sabato 4 settembre 2021

IL VERBO METTERE E LA SUA FRASEOLOGIA-1

 

IL VERBO METTERE E LA SUA FRASEOLOGIA

parte prima.

Questa volta, prendendo spunto dall’antica locuzione

METTERE   o MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO

 è stato il  caro amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a  chiedermi via e-mail di chiarirgli  significato e portata delle  espressioni partenopee costruite con il verbo METTERE .

Mi accingo alla bisogna elencando  dapprima le espressioni cosí come mi sovvengono per poi esaminarle analiticamente:

1- Mettere   o menà ‘o vellículo ô ffuoco.

2 – Mettere ‘o ppepe ‘nculo â zoccola.

3 – Mettere ‘a capa a ffà bbene.

4 – Mettere’a coppa.

5 – Mettere ‘a lengua ‘int’ô ppulito.

6 – Mettere ‘a supponta.

7 – Mettere ‘a vammacia ‘mmocca.

8 – Mettere campanielle ‘ncann’â gatta.

9 – Mettere carne a ccocere.

10 – Mettere mane.

11 - Mettere mane ê fierre oppure Mettere mane â tela.

 

12 – Mettere mane â sacca.

13 - Mettere ‘e mmane ‘nnanze.

14 - Mettere recchie p’’e pertose.

15 - Mettere ll’uoglio ‘a copp’ô peretto.

16 - Mettere ‘mpuzature.

17 - Mettere ‘na pezza a cculore.

18 - Mettere ‘na pezza arza.

19 – Mettere puteca.

20 – Mettere spia.

21 – Mettere ‘ncalannario .

22 – Mettere nciuce.

23 – Mettere prete ‘e ponta.

24 – Mettere tenna.

25 – Mettere a uno ‘ncopp’a ‘nu puorco.

26 – Mettere ‘o ssale ‘ncopp’â códa/córa.

27 – Metterse ‘e casa e pputeca.

28 – Metterse ‘e ddete ‘nculo e caccià ‘anielle.

29 – Metterse ‘a lengua  ‘nculo.

30 – Metterse ‘mmiezo.

31 – Metterselo dint’ ê chiocche.

32 – Metterse pavura.

33 – Metterse ‘nu cienzo ‘ncuollo.

34 – Metterse scuorno.

35 – Metterse ‘o cappotto ‘e lignammo.

36 – Mettere ‘a si-loca arreto.

37 -  Miettele nomme penna!

38 - Metterse cu ‘a panza e ccu ‘o penziero.

 

   Prima di principiare l’esame analitico delle locuzioni diciamo súbito che il verbo mettere à nel napoletano varie accezioni, quali  disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. ed è voce  dal lat. mittere 'mandare' e poi  'porre, mettere'.

E veniamo all’analisi delle locuzioni:

 1- Mettere   o menà ‘o vellículo ô ffuoco.

Letteralmente: Mettere o buttare l’ombelico ( piú esattamente il cordone ombelicale) al fuoco. Antica espressione partenopea risalente addirittura al ‘600 (attestata nel Cortese, Basile, Trinchera ed altri, con la quale si era e si è  soliti riferirsi all’atteggiamento  da profittatore  di chi, non invitato, faceva o fa  in modo di appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti in occasione di una qualche  ricorrenza o festività per partecipare ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti     all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla  tavola   imbandita, invito in uso tra  i napoletani  che non lesinano a nessuno un pasto o una libagione.Di chi, non espressamente invitato,  si comportasse in modo di trovarsi presente all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si diceva e si dice  che aveva miso o aveva menato ‘o velliculo ô ffuoco! L’espressione nacque allorché, in tempi andati,  le donne partorivano in casa assistite da una o piú levatrici dette  mammàne oppure meno opportunamente (e qui di sèguito chiarirò)vammane  Costoro una volta che la puerpera aveva partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti coloro che, invitati o no,  fossero intervenuti al rito      della ustione del cordone ombelicale. Dalla imitazione di  questa situazione nacque il modo di dire di cui all’epigrafe riferita a tutti coloro che profittassero di una ricorrenza o festività per partecipare senza invito  ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a tutti coloro che avessero l’abitudine di  presentarsi, senza preventivamente annunciarsi,  in casa di amici e/o semplici conoscenti     all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla  tavola   imbandita. Tutto quanto qui detto  è da riferirsi espressamente al cittadino privato che approfitti di una situazione festevole per parteciparvi e satollarsi di cibo o bevande. Per indicare il medesimo atteggiamento da profittatore tenuto inizialmente  non da comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo  l’espressione appujià ‘a libbarda  (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda  id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando  si voglia commentare il violento atteggiamento di chi  vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare  di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.)   i soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della strada di Toledo,  erano usi aggirarsi  all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda  volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda  (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda  che valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di  un pasto e poi estensivamente profittare  di una qualsivoglia  situazione opportuna  per conseguirne risultati favorevoli  Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è invece usata piú limitatamente   per commentare l’atteggiamento di chi ottenga, contendandosene,beneficî molto  circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento).

menà verbo trans. =  buttare, sospingere dentro o fuori   ed anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo  lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce';

velliculo s.vo m.le = letteralmente  ombelico, ma nella fattispecie solo una parte di esso  e cioè il cordone ombelicale quello  che una volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente legato e ripiegato verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico  e cioè il lat.  umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.),  il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba  li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus.

vammana/  mammana s.vo f.le= levatrice, donna esperta che assiste le partorienti; per il vero nel parlato comune popolare la voce usata per indicare la levatrice e cioè colei che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto è mammàna con derivazione da un lat. volgare *mammàna(m); la voce vammana ( pur derivata dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma con forma dissimilata nella cons. d’avvio che da mammàna passa a vammana   è usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per  significare, in senso dispregiativo, quelle praticone, prive di adeguata preparazione, ma non di esperienza,  aduse ad esercitare   pratiche  abortive clandestine (spesso servendosi di  mezzi di fortuna, inidonei  e pericolosi).Che si tratti di termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana era usata quale epiteto.

appujià = verbo tr. 1in primis  appoggiare, poggiare,  avvicinare una cosa a un'altra che la sorregga, 2(fig.) aiutare, favorire; sostenere;  l’etimo della voce napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano è dal lat. volg. *appodiare, deriv. del greco pódion 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta la chiusura della tonica ó →u,   ed in luogo della   dentale d  che è caduta  s’è adottato il  suono di transizione j

(segue)

Brak

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