giovedì 9 luglio 2009

LOCUZIONI NAPOLETANE 91 - 120

91. Chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia
ad litteram: chi va per questi mari, questo pesce pesca; id est: chi si imbarca in certe avventure, non può che conseguire questo tipo di scadenti risultati e se ne deve contentare, specie se si è imbarcato volontariamente e non spinto da necessità.
92. Chi m’à cecato!?
Ad litteram: chi mi à accecato!? Id est: chi mi à indotto a regolarmi nella maniera in cui mi sono regolato, accecandomi quasi al punto di non farmi rendere conto o del pericolo a cui andavo incontro o degli errori che mi accingevo a compiere. Va da sé che la locuzione non è una vera e propria domanda, quanto una sorta di pubblica confessione del proprio errore a causa del quale ci si trova in situazioni fastidiose; ci si chiede cioé da chi dipenda ciò che è capitato, ma lo si fa quasi surrettiziamente, ben sapendo di essere i soli responsabili degli accadimenti cui ci si riferisce.
93. Comme ‘avuote e comme ‘o ggire, sempe sissantanove è.
Ad litteram: come lo volti o come lo giri sempre sessantanove è Detto di cosa o avvenimento che non prestano il fianco ad interpretazioni non univoche essendo, per loro natura o apparire di semplice e diretta intellizione di talchè è inutile arzigogolare intorno alla loro essenza o sostanza.
La locuzione nasce dall’osservazione dei piccoli cilindretti di legno su cui sono incisi i novanta numeri del giuoco della tombola; orbene, detti numeri una volta estratti dal bussolotto che li contiene sono tutti facilmente riconoscibili ed individuabili o perché scritti in maniera tale da non ingenerare confusione (come ad es. il caso del numero 1 che sia che venga guardato e letto da ds. o da sn. , dal basso in alto o viceversa rimane sempre 1 e non può esser confuso con altro numero) o perché si è ricorsi allo strataggemma di segnalare con un piccolo tratto la base del numero che se letto in maniera capovolta potrebbe risultare un numero diverso ( ad es. il numero sei è vergato 6 con una congrua sottolineatura, che se mancasse potrebbe far leggere il sei - visto in maniera capovolta - come nove). Il numero 69 invece non à bisogno di sottolineatura, perché da qualsiasi parte lo si guardi permane 69, posto che il numero 96 nella tombola non esiste.
94. Comme cucozza ‘ntrona, pasca nun vene pe mmo.
Ad litteram: Se ci atteniamo al suono della zucca, pasqua è ancóra lontana. Id est:: se ci atteniamo alle apparenze, le cose non vanno come dovrebbero andare, o come ci auguravamo che andassero. Un curato di campagna aveva predisposto una vuota zucca per raccogliere le elemosine dei fedeli e con il ricavato celebrare solennemente la pasqua; però il suo malfido sagrestano, nottetempo sottraeva parte delle elemosine, di modo che quando il curato andò a battere con le nocche sulla zucca per saggiarne il suono, avvert í che la zucca era ancóra troppo vuota e proruppe nell’esclamazione in epigrafe, né è dato sapere se scopr í il ladruncolo.
95. Comme pagazio, accuss í pittazio
Ad litteram: Come sarò pagato, cos í dipingerò Id est: la controprestazione è commisurata alla prestazione; un lavoro necessita di un relativo congruo compenso: tanto maggiore sarà questo, tanto migliore sarà quello; la frase in epigrafe, pur nel suo improbabile latino fu riportata da F.S. Grue famosissimo artista noto per i suoi vasi di maiolica,su di un’antica albarella detta di san Brunone.
96. Capurà è muorto ‘alifante!
Ad litteram: caporale, è morto l’elefante! Id est: è morto l’oggetto in forza del quale eri solito vantarti e raccogliere laute mance , torna con i piedi a terra!Pi ú genericamente, con la frase in epigrafe a Napoli si vuol significare che non è pi ú né tempo, né caso di gloriarsi e la locuzione viene rivolta contro chi, pur in mancanza di acclarati e cogenti motivi, continui a darsi delle arie o si attenda onori immotivati. L’espressione fu coniata nella seconda metà del 1700, allorché il re CARLO di Borbone ricevette da un sultano turco il dono di un elefante che fu affidato alle cure di un vecchio veterano che montò in superbia per il compito ricevuto al quale annetté grande importanza, dandosi arie e riscuotendo buone mance da tutti coloro che andavano nei giardini di palazzo reale ad ammirare il pachiderma. Di l í a poco però, l’elefante mor í ed ancóra poco tempo fa era possibile vederne la carcassa conservata nel museo archeologico della Università di Napoli ed il povero caporale vide venir meno con le mance anche le ragioni del suo sussiego e talvolta, quando faceva le viste di dimenticarsi che non era pi ú il custode dell’animale, il popolino, per rammentargli che non era pi ú il caso di montare in superbia era solito gridargli la frase in epigrafe che viene ancóra usata nei confronti di tutti coloro che senza motivo si mostrino boriosi e supponenti.
97. Càntero spetenato - Cesso a vviento.
Ad litteram: Pitale spatinato - cesso a vento. Coppia di icastiche contumelie che a mo’ di offesa vengon rivolte a tutti coloro che sono ritenuti esserI spregevoli al punto di venir paragonati alternativamente o ad un vecchio vaso di comodo vaso che per il lungo uso abbia perduto la sua lucente patina d’origine, o - peggio ancóra, paragonati a quei vespasiani che un tempo troneggiavano lungo le strade per dar modo, a chi ne avesse impellente bisogno, di liberarsi dei propri pesi fisiologici. Nell’un caso e nell’altro chi venga fatto segno anche d’una sola delle contumelie riportate in epigrafe, significa che è ritenuto un lercio contenitore degli esiti , soprattutto solidi, corporali. Per completezza preciso qui che il càntero dell’epigrafe non era specificatamente il piccolo pitale, (termine con cui è stato tradotto, non avendo l’italiano una parola pi ú adatta) che oggi conosciamo, ma era un alto e grosso vaso cilindrico di terracotta ricoperta nell’interno e all’esterno di una lucente patina, vaso dall’ampia e comoda bocca, provvisto lateralmente di due solidi manici necessarii per la prensione; sulla larga bocca ci si poteva tranquillamente sedere per liberarsi dei propri esiti. Esso vaso detto anche, sia pure riprendendo un'antichissima formulazione già riportata nei classici napoletani, all’indomani del 1860, icasticamente si’ Peppe con chiaro riferimento al gen. Garibaldi, troneggiava in tutte le case (vedi n°43),ma anche nelle camere da letto dei sovrani settecenteschi, alcuni dei quali erano soliti ricevere cortigiani e/o ambasciatori e plenipotenziari, quasi per metterli in soggezione, mentre essi monarchi procedevano all’operazione fisiologica mattutina. Il cesso a viento, sebbene provenga dal tempo degli antichi romani,è invenzione ottocentesca; concepito alla maniera del cesso alla turca non aveva porte, ma solo minuscoli divisorii di ghisa che servivano a tener lontani sguardi indiscreti Mancando le porte o altri intralci ed essendo a vento cioè del tutto aperti - ne era consentita una rapida pulizia con pompe idrauliche .
98. Core cuntento â Loggia.
Ad litteram: Cuor contento alla Loggia. Cos í a Napoli si suole appellare chi si dimostri sempre allegro, spensierato, buontempone al segno d’apparire di non aver mai pensieri di sorta che possano preoccuparlo , ma di vivere piuttosto sempre pacioso e beato fino a meritarsi l’appellativo in epigrafe, il medesimo che temporibus illis si meritò lo scrittore nolano Michele Somma che pubblicò agli inizi del 1800 una raccolta amena e faceta di cento racconti; lo scrittore tenne studio in Napoli in piazza Larga agli Orefici, nei pressi della Loggia de’ Genovesi dove la colonia degli abitanti di Genova, residenti in Napoli si autoamministrava .
99. Coppola ê denocchie!
Ad litteram: coppola alle ginocchia È questo il modo pi ú cogente per suggerire il saluto pi ú deferente possibile, consistente nel cavarsi di testa il berretto e portarlo con ampio gesto ossequioso all’altezza delle ginocchia, da rivolgere ad un’autorità o un uomo o donna da rispettare.
Preciso qui che taluno erroneamente non lègge l’ ê della locuzione come contrazione di a + ‘e cioè alle, bens í la lègge - errando- come congiunzione E e stravolge il significato della locuzione facendola diventare in luogo del corretto coppola alle ginocchia, lo scorretto coppola e ginocchia, quasi che il saluto dovesse consistere in un cavarsi il berretto e piegare le ginocchia, cosa invero assurda, essendo il napoletano aduso ad inginocchiarsi solo innanzi ad oggetti di culto.


100. Curnuto e mazziato
Letteralmente: becco e percosso È il modo partenopeo di rendere l’italiano: il danno e la beffa prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto debba subire anche il dileggio. Altrove in maniera molto pi ú icastica ed estesa si suole affermare ‘a sciorta d’’o piecoro: nascette curnuto e murette scannato id est: (è veramente amara) la sorte del becco che nacque cornuto e mor í sgozzato; la medesima sorte cioè del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire l’onta delle percosse.
101. Comme ‘a vide accuss í ‘a scrive
Ad litteram: come la vedi cos í l’annoti. Id est:(Della persona o cosa di cui stiamo trattando non v’è altro da annotare oltre il modo con cui si presenta).Originariamente la locuzione si riferiva alla promessa sposa di cui al momento di scrivere i capitoli del contratto di matrimonio, non si poteva annotare alcuna dote pecuniaria, ma solo l’avvenente illibatezza di cui era palesemente fornita; in seguito la locuzione passò a significare che di qualsiasi cosa si trattasse non bisognava andare oltre ciò che appariva ad un primo esame.
102. Coppola pe cappiello e casa a sant’ Aniello
Ad litteram: coppola per copricapo, ma casa a sant’Aniello a caponapoli. Id est: vivere parcamente, magari abbigliandosi modestamente, ma impegnare i propri averi per assicurarsi un’abitazione nel luogo pi ú salubre della città; oggi basta pronunciare anche solo la prima metà della locuzione, per fare intendere a colui cui è diretta che gli si vuol consigliare di preoccuparsi pi ú della salute che dell’avvenenza fisica.
103. Ce hê ‘a fà fà ‘o spezziale oppure fance fà ‘o spezziale
Ad litteram:Devi farci fare lo speziale oppure facci fare lo speziale Id est:lasciaci fare il nostro lavoro in pace. Lo spezziale della locuzione (correttamente scritto in napoletano con due zeta) non è il venditore di spezie o erbe aromatiche, che invece in napoletano è detto semplicista quanto piuttosto il farmacista addetto alle preparazioni galeniche; per svolgere detto lavoro, occorre calma, pazienza, precisione, attenzione e ponderatezza, tutte cose che - se vengono meno - posson condurre a risultati disastrosi e talvolta addirittura fatali; ora se lo speziale nel corso della sua opera viene infastidito o distratto da qualche scioperato che non avendo niente da fare si intrattiene nel laboratorio dove il suddetto farmacista è intento alle preparazioni suddette, costui potrebbe affrontare a muso duro il perdigiorno con una delle locuzioni in epigrafe per indurlo ad andar via. È chiaro che per traslato le locuzioni possono essere usate nei confronti di chiunque intralci un qualsiasi altro tipo di lavoro.
104. Armato ‘e preta pommice, cuglie cuglie e fierre ‘e cazette specie nella locuzione: ven í armato etc.
Ad litteram:Fornito di pietra pomice, aghi sottili e ferri da calze; detto di chi, chiamato a compiere un lavoro venga ben fornito di tutti i ferri del mestiere( quelli che altrove si dice che facciano ‘o masto cioè che rendano provetto qualsiasi operaio che allora può portare a termine un’operazione, solo quando non gli manchino gli attrezzi adatti) ed in aggiunta porti seco anche non specifici attrezzi, ma minuterie varie quali una pietra pomice, degli aghi sottili e dei ferri da calza ( sorta di aghi molto pi ú spessi), tutte cose che, all’occorrenza, possano mostrarsi utili se non necessarie. Colui che, chiamato, si presentasse fornito di tutto quanto detto darebbe ad intendere d’essere adatto e preparato a compiere il lavoro che gli si intende affidare. Deporrebbe male chi, al contrario, mancasse di portar seco gli attrezzi necessari: a costui, probabilmente non affideremmo nemmeno un piccolo e semplice lavoro.
105. Comme si ‘o fatto nun fosse d’’o sujo
Ad litteram: come se la cosa non fosse di sua pertinenza Detto di chi, per infingardaggine, per superficialità, ma - spesso - per timore di dover assumere delle responsabilità, si comporta nei confronti di taluni avvenimenti come se questi non lo riguardassero e se ne lava, pilatescamente, le mani, laddove invece dovrebbe parteciparvi attivamente e consapevolmente.
106. Crisce santo, ca diavulo ggià sî
Ad littera. cresci santo, ché diavolo già lo sei Locuzione beneaugurante che a Napoli si suole rivolgere, specie ai ragazzi, nel momento che starnutiscono, in luogo del consueto “salute!” Essa locuzione venne usata con significato esorcizzante, temporibus illis allorché esistette una devastante epidemia che si annunciava con ripetuti violenti starnuti; pronunciando le parole in epigrafe si voleva dire: “Stai starnutendo, ma non diverrai preda dell’epidemia, anzi crescerai sano e forte e supererai questo tuo pessimo momento che ti fa quasi diavolo”.
107. Cricco, Crocco e Mana cu ancino
Letteralmente: Cricco, Crocco e Mano ad uncino. A Napoli con questi tre soprannomi, derivanti ognuno dal ferro del... mestiere usato ( il martinetto - il gancio e l’uncino), si suole indicare una non meglio identificata accolita di ladruncoli o cattivi soggetti in cui ci si imbatta; la locuzione è usata anche in tono pi ú generico e onnicomprensivo quando la combriccola non sia formata da soltanto tre soggetti, bastando nominare i tre in epigrafe per indicare di che pasta siano fatti i restanti componenti la combriccola.
108. Craje, craje ‘o ffa ‘a curnacchia.
Ad litteram: cra, cra lo fa la cornacchia id est: lo cra, cra è il verso della cornacchia.
Cos í a Napoli si suole rispondere a chi faccia le viste di voler rimandare ad un non meglio precisato domani (cras) i suoi obblighi ed i suoi adempimenti, laddove sarebbe tenuto ad un rapido adempimento di quanto dovuto.A chi , interrogato sul quando avrebbe intenzione di tener fede al promesso, dovesse rispondere con un latineggiante: “Cras, cras” nel chiaro intento di procrastinare sine die il suo obbligo, gli si può opporre la locuzione in epigrafe per indurlo a tener fede al suo dovere.
109. Cose ‘e ll’atu munno
Ad litteram: cose dell’altro mondo. Cos í , a Napoli, con tono esterrefatto, si sogliono commentare avvenimenti che sembrano cos í irrazionali da esser ritenuti impossibili da verificarsi nel mondo del vivere quotidiano ed ipotizzabili solo nell’altra vita quella che non essendo razionale può ritenersi capace di generare faccende umanamente incredibili.
110. Chi tène lengua va ‘nSardegna.
Ad litteram: chi sa parlare arriva in Sardegna, ma anche chi parla troppo finisce in Sardegna.
Locuzione come si vede dalla doppia valenza o interpretazione: quella sub a) fa riferimento al comportamento di chi abbia padronanza di eloquio e non disdegni di richiedere informazioni che possano aiutarlo a raggiungere la Sardegna , regione ritenuta temporibus illis molto lontana e difficile da raggiungere; la valenza sub b) si riferisce invece a chi sia troppo linguacciuto al segno di mancare di rispetto, a mo’ di esempio, ad un suo superiore, che può punirlo trasferendolo in Sardegna , terra ritenuta inospitale oltreché lontana.
111. Chi è muorto e me l’ à ditto?
Ad litteram: Chi è defunto e me lo à detto? cioè chi è morto e mi à lasciato questo legato testamentario? Locuzione usata in tono risentito da chi si trovi coinvolto - a suo malgrado - in situazioni nelle quali deve conferire delle prestazioni che non si sente in animo di compiere ed allora retoricamente si autorivolge la domanda in epigrafe volendo significare: non sono tenuto a compiere quanto mi si chiede, non essendo obbligato verso alcun dante causa; infatti nessuno à lasciato scritto in un testamento, che io mi debba far carico di simili prestazioni.
112. Chi ‘a vô cotta e chi ‘a vô crura...
Ad litteram: chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. La locuzione fa riferimento alla grande inconciliabilità di gusti esistente nel vivere comune, inconciliabilità per la quale c’è continua discordanza di pareri e di modi di vedere ed allorché questa discordanza si manifesta tra coloro che dovrebbero concorrere alla realizzazione di un’opera comune, quest’ultima difficilmente si potrà compiere.
Con molta probabilità, ma non con certezza, la locuzione nacque in una cucina e fu pronunciata da un cuoco che doveva seguire la cottura delle carni poste sullo spiedo e non sapeva decidersi a levar lo spiedo dal fuoco stante il fatto che tra i commensali non c’era un’auspicabile concordia e qualcuno voleva la carne ben cotta, altri la preferivano piuttosto cruda.
113. Chiavarse ‘a lengua ‘nculo specie nell’imperativo chiàvate ‘a lengua ‘nculo
Ad litteram: mettersi la lingua nel culo specie nell’imperativo póniti la lingua nel culo id est: zittire, tacere,specie nell’imperativo taci, zittisci, non profferir pi ú oltre parole.Locuzione icastica, ma chiaramente iperbolica, stante la impossibilità fisica di compiere quanto indicato nell’imperativo, che viene pronunciata soprattutto nei confronti dei saccenti e supponenti che sono soliti porre bocca in ogni occasione ed esprimere un loro parere il pi ú delle volte non richiesto e perciò fastidioso. A tali categorie di persone a Napoli si suole consigliare o talvolta si impone di porsi la lingua nel culo, invece di farla a sproposito vibrare nel cavo orale,nella speranza che il predetto, accolto l’invito o recepita l’imposizione, taccia una buona volta senza pi ú replicare.
114. Chianu chiano ‘e ccòglio e senza pressa ‘e vvengo.
Ad litteram:Pian piano li raccolgo e senza fretta li vendo Locuzione divertita usata nei confronti di chi operi tutte le sue cose, senza darsi fretta, con calma e circospezione, quasi con studiata lentezza,beandosene e sfruttando per intero tutto il tempo a sua disposizione; locuzione nata chiaramente nell’ambito dei contadini che invece - per solito - sono molto alacri nel raccogliere i frutti e porli in vendita; ma ogni regola à la sua eccezione.
115. Ce vô ‘nu mazzo ‘arucola e ‘na panella
Ad litteram: occorre un fascio di rughetta ed una pagnotta! Id est: con i mezzi che state usando, non conseguirete mai quanto vi siete prefisso; occorrerà ben altro! Locuzione esclamativa usata a commento di un avvenimento che si presume difficile da portare a compimento, per il cui raggiungimento si ritiene occorrano accorgimenti pi ú impegnativi di quelli normalmente usati; nella fattispecie si pensa che per portare a termine l’opera intrapresa bisognerà far ricorso all’uso di un ipotetico fascio di rughetta che per essere di sapore amarognolo è preso ad emblema del faticoso impegno occorrente al conseguimento del risultato; oltre al fascio di rughetta occorrerà peraltro l’uso ed il consumo di un’intera pagnotta di pane per poter contare sulla forza fisica necessaria, forza derivante dagli zuccheri contenuti nella pagnotta.
116. Che vaco mettenno ‘a funa ‘e notte?!
Ad litteram: vado forse tendendo la fune, di notte?! Id est: pensi forse che io sia un ladrone che va tendendo la fune di notte?! Cos í un tempo solevano fare i ladroni di strada che tendendo una fune attraverso la strada facevano s í che i viandanti sia a piedi che in carrozza inciampando nel teso ostacolo, stramazzassero per terra e venissero facilmente rapinati.
L’espressione in epigrafe veniva olim pronunciata, in maniera risentita, soprattutto dai genitori che alle richieste eccessive e perciò costose dei propri figliuoli, opponevano una penuria di mezzi in linea con la conclamata onestà di essi genitori non adusi a procurarsi danaro con mezzi da masnadieri. Oggi, elevatasi generalmente la condizione economica di tutte le famiglie, è difficilissimo cogliere la locuzione in epigrafe sulla bocca dei genitori, proclivi - nei confronti dei figli - ad allargare i cordoni della borsa, nella convinzione che sia cosa giusta concedere ai figliuoli tutto ciò che chiedono, anche al costo - forse - di tendere la fune, di notte.
117. Chiammà a san Paulo, primma ‘e vedé ‘a serpe.
Ad litteram:Invocare l’aiuto di san Paolo prima di imbattersi in un serpente. Id est: correre ai ripari prima che si sia verificato un danno. Detto di chi per eccesso di prudenza o per innato timore, precorra gli eventi, ponendosi in posizione di difesa anche quando l’avvenimento paventato sia di là da venire.In tutto il meridione, l’apostolo delle genti è ritenuto, ma ne ignoro il motivo, il protettore contro gli attacchi delle serpi. Addirittura in taluni paesi delle Puglie e delle Calabrie si celebrano riti religiosi culminanti con la processione dell’effigie del santo portata in giro ricoperta da un gran numero di serpenti.
118. Che s’à dda fà pe campà!
Ad litteram: Che bisogna fare per vivere! Non è una domanda, ma una amara esclamazione che viene pronunciata da chi per sbarcare il lunario e procurarsi mezzi di sostentamento, o deve sottoporsi a fatiche molto grandi o deve sopportare cocenti umiliazioni delle quali chiama quasi a testimoni gli astanti; infatti spesso la locuzione è completata da un Vide (vedi) anteposto alla frase in epigrafe.
119. Che m’accucchie? oppure Che m’ammacche?
Ad litteram: nell’una e l’altra maniera cosa metti assieme? Id est: cosa vai cianciando? Locuzioni usate quando si voglia fare intendere ad un interlocutore che le cose che va asserendo sono vacue sciocchezze, senza nesso né logico né conseguenziale con ciò di cui si sta parlando. Spesso le locuzioni in epigrafe vengono pronunciate seguite da quella riportata al num. 85.
120. Cu ‘na bbona salute!
Ad litteram:Vi giovi alla salute! Un tempo in questo modo, in luogo dell’algido e quasi minaccioso: Buon appetito, il padrone di casa soleva sollecitare i commensali perché principiassero a mangiare, ed augurava che il cibo giovasse alla loro salute. Probabilmente non tutti sanno che il “buon appetito” normalmente usato, non è un augurio, ma originariamente era e forse ancòra lo è un duro comando imposto dal ciambellano a tutti i commensali invitati alla tavola del principe affinché mangiassero con appetito , mostrando cos í di gradire il pranzo offerto. Oggi dismessa l’abitudine delle riunioni conviviali, l’augurio in epigrafe è rimasto, ma si è ridimensionato diventando un modo di salutare in luogo del consunto, cameratesco ed etimologicamente troppo remissivo ciao(in veneziano: schiavo).
BRAK

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