange, ma anche questa mi pare una petizione di principio inconferente; perché mai il guaglione dovrebbe tanto piangere, da far trarre da ciò  l’origine della parola?
E – Ipotesi ugualmente da scartare son quelle che  che tirano dentro le parole latine : qualus= cesto e qualis= quale, termini che chiaramente sono inconferenti rispetto la sostanza del nostro guaglione
F – Si è cercato, da qualcuno di coinvolgere il francese con la parola garçon, che –è vero – indica il ragazzo di bottega, ma da esso lemma in napoletano è derivato guarzone, per cui scarto l’ipotesi.
G. – Neppure mi convince l’idea, espressa  marginalmente dall’ amico  prof. C. Jandolo  nel suo conciso Dizionario etimologico napoletano, che guaglione possa derivare da un ipotizzato valione(m) dal verbo valére: valido, vispo; non mi risulta infatti che tutti i guagliuni siano necessariamente vispi, validi e valenti…
H -Scarto altresí la pretestuosa derivazione dal francese gaillard, amologa del nostro gagliardo, giacché non è scritto da nessuna parte che ‘o guaglione debba essere forte e muscoloso.
 I - Sempre nell’ambito della lingua francese riporto quanto ebbe a dire il giornalista A. Fratta  scrivendo sul Mattino di Napoli allorché affermò di avere udito  in quel di Marsiglia apostrofare i ragazzi di strada con il termine vuaiú (voyou) stranamente assonante con il  nostro guagliú; si tratta  di una tentazione, ma se si esclude il tenue legame del francese voie = strada, con il guaglione partenopeo troppe sono le discrepanze semantiche che ostano a che si possa accettare simile discendenza , tenendo oltretutto presente che in francese la voce voyou vale mascalzone, canaglia, delinquentello  che non sono semanticamente  da appaiare con  il probo, onesto, lavoratore guaglione napoletano.

Per concludere mi pare si possa proporre l’ipotesi  di far discendere dal sempre vivo  basso latino  galione(m)= giovane mozzo,servo sulle galee)la parola guaglione  soprattutto tenendo presente quel ragazzo dei servizi o guaglione ‘e puteca di cui sopra; è vero che la voce galione(m) pare che non sia attestata, ma non è la prima volta che voci non attestate, o ricostruite abbiano generate voci napoletane o italiane; tali termini non attestati s’usa segnarli con un (*) sia nei lessici etimologici  partenopei che in quelli della lingua italiana;rammento però  d’aver ritrovato attestato la voce galionem (donde morfologicamente si può tranquillamente  pervenire a guaglione) a pag. 640 del Du Cange – GLOSSARIUM AD SCRIPTORES MEDIAE ET INFIMAE LATINITATIS.
 Procediamo oltre:
-jucavo = giocavo; voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito jucà etimologicamente dal lat. volg. *iocare, per il class. iocari, deriv. di iocus 'gioco'.
- strummolo = trottolina; con il termine strummolo, nell’idioma napoletano, si indica un semplicissimo giocattolino, che ormai è sotterrato sotto la coltre del tempo andato: trattasi di una trottolina di legno a forma di cono con il vertice costituito da una punta metallica infissa nel legno e con numerose scalanature incise su tutta la superficie in modo concentrico e parallelo rispetto al vertice, in dette scanalature viene avvolta strettamente una cordicella che à lo scopo di imprimere un moto rotatorio allo strummolo, una volta che detta corda sia stata velocemente srotolata e portata via dallo strummolo  mediante uno strappo  secco per modo che la trottolina lanciata in terra prenda a girare vorticosamente su sé stessa facendo perno sulla punta metallica: piú  abile è il giocatore  e di miglior fattura è lo strummolo, tanto maggiore sarà la  velocità della roteazione  e la sua durata . Se invece lo strummolo  è di scadente fabbricazione , il piú delle volte risulterà scentrato e non bilanciato rispetto alla punta, per cui il suo prillare risulterà  di breve  o  nulla durata: in tali casi si suole dire che lo strummolo è ballarino o tiriteppe, volendo con tale onomatopea indicare appunto la non idoneità del giocattolino. Allorchè poi  alla scentratezza dello strummolo si unisca una cordicella non sufficientemente lunga, tale cioè da non permettere  di imprimere forza al moto rotatorio dello strummolo si usa dire: s’è aunito ‘a funicella corta e ‘o strummolo tiriteppe  e tale espressione è usata quando si voglia fotografare una situazione nella quale concorrano due iatture, come  nel caso ad esempio di una persona incapace ed al contempo sfaticata o di un artigiano poco valente  fornito, per giunta,  di ferri del mestiere inadeguati, rammentando un famoso modo di  dire che afferma che sono i ferri ca fanno ‘o masto e cioè che un buono artiere è quello che posside buoni ferri...o magari – per concludere -  quando concorrono un professore eccessivamente severo ed un alunno  parimenti svogliato.
Per tornare allo strummolo rammentiamo un altro modo di dire:
cu chestu lignammo se fanno ‘e strummole Id est: con questo legno si fanno le trottoline; questo modo di dire à una doppia significazione:
A – È con questo legno [non con altro!] che si fanno le trottoline...ovvero : ciò che volevate io facessi,andava fatta nel modo e con il materiale  con cui la ò eseguita...
B – Con il legno che mi state conferendo si fanno trottoline, non chiedetemi altri manufatti; cioè: se non avrete ciò che vi aspettavate da me , sarà perché mi avrete dato materiali inadatti allo scopo , non per mia inettitudine  o incapacità.
Prima di accennare all’etimologia, ricordiamo ancóra che uno strummolo costruito male per cui gira per poco tempo e crolla in terra risultante perditore era détto per dileggio:  strummolo scacato
Nel giuoco dello strummolo il maggior rischio che correva il perdente tra due contendenti era quello di vedersi scugnare (e,  sia detto per incidens, è da quest’azione che poi derivò la voce scugnizzo= monello) il proprio strummolo da quello del vincitore che lanciava il proprio strummolo violentemente contro quello dell’avversario  tentando di sbreccarlo con la punta acuminata del proprio strummolo, se non addirittura di spaccare la trottolina del perditore.
Pacifica la etimologia dello strummolo gioco addirittura greco se non antecedente e greca è l’etimologia della parola che viene dritta dritta dal greco strómbos trasmigrato nel latino strumbus  poi con consueta assimilazione progressiva strummus ed infine nel napoletano, con il suffisso diminutivo olu(m)→olo: strummolo con il suo esatto significato di  piccola trottola.
-         ‘a liscia = voce intraducibile con la quale in napoletano si indicò un tipico giuoco di ragazzi, giuoco che anticipò quello delle bocce, meglio delle piastrelle, giuoco che si faceva facendo scivolare a mo’ di primordiali bocce dei sassi appiattiti e levigatissimi, probabilmente ciottoli di fiume, quegli stessi che in varie misure servirono un tempo per lastricar le strade napoletane dando luogo alle c.d. ‘mbrecciate (derivato di brecce plur. di breccia  dal lat. volg. *briccia(m); liscio di cui liscia è il femminile, etimologicamente è da un lat. volg. *lisiu(m),  voce di orig. espressiva.
-         fijurelle diminutivo plurale di fijura dal lat. figura(m), da fingere 'plasmare, foggiare'  = letteralmente figurine  e cioè immaginette di santi; ma non furono i santini ad essere usati nel giuoco, bensí altre figurine   che non riproducevano  immagini sacre, ma piuttosto  foto o disegni  di personaggi storici,  attori/attrici o campioni dello sport e  furono    dette  in napoletano alternativamente fijurelle oppure  ritrattielle e furon merci vendute dai cartolai( colcografate su sottili fogli di carta da incollare su cartoncini flessibili e poi ritagliar alla bisogna e poi impilate e piegate al centro lungo l’asse maggiore, per essere usate nel giuoco, sia come mezzo di divertimento, che come posta del giuoco stesso) ben prima che apparissero sul mercato le figurine Panini.
-         ciaccia  con questa voce chiaramente d’origine onomatopeica, viene indicato quel giuoco altrove detto schiaffo del soldato;dal tipico rumore: cià, cià provocato dal secco, violento colpo del palmo della mano contro la palma dell’altrui mano ne è nata la parola usata per indicare, tra i ragazzi napoletani, quel tipico giuoco;
mazza e pivezo -mazza = è il generico corpo contundente di forma e grandezza varie, preferibilmente ligneo, atto ad offendere;etimologicamente dal latino mattea; con essa parola si indica altresí il bastone usato dai ragazzi in quel  giuoco detto in toscano:  lippa,in romano:  nizza ed in veneto:pandolo (tutte voci di probabili origini gergali  fanciullesche), giuoco che in napoletano si rende, come a margine indicato  con mazza e pivezo dove la mazza è il corto ed agile bastone usato per colpire e spinger lontano il pivezo (da un basso latino:pélsu(m)→ pilsu(m) forse per il classico pulsu(m) (ligneum)) che è il breve pezzo di bastone appuntito ai lati per facilitarne il sollevamento operato con il bastone che poi lo spinge lontano con un ben assestato colpo.

-         furmella= bottone circolare,  piuttosto grande, da biancheria, etimologicamente diminutivo di forma , in quanto oggetto di una ben determinata forma  quale appunto quella circolare; tali bottoni piuttosto grandi venivano usati in un giuoco, che  prevedeva il lancio dei bottoni radente il suolo verso un buco ricavato sul terreno o simulato con il disegno di un cerchio tracciato con il gesso; una volta lanciati i loro bottoni,  i singoli giocatori spingevano il loro bottone verso il cerchio o buco sospingendoli con un colpo  dell’unghia del pollice  che prendeva slancio facendo leva  contro il polpastello dell’indice; vinceva chi riusciva a far cadere, colpendoli con destrezza e misura, nel buco o nel cerchio i bottoni degli avversarî; successivamente i bottoni furono sostituiti dalle monete metalliche, ma il giuoco rimase comunque ‘o juoco d’’e furmelle (il giuoco dei bottoni);
-         junchee  s.vo f.le pl. di junchea  fionda fatta con sottili  giunchi intrecciati o con  altre piante flessibili di crescita spontanea (voce modellata  sul lat. iuncu(m));
-         capa retena letteralmente la redine maggiore, piú importante, ma qui e per estensione sta per piú importante combriccola di scugnizzi;
di per sé retena  derivata del basso latino retina deverbale di retiníre  è la redine cioè ciascuna delle due strisce di cuoio attaccate al morso del cavallo per guidarlo; briglia: e poi che le briglie tengono costretta la testa della bestia e quindi la bestia, per estensione con retena  si intende la combriccola, il branco, la torma  quelli nei quali si trovan uniti e quasi astretti un gruppo di individui, qui scugnizzi o figli di buona donna/mamma, i medesimi che altrove son detti figli ‘e ‘ntrocchia/figlie ‘e zoccola (monelli, ragazzacci, scavezzacolli etc.) per la voce ‘ntrocchia  vedimi alibi;
per il vero il termine italiano combriccola che in italiano è voce prob. connessa con briccone che è dall’ant. franc. bric  è reso con svariati vocaboli che sono:
-         acchietta  da un basso latino applicitum = ammucchiata,
-         maniata  ovviamente derivato di mana = quasi insieme di cose e/o persone da tenere in una sola mano,
mmorra  che è esattamente branco, torma (e dunque voce da riferirsi alle bestie e solo per dileggio o estensivamente alle persone) con derivazione probabile attraverso lo spagnolo morra  da un antico latino mora= mucchio, rocchia, s.vo. f.le antica voce icastica,ancóra viva e vegeta che è esattamente ,
1 torma, schiera;
2 stuolo adunata di giovani rumorosi e spesso facinorosi; voce derivante da un basso latino roclja per il classico rotlja = schiera,
-         scamunea che è esattamente bordarglia, scarto  ed estensivamente schiera di bricconi e simili con derivazione dal basso latino scammonea che è dal greco skammonía,
-         scuglietta  esattamente ,1 schiera di bricconi e simili
2 torma, combriccola   voce derivata da un latino collecta  con prostesi della S intensiva partenopea = raccolta;
Solo in Viviani  in luogo d’uno dei vocaboli qui elencati mi è occorso di trovare capa retena, ma non mi è stato possibile  sapere se si trattasse di voce in uso normale in quel di Castellammare di Stabia (città che, come visto,  diede i natali a Viviani) o se si sia trattato di una scelta poetica.
- scurdavo voce verbale (1° pers. sing. indicativo imperfetto) dell’infinito scurdà = dimenticare, togliersi dalla mente; dal lat. ex +(re)cordari, deriv. di cor cordis 'cuore', perché il cuore era considerato sede della memoria.
- sfrenàvamo voce verbale (1° pers. plur. indicativo imperfetto) dell’infinito sfrenà = letteralmente  liberar/rsi dei freni e cioè far chiasso, senza inibizioni e senza remore; da un  lat. frenare, deriv. di frínum 'freno' con la prostesi di una S qui distrattiva;
-junchee sono le fionde fatte con i giunchi intrecciati,  voce derivata dal termine giunco ( lat. iuncu(m )) che è pianta erbacea monocotiledone dallo stelo flessibile, che cresce spontanea nei terreni umidi e paludosi; il fusto e le foglie forniscono materiale d'intreccio;
- asteco  è il lastrico solare, tipica copertura delle case partenopee; etimologicamente la voce è dal greco óstrakon = coccio, quantunque l’asteco partenopeo non sia coperto di coccio ma un tempo di lapillo ed oggi di greve pece; al proposito della voce asteco  ricorderò due tipiche espressioni partenopea che suonano:
1)Fà chiagnere asteche e lavatore.
 2)Fà n’asteco areto ê rine.
Cominciamo con la prima: Fà chiagnere asteche e lavatore
Ad litteram: far piangere  terrazzi e lavatoi; id est: rubacchiare qua e là, infierire contro amici e parenti e conoscenti fino a farli piangere, fare del male a tutti non curandosi del male fatto o del dolore causato.Semanticamente è molto piú esemplificativa e significativa la seconda espressione: Fà n’asteco areto ê rine.  Un tempo quando le tecniche di costruzione erano diverse da quelle attuali ed i materiali usati  molto meno sofisticati, per rendere impermeabili  i terrazzi ed i lavatoi  si spargevano sugli impiantiti  grossi quantitativi di bianco  lapillo  vesuviano, lo si bagnava a dovere e poi lo si percuoteva   pesantemente con  appositi attrezzi detti mazzocche  fino a che il lapillo cosí compresso non divenisse un blocco compatto ed impermeabile  tale da competere con le piogge o con le acque  usate per lavare i panni. Se si pensa alla forza, se non alla violenza,  necessaria a compiere l’operazione descritta, si comprende perché con divertente traslato  i solai o i lavatoi dovessero quasi gemere  delle percosse subite. La seconda espressione ricordata    si traduce come violenta minaccia di compiere  l’operazione  di compattazione sulle spalle di qualcuno, ossia lo si minaccia  di percuoterlo a dovere  sulle spalle.
-annarià = mandare in aria, innalzare, far ascendere;  da un basso latino con un non infrequente doppio in + ariare;
- cumete  - plurale di cumeta che è l’aquilone; etimologicamente da un greco kométis = chiomato, tenendo presente le lunghe code di carta colorata  che ornano gli aquiloni.
- menàvamo = buttavamo voce verbale (1° pers. plur. indicativo imperfetto) dell’infinito menà = buttare; menarse a mare vale tuffarsi;
di per sé la voce menà, etimologicamente viene da un tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';
-malanne plurale di malanno  che è un composto di di mal(o) e anno = noia, disgrazia, grosso fastidio;
 - ‘e gguardie = gli agenti di polizia, coloro che stanno in guardia ; etimologicamente dal francone *wardon 'stare in guardia'; cfr. ted. warten 'custodire' e Warte 'vedetta';
- sfotter(le) = prendere in giro, canzonare, provocare; voce verbale: infinito, etimologicamente dal latino fotuere donde fottere  + la solita protesi della S intensiva;
- secutatune/i plurale metafonetico di secutatone che di per sé vale inseguimento, meglio: grande inseguimento (si noti l’accrescitivo finale one che per metafonesi al plurale une/i) pacifica l’etimologia quale deverbale del verbo secutà = inseguire che è dal basso latino  secutare  forma frequentativa ed intensiva del classico sequi (star dietro, inseguire);
- afferravano  voce verbale ( 3° pers. plur. indicativo imperfetto ) dell’infinito afferrà = prendere, bloccare, quasi prendere e tenere con forza (anche fig.): ed addirittura etimologicamente:  mettere i ferri da un * ad+ferrare;
- schiaffe e scuzzettuni  intesi come generiche percosse; segnatamente gli schiaffe  sono gli schiaffi  e cioè il colpo dato a mano aperta sul viso; etimologicamente forse da un antico tedesco schlappe se non dal greco kólafos, con prefisso intensivo s; (mi corre l’obbligo di dire che in pretto napoletano non si dovrebbe usare la voce schiaffe solitamente sostituita dalla onomatopeica pàccare; probabilmente Viviani fu condizionato dal dovere usare un bisillabo piano e non potette usare il trisillabo sdrucciolo napoletano; ) mentre gli scuzzettuni plurale metafonetico di scuzzettone, sono i colpi portati a mano aperta, ma diretti non al viso, bensí alla parte posteriore del collo, la nuca  detta in napoletano cuzzetto  o scuzzetto forse con etimo dalla voce cozza  corruzione meridionale di coccia che è dal gr. kochlías;
-‘mparà  voce verbale: infinito: ‘mparà;di per sé il verbo napoletano ‘mparare (con derivazione dal latino  volg. imparare, comp. di in→’m davanti alla esplosivaconsonante occlusiva bilabiale sorda(p) o a quella sonora (b) illativo  e parare 'procurare'; propr. procurarsi cognizioni,) varrebbe il toscano imparare, ma spesso – come nel caso in esame - esso vale: insegnare, rendere edotto; per cui l’intera espressione: tu, pate ll’hê ‘a ‘mparà  sta per: tu, padre, devi insegnargli (a vivere, a comportarsi nella maniera piú giusta etc.); reputo che probabilmente il verbo toscano insegnare fosse totalmente sconosciuto nel meridione e si  sia preferito attribuirne il significato al già noto imparare (‘mparà) piuttosto che coniare un nuovo verbo marcandolo su insegnare;in effetti nel napoletano di per sé non esiste, né si usa un generico vebo insegnare che valga:fare apprendere con metodo, teorico o pratico, una disciplina o un'arte e si preferisca usare di volta in volta accanto a ‘mparà verbi che valgono sí insegnare ma che  ànno particolari nuances e  sfumature,quali:
1)aducà= formare con l'insegnamento e con l'esempio il carattere e la personalità di...qualcuno (dal lat. educare, intensivo di educere 'trarre fuori, allevare', comp. di ex- 'fuori' e ducere 'trarre'),
2)allezziunà = impartire una lezione sia in senso reale che in senso  figurato (voce verbale denominale di lectione(m)con protesi del rafforzativo ad→al);
3) catechizzà = indurre alla conversione ad un’idea, ad  un principio, un comportamento; istruire nel catechismo
(estens.) adoperarsi per convincere; indottrinare.( dal lat. eccl. catechizare, che è dal gr. tardo katìchízein, deriv. di katìchêin 'istruire';
4)mmezzià = stimolare, sollecitare, incitare al male (da un latino volgare *in (illativo) +malitiare (denominale di malitia) nel senso di spingere  ad agire deliberatamente contro l'onestà, la virtù, la giustizia etc. con consueta  semplificazione
dell’ in d’avvio che aferizzato si assimila alla successiva m dando ‘mm;
5)‘nzajà =istigare, sobillare (dallo spagnolo ensayar di pari significato).
Sia come sia in napoletano ‘mparà (imparare) vale sia insegnare che apprendere: ad es.: t’aggiu ‘mparato  vale ti ò insegnato mentre m’aggiu ‘mparato vale ò appreso!
-educà  altro infinito non esattamente napoletano, ma  prestito del toscano; infatti in napoletano, come ò già détto,  l’italiano educare si rende con aducà o piú semplicemente con  ‘mparà  e mancano altri sinonimi tronchi in à (che non siano quelli esaminati  che però  ànno accezioni particolari che ne sconsigliano un uso generico); per cui fu giocoforza per il  Viviani, bisognoso d’una rima in à ricorrere al prestito toscano di educare che apocopò alla bisogna  troncandolo in educà.
-stucchiune/i plurale metafonetico di stucchione che vale: spilungone (in senso dispregiativo) ma è l’accrescitivo (vedasi il suffisso one) di stucchio derivato del prov. estug (astuccio per conservare);
- capévamo= comprendevamo,  voce verbale (1° p.p. indicativo imperfetto) dell’infinito capí = comprendere, capire, afferrare con la mente etimologicamente tal quale il toscano capire dal latino capère, con cambio di coniugazione; si noti il cambio dell’accento tonico tra l’italiano capivàmo ed il napoletano capévamo;
- salàvamo voce verbale (2° p.p. indicativo imperfetto) dell’infinito salà che letteralmente è salare, ma riferito al sostantivo scola (scuola) dal lat. scòla(m), che è dal gr. scòlé, in orig. 'tempo libero da occupare con lo studio', poi 'luogo di studio', vale i toscani marinare, bigiare; il napoletano salare nel suo significato primo sta per cospargere di sale, conservare qualcosa(cibo) sotto sale per un’altra occasione  ed è questo il senso di salare riferito alla scuola che vien quasi conservata per un’altra occasione:  in tal simile senso è da intendersi anche il toscano marinare, mentre per il verbo bigiare, sia per l’etimologia che per il significato di assentarsi, saltar la presenza in qualche occasione: scuola, messa etc.  si brancola completamente nel buio;
- artéteca  letteralmente inquietudine, irrequietezza, smania  sebbene etimologicamente dal latino arthrítica(m) indichi una malattia delle articolazioni;
- foja letteralmente ardore, impeto, concitazione ed alibi per estensione  eccitazione sessuale; quanto all’etimologia  piú che adattamento dell’italiano foga, penso  possa risalirsi al latino fuga(m) deverbale di fúgere = correre impetuosamente;
- struvito letteralmente istruito  etimologicamente deverbale (p.p.) dal lat. instruere 'fornire, preparare, istruire', comp. di in + struere 'collocare a strati, connettere;nella voce napoletana da notare l’aferesi della sillaba d’avvio i peraltro, stranamente, non indicata da alcun segno diacritico () e l’epentesi della v eufonica;
- soja  femm. metafonetico  dell’aggettivo possessivo sujo (suo) etimologicamente dall’acc. latino suu(m)  con epentesi del suono j tra vocali;
arte e parte letteralmente arte(o mestiere) e parte(partito=inclinazione)
nella locuzione partenopea, la mancanza di ambedue le voci a margine è riferita  a chi non abbia, né si spera che avrà capacità e/o volontà di applicazione allo studio o al lavoro;arte etimologicamente dal latino arte(m); parte etimologicamente dal latino parte(m);
-dichiaramiente plurale di dichiaramento  deverbale di dichiarare  dal latino: declarare 'render chiaro, manifesto', deriv. di cla¯rus 'chiaro, evidente'; id est: esposizione,spiegazione del proprio modo di vedere una faccenda; ma nel linguaggio gergale malavitoso incontro(tra cattivi soggetti) spesso prodromico di sfide cruente all’arma bianca (zumpate) o  quanto meno di
- appicceche plurale di appicceco (litigio, questione, alterco spesso sfociante in rissa) deverbale di appiccecà  dal latino adpiceare  che è unire con la pece atteso che l’appicceco comporta spessissimo il darsi di mano, avvinghiandosi come chi fosse impeciato;
- ascí = uscire voce voce verbale infinito dal latino  dal latino exire = andar fuori;
- capí = capire, comprendere voce verbale infinito dal latino capere, con cambio di coniugazione;
- sillabbario ovviamente il  libro sul quale si impara a leggere e a scrivere, seguendo il metodo sillabico, libro  che, cosí come il toscano sillabario, deriva dal lat. med. syllabariu(m) con consueto raddoppiamento popolare della labiale esplosiva implicata.

E qui mi fermo non sembrandomi che vi siano altre voci da illustrare.
                                                            Raffaele Bracale
                                                                   19/9/2006

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