lunedì 13 agosto 2012

‘A ZÒZA

‘A ZÒZA Con il vocabolo in epigrafe il napoletano indica varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti, vengon da costoro rifiutati e definiti zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo sapore, approntate contro tossi e febbri da volenterosi semplicisti : farmacisti/ erboristi così chiamati in quanto venditori di preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino a giungere all’offensivo: sî ‘na zòza totalizzante offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante. Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco:oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva. Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto >sucidus > per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata neutra, poi sentita femminile sucia =cose sporche, sudice. In realtà la parola napoletana è molto più recente rispetto al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzù - chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutì d’un colpo. L’intento di Maria Carolina fu quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzù d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartù (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana) con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono la salsa gallica storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate. Ciònonpertanto il titolo di monzù attecchì fino a diventare la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi. Divenne quasi come un titolo onorifico, tanto ambito che - così come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo preferì ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo. Raffaele Bracale

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