IL VERBO SMUCENIÀ
Mi è stato chiesto, via e-mail, dal
caro amico A. P. (i consueti
problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e
cognome) di spendere qualche parola per illustrargli il significato del
verbo in epigrafe.L’accontento
precisando súbito a lui ed a qualcun altro dei miei ventiquattro lettori che è
vano cercare il verbo in esame nei piú usati ed accorsati calepini o lessici dell’idioma napoletano. Tutti i lessicografi
lo ànno snobbato, non l’ànno [colpevolmente!] preso in considerazione, ostentandone disinteresse
ed indifferenza; eppure si tratta di un
iconicissimo verbo che avrebbe meritato una buona considerazione, quella che
qui gli riservo. E pazienza se son solo tra gli appassionati a farlo! Si tratta
di un verbo quasi del tutto assente
negli scritti degli autori partenopei, ma usatissimo nel parlato dei napoletani
d’antan che lo usarono ed ancóra lo usano per identificare l’azione di chi
mesta e rimesta inutilmente in un quid [e segnatamente in un piatto di cibarie]
non allo scopo di cercare qualcosa, ma quasi con l’intento di voler rendere
inservibile il quid [e nel caso del cibo di non renderlo appetibile…].
Etimologicamente reputo che il verbo derivi
dal lat. tardo machināre addizionato di una S (intensiva) in posizione
protetica e di una I (durativa) atona:smac[h]iniare→smucinià→smucenià. E qui penso di poter far punto convinto
d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A. P. ed interessato qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori e piú genericamente
chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
Raffaele Bracale
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