1 Fatte capitano e magne galline.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (un tempo il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à però pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa le viste di essere un capitano e godine i benefici.
2 Chi nasce tunno nun po’ murí quatro.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
3 A chi parla areto, 'o culo le risponne.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponda il sedere. La locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una salva di peti, favorita dalla posizione che assumono gli sparlatori, cioè alle spalle di coloro di cui sparlano o intendon sparlare.
Linguisticamente c’è da notare che nella locuzione in epigrafe, risponne non è la 3° pers. sing.indicativo de ll’infinito risponnere (che è la b. lat. respondírecomp. di re-, indicante il ripetersi dell'azione in senso contrario, e spondíre 'promettere'; propr. 'fare una contropromessa, promettere di rimando) ma è la 3° pers. sing.congiuntivo del medesimo infinito risponnere
4 A craje a craje comme a' curnacchia.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia (cracrà e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare .
5 Chello ca nun se fa nun se sape.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama o anche i/le pettegoli/e diffondono le notizie e le propagano, per cui se si vuole che le cose proprie non si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi viene risaputo.
6 'O pesce gruosso,se magna a 'o piccerillo.
Letteralmente: il pesce grande mangia il piccolo. Id est piú generalmente: il potente divora il debole per cui se ne deduce che è lotta impari destinata sempre all'insuccesso quella combattuta da un piccolo contro un grande.
7'O puorco se 'ngrassa pe ne fà sacicce.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa apparentemente del bene ad un altro mira al proprio tornaconto che certamente gliene deriverà, come - nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
8 Jí mettenno 'a fune 'e notte.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente nei confronti specialmente di bottegai che lievitino proditoriamente i prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che vendano a caro prezzo la loro opera, volendo significar loro, con l’espressione in epigrafe, che non ci si trova nelle condizioni economiche per soddisfare le loro esose richieste atteso che non si è dei masnadieri dai facili guadagni. La locuzione usata nella forma negativa: Nun vaco mettenno ‘a fune ‘e notte!(Non vado tendendo la fune nottetempo) nei confronti di costoro – (bottegai e salariati) – fa loro intendere di non potere sottomettersi alle loro richieste in quanto non si è di quei masnadieri che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
9 Se so' rutte 'e tiempe, bagnajuó.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
10 Parla quanno piscia ‘a gallina!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, o magari gratuite cattiverie. Si sa che la gallina espleta le sue funzioni fisiologiche, non in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna, la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in epigrafe pare che debba tacere sempre.Il suddetto perentorio invito è rivolto o a gli adulti, boriosi, arroganti saccenti che amano mettere il becco in faccende che non li riguardano, o è rivolto ai ragazzi per ingiunger loro di non intromettersi nei discorsi degli adulti.
11 Puozze passà p''a Loggia.
Letteralmente: Possa passare per la Loggia (di Genova). È come a dire: Possa tu morire. Per la zona della Loggia di Genova,(zona posta a ridosso del porto, tra l’odierna piazza Bovio e la via Nuova Marina, fu un tempo di pertinenza di una colonia di genovesi che vi aprivono botteghe e vi si autoamministravano) Per tale zona infatti, temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri provenienti dal centro storico e diretti al Camposanto.
12 Core cuntento a' Loggia.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro commerci, autoamministrandosi.
13 Ciesso a vviento!
Letteralmente: gabinetto aperto. Offesa totalizzante e che non ammette replica rivolta a persona spregevole sia fisicamente, ma soprattutto moralmente che viene equiparata a quei vespasiani pubblici di un tempo costruiti in ghisa ed aperti, (per consentire un agevole ricambio d'aria, e rapida pulizia con pompe idrauliche), sia in alto che in basso, sprovvisti di porte, sostituite da tramezzi che tenessero lontani gli sguardi indiscreti.
14 'A malora 'e Chiaja.
Letteralmente: la cattiva ora di Chiaja. Così a Napoli viene apostrofato chiunque sia ripugnante d'aspetto e di modi. Occorre sapere, per comprendere la locuzione che Chiaja è oggi uno dei quartieri piú eleganti e chic della città, ma un tempo era solo un borgo molto prossimo al mare (la parola chiaja deriva dal lat. plaga= spiaggia) ed era abitato da popolani e pescatori d'infimo ceto. Orbene, temporibus illis, era invalso l'uso che le popolane abitanti a Chiaja, sul tardo pomeriggio del giorno solevano recarsi nei pressi del mare a rovesciare nel medesimo i contenuti maleolenti dei grossi pitali nei quali la famiglia lasciava i propri esiti fisiologici: quel lasso di tempo in cui si svolgevano queste operazioni era detto 'a malora.
15 Farne una cchiú 'e Catuccio.
Letteralmente: compierne una più di Catuccio. Id est: farne di tutti i colori, compiere infamie e scelleratezze tali da sorpassare quelle compiute in Francia dal settecentesco Louis Philippe Bourguignon celebre brigante soprannominato Cartouche nome corrotto in napoletano con il termine Catuccio. La locuzione viene usata per bollare il comportamento non raccomandabile di chi agisce procurando danno ai terzi, ma iperbolicamente anche per sottolineare il comportamento un po' troppo vivace dei ragazzi.
16 Essere passata 'e còveta o 'e cuttura.
Letteralmente: essere passata di raccolta cioè già sfiorita sull'albero perché abbondandemente maturata oppure essere oramai passata di cottura cioè bruciacchiata e/o molle perchè troppo cotta. Ambedue le espressioni fanno furbescamente riferimento ad una donna piuttosto in avanti con gli anni perciò sfiorita e non piú degna di attenzioni galanti alla medesima stregua o di un frutto lasciato sul ramo troppo tempo dopo la maturazione o come un cibo lasciato sul fuoco oltre il tempo necessario, facendolo diventar troppo molle o quasi bruciare.
17 Quanno 'o diavulo t'accarezza è signo ca vo’ ll'anema.
Letteralmente : quando il diavolo ti carezza, significa che vuole l'anima. Lo si afferma a commento delle azioni degli adulatori o di coloro che godono di cattiva fame; se uno di costoro ti blandisce, offrendoti servigi o opere gratuite, bisogna non fidarsi, giacché nel loro operare c'è nascosta la richiesta di qualcosa molto piú importante della prestazione offerta.
18 È gghiuto 'o ccaso 'a sotto e 'e maccarune 'a coppa.
Letteralmente: È finito il cacio sotto ed i maccheroni sopra. La locuzione la si usa per commentare con disappunto una situazione che non si sia evoluta secondo i principi logici ed esatti e codificati. In effetti, secondo logica si vorrebbe che il formaggio guarnisse dal di sopra un piatto di maccheroni, non che facesse loro da strame. Id est: maledizione! Il mondo va alla rovescia!
19 Doppo muorto, buzzarato.
Letteralmente: dopo morto, buggerato; dopo aver subíto la morte, sopportare anche il vilipendio. La locuzione corrisponde, anche se in maniera un po' piú dura al toscano: il danno e la beffa. Essa fu usata nel corposo linguaggio partenopeo da un napoletano che assistette al consueto (ma pare che oggi sia pratica dismessa) percuotimento del capo del defunto papa Pio XII, con il previsto martelletto d'argento operato dal cardinale camerlengo, per accertarsi che il pontefice non reagisse dimostrando cosí d'essere morto.
20 Troppi galle a cantà nun schiara maje juorne.
Letteralmente: troppi galli a cantare, non spunta mai il giorno. Id est: quando ci sono troppe persone ad esprimere un'opinione, un parere, non si arriva mai ad una conclusione; ed in effetti tenendo presente l'antico adagio latino: tot capita, tot sententiae: tante teste, tanti pareri, sarà ben difficile, anzi sarà impossibile trovarne di collimanti per modo che si possa finalmente giungere ad una conclusione.
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