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SSANà A ‘NU PELLERINO, Hê ROTTA ‘A CAPA A CCIENTO FRATE
Mi è stato chiesto, via e-mail, dal
caro amico S. C. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad
indicare solo le iniziali di nome e cognome) di spendere qualche parola per
illustrare significato, origine e
portata della locuzione in epigrafe.
Premetto che si tratta di una datatissima e purtroppo,
ancorché gustosa, desueta locuzione risalente addirittura alla fine del
1700 e principio del 1800 da rendersi in lingua nazionale: Per guarire un pellegrino ài rotto il capo a cento monaci. Va da sé
però che è iperbolico il numero dei frati e che la paventata rottura di capo non sia reale, ma
semplicemente figurata e vale ed è da intendersi come : tediare, infastidire.
L’espressione, in effetti, veniva usata a mo’ di rimbrotto,
rimprovero, richiamo, paternale, critica
sino a tirata d’orecchi nei confronti di
chi, pur di ottenere uno scopo prefissosi, non si curasse di procurar danno,
con la sua azione, a troppe altre persone. Ricordo che l’espressione nacque
temporibus illis in riferimento alla pratica anticamente in uso a Napoli quando
per farsi curare la sordità ci si recava
presso il monastero dei monaci( in origine Alcantarini di Lecce)di san Pasquale
a Chiaia che conducevano un piccolo ospedale annesso al loro monastero e vi
curavano piccole o grosse affezioni otorino-laringoiatriche; tra le pratiche
piú comuni v’era quella si liberare gli orecchi dall’eccesso di cerume (causa
talora di temporanea ipoacusia) servendosi di un olio medicamentoso prodotto
dagli stessi monaci con le mandorle raccolte nel proprio orto/giardino. Il
monastero di san Pasquale era adiacente all’omonima chiesa edificata per
volontà di Carlo di Borbone nel 1750 ca ed affidata ai monaci Alcantarini,
famiglia francescana nell'Ordine dei Frati Minori (O.F.M.); l'Ordine degli
Alcantarini, nacque con San Pietro d'Alcàntara nel 1555, come riforma
all'interno del grande Ordine dei Francescani Minori.Ora è noto che chi sente
poco è solito elevare il tono della voce un po’ per saggiare il suo udito ed un
po’ perché, cosí facendo, ritiene di farsi udire meglio anche dagli altri
ingenuamente ritenuti nella medesima situazione di sordità. Ne deriva che
l’elevato tono di voce di piú persone possa procurar fastidio soprattutto se il
parlare ad alta voce lo si fa in un luogo di raccoglimento silenzioso qual è
quello di un convento o di un ospedale. Mi duole che l’espressione non sia piú
usata. E qui penso di poter far punto convinto
d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico S. C. ed interessato qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori e piú genericamente
chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
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