martedì 5 giugno 2012
LA SMORFIA NAPOLERTANA PARTE 3°
La smorfia napoletana  parte 3a
E veniamo alla parte conclusiva dell’elencazione dei piú comuni soggetti, oggetti o situazioni considerati nella smorfia partenopea; in questa parte elencherò i numeri dal 61 al 90. 
61 – ‘O CACCIATORE = il cacciatore e segnatamente chi si dedichi allo sport venatorio, armato di fucile o doppietta , accompagnato da uno o piú cani da caccia ed agghindato con carniere, tascapane, cartucciera  etc., personaggio cosí noto  e presente nell’àmbito  campagnolo e provinciale  del vivere quotidiano da meritarsi un ben identificato ricordo nella smorfia dei sogni oltre ad essere presente, quantunque con evidente forzatura storico-temporale, nei tradizionali  presepî partenopei della fine settecento, princípi ottocento; sono esclusi dalla voce a margine (che etimologicamente è un deverbale del basso latino captiare  frequentativo del classico capere= prendere) ogni altro tipo di predatore che vada a caccia  con altro tipo di arma  che non sia il fucile ( che è da un lat. volg. (petram) focile(m) '(pietra) da fuoco, acciarino', deriv. di focus 'fuoco') o la doppietta  che è un tipico fucile da caccia con doppia (da cui il nome) canna affiancata o sovrapposta.
62 – ‘O MUORTO ACCISO  vale a dire  il morto ammazzato; qui la smorfia prende in considerazione non il morto semplice, quello cioè defunto per cause naturali, del quale nel parlato comune s’usa dire che è morto nel proprio letto (anche quando tecnicamente ciò non sia vero) e cioè sia morto per malattia, vecchiaia , morto  che come tale è già ricordato con il num. 47, ma colui che sia defunto di morte violenta e segnatamente con spargimento di sangue per mano di inveterati o occasionali nemici ed estensivamente anche il morto vittima del proprio dovere, sul lavoro, in guerra etc.; come già vedemmo al num. 47 etimologicamente muorto  è il part. pass. del verbo murí  dal latino morire  collaterale del classico mori, memtre acciso risulta essere il part. passato del verbo latino accidere da un lat. volgare ad – caèdere→accedere→accidere  collaterale di ob- caèdere→occedere→occidere→uccidere.
63 – ‘A SPOSA la sposa, colei che convola a nozze, ma non a quelle… riparatrici; rammenterò che nelle tombole familiari d’antan usava divertirsi ponendo a colui che estraeva i numeri, al momento dell’estrazione del num. 63 addizionato del sacramentale ‘a sposa!, la repentina domanda: Quant’anne teneva? E ‘o sposo?  tenendo per buoni e soddisfacenti i due numeri che venivano estratti súbito dopo quello a margine e l’ilarità era tanto maggiore quanto piú fosse alta la differenza tra il numero che nel giochino indicava la presunta età della sposa e quello che indicava la presunta età dello sposo; spesso per un curioso gioco del destino capitava che l’età ipotetica della sposa fosse compresa tra i numm. 70 e 90 e quella dello sposo tra i numm. 20 e 30, per cui immancabilmente s’udiva il salace commento: Se ll’era saputo piglià, eh?! Etimologicamente ‘a sposa  risultando essere il part. pass. femminile del basso  lat. sponsare 'fidanzarsi', deriv. di sponsus, part. pass. di spondíre 'promettere', dovrebbe significare fidanzata, promessa, ma poi finí per essere attrubuito a colei che giungeva alle nozze, dopo un periodo piú o meno lungo di fidanzamento (deverbale di un fr. ant. fiancer 'impegnarsi, garantire', poi 'promettere in matrimonio'.
64 – ‘A SCIAMMERIA letteralmente si tratta di un’ampia giacca da cerimonia che a Napoli è appunto détta, con voce intraducibile,  sciammeria:  giacca elegante con falde lunghe, tipica  delle cerimonie o ricorrenze importanti, con esclusione dei matrimoni eleganti nei quali sia previsto il  tight (detto giocosamente  a Napoli: cafè a ddoje porte) la sciammeria    probabilmente non è un denominale forgiato sul francese chambre, ma molto  piú probabilmente  è derivato direttamente dallo spagnolo chamberga sempre che non derivi  direttamente dal nome del duca di Schönberg (17° sec.) che volle che le sue truppe fossero equipaggiate con una lunga palandrana che, dal nome del duca, è resa in italiano col termine giamberga ; personalmente trovo piú convincente l’ipotesi ispanica  che morfologicamente  meglio si presta ad approdare a sciammeria attraverso la napoletanissima,  solita prostesi di una s intensiva all’originario cia (cha) spagnolo, assimilazione regressiva della b, sincope  del gruppo rg sostituito da un ri  con una i atona; 
 come ò accennato si tratta di una giacca molto ampia che inviluppa quasi chi l’indossa  al segno che per traslato giocoso e furbesco  con il termine  sciammeria si intende anche il coito,  in particolare quello in cui l’uomo assume una posizione tale che  copra del tutto la donna col proprio corpo e con molta probabilità quando i napoletani accennano ad una sciammeria  onirica, è al coito  e non alla giacca che intendono riferirsi, avendo probabilmento acceso nella loro fantasia notturna la scena d’una unione sessuale, piuttosto che d’una giacca da cerimonia.
65 – ‘O CHIANTO  cioè il pianto come manifestazione consistente nella reiterata e copiosa emissione di lacrime  che arrossano gli occhi e rigano il volto a sèguito o a causa   di un  dolore,  di un lutto, di un grave dispiacere; in napoletano tuttavia con la parola a margine si indica pure, con linguaggio familiare e scherzoso, una  cosa mal fatta, mal riuscita ed ancóra una  persona noiosa, fastidiosa: ‘stu vestito è ‘nu chianto;  (questo vestito è un pianto!) oppure frateto è ‘nu chianto; (tuo fratello è un pianto!) È chiaro che l’accezione della voce a margine è quella che si riferisce ad un dolore, un lutto, un dispiacere che inducono le lacrime, non quella che riguarda l’estensione scherzosa. Detto che etimologicamente ‘o chianto  è da un lat. planctu(m) 'colpo di chi si batte il petto', deriv. di plangere 'battere', poi 'piangere'; normale ed usuale il passaggio di pl→chj→chi (cfr. ad es.:  chino ←plenum, cchiú←plus, chiaja←plaga, chiummo←plumbeum etc.)  rammenterò che a Napoli l'elemento di fondazione, che segna l'inizio della infrastrutturazione cimiteriale della zona di  Poggioreale, è il Cimitero di Santa Maria del popolo, detto "delle 366 fosse", dovuto a Ferdinando Fuga, ed edificato nel 1762. Il cimitero rappresenta un monumento di straordinaria importanza rappresentando l'unico esempio conosciuto di "macchina illuminista" cimiteriale. Si tratta di una attrezzatura civica che anticipa, di almeno cinquant'anni, gli editti napoleonici riguardanti l'igiene delle sepolture e il conseguente obbligo di edificare i cimiteri lontano dall'abitato: si pensi che, all'epoca, a Napoli l'inumazione degli indigenti avveniva in una cavità dell'ospedale degli Incurabili, in piena città, in zona Sanità (ossario delle Fontanelle). L'impianto è basato su di una corte quadrata, di 80 metri di lato, recintata da un muro che si duplica, all'ingresso, a formare un basso edificio con il pronao d'ingresso, una semplice cappella e l'alloggio del custode. Altro elemento fondativo del complesso cimiteriale è il Cimitero di Santa Maria del Pianto (detto comunemente dal popolo ‘O CHIANTO) con l'omonima chiesa a pianta centrale, di impianto seicentesco, intorno alla quale sin dalla peste del 1656 avveniva l'inumazione dei cadaveri. L'attuale cimitero  che consta di una amplissima  superficie di oltre 20.000mq ed è dovuto ad una sistemazione ottocentesca e ad  espansioni successive, si presenta su di un ripido versante, terrazzato sia nella parte della recente espansione che in quella ottocentesca, e con articolati percorsi a tornante e scale. Il cimitero oggi appare densamente edificato, in prevalenza con cappelle private ed edifici per congreghe di media dimensione. Della ricca vegetazione originale restano alcuni imponenti esemplari di cygas ed un cedro secolare posto all'ingresso, mentre nella espansione recente sono
stato impiantati numerosi cipressi. Da rammentare che nel rigoglioso giardino all’inglese del Chianto  è ricavato il c.d. recinto degli uomini illustri, dove ànno trovato sepoltura, meta della visita commossa del popolo napoletano, gli uomini illustri partenopei per nascita o morte, o per adozione : letterati, poeti, musicisti,  drammaturghi, ma anche cantanti lirici ed attori famosi; tra questi uomini illustri son da rammentare E. Caruso, G. Donizetti, S. Di Giacomo, Libero Bovio, E. Murolo, il principe A. de Curtis in arte Totò e tanti altri.
66 – ‘E DDOJE ZETELLE  o anche ‘e ddoje sarcenelle  letteralmente: le due nubili o anche  le due piccole fascine; ci troviamo  di fronte, come ognuno può intendere, ad una indicazione di sapore furbesco; in effetti la voce originaria ricordata con il numero a margine, fu dapprima ‘e ddoje sarcenelle che qualcuno storpiava in ‘e ddoje sarchielle  di carattere marcatamente furbesco atteso che con il termine sarcenella, ma anche con sarchiella(quantunque quest’ultima voce non trovava riscontro alcuno e fosse solo una patente corruzione della precedente sarcenella), si intendeva riferirsi all’organo sessuale femminile, e segnatamente a  quello di una donna che per essere ancora nubile, sebbene abbastanza anziana l’avesse ispido  e ben serrato a guisa di una piccola fascina di sterpi (buona solo per essere arsa…) e che si tratti di due vulve lo si può agevolmente ricavare dal fatto che il numero a  margine è formato dall’accostamento di due 6 (quel 6  che come vedemmo nella 1° parte indica chella ca guarda ‘nterra  id est la vulva;) in prosieguo di tempo poiché non tutti all’annuncio: 66 ‘e ddoje sarcenelle, si rendevano conto di cosa si stesse parlando, si abbandonò l’annuncio figurato per dire molto piú praticamente: 66 ‘e ddoje zetelle. Etimologicamente sarcenella di cui sarcenelle è il plurale, è il diminutivo di sàrcena  da un acc. latino sarcina(m)=fascina di sterpi  da ardere mentre la voce zetella, il cui  plurale è zetelle è il diminutivo di zita che è voce di orig. dial., variante di citta = fanciulla. Con il numero 66, tra altri soggetti/oggetti o figurazioni che non mette conto ricordare,   nella smorfia napoletana si considera altresí
‘A BBELLA MBRIANA = donna bella, buona ed affascinante,ma soprattutto fata benefica, spirito augurale.
Rammento infatti che nell’inteso comune popolare partenopeo gli spiriti, spiritelli ed affini (cfr. alibi munaciello (37)  e fantasemo(26)) sono tenuti in gran considerazione  atteso che i napoletani, per superare i momenti contingenti  o tirare innanzi la vita quotidiana, fanno molto spesso  ricorso al soprannaturale; non poteva quindi mancare nel libro dei sogni,  accanto al munaciello ed al fantasma  (forma visibile dello spirito amico di un defunto) ; spettro, ombra sia pure anonimo ed ignoto,  non poteva mancare la 
BBELLA MBRIANA  
Nella parlata  napoletana con la voce mbriana si indica la  fata, e piú genericamente una donna bella, buona ed affascinante; la medesima voce mbriana addizionata di un non pleonastico aggettivo bella è usata per indicare una fata benefica,ed augurale, un essere soprannaturale, ma inteso donna, che protegge la casa che piú meno stabilmente frequenta e che fa il paio con il cosiddetto munaciello  altro essere soprannaturale, ma inteso uomo che pur dovrebbe proteggere la casa, ma che a differenza della mbriana  sempre benefica ed augurale, spesso è dispettoso e malefico. La benefica bella mbriana è uno spirito sempre  positivo e benigno che apporta (nelle case vaste ed antiche in cui si trattiene)  ordine, assetto, sistemazione,  pace, tranquillità. À solo due negatività: è uno spiritello nato stanco ed esige di trovare, nelle case che frequenta, sempre una sedia libera su cui accomodarsi per riposare le stanche membra; à poi in uggia  disordine (quale che sia),  confusione, scompiglio, caos, subbuglio, baraonda ( di adulti o piú spesso di bambini), babele per cui guai a non farle trovare almeno una sedia libera o a farle trovare fuori posto abiti, biancheria, suppellettili  e/o masserizie o ancóra farle trovare bambini chiassosi o vocianti! Adirata, in tali casi la bella mbriana abbandona la casa ed è difficile che vi ritorni,  portando seco ciò che è di sua spettanza: pace, armonia, intesa, accordo, tranquillità,  serenità, quiete , benessere. Fu questo il motivo per cui,  temporibus illis, nelle vecchie case napoletane le donne di casa,le mamme di famiglia, convinte che la loro abitazione fosse frequentata stabilmente dalla bella mbriana,   cercavano di tener sempre pulita ed  in ordine la dimora(specialmente se vasta ed antica; era impossibile infatti che la bella mbriana dimorasse in una casa angusta e nuova…), attente a non lasciar nulla fuori posto, curando che le sedie fossero sempre libere,  sgombre di ogni cosa, compreso i panni in attesa di stiratura…,e zittivano continuamente i bambini che spesso erano mandati a fare i loro rumorosi giuochi in cortile, per le scale di casa o per la strada, piuttosto che in casa con il rischio di infastidire la mbriana!      
La voce  mbriana si può trovare anche, (ma quasi esclusivamente nel linguaggio del tardo ‘500 e del ‘600, mai piú ripreso ) nelle forme di mmeriana, moreana e dritto per dritto dal lat. medievale meridiana ed in tutte queste forme valgon sempre fata,talvolta ombra  e piú genericamente  donna bella, buona,  ed affascinante.
Rammenterò a chiosa che talvolta (specie nel parlato popolare la voce bella mbriana è usata in senso furbesco ed antifrastico per indicare una donna lasciva e  procace che si lasci facilmente conquistare e addirittura possedere.
E  veniamo all’etimo del termine mbriana  etimo che tutti i lessicografi, sulla scia del Du Cange, fanno risalire ad un acc.vo latino meridiana(m) (horam)= ora del mezzodí  quella che produce l’innocua e non spaventosa ombra del corpo , quell’ora benefica di piena luce che come tale  non è, né può esser  foriera di pericoli che al contrario si manifesterebbero o potrebbero manifestarsi con il buio…
Indichiamo il percorso morfologico per giungere a mbriana partendo da meridiana; abbiano: *meridiana, donde con epentesi eufonica di una b si à mberidiana→ mb(e)ri(di)ana→mbriana e non vedo necessità di aggiungere alcun segno diacritico d’aferesi atteso che in mbriana non si è verificata alcuna caduta di sillaba o lettera iniziale da doversi indicare con il segno (‘); dunque semplicemente mbriana e non ‘mbriana !, come pure mi è occorso inopinatamente, di trovare talvolta scritto…addirittura in taluni  compilatori di dizionari etimologici del napoletano.
A completamento di tutto quanto qui scritto  ora segnalo  una divertente chicca che ò còlto spulciando il Dizionario etimologico dei dialetti d’Italia  di Cortelazzo/Marcato.
Nei significati di fata benefica,ed augurale, donna bella, buona ed affascinante, gli autori non cosiderano l’espressione bella mbriana,ma accolgono una inesatta ed inconferente bella ‘ndriana pescata su di un antico (1887) dizionario napoletano –italiano compilato da Raffaele Andreoli che con una fantasiosa sicumera senza pari, per far passare l’espressione,  s’inventò una ipotizzata benefica fata Adriana. Mio sommesso, ma deciso avviso è che l’Andreoli (unico del resto  fra i compilatori di calepini della parlata napoletana ad accogliere tale scorretta bella ‘ndriana  e come tale responsabile di aver portato fuori strada un attento ricercatore come fu  il ch.mo prof. Manlio Cortelazzo e la sua collaboratrice dr.sa Marcato)  abbia preso un colossale abbaglio o (per dirla in pretto  napoletano) ‘nu ddio ‘e zzarro (un sesquipedale inciampo), operando una corruzione dell’originaria bella mbriana (espressione che d’altra parte egli stesso accoglie nel consueto significato, nel suo vocabolario) e facendola diventare una scorretta, improbabile,improponibile ed inutile(esistendo già la soddisfacente bella mbriana!...)  bella ‘ndriana per la quale non mi riesce per nulla di  capire quale possa esser la strada da seguire per giungere da Adriana  a ‘ndriana  che tuttalpiú presupporrebbe un Indriana/Andriana (abitante di Andria??)  e non l’ipotizzata Adriana  .  Talvolta anche Omero sonnecchia… figurarsi un Andreoli!   
67 – ‘O TOTARO DINT’ Â CHITARRA letteralmente: il totano nella chitarra,ma anche in questo caso ci troviamo davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è  dal lat. coitu(m), deriv. di coire 'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra  con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: totaro deriv.  del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro. chitarra dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára.
68 – ‘A ZUPPA ‘E CARNACOTTA letteralmente la zuppa di carne cotta o zuppa di frattaglie (interiora del vitello affettate sottilmente e cotte in un brodo privo di grassi aggiunti, ma  ricco di verdure e spezie; questa zuppa viene servita caldissima, a mestolate, su pochefreselle (dal latino frendere= spezzettare)fette di pane biscottato in un’ampia ciotola, accompagnata da un buon bicchiere di vino rosso e rappresentò, per anni, specie nei mesi invernali  il gustoso asciolvere della povera gente o dei salariati. rammenterò che tale zuppa  è nota a Napoli anche con il termine ‘a mariscialla; a Napoli una volta esistevano ed  in qualche vicolo  della vecchia città  se ne può incontrare ancora qualcuno, i cajunzare  (ventraiuoli)  cioè i venditori ambulanti   che su attrezzati  carrettini trainati a mano servivano le trippe cioè il quinto quarto della bestia macellata e tali trippe erano servite ben affettate e ridotte in piccoli pezzi, disposti  su fogli di carta oleata ed erano  da portare alla bocca con le dita senza l’ausilio di alcuna posata o attrezzo cosparsi di parecchio  sale ed irrorati con il succo di limone; spesso affettavano la trippa lessata (specialmente la parte detta cientopelle) in  strisce larghe e lunghe come i galloni dei marescialli dell’epoca murattiana quando si indossavano divise fantasmagoriche , per cui i ventraiuoli battezzarono mariscialla  la zuppa ricavata da frattaglie di vitello bollite con aggiunta come ò detto  solo di poche erbe aromatiche; etimologicamente zuppa dal got. suppa 'fetta di pane inzuppata' mentre carnacotta è l’adattamento dialettale per fusione del toscano carne cotta, e mariscialla  è un giocoso  femminile ricostruito di maresciallo che è dal fr. marécàl, a sua volta  dal lat. mediev. mariscalcus; cfr. maniscalco.
69 – SOTTO E ‘NCOPPA letteralmente sotto e sopra , ma piú esattamente posti di fronte in posizione inversa; anche in questo caso, pur partendo dall’ovvia osservazione che il numero 69 è formato con due cifre di cui l’una, il 6 posto in posizione classicamente verticale, mentre il 9 pare quasi un 6 posto in posizione inversa  tale da determinare un numero formato da cifre poste di fronte in posizione inversa, ci troviamo a parlare di una situazione furbesca riproducente il cosiddetto coito orale;  quanto all’etimologia,  sotto  è da un basso latino subtus  derivato di sub, mentre ‘ncoppa = sopra  è forgiato da un in→’n illativo piú coppa dal latino cuppa(m) la parte posteriore superiore del capo che è dunque quella posta  sopra.
70 – ‘O PALAZZO  o piú esattamente ‘O PALAZZO ‘E CASA e cioè il palazzo oppure con tipica tautologia  partenopea il palazzo di casa che – a prima vista – potrebbe sembrare un’inutile precisazione ed  invece non lo è,  poi che con la parola palazzo che etimologicamente è dal latino palatiu(m) 'colle Palatino', poi 'palazzo imperiale', (che nella Roma imperiale sorgeva su quel colle)  si intende genericamente qualsiasi  edificio di grandi proporzioni e di pregio architettonico, adibito soprattutto un tempo ad abitazione di re, principi o famiglie nobili, e oggi per lo piú a sede di organi di governo, di uffici pubblici, di istituzioni culturali e sim., mentre con l’espressione palazzo ‘e casa  ci si riferisce ad un piú contenuto edificio anche non di grandi proporzioni  e pregio architettonico  dove però si abbia la propria stabile  dimora in appartamenti di un numero variabile di stanze dette  - con tipica iperbole napoletana – case  ( dal latino casa  propriamente casa rustica  opposta alla domus abitazione del dominus formata di molti piú vasti ambienti ed annesse pertinenze: giardini etc.
Tra le specificazioni  del  palazzo ‘e casa  rammenterò il cosiddetto palazzo ‘e casa a spuntatora  e cioè il palazzo con due entrate situate o su strade adiacenti o parallele, palazzo che come la cosiddetta casa cu ddoje porte  risultò molto inviso ai mariti gelosi che temettero la possibilità da parte d’un probabile amante della fedifraga consorte, di attingere le grazie  di détta infedele moglie entrando in casa o nel palazzo attraverso l’uscio non usato abitualmente dal  marito tradito.
Mi piace rammentare ora un’amenità  che si poteva udire, nelle tombole familiari d’antan, all’annuncio dell’estrazione del numero 70; quanto con voce stentorea chi estraeva i numeri, annunciava in sostanzioso napoletano: sittanta! invariabilmente tutti i giocatori in coro, giocando sull’omofonia tra sittanta ( settanta) e ssî ttanto ( sei grosso o alto cosí e non di piú…) gli rispondevano: E nun crisce cchiú ( e non crescerai di piú).
71 – LL’OMMO ‘E MMERDA  letteralmente l’uomo di merda ossia l’uomo dappoco, persona infida, riprovevole,disonesta, o solo d’animo ignobile, cosí definito in quanto si appaleserebbe tal quale fosse per iperbole  formato di escrementi; l’espressione a margine sostanzia una corposa offesa  rivolta appunto nei confronti di chi  venga considerato  mancante di ogni decoro e/o dignità ed al contrario mostri cattiveria e protervia d’animo; costui a volte viene apostrofato con la voce mmerdajuolo, usata come sinonimo di quella a margine, quantunque di per sé ( con derivazione dal latino merda(m)  con i suff. arius  ed olo) indicherebbe colui che – per lavoro – raccattava gli escrementi animali per igiene pubblica e li rivendeva  per  concimare i campi; a tal proposito rammenterò l’espressione Essere ‘a tina ‘e miezo.
Ad litteram: essere il tino di mezzo. Offensiva locuzione che si usa rivolgere a chi sia materialmente o moralmente cosí sozzo, sporco, lercio da poter essere  assimilato al grosso tino trasportato nel bel mezzo di un carro atto allo scopo, tino nel quale, originariamente in quel di Torre del Greco, e poi in ogni altro  paese rurale, veniva posto tutto il letame  che, raccolto in giro  e convogliato nel tino centrale mediante due altri tini piú piccoli  collocati ai lati del tino centrale, veniva poi rivenduto quale concime naturale.In chiusura ricorderò le etimologie:
ommo = uomo  da un nomin. latino (h)òmo con tipico raddoppiamento espressivo  della labiale m, mentre la consonante diacritica d’avvio (h) un tempo aspirata,  non viene presa in considerazione, né lascia traccia; ‘e mmerda = di merda (id est: composto di escrementi) mmerda = merda, come già visto da un acc. latino merda(m) con raddoppiamento sintattico della consonante d’avvio.
72 – ‘A MARAVIGLIA – la meraviglia con particolare riguardo a tutti quegli accadimenti che dèstino stupore,sbalordimento, stordimento, sbigottimento, emozione, soprattutto quando queste cose provengano dal verificarsi di fatti dai connotati negativi che mai si sospettava potessero accadere; ad es. desta meraviglia oltre che orrore una madre che uccida un figlio o un figlio che diventi matricida e cosí via; quanto all’etimo ‘a maraviglia è da un  latino mirabilia, propr. 'cose meravigliose', neutro pl. sost.e inteso femminile  dell'agg. mirabilis meraviglioso.
73 – ‘O SPITALE – l’ospedale  e cioè l’ istituto pubblico nel quale si ricoverano e si curano gli ammalati inteso come luogo di sofferenze e miseria, atteso che è luogo dove vengono accolti per esser curati i cittadini meno abbienti; i piú facoltosi infatti  fanno ricorso alle c.d. cliniche private ed un tempo si congetturò che anche il personale medico e/o paramedico che prestava la propria opera nell’ospedale fosse meno  capace, in quanto peggio retribuito, del personale delle c.d. cliniche private; quanto all’etimo la voce ‘o spitale  è da un lat. volg. òspitale, neutro sost. e inteso maschile  dell'agg. òspitalis 'ospitale, che accoglie,   con sincope della h iniziale e deglutinazione della  o intesa come articolo.
74 – ‘A ‘ROTTA  e cioè  la grotta con riferimento ovviamente non ad un qualsiasi anfratto naturale, ma, sulla scorta della gran tradizione cristiana partenopea, ovviamente la grotta per antonomasia : quella che ospitò il Bambino Gesú riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello; prima di rammentare che in napoletano,  con un diminutivo della voce a margine, e cioè con  ‘a ‘rutticella  estensivamente e con raffronto semiblasfemo si intese la vulva  muliebre, ricorderò la locuzione  che richiamando il bue e l’asinello or ora  détti, parla di  ‘o scarfalietto 'e Giesú Cristo Ad litteram: Lo scaldino di Gesú Cristo. Non si direbbe, ma la locuzione ricordata  è una dura, sia pure sorridente offesa  che si rivolge agli uomini  ritenuti ignoranti  o anche becchi. Non v'è chi non sappia infatti  che Gesú Cristo fu riscaldato  nella greppia di Betlemme da un bue e da un asinello; di talché affibbiare ad uno il titolo di scaldino di Gesú Cristo significa dargli dell' asino e del bue  id est: ignorante e cornuto e perciò significa accusare sua moglie di infedeltà continuata.
75 – PULICENELLA  e cioè Pulcinella la maschera per antonomasia  della tradizione popolare partenopea che come tale non poteva non esser presente nella smorfia rappresentandovi  l’uomo piú semplice, quello piú debole, quello che nella scala sociale occupa l’ultimo posto; è però dotato per compensazione di una furbizia eccezionale,  capace perciò di risolvere i piú disparati problemi. Chiamato a rappresentare l’anima del popolo, i suoi istinti primitivi, appare quasi sempre in contraddizione, tanto da non avere dei tratti fissi: è ricco o povero, è prepotente o codardo, e talvolta presenta l’uno e l’altro tratto contemporaneamente. La verità sta nel fatto che a questa maschera il popolo à riservato la funzione di riassumere e di esprimere tutta la sua realtà quale che sia: brutta o bella, meschina o eroica.
La maschera di Pulcinella à una storia che viene di lontano; già  non c’è uniformità di vedute sull’origine del nome Pulcinella; secondo alcuni esso si vuole che debba discendere da  Pulcinello  cioè piccolo pulcino per via del suo naso adunco e per la  voce chioccia che in origine usarono gli attori , c’è  chi invece propende per  Puccio d'Aniello  un villano di Acerra del '600 che dopo aver preso in giro una compagnia di commedianti girovaghi si uní a loro come buffone e pare s’inventasse  quel mascheramento del volto, mezzo bianco e mezzo nero, palandrana bianca e candido cappello a pan di zucchero; una scuola di pensiero propende per un tal Silvio Fiorillo attore girovago nato all'incirca nel 1560 (Viviani V.), che pare fosse  il primo a portare ufficialmente in scena la figura di Pulcinella, anche se l'alternava con la casacca e la spada del capitano Matamoro spagnolo. Fiorillo viene anche ricordato come il primo commediografo pulcinellesco, essendoci giunta una sua commedia intitolata: " La Lucilla costante, con le ridicole disfide e prodezze di Pulcinella " In realtà dove e da chi sia nato Pulcinella non é dato di sapere e  molti eminenti studiosi e letterati come Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo e Anton Giulio Bragaglia si siano impegnati in queste ricerche, senza mai poterlo stabilire con certezza;  a mio avviso, pur accogliendo in parte qualcosa d’ogni singola ipotesi, penso che non sia tuttavia lontano dalla verità chi, (almeno per ciò che riguarda i caratteri generali), collega Pulcinella  al Maccus della commedia atellana latina; la maschera di Pulcinella à una sua variante francese in  Polichinelle' ( un fanfarone gradasso con doppia gobba e un vestito giallo-rossiccio detto crocòta) ed una inglese con  Punch maschera  dall' umore malinconico e brutale, molto diverso dal Pulcinella  napoletano brioso e faceto; i medesimi caratteri della maschera napoletana si riscontrano invece  nel russo Petruska, nel don Cristobal spagnolo e nel tedesco Kaspar, segno che la maschera napoletana  fu esportata in lungo e largo.Esiste un momento centrale ed illuminante, nella storia dei rapporti fra Pulcinella e Napoli, fra Pulcinella ed il teatro ed, in particolare, fra Pulcinella e l'attore : esso coincide con la fine del '600 e l'inizio del '700, allorché la storia dello spettacolo a Napoli si fa suggestiva misura della storia stessa della città e della sua vita culturale. Vi fiorisce un teatro di prosa dialettale, espressione di una straordinaria attenzione alla lingua ed al costume; vi nasce una ricca e fertile generazione di teatranti: teorici, drammaturghi e commediografi, librettisti, musicisti, attori e cantanti, impresari; vi si rinnovano le strutture cittadine di spettacolo: si apre il San Carlo e, all'estremo opposto del consumo sociale del teatro, il non meno nobile San Carlino; si afferma la commedia in musica, detta opera buffa, capace di espandersi ed affermarsi per l'intera Europa con caratteri che ànno fatto pensare addirittura ad una  scuola musicale napoletana '; sopratutto, il teatro rinasce, dopo esaltanti esperienze della commedia dell'arte praticata trionfalmente in Europa per tutto il '600 ed in questa prima metà del '700. La maschera à rappresentato e rappresenta tuttora la  plebe napoletana' da sempre oppressa dai vari potenti che si sono succeduti, affamata e volgare, smargiassa, codarda e dissacrante. Molti attori ànno impersonato sulla scena il personaggio di Pulcinella ma il piú famoso di tutti è stato Antonio Petito (1822 -†1876) trionfatore sul palcoscenico del San Carlino; questo Petito   nonostante fosse quasi analfabeta, à lasciato numerose commedie di grande successo che avevano come protagonista lo stesso Pulcinella. Dopo di lui, per tanti aspetti, storici, culturali e tecnici nonostante sulle scene fossero attivi altri grandi interpreti (come Salvatore De Muto(1876 † 1970) ad esempio e Gianni Crosio (di cui, purtroppo non sono stato in grado di reperire notizie biografiche)  inizia la decadenza. Pulcinella in teatro diventa un personaggio, e deve attenersi ormai ad una parte scritta, ad un copione. Privata del vivificante contatto diretto con il pubblico, la maschera assume sempre piú caratteristiche stereotipate, di genere. Solo nella strada, con le guarattelle (forma metatica di guattarelle= acquattate, nascoste), il teatro napoletano dei burattini, Pulcinella mantiene la sua forza, conservando intatta nel tempo, incredibilmente, la struttura di spettacolo originaria della Commedia all’Improvviso, e in tal forma giungendo fino ai nostri giorni.
Ribadito che  per quel che riguarda l’etimologia del nome Pulicenella  o anche Pullicenella con tipico raddoppiamento espressivo della l della sillaba tonica, occorre risalire ad un accusativo latino pullicinu(m)= pulcino variante del tardo latino pullicénu(m), con riferimento – come già detto – al naso adunco ed alla primitiva voce chioccia e pigolante usata dagli attori per dar vita alla maschera, ricorderò  che il personaggio eternato sotto il num. 75 della smorfia napoletana non è esattamente  la maschera fin qui menzionata, ma  il generico buffone, il pagliaccio o l’ uomo di nessuna personalità, quel medesimo che per traslato è detto appunto Pulicenella.
76 –‘A FUNTANA  e cioè la fontana figurazione  della vita, rappresentata dal fluire tipico dell’acqua, emblema quasi sacrale che come tale non poteva mancare nel libro dei sogni dei napoletani, da sempre attenti a tutto ciò che abbia un valore sacro; etimologicamente  è da un accusativo latino fontana(m) aqua(m)= acqua di fonte.
77 – ‘E RIÀVULE  e cioè i diavoli; e non faccia meraviglia se i napoletani abbiano accolto nel loro libro dei sogni, una figura  (il demonio) cosí tanto all’opposto  della visione sacrale che dell’esistenza ànno i partenopei; se lo ànno fatto, la cosa è avvenuto a puro scopo apotropaico nella convinzione che il considerarlo ed anzi considerarli nella loro numerosità (abbiamo infatti il plurale ‘e riavule e non il singolare ‘o riavulo) li tenesse superstiziosamente a bada  e ne allontanasse i malefici influssi; a Napoli purtroppo spesso  la superstizione e la religione vanno a braccetto dandosi  di gomito; etimologicamente ‘e riavule  che è plurale di ‘o riavulo = diavulo con tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d→r viene da un tardo latino diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabállein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'.
78 – ‘A BBELLA FIGLIOLA che ad litteram starebbe per la bella ragazza, ma per eufemistico traslato vale la prostituta  e piú chiaramente ‘a zoccola; trattandosi di chi esercita il mestiere piú antico e noto, fu quasi ovvio che entrasse a far parte del libro dei sogni partenopeo, quantunque si eufemizzassero i piú usati termini come prostituta o il piú corposo zoccola; ò già abbondantemente trattato alibi sub Meretricio e voci collegate, le voci prostituta e zoccola  e a quell’articolo rimando, limitandomi qui a dire della voce figlióla che etimologicamente  è da un accusativo latino volgare filiòla(m) per il classico  filíola(m) e ricordando che il naspoletano à però la vocale tonica del dittongo chiusa.
79 –‘ ‘O MARIUOLO  e cioè il mariolo, il ladro ed estensivamente la persona disonesta in genere anche quando non sia dedita al furto continuato; nel libro napoletano dei  sogni  che fotografa tutta la vita nelle sue manifestazioni ed accezioni non poteva mancare la figura  del mariolo che segnatamente (prima di comprendere il disonesto in genere, il furbo e truffatore)  fu quel ladro di basso profilo che a far tempo dalla fine del ‘700 ed i princípî dell’’800 operava piccoli furti di destrezza in istrada sottraendo a disattenti pedoni orologi da tasca , fazzoletti di seta e  portamonete; esistettero negli anni che ò detto addirittura delle scuole dove i mariuoli  alle prime armi prendevano scuola e si allenavano  sottraendo a dei fantocci preparati all’uopo le mercanzie ricordate, facendo attenzione  durante gli… allenamenti a non far titinnare i numerosi campanelli di cui erano forniti i pupazzi, campanelli che se avessero titinnato avrebbero dimostrato che il mariuolo  non stesse agendo con la dovuta rapidità e destrezza e pertanto avrebbe dovuto continuare ad imparare, magari sferzato dolorosamente dalla verga o dallo staffile del maestro mariuolo. Per ciò che attiene all’etimologia del termine  mariuolo non c’è uniformità di vedute; taluno si trincera dietro un etimo incerto, qualche altro prpende per un antico aggettivo francese mariol = furbacchione, qualche altro ancora lo legherebbe allo spagnolo marraio e marrullero  = imbroglione, monello; trovo invece molto interessante la scuola di pensiero che fa risalire la voce mariuolo  ad un acc. latino malevolu(m)→marevolu(m)→ marevuolo con sincope definitiva della  v donde mareuólo e mariuólo.
80 – ‘A VOCCA  si tratta ovviamente della bocca, la cavità nella parte anteriore del viso dell'uomo, delimitata dalle labbra, che è organo della respirazione, della nutrizione e della fonazione; ed è con particolare riferimento a quest’ultima funzione  che la bocca è presa in considerazione nella smorfia partenopea in quanto emblema di coloro che erano adusi a parlare  d’ogni cosa anche se  spesso a sproposito,in quanto  non avevano argomenti da esporre o pensieri da sostenere,   al segno che, per dileggio ,di costoro s’usava dire che aprissero la bocca pe ffà piglià aria â lengua: per arieggiare la lingua; a tal proposito nelle tombole familiari d’antan all’annuncio: Uttanta, ‘a vocca!, tutti i giocatori commentavano in coro: È ‘nu bbellu strumiento, volendo appunto ricordare che spesso la bocca era usata a mo’ di strumento (dal lat. instrumentu(m), deriv. di instruere disporre, costruire)   per emetter suoni senza significati. L’etimo di vocca  è pacificamente dal latinobucca(m) 'guancia', poi 'bocca' con la tipica alternanza partenopea b/v.
81 – ‘E SCIURE  e cioè i fiori  figurazione, per la loro bellezza, fragranza  e rigogliosità, come la pregressa fontana, della vita, ed in quanto tale non potevano non esser presenti nella smorfia dei partenopei, gente dallo spirito pratico, non disgiunto (a malgrado delle apparenze) da una gentilezza di fondo che fa apprezzar loro i fiori, gioiosa e gentile manifestazione di madre natura. Quanto all’etimologia  di sciore (di cui sciure è il plurale) essa  è dall’accusativo  latino  flore(m) con la tipica mutazione del gruppo latino fl  che in napoletano diventa sci , come ad es. alibi sciummo  che è da flumen, sciamma  da flamma(m)  etc.
82 – ‘A TAVULA APPARICCHIATA= il desco imbandito, la tavola colma di vettovaglie; quasi ovvio che  l’atavica fame del popolo napoletano  lo spingesse a considerare nel proprio libro dei sogni un gran tavolo imbandito al quale accostarsi per satollarsi ed ( almeno in sogno!) sconfiggere l’antica fame, figlia della miseria quotidiana; rammenterò che – purtroppo! – qualche napoletano piú giovane in luogo d’usare classicamente: ‘a tavula apparicchiata, si è lasciato frastornare dal toscano ed à preso a dire scioccamente ‘a tavula ‘mbandita o addirittura a tavula ‘mbannita ( dove ‘mbandita/’mbannita è l’evidente corruzione di imbandita vocabolo assolutamente estraneo all’ idioma  napoletano); ‘a tavula non è un generico tavolo, ma il grande (si noti  che la  parola è stata resa femminile: tavula  e non tavulo; e come vedemmo altrove un oggetto femminile è inteso piú vasto del corrispondente maschile) desco su cui si prendono i pasti  e deriva dal latino tabula(m); apparicchiata= allestita, approntata, ed anche imbandita è etimologicamente p.p. femm. del verbo basso latino ad-pariculare(donde apparic(u)lare→apparichiare/apparicchià); pariculare è un  iterativo di parare= preparare  mentre ‘mbannita  è part. passato femminile del verbo ‘mbandí inutile sistemazione dialettale dell’imbandire toscano ( che è da un in + bandire= convitare).
83 – ‘O MALETIEMPO – il cattivo tempo, quello che oscura il cielo  e mal dispone gli animi degli uomini  e non solo dei metereopatici  (specie in una città come Napoli che nell’immaginario collettivo è città di  luce ed aria, ‘o paese d’’o sole!,) uomini che mal si adattano alle cupi nubi, alle piogge noiose ed ai venti turbinosi. nubi, pioggia e vento che connotano il maltempo al margine entrato nella smorfia partenopea come paventato pericolo e come tale quasi sopportato quale simbolo di cattivo presagio; a Napoli chi aprendo la finestra al mattino, vedesse il cielo offuscato da cupe nubi, prodromiche di procellose piogge,il tutto prefigurando cattive nuove,  opererebbe súbito manovre apotropaiche con annessi inconfessabili scongiuri e – potendolo – rientrerebbe tra le coltri, temendo di affrontare una giornata sotto l’egida d’’o maletiempo che risulta etimologicamente derivato da malu ( dal latino malum=cattivo) + tiempo (lat. tempus  con dittongazione popolare).
84 – ‘A CHIESIA – la chiesa intesa però non come comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane: chiesa cattolica, ortodossa, anglicana, luterana, calvinista ma piú semplicemente come   l’edificio sacro in cui si svolgono pubblicamente gli atti di culto delle religioni cristiane, quell’edificio detto casa del Signore accostato di solito da un campanile  dal quale squillanti campane chiamano a raccolta i fedeli; un popolo profondamente religioso come è il napoletano non poteva non considerare nel suo libro dei sogni la c.d. casa del Signore, quella chiesa che è centro e fulcro della vita d’ogni quartiere partenopeo. Etimologicamente la parola chiesia/chiesa è dal  lat. ecclesia(m),che è  dal gr. ekklísía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'.
85 – LL’ ANEME D’’O PRIATORIO – e cioè le anime del purgatorio; ritorna il vasto sostrato religioso-fideistico del popolo napoletano, in forza del quale non si poteva non dare un posto nella smorfia, alle anime dei defunti che  - giusta l’insegnamento della religione cattolica, non abbiano ancora ricevuto il premio o il castigo definitivo  e siano ancóra  confinate in un luogo di purificazione dove si emendano dei residui delle colpe trascorse per essere poi chiamate, mondate e purificate, al premio finale; tali anime, benché non si possa evocarle o chiamarle, talvolta,  per permesso e volere di Dio si manifestano sia pure in sogno, spesso per chiedere preghiere e suffraggi per sé o loro simili, e talvolta per soccorrere, moralmente, ma pure praticamente, chi le invochi con speranzoso  rispetto e trasporto; il popolo napoletano  à un vero e proprio culto sacro delle anime purganti al segno che – specialmente dal popolino minuto -è d’uso avere in casa  delle piú o meno contenute statuine di terracotta dipinta raffiguranti i nudi corpi di appunto queste anime del purgatorio  avvolti in raccapriccianti lingue di rosso fuoco, quel fuoco simbolo e mezzo della purificazione; dinnanzi a dette statuine vengono accesi lumini votivi o posti piccoli fasci di fiori; in taluni antichi quartieri popolari della città vecchia, è  ancóra possibile passim imbattersi in edicole sacre dedicate  alle anime purganti la cui iconografia è fornita da statuette cosí come descritte, con l’aggiunta altresí di macabri teschi ed incroci di ossa tibiali. Quanto all’etimologia, pacifica per anema  quella latina  anima(m), connesso col gr. ánemos, mentre per priatorio pur risalendo al  lat. tardo purgatoriu(m), neutro sost. dell'agg. purgatorius, deriv. di purgare 'purgare, purificare' oltre l’evidente esito metatico non bisogna scordare un incrocio d’avio con il verbo prià = pregare da un  lat. volg. precare, per il class. precari, deriv. di prex/ precis 'prece'.
86 – ‘A PUTECA o  ‘A PUTECHELLA – la bottega o  la botteguccia, simboli della (contrariamente al vieto luogo comune che vuole il napoletano sfaticato, fannullone,ozioso e scioperato) solerte anima partenopea, quei partenopei che spesso, non avendo  piú  certa e remunerativa attività da svolgere, per poter vivere, si dedicavano e dedicano  ad improvvisati  commerci piccoli o grandi  che svolgevano e svolgono in negozi talvolta  di fortuna: ‘a puteca e se molto piccola putechella; e tale simbolo di solerzia non poteva non esser presente nella smorfia; ricorderò anzi che spessissimo i napoletani per tener dietro solertemente e senza soluzione di continuità a tali loro commercio usarono ed usano prender dimora in, sia pure, pochi vani di pertinenza del medesimo negozio dove svolgono l’attività  per modo che non sprecano tempo per portarsi di casa al luogo del lavoro e viceversa; da ciò nacque il detto: metterse ‘e casa e puteca  che significò: occupare proficuamente tutto il tempo dedicandosi ad un’attività lavorativa e/o di studio.Quanto all’etimologia la voce puteca deriva dal lat. apothéca(m), dal gr. apothékí ; in latino indicò il locale che nella domus faceva da dispensa ; mentre in greco fu in primis la farmacia  e poi estensivamente il magazzino, il ripostiglio, il negozio cosí come nel napoletano.
87 –  ‘E PERUCCHIE – letteralmente  i pidocchi  e cioè i piccoli insetti dal corpo piatto, con zampe corte e robuste, che succhiano il sangue dell'uomo vivendo da parassiti sulla testa, sul corpo o nei vestiti, ma va da sé che in quanto tali, non è pensabile che potessero esser presi in considerazione e ricordati nella smorfia sebbene fossero segno di miseria e sporcizia; rammentato allora  che, in quanto insetto, la voce perocchio di cui perucchie è il plurale  deriva da un tardo latinopeduc’lu(m), dim. di pídis 'pidocchio, dirò che il termine plurale ‘e perucchie è stato accolto nel libro dei sogni come uno dei circa sessanta sinonimi del danaro in uso nella parlata napoletana, ed in tale accezione ‘e perucchie (segnatamente il danaro quando sia poco e pertanto con limitatissima capacità di acquisizione di beni) sono una corruzione  di purchie ambedue coniati su di un antico  porchia   
nel significato di gemma, pollone, richiamante quel rigoglio della vita facilmente assimilabile alla rigogliosità che può dare il danaro.
88 – ‘E CASECAVALLE  o ‘AMMUSCIATORE – i cacicavalli o l’annoiatore; il caciocavallo è un famosissimo formaggio tipico dell'Italia merid., a pasta dura, dolce o piccante, in forme simili a grosse pere allungate, fatto con latte intero di vacca o di bufala, prodotto in altura dai casari e poi trasportato a valle legato in coppia a dorso di cavallo, donde il nome, famosissimo ed usatissimo formaggio tale da rappresentare l’emblema del buon nutrirsi (il latte è alimento principe) e perciò del ben vivere(siamo ciò che mangiamo!) ed in quanto emblema di qualcosa d’importante,  entrato nella smorfia; la tipica forma  a pera  ed il fatto che i cacicavalli siano legati a coppia  offrirono poi  il destro furbesco di farli ritenere simili ai testicoli  e poiché nell’immaginario partenopeo  chi infastidisca o annoi qualcuno gli abboffa o ll’ammoscia ‘e ppalle   e cioè gli gonfia  metaforicamente o alternativamente gli rende molli  i testicoli, ecco che i cacicavalli/testicoli   finirono per richiamare la figura dell’ ammusciatore id est: annoiatore figura ricordata con il medesimo numero ed accanto ai casecavalli di sua pertinenza. ;ricordiamo alcune etimologie delle voci meno note contenute in questa illustrazione; avendo già detto di caciocavallo,  abbiamo: abboffa voce verbale di abbuffà= gonfiare voce che quantunque recepita nel toscano è di di orig. merid.; deriv. di buffa nel sign. dial. di 'rospo; ammoscia  voce verbale di ammuscià= infastidire, annoiare, render molle  che è un denominale di muscio (lat. musteus→mustum=mosto, vino giovane e dolce e di poca forza o consistenza; ammusciatore (vedi ammuscià) = chi infastidisce, annoia o rende molle.
89 – ‘A VICCHIARELLA – la vecchina; per ciò che concerne questa penultima voce a margine, non posso che ripetere – vòlto al femminile -  ciò che, al mascile, dissi per ‘o viecchio  sotto il num. 53; il vecchietto; la vecchia o vecchina è un’ altra figura emblematica  che non poteva mancare nella smorfia dei napoletani da sempre adusi a tenere in alta considerazione chi si porti il carico di molti anni, sia che si tratti di familiari (genitori, nonni, zii) sia che ci si riferisca  ad estranei con i quali si abbia un sia pure fugace contatto di vita,   piú o meno quotidiano; il soggetto femminile ‘a vicchiarella (num. 89)   nella smorfia  non è indicato con una doppia  voce:  ‘a vecchia (la persona anziana che si trovi negli ultimi anni di vita) voce che volta al femminile  deriva da un basso latinovec’lu(m),collaterale del  class. vetulu(m), dim. di vetus 'vecchio' voce che è però molto fredda e quasi anodina,ma  solo con il piú affettuoso diminutivo ‘a vicchiarella ( diminutivo, vezzeggiativo della rammentata e non usata nella smorfia vecchia) usata piú affettuosamente per indicare l’anziano di famiglia, voce che per sottolinearne l’uso piú partecipativo viene quasi sempre accompagnata dal possessivo mio:  della propria anziana  genitrice s’usa dire infatti: ‘a vicchiariella mia!
90 – ‘A PAURA  e anche ‘A PUPULAZZIONA la paura e anche la popolazione, il popolo; siamo giunti al termine dei novanti numeri con i  principali significati usati nel libro  napoletano dei sogni: il novanta con il quale si indica la angosciosa sensazione che si prova in presenza o al pensiero di un pericolo vero o immaginato; sensazione che va sotto il nome di paura e che,  essendo uno delle piú ricorrenti percezioni del vivere umano occupò un preciso posto nella smorfia  e le fu assegnato il numero piú grande possibile, per modo che potesse quasi indicare la grande scossa che quella senzazione fastidiosa provoca nell’animo umano; accanto alla paura, sotto il medesimo numero altissimo trova posto la figurazione della pupulazzione cioè a dire la popolazione intesa però non come il complesso degli abitanti di un luogo, quanto piú circoscrittamente ‘o popolo  e cioè il complesso degli abitanti di un quartiere o di  un rione soprattutto quando partecipanti insieme alla vita sociale in manifestazioni ludiche, religiose ed affini; trattandosi di una moltitudine apparve corretto assegnare ad essa un numero grandissimo: il novanta appunto sebbene  esso fosse già di pertinenza della paura. Concludiamo  con illustrare l’origine delle parole in esame: paura= paura, timore; lemma rifatto sull’acc. latino pavóre(m)  attraverso un tardo pavura(m) voce che in talune zone della città vecchia è ancora usata senza sincope della v: pavura e non paura ritenuta troppo toscana; pupulazzione = popolazione, popolo che è da un accusativo tardo latino populatione(m) derivato di populu(m).
     Raffaele Bracale
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