sabato 28 febbraio 2015

VARIE 15/135

1.‘ A PRIMMA SCHIAVUTTELLA, ‘A SICONNA SIGNURINELLA Letteralmente: La prima (considerata) serva, la seconda (considerata) signorinella, cioè padroncina. Locuzione usata per sottolineare l’ingiusto comportamento di chi (soprattutto genitore) usi due pesi e due misure nei confronti dei proprî sottoposti (piú spesso) figlioli, considerandone uno alla stregua di servo/a ed un altro/a alla stregua di padroncino/a meritevole d’essere esentato da ogni lavoro, e d’essere anzi addirittura fatto oggetto di riverenza,ossequio,riguardo; schiavuttella s.vo f.le diminutivo (cfr. il suff. ella) di schiavotta = serva, ragazza di servizio; ragazza di carnagione scura; voce denominale di schiavo dal lat. mediev. sclavu(m), slavu(m), propr. '(prigioniero di guerra) slavo'; semanticamente da riferirsi al fatto che gli schiavi erano spesso in genere di carnagione scura; da sottolineare che nell’espressione in esame esiste il voluto contrasto tra una ragazza di carnagione scura intesa perciò serva, ragazza di servizio ed una ragazza probabilmente di incarnato chiaro intesa perciò piú delicata, garbata, educata, sensibile, signorile insomma piú padrona, che serva! 2.ADDÓ VAJE CU ‘O SCIARABBALLO, DICETTE ‘O CICENIELLO ‘NFACCI’ Ô SCUNCIGLIO. Letteralmente: Disse l’avannotto al murice: Dove vai con il (tuo)carretto?! Espressione usata per contestare al prepotente la sua azione fatta di sopraffazione, abuso, sopruso, angheria, ingiustizia, violenza e rammentargli che neppure all’arrogante è consentito eccedere ad libitum nel suo improprio vessatorio comportamento, senza aspettarsi una reazione (per piccola che sia) da parte del vessato tanto è vero che persino il piccolissimo avannotto redarguí lo spinoso murice (che intendeva, con la sua mole, sottrargli spazio vitale...); addó/aró = cong. ed avverbio di luogo che usato genericamente vale dove oppure mentre, invece (con valore avversativo); usato nelle interrogative vale dove, in quale luogo? usato nelle esclamative vale proprio là dove! ; etimologicamente da un latino de ubi con successivo rafforzamento popolare attraverso un ad del de d’avvio; la forma aró con rotacizzazione osco-mediterranea della l'occlusiva dentale sonora (d) e passaggio a scempia dell’originaria doppia ( derivante dall’ ad+de), è forma popolare del parlato, mentre la forma addó è d’uso letterario; vaje voce verbale (2ª persona sg. ind. pr.) dell’infinito jí (dal lat. ire) mentre per le forme a margine dell’ind. presente ci si serve del basso latino *vadere/vadicare (con sincope dell’intera sillaba de/di) e si ottiene : i’ vaco,tu vaje, isso va, mentre per 1ª e 2ª pers. pl. si usa il tema di ji –re e si ànno nuje jammo, vuje jate per tornare a *va(di)c-are per la 3ª ps. pl che è lloro vanno. cu preposizione semplice che corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; 2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme; 3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino; 4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ; 5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!; 6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio impossibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Faccio notare che questo cu comporta sempre per assimilazione regressiva il raddoppiamento dell’iniziale consonante scempia della parola successiva; es.: cu(-m) te→cu tte = “con te” - cu(-m) piacere→cu ppiacere; ovviamente ciò non vale quando la parola che segue il cu sia già provvista di suo di una doppia consonante; es.: cu(-m) stanchezza etc. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, sedicenti esperti della parlata napoletana. sciarabballo s.vo m.le = carro rustico aperto con sedili per trasporto di passeggieri, usato soprattutto in provincia in sostituzione delle carrozze (vetture passeggieri riparate da un soffitto e da cortine di stoffa) ; qui iperbolicamente riferito alla grossa spinosa conchiglia del murice ; voce dal fr. char a bancs ; ‘nfacci’ ô locuzione prepositiva articolata: ad litteram in faccia ad il/lo ma piú in breve al. Al proposito rammento che nel napoletano, cosí come nell’italiano, le locuzioni articolate formate con preposizioni improprie ànno tutte una forma scissa, mantenendo separati gli articoli dalle preposizioni e mentre nell’italiano s’usa far seguire alla preposizione impropria il solo articolo, nel napoletano occorre aggiungere alla preposizione impropria non il solo articolo, ma la preposizione articolata formata con la preposizione semplice a ( ad es. nell’italiano si à: sotto il tavolo, ma nel napoletano si esige sotto al tavolo e ciò per riprodurre correttamente il pensiero di chi mentalmente articola in napoletano e non in italiano). Tanto premesso annoto altresí che mentre in italiano la gran parte delle preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli sg. e pl. con le preposizioni semplici, ànno una forma agglutinata, nel napoletano ciò non avviene che per una o due preposizioni semplici, tutte le altre si rendono con la forma scissa mantenendo cioè separati gli articoli dalle preposizioni. Passiamo ad elencare dunque le preposizioni articolate cosí come rese in italiano e poi in napoletano: con la preposizione a in italiano si ànno al = a+il, allo/a= a+lo/la alle = a+ le agli = a+ gli (ma è bruttissimo e personalmente non l’uso mai preferendogli la forma scissa a gli!) in napoletano si ànno le medesime preposizioni articolate formate dall’unione degli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione a, unione che produce una preposizione articolata di tipo agglutinata resa graficamente con particolari forme contratte (crasi): â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le); con la preposizione di in italiano si ànno del = di+il, dello/a= di+lo/la delle = di+ le, degli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione de (=di), produce una preposizione articolata di forma rigorosamente scissa o tutt’al piú apostrofata: de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e; con la preposizione da in italiano si ànno dal = da+il, dallo/a= da+lo/la dalle = da+ le, dagli = di+ gli; in napoletano le analoghe preposizioni formate dagli articoli ‘o (lo/il), ‘a (la) ‘e (i/gli/le) con la preposizione da talora anche ‘a (=da), produce una preposizione articolata di forma normalmente scissa e spessa apostrofata: da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e ma come ognuno vede la forma apostrofata (quantunque usatissima) presta il fianco alla confusione con le preposizioni articolate formate con la preposizione de (=di), e d’acchito è impossibile distinguere tra de ‘o→d’’o, de ‘a→d’’a, de ‘e→d’’e e da ‘o→d’’o, da ‘a→d’’a, da ‘e→d’’e e bisogna far ricorso al contesto per chiarirsi le idee; ò dunque proposto d’usare una forma affatto diversa per le preposizione napoletane da + ‘o→dô = dal, da+ ‘a→dâ = dalla, da+ ‘e→dê = dagli/dalle, forma che eliminando l’apostrofo e facendo ricorso alla medesima contrazione (crasi) usata per le preposizioni articolate formate con la preposizione a consente di evitare la deprecabile confusione cui accennavo precedentemente. . Rammento che nel napoletano è usata spessissimo una locuzione articolata che con riferimento il moto a luogo rende i dal/dallo – dalla – dalle – dagli dell’italiano ; essa è (la trascrivo cosí come s’usa generalmente fare,ma a mio avviso erroneamente in quanto non ricostruibile nei suoi elementi costitutivi) essa è add’’o/add’’a/add’ ‘e es.: è gghiuto add’ ‘o zio(è andato dallo zio) è gghiuta add’ ‘a nonna, add’ ‘e pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; francamente non si capisce da cosa sia generato quel add’ né si comprenderebbe il motivo dell’agglutinazione della preposizione a con la successiva da→dd’; a mio avviso è piú corretta e qui la propugno: a ddô/ a ddâ/ a ddê per cui sempre ad es. avremo: è gghiuto a ddô zio(è andato dallo zio) è gghiuta a ddâ nonna, a ddê pariente (è andata dalla nonna, dai parenti);; rammento tuttavia di non confondere a ddô con l’omofono addó←addo(ve) = dove, laddove che è un avverbio e cong. subord. che introduce proposizioni avversative, relative, interrogative dirette ed indirette. Nel nostro caso la locuzione prepositiva è formata da un sostativo (faccia) con protesi agglutinata di un in→’n (illativo) sino ad ottenere un ‘nfaccia che unito alle crasi â = a+ ‘a (a+ la), ô = a + ‘o (a+ il/lo), ê = a + ‘e (a + i/gli oppure a+ le) dà volta a volta ‘nfacci’ ô, ‘nfacci’ â‘nfacci’ ê e cioè in faccia al/allo oppure soltanto asl/allo, oppure in faccia alla oppure soltanto alla, oppure in faccia alle/ a gli. scunciglio/sconciglio. s.vo m.le in primis disordine, guasto, confusione ; per traslato uomo piccolo e deforme ed infine come nel caso che ci occupa voce regionale campana usata per indicare il murice, mollusco gasteropodo marino con grossa conchiglia spinosa avvolta a spira, da cui gli antichi estraevano la porpora. Etimologicamente deverbale di sconciglià/scunciglià = confondere,disordinare (dal lat. ex-conciliare→sconciliare→sconciglià/scunciglià).Il collegamento semantico tra il verbo ed il s.vo inteso murice si coglie osservando che la grossa conchiglia spinosa avvolta a spira del mollusco à forma disordinata, imprevista, fortuita, casuale. ciceniello s.vo m.le voce regionale campana usata per indicare il novellame dei pesci (bianchetti/avannotti) ; quanto all’ etimo penso che esso vada cercato piú che nel latino “caecella” = anguillina, come per un certo tempo pensai, ma altrove e cioè che si tratti molto probabilmente di un diminutivo (eniello/e) derivato dal lat. caec(um) atteso che il novellame che è molto piccolo si presume cieco. 3. VECCHIA ‘A PANZA S’ARREPECCHIA : ‘A CHITARRA ‘UN SONA CCHIÚ. Letteralmente: alla vecchia la pancia (le) si affloscia e raggrinzisce e la (sua) chitarra non suona piú. Id est: una donna vecchia perde l’avvenenza delle forme; la pancia, (come il seno) pèrdono di tonicità, afflosciandosi e conseguenzialmente le vengono rifiutati ed a mancare i piaceri del sesso (che ad una persona vecchia, non piú formosa od attraente, si negano). Nell’espressione in esame la voce chitarra (dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. che normalmente indica un noto strumento musicale a corde,provvisto di cassa armonica formata da due tavole (di cui la superiore con foro centrale, détto rosa) unite da una fascia, di paletta con meccanica per tender le corde) è usata per indicare furbescamente la vulva femminile, semanticamente richiamata dalla rosa/foro centrale, ed inteso quale strumento di piacere ; in tale medesima accezione la voce chitarra la si ritrova nella smorfia napoletana che al numero 67 fa corrispondere l’espressione ‘o totaro dint’ â chitarra letteralmente: il totano nella chitarra, e ci si trova davanti ad una figurazione dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire←cu(m) +ire ='andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra con il foro della rosa; quanto all’etimologia abbiamo: totaro deriv. del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro. arrepecchia voce verbale 3ª pers. sg. ind. pres. dell’infinito arrepicchià = in primis rappezzare, accomodare alla meglio, estensivamente come nel caso che ci occupa aggrinzare,afflosciare; voce denominale di ad+ repecchia→arrepecchia rafforzativo di repecchia attestata altresí con lettura metatetica rechieppa s.vo f.le = grinza, piega,ruga (dal lat. rappicula→rapicla →repecchia). 4.SI 'O GALLO CACAVA, COCÒ NUN MUREVA. Letteralmente: Se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto. La locuzione la si oppone sarcasticamente, a chi si ostina a mettere in relazione di causa ed effetto due situazioni chiaramente incongruenti, a chi insomma continui a fare ragionamenti privi di conseguenzialità logica.Va da sé che nella fattispecie dell’espressione in esame non vi sia, né possa esservi alcun nesso di relazione tra il fatto che se il gallo avesse defecato, Cocò non sarebbe morto ; e ciò perché chi sia sia o fosse fosse quel non meglio identificato Cocò, la sua vita non può dipedere dalle funzioni fisiologiche di un gallo a meno che quel Cocò non fosse il nome del gallo medesimo affetto da una pericolosa stipsi. Ma in queste icastiche espressioni non v’è mai una razionalità tanto stringata ! 5.CAMMENÀ CU ‘A CARROZZA D’ ’O SCARPARIELLO Letteralmente: Incedere con la carrozza del ciabattino; id est: usare come carrozza quella fornita dal ciabattino, e cioè le proprie scarpe, marciando a piedi. Espressione usata a divertita chiosa del comportamento di chi non perché salutista, ma perché parsimonioso al massimo,quasi avaro, pur di risparmiare i pochi soldi per servirsi di una carrozza per il trasporto pubblico, si rassegni a marciar a piedi. carrozza s.vo f.le 1 vettura a quattro ruote, con chiusura a cabina o a mantice, trainata da uno o piú cavalli, per il trasporto di persone. DIM. carrozzella/carruzzella, 2 vagone ferroviario per il trasporto di persone: carrozza di prima, di seconda classe | carrozza letto, provvista di cuccette | carrozza ristorante, dove si servono i pasti | carrozza ristoro, dove si fa servizio di bar 3 mozzarella ‘ncarrozza, specialità della cucina napoletana costituita da due fette di pane senza crosta ripiene di mozzarella,bagnate nel latte, infarinate, intinte nell'uovo e poi fritte. etimologicamente carrozza è voce dallo spagnolo carroza marcata su di un lat. barbarico *carrocea affine al cl. carrus; scarpariello s.vo m.le diminutivo (cfr. suff. iello) di scarparo s.vo m.le letteralmente non è il ciabattino, colui che accomoda le scarpe rotte (costui, in corretto napoletano è ‘o solachianiello ), ma è il fabbricante di scarpe,in linea con l’etimologia del termine scarparo che è dal portoghese-spagnolo escarpa con l’aggiunta di un suffisso di attinenza arius→ aro di reminescenza latina; da quanto détto se ne ricava che la locuzione piú acconciamente potrebbe esser resa con Cammenà cu ‘a carrozza d’ ’o solachianiello (ciabattino) e non Cammenà cu ‘a carrozza d’ ’o scarpariello il (giovane fabbricante di scarpe). 6.CARNEVALE MIO, SI SAPEVO CA MURIVE, T’ABBUFFAVO ‘E SSCORZE ‘E LUPINE Lettaralmente: Carnevale mio, se avessi saputo che saresti morto ti avrei nutrito di cocce di lupini (piuttosto che di gustose e costose pietanze, quali lasagne ripiene,polpette e/o brasciole di manzo o di cotiche di maiale al ragú (che sono i tipici cibi con cui si imbandiscono le tavole prima dell’inizio della quaresima) che non ài apprezzato sino in fondo e di cui non m’ài ringraziato!). Espressione sarcastica usata nei confronti di chi beneficiato di gratuiti aiuti e/o provvidenze dal proprio prossimo,non li apprezzi a sufficienza o addirittura si mostri ingrato ed irriconoscente; a siffatti individui ci si riferisce con la frase in esame per bollarli di ingratitudine, irriconoscenza e d’essere volutamente immemori, dimentici, tal quale il Carnevale che nutricato di costose e gustose pietanze nell’ultimo dí delle sue feste (martedí grasso), mostra di non giovarsene appieno ed ugualmente decede per dare spazio alla quaresima (mercoledí delle ceneri); Carnevale s.vo m.le 1 periodo dell'anno che va dall'epifania all'inizio della quaresima; in partic., l'ultima settimana di questo periodo, dedicata tradizionalmente ai divertimenti e alle feste mascherate: veglione di carnevale | bruciare il carnevale, dar fuoco al fantoccio che lo rappresenta; (fig.) terminare la festa | prov. : a, di carnevale ogni scherzo vale, durante il carnevale tutto è lecito 2 (estens.) l'insieme delle feste, delle manifestazioni organizzate durante il carnevale: il carnevale di Venezia, di Viareggio. DIM. carnevaletto, carnevalino ACCR. carnevalone 3(estens.) la maschera che rappresenta quelle feste; 4 (fig.) tempo di spasso e di allegria; chiasso, confusione | carnevalata, pagliacciata. voce derivata a mio avviso piú che (come opinano i piú) da carne levare, perché dopo tale periodo cominciava l'astinenza quaresimale, dall’espressione esclamativa latina carne(m) vale! = ti saluto carne! e ciò sempre perché dopo tale periodo cominciava quello quaresimale e la carne per quaranta giorni era bandita dalla mensa; abbuffavo voce verbale (1ª pers. sg. imperf. ind.)dell’infinito abbuffà = gonfiare, dilatare, ingrossare, allargare, enfiare satollare; etimologicamente deriva quale denominale da un latino ad +bufo→adbufo→abbufo→abbuffo= farsi gonfio come un rospo (lat. bufo/onis). scorze s.vo f.le pl. di scorza = buccia, guscio, baccello, involucro, tegumento ma anche corteccia d’albero, pelle, spoglia di serpente e nel caso che ci occupa valva vuota di mitili e/o molluschi ; etimologicamente dal lat. scortea(m) 'veste di pelle', s.vo dell'agg. scorteus, deriv. di scortum 'pelle'; lupine s.vo m.le pl. di lupino nome regionale (alibi longone) d’ un tipo di mollusco bivalve affine alla vongola verace, ma piú piccolo, di colore piú chiaro e sprovvisto di sifoni ; il nome gli deriva dall’esser simile per forma al seme del lupino (dal lat. lupinu(m), agg. deriv. di lupus 'lupo'; propr. 'erba dei lupi') pianta erbacea che produce semi gialli che bolliti e salati sono commestibili, (fam. Leguminose). 7. CAZZE, CAZZILLE E SS’ ’O TRUVAJE PICCERILLO Détto di chi eternamente indeciso/a, incerto/a, dubbioso/a, esitante, tentennante, irresoluto/a,insicuro/a procrastini indefinitamente le sue scelte o decisioni finendo per fare o prendere quelle meno esatte o utili; nella fattispecie lo si dice sarcasticamente di una donna che incerta o incontentabile, dopo d’aver indagato lungamente fra varî tipi di uomini finí per scegliere il meno provvisto di quell’attributo maschile inteso come emblema di forza, intelligenza e capacità. cazze s.vo m.le pl. di cazzo s.vo m.le 1 (come nel caso che ci occupa)membro virile, pene; 2 (fig.) imbecille, persona sciocca, minchiona. testa di cazzo, accr. cazzone 3 (fig.) nulla, niente: nun valé, nun capí, nun cumbinà ‘nu cazzo (non valere, non capire, non combinarenulla) | usato come rafforzativo spreg. in locuzioni negative: sono guarito... in grazia dell'aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti (LEOPARDI Lettere) 4 pl. (fig.) casi, fatti propri di qualcuno: nun se fa maje ‘e cazze suĵe( non si fa mai i fatti suoi) || 5 Usato come inter. per esprimere stupore, ira, dispetto e sim. etimologicamente da una voce gergale marinaresca greca akatiòn→(a)katiòn→cazzo= albero della nave; cazzille s.vo m.le pl diminutivo della voce precedente (cfr. il suff. ille pl. di illo) truvaje voce verbale (3ªpers. sg. pass. remoto)dell’infinito truvà =trovare, ma anche e qui imbattersi in;forse da un lat. volg. *tropare,(esprimersi per tropi, che fu il modo tipico dei trovatori) dal class. tropus 'tropo'(qualsiasi uso linguistico che trasferisca una parola dal significato suo proprio ad un altro figurato; traslato: la metafora, la metonimia, la sineddoche, l'antifrasi, l'iperbole sono tropi ); ma preferisco pensare che l'etimo sia dal lat. volg. *truare propriamente rimestare in un brodo quasi andando alla ricerca di qualcosa; tipico del napoletano la epentesi eufonica di una consonante (qui v) donde *truare→truvare ; piccerillo/rella s.vo ed agg.vo m.le o f.le piccolino, minuto scarso, esiguo; sparuto limitato, leggero,modesto; etimologicamente voce derivata da un lemma fonosimbolico pikk (donde anche l’italiano: piccino) con ampliamento della base attraverso rillo/rella(piccerillo/piccerella) o altrove reniello/renella (piccereniello/piccerenella). 8.CCA SOTTO NUN CE CHIOVE! (JEVANO DICENNO ‘E PISCE SOTT’ACQUA...) Ad litteram: Qui sotto non ci piove(dicevano i pesci sott’acqua) L’espressione, pronunciata tenendo puntato il dito indice della mano destra ben teso contro il palmo rovesciato della mano sinistra, viene usata, a mo’ di risentito avvertimento , nei confronti di chi - dopo di aver promesso un aiuto o una liberalità - sia venuto meno clamorosamente a quanto promesso; e ciò nell’intento di fargli capire che non si è piú disposti a sopportare una simile mancanza di parola data e, per converso, si è pronti secondo un noto principio partenopeo che statuisce: fa’ comme t’è ffatto ca nun è peccato (comportati con gli altri come gli altri si sono comportati con te, ché non peccherai…) a restituire pan per focaccia; rammento che l’espressione originaria è quella fuori parentesi, espressione che da sola è significativa e sostanzia l’intendimento vendicativo di chi la pronuncia ; la parte tra parentesi è aggiunta a mo’ di spiegazione che però non dà,ed è perciò inutile e pletorica e non significativa ed infatti nell’uso comune non viene pronunciata! In effetti sott’acqua è ben difficile cogliere gli effetti di una eventuale semplice pioggia che non sia uragano o temporale violento ed è del tutto ovvio che un pesce che nuoti sott’acqua possa affermare che lí sotto non ci piova, ma ciò non offre il destro di cogliere il significato dell’avvertimento lanciato stringatamente con il semplice Cca sotto nun ce chiove! (Qui sotto non ci piove!). cca ( e non ca)avv = qui, in. questo luogo; vale l’italiano qua; etimologicamente dal lat. (e)cc(um) (h)a(c); da notare che nell’idioma napoletano (cosí come in italiano il qua corrispettivo) l’avverbio a margine va scritto senza alcun segno diacritico trattandosi di monosillabo che non ingenera confusione con altri; nel napoletano esistono , per vero, una congiunzione ed un pronome ca = (che), pronome e congiunzione (ambedue dal lat. quia→q(ui)a→qa→ca che però si rendono con la c iniziale scempia, laddove l’avverbio a margine è scritto sempre con la c iniziale geminata ( cca) e basta ciò ad evitar confusione tra i due monosillabi e non necessita accentare l’avverbio, cosa che – invece – purtroppo capita di vedere negli scritti di taluni sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura usa scrivere l’avverbio a margine cca’(con un inutile segno d’apocope…, inutile giacché non è caduta alcuna sillaba!) e talora addirittura ccà’ addizionando errore ad errore, aggiungendo (nel caso di ccà’) cioè al già inutile accento un pleonastico segno (‘) d’apocope atteso che, ripeto, non v’è alcuna sillaba finale che sia caduta e che vada segnata con il segno diacritico! In coda a quanto fin qui détto, mi occorre però aggiungere un’ultima osservazione: è vero che gli antichi vocabolaristi (P.P. Volpi, R. Andreoli) registrarono l’avverbio a margine come cà per distinguerlo dai due omofoni ca (che) pronome e congiunzione. Si trattava d’una grafia erronea, giustificata forse dal fatto che temporibus illis lo studio della linguistica era ancóra gli albori e quei vocabolaristi, meritorî peraltro per il corposo tentativo operato nel registrare puntigliosamente i lemmi della parlata napoletana, non erano né informati, né precisi. Ancóra tra gli antichi vocabolaristi devo segnalare il caso del peraltro preziosissimo Raffaele D’Ambra che, diligentemente riprendendo l’autentica parlata popolare registrò sí l’avverbio a margine con la c iniziale geminata (cca) ma lo forní d’un inutile accento (ccà) forse lasciandosi fuorviare dal cà registrato dai suoi omologhi. Dal tempo però dei varî P.P. Volpi, R. Andreoli e Raffaele D’Ambra la linguistica e lo studio delle etimologie à fatto enormi passi per cui se mi sento di perdonare a Raffaele D’Ambra,P.P. Volpi, R. Andreoli e ad altri talune imprecisioni o strafalcioni, non mi sento di perdonarli a taluni spocchiosi sedicenti e/o acclamati scrittori/autori partenopei, dei quali qualcuno addirittura cattedratico d’ateneo , colpevolmente a digiuno di regole linguistiche, (quando non sai una cosa, insegnala!) che si abbandonano a fantasiose, erronee soluzioni grafiche! sotto avv. di luogo (dal lat. subtus, avv. deriv. di suªb 'sotto'); nun avv. di negazione(dal lat. non) = non ; talvolta viene aferizzato in ‘un o apocopata in nu da rendersi nu’ per evitarne la confusione con l’omofono ‘nu (un, uno) che conviene sempre fornire del segno (‘) d’aferesi e ciò in barba a troppi moderni addetti e non addetti ai lavori partenopei per i quali è improvvidamente invalso il malvezzo di rendere l’articolo indeterminativo maschile nu senza alcun segno diacritico alla medesima stregua dell’articolo indeterminativo femminile ‘na che è reso na senza alcun segno diacritico, quasi che il segnare in avvio di parola un piccolo segno (‘) comportasse gran dispendio di energie o appesantisse la pagina scritta, laddove invece,il non segnarlo, a mio avviso, è segno di sciatteria, pressappochismo dello scrittore (si chiami pure Di Giacomo, Eduardo,Nicolardi etc.)Del resto non è inutile ricordare che tanti (troppi!) autori napoletani, anche famosi e/o famosissimi non poterono avvalersi di adeguati supporti grammaticali e/o sintattici del napoletano, supporti che erano inesistenti del tutto ed i pochissimi esistenti (Galiani, Oliva) erano malamente diffusi, né potevano far testo, vergati com’erano da addetti ai lavori non autenticamente napoletani e pertanto, spesso imprecisi e impreparati. Ancóra ricordiamo che moltissimi autori furono istintivi e spesso mancavano del tutto di adeguata preparazione scolastica (cfr. V.Russo), altri avevano studiato poco e male e quelli che invece avevano adeguata preparazione scolastica (cfr. Di Giacomo, F. Russo, e. Nicolardi etc. spessissimo usarono maldestramente adattare le nozioni grammaticali-sintattiche dell’italiano al napoletano che invece non è mai tributaria dell’italiano essendo linguaggio affatto originale e diretto discendente del latino parlato. chiove = piove voce verbale impersonale ind.pr. dell’infinito chiovere = piovere ; (dal lat. tardo plovere, per il class. pluere) normale il passaggio del digramma latino pl seguito da vocale al napoletano chi (cfr. chiummo←plumbeu(m) - chiazza←platea – chieja← plica(m)). 9.CHESTA È ‘A SCÒLA ‘E DONNA PEPPA Letteralmente:questa è la scuola di donna Peppa! Id est: questo è un luogo dove regna il caos, il chiasso, l’insubordinazione, il disordine, l’eccesso, l’intemperanza e la sfrenatezza rumorose; détto ironicamente di luoghi e/o situazioni dove regnino frastuono, fracasso, baccano, rumore, trambusto, putiferio, schiamazzo, strepito, canizza, chiassata, gazzarra quasi che fosse stato preso a modello il comportamento rumoroso, chiassoso normalmente tenuto dal pubblico plebeo volgare, grossolano, rozzo, incivile di quel teatro popolare (aperto nel 1826) sito in via Marina, adiacente la Porta di Massa, poco discosto dalla Chiesa del Carmine di piazza Mercato, comunemente chiamato ‘a puteca ‘e Donna Peppa ( che era la famosa donna Maria Giuseppa Errico (Napoli, 1792-† ivi 1867), , moglie di Salvatore Petito e mamma del famosissimo Antonio – Totonno Petito),teatro dove il pubblico dei lazzaroni notoriamente interloquiva con rumorosa sfrenatezza di gesti e di gergo con gli attori nel corso della rappresentazione.Nella espressione in esame quel teatro/puteca (bottega) è détto ironicamente scòla (scuola) in quanto modello, fonte di cattivo insegnamento. 9. Bis La medesima Donna Peppa ( cioè la famosissima donna Maria Giuseppa Errico (Napoli, 1792-† ivi 1867), , moglie di Salvatore Petito e mamma del celeberrimo Antonio – Totonno Petito), accreditata di essere donna insofferente, intollerante e nervosa per i modi spicci e sbrigativi con cui affrontava il facinoroso pubblico di adulti e di minori del suo teatro/puteca, viene chiamata in causa nelle icastiche espressioni 1) DONNA PEPPA, TUTTO LLE FÈTE SOTT’Ô NASO o alternativamente 2) DONNA PEPPA,LLE DÀNNO ‘MPICCIO ‘E PILE ‘INT’Ô NASO, espressioni che ad litteram valgono 1)Donna Peppa, le pute tutto sotto il naso!, 2)Donna Peppa, le sono di fastidio i peli nel naso!, espressioni alternativamente usate a dileggio,soprattutto di donne, ma talora anche di uomini, che si mostrino intolleranti, insofferenti, impazienti, smaniose/i anche in presenza delle piú lievi seccature o di risibili intralci, tal quali la mamma di Totonno Petito. 10. DICETTE 'A SIÉ CHICHIERCHIA: 'A PRURENZIA NUN È MMAJE SUPERCHIA! Disse la signora Chichierchia: la prudenza non è mai eccessiva Id est: è buona norma usare sempre molta prudenza. Con il termine chichierchia , normalmente,nell’idioma napoletano (con etimo da un acc.vo latino cicercula(m) dim.vo di cicer) si identifica la cicerchia, povero, ma gustoso legume cosí povero da essere usato spesso quale mangime del bestiame; qui se ne è fatto, per rimare con la parola superchia, un nome proprio e lo si è assegnato ad una fantomatica signora sulla cui bocca è posto il wellerismo. prurenzia s.vo f.le astr. = prudenza Dal lat. prudentia(m)→prudenzia/prurenzia, deriv. di prudens -entis 'prudente'; del latino la voce napoletana conserva piú acconciamente rispetto alla corrispondente voce italiana, la i etimologica della sillaba finale; superchia agg. femm. metafonetico del masch. supierchio = eccessivo, eccedente con etimo dal lat. *superculum; rammenterò che il masch. supierchio diventa neutro nella forma ‘o ssupierchio usato per indicare tutto ciò che eccede o sopravanza. sié = signora forma apocopata, (ma accentata per indicare l’esatta pronuncia) di una ricostruita voce francese femminilizzata e metatetica da seigneur→ sei-gneuse→sie(gneuse). 11.CHI ‘NFRUCE, NUN LUCE! Chi conserva,affastella, mette via e da parte,non riluce. Détto di chi troppo parsimonioso quando non avaro è abituato a conservare piuttosto che a spendere ed a far cicolare il proprio danaro; di costui si afferma che con il suo comportamento non può risplendere cioè fare bella figura e farsi notare, restando nell’anonimato dell’avarizia, nel buio della tirchieria, taccagneria, pitoccheria: va da sé infatti che anche l’oro, se nascosto, non può splendere! ‘nfruce voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito ‘nfrúcere = stipare, calcare,conservare, ammassare, stivare, assembrare, metter da parte, ammucchiare; luce voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito lúcere = in primis splendere, emanar luce; per traslato risaltare, imporsi, emergere, distinguersi, eccellere, primeggiare 12.CHI STENNERE SE VO’ CCHIÚ ‘E CHELLO CH’È LLUONGO ‘O LENZÚLO, MOSTA APPRIMMA ‘E PIERE E DOPPO PURE ‘O CULO. Chi vuole distendersi piú di quanto sia lungo il lenzuolo, finisce per scoprir dapprima i piedi e poi anche il sedere. Id est: Chi improvvidamente vuol fare il passo piú lungo della gamba è destinato a fine ingloriosa; chi eccede le proprie possibilità operative, vuoi per ridotte capacità mentali e/o fisiche, vuoi per insufficienza di mezzi è destinato all’insuccesso anche vergognoso. lenzúlo s.vo m.le s. m. [pl.m.le ‘e lenzule con riferimento a piú teli, che si stendono sul letto e fra i quali si giace; anche pl.f.le ‘e llenzòla, con riferimento al paio che si stende sul letto] = lenzuolo; la voce in esame è etimologicamente dal lat. linteolu(m) 'pannolino', dim. di linteum, neutro sost. dell'agg. linteus 'di lino'; linteolu(m)→ lint(e)olu(m)→lentulu(m)→lenzulo mosta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito mustà = 1 far vedere, sottoporre alla vista o all'attenzione di altri,esibire; etimologicamente dal lat. monstrare, deriv. di monstrum; propr. 'indicare il volere divino'; monstrare→ mo(n)strare→ mo(n)st(r)are→ mustare/mustà. 13.CHI TÈNE ‘A LENGUA VA ‘NSARDEGNA. Ad litteram: a)chi à lingua (cioè sa parlare) arriva in Sardegna, ma anche b)chi parla troppo finisce in Sardegna. Locuzione, come si vede,che può avere una doppia valenza o interpretazione: quella sub a) fa riferimento al comportamento di chi abbia padronanza di eloquio e non disdegni di richiedere informazioni che possano aiutarlo a raggiungere la Sardegna , regione ritenuta, temporibus illis, molto lontana e difficile da raggiungere; la valenza sub b) si riferisce invece a chi sia troppo linguacciuto al segno di mancare di rispetto, a mo’ di esempio, ad un suo superiore, che può punirlo trasferendolo in Sardegna , terra ritenuta inospitale oltreché lontana. léngua/lénga s.vo f.le in doppia morfologia = lingua ; rammento che la voce a margine (dal lat. lingua(m)→lengua(m) e poi per semplificazione espressiva del dittongo ua→a lenga) à prodottodalla forma lenga il s.vo f.le lengorïata ampia sgridata,estesa rampogna, durevole strigliata, verbosa paternale con finalità educative ; si tratta d’un’ antica e desueta voce derivata come ò détto dal s.vo lenga/lengua con riferimento semantico alla lunga articolazione della lingua di chi procedesse a tale ampia sgridata,estesa rampogna, durevole strigliata, verbosa paternale. 14.CUMMÒGLIAME ‘STU PIETTO CA ‘STU CULO ME STA SCUPIERTO Coprimi il petto poiché ò il sedere scoperto.... Espressione sarcastica messa sulla bocca di una donna svampita ed irrazionale che benché iperbolicamente inceda con il fondoschiena scoperto chiede che le si copra il seno. Con la medesima espressione si commenta ironicamente il comportamento irragionevole di chiunque sciocco , presuntuoso e sprovveduto invece di occuparsi in maniera corretta conseguente e logica di un bisogno (non rendendosi conto delle reali necessità derivanti da una situazione in corso d’opera) attende a problemi succedanei o incongruenti con il bisogno de quo. pietto s.vo m.le = petto, le mammelle della donna, il seno, la parte anteriore del tronco umano, compresa tra il collo e l'addome; voce dal lat. pectŭ(s) con dittongazione della e intesa breve ed assimilazione regressiva ct→tt; scupierto part. pass. aggettivato dell’infinito scuprí = scoprire, denudare, mostrare, esporre ( dal lat.s (distrattiva) +cooperire, comp. di cum 'con' e operire 'coprire, occultare'. 15.DALLE E DALLE ‘O CUCUZZIELLO ADDEVENTA TALLO. Letteralmente: Dagli e dagli la zucchina diventa tallo.Id est: ad insistere sempre sulla medesima questione si finisce male come a cogliere zucchine continuamente, della pianta non ne restano che le foglie. Il tallo è la foglia commestibile delle cucurbitacee, ma pure essendo edibile è sempre meno pregiata della zucchina che già di suo non è molto saporita. cucuzziello s.vo m.le tallo s.vo m.le in generale complesso dellefoglie degli ortaggi, corpo delle piante inferiori, non differenziato in radice, fusto e foglie, germoglio,talea qui segnatamente della pianta di zucchine; voce dal lat. thallu(m), dal gr. thallós 'germoglio', deriv. di thállein 'fiorire'. 16.D’ ’E DENARE D’ ’O CARUCCHIARO SE NE VEDE BBENE ‘O SCIAMPAGNONE Del danaro (messo da parte e lasciato in eredità) dall’avaro, ne gode(l’erede) scialacquatore. Icastica espressione che fotografa una realtà incontrovertibile quella cioé che un soggetto parsimonioso, risparmiatore, economo, parco, misurato,semplice, sobrio, frugale per non dire avaro, il piú delle volte à come erede e beneficiario delle fortune accantonate poco per volta[in napoletano: a ccarocchie a ccarocchie donde carucchiaro] uno sciupone, sprecone, spendaccione, dissipatore che provvederà a dilapidare i beni accumulati dal suo dante causa. Estensivamente l’espressione si attaglia a tutte quelle situazioni in cui esista un soggetto prudente, lungimirante, avveduto, cauto, accorto, sagace, preveggente che veda le sue fatiche rese vane dal comportamento imprevidente, imprudente, avventato, sconsiderato, incauto, malaccorto d’un suo collaboratore, sodale, amico, figlio o parente. carucchiaro/a agg.vo e s.vo m.le o f.le tirchio/a, spilorcio/a, taccagno/a,avaro/a, pitocco/a; voce etimologicamente derivata dal s.vo carocchia addizionato del suff. di pertinenza aro/a dal lat arius/ara→arus/ara; la carocchia s.vo f.le di per sé è il nocchino,un piccolo colpo secco, ma doloroso assestato al capo e portato con movimento veloce dall’alto verso il basso con le nocche maggiori delle dita della mano serrata a pugno. Etimologicamente non dal lat. crotalum che indica la nacchera, strumento musicale e non tipo di percossa…,ma dal greco karà=testa attraverso un lat. regionale *caròclu(m) ed il plurale reso femm. caròcla (tipica la mutazione cl in ch come in clausu(m) che diventa chiuso) ; questo s.vo si collega semanticamente alla voce che identifica il/la tirchio/a, spilorcio/a, taccagno/a,avaro/a, pitocco/a perché questi ultimi fanno le proprie fortune mettendo da parte soldo a soldo quasi a piccoli colpetti consecutivi quali sono i nocchini/carocchie. sciampagnone/a agg.vo e s.vo m.le o f.le generoso/a, prodigo/a, munifico/a; spendaccione/a sciupone/a, sprecone/a, spendaccione/a, dissipatore/trice; 17.DICETTE ‘A FIGLIOLA QUANN’’O VEDETTE : “’AZZÓ, E CCHE BBELLU CAPITONE SENZA RECCHIE!” La ragazza che lo vide (la prima volta)disse: “Accidenti che bel capitone privo d’orecchie!” Espressione icastica e furbesca che però non à alcuno intento né proverbiale, né didascalico come invece molte delle locuzioni popolari napoletane. Questa si limita a riportare un salace accostamento messo sulla bocca di un’ignota ragazza che vedendo la prima volta un membro maschile in erezione lo paragonò ad un capitone, cioè alla famosa anguilla femmina di grosse dimensioni, pregiata per le sue carni, che è cibo tradizionale delle feste di Natale, ma precisò che si trattava di un capitone privo d’orecchie; in effetti il capitone e cioè la grossa anguilla femmina, regina delle napoletane tavole di magro della vigilia di Natale, allorché viene ammannito arrostito alla brace, in carpione, in umido, all’agro o fritto à una morfologia particolare e la sua grossa testa appare fornita di due minuscole appendici laterali traslucide, volgarmente détte orecchie ; rammento che la voce capitone etimologicamente è dall’accusativo latino capitone(m) da capito/onis collaterale di caput/tis in quanto oltre il corpo à una testa molto pronunciata; rammenterò che nelle tombole familiari quando si estraesse il num. 32 chi lo estraeva annunciava trionfante: trentaroje ‘o capitone!,ma súbito chiosava: cu ‘e rrecchie volendo significare che si intendeva riferire proprio alla grossa anguilla provvista ai lati del capo di due piccole, trasparenti appendici ritenute orecchie, e non intendeva, col dire capitone, riferirsi ad altro furbesco richiamo non ittico, di appendice maschile spesso ricordata con la voce: ‘o capitone senza recchie (il capitone privo d’orecchie). ‘azzó! esclamazione costituita attraverso l’uso aferizzato e con spostamento d’accento sulla seconda sillaba(per marcarne il tono esclamativo) del s.vo cazzo→’azzó ; come ò già ricordato (cfr. antea sub 7.) il s.vo cazzo è usato come inter., come in questo caso, per esprimere stupore, ira, dispetto e sim. Talora ed alibi sempre come esclamazione si usa la morfologia ‘azze!, ma trovo piú corposo e forse eufemistico l’uso di ‘azzó! Etimologicamente da una voce gergale marinaresca greca akatiòn→(a)katiòn→cazzo= albero della nave. 18.È ACQUA CA NUN LEVA SETE! È acqua che non disseta! Lo si dice in senso di malcelato rammarico quando si ricevano provvidenze sia materiali (paga, salario, compenso, rimunerazione,... eredità) che morali ( dimostrazioni di affetto,bene, attaccamento, affezione, amore) notevolmente inferiori a quelle attese e/o sperate. 19.FARNE TUTTE CICERENNAMMUOLLO Farne soltanto moine smancerie, vezzi, leziosaggini Lo si dice con profondo senso di amarezza a commento delle azioni prive di risultati pratici di coloro che chiesti o invitati a conferire il loro fattivo contributo ad una causa comune si limitano a blandizie e smancerie (tipiche degli innamorati) che riempiono gli occhi di fumo , ma non ànno sostanza! In effetti con il s.vo m.le pl. cicerennammuolle si intendono le svenevolezze, i vezzi, le leziosaggini proprie degli innamorati tutte cose che mancano di essenza, fondamento, nocciolo, succo, sugo, in uno di consistenza reale e pratica; etimologicamente il termine cicerennammuolle è l’incrocio tra cicerefuoglio e l’aggettivo muolle con epentesi sillabica di raccordo nna; rammento che il cerfoglio(lat. caerefolium) in nap. cerefuoglio o cecerefuoglio→ cicerefuoglio indica oltre che la pianta delle ombrellifere anche gli sgorbi fatti a caso con penne e/o matite sui fogli di carta ed ancóra i vezzi, le moine, le sdolcinature, tutte cose che semanticamente posson ricondursi anche alle bizzarríe,alle stranezze bizzose nonché alle minuzie e/o sciocchezze; 20. ‘E FFÉMMENE ‘E CASANOVA PISCIANO ‘NTERRA E DÍCENO CA CHIOVE Le meretrici orinano in terra e dicono che piove. Icastica antica espressione che fotografa una realtà incontrovertibile quale quella delle meretrici che ànno l’abitudine (dettata da necessità) di mingere per istrada (sul ... posto di lavoro) e di scusarsi (con chi dovesse redarguirle di questa pratica invetereta) accampando scuse e dicendo che esse non ànno colpa in quanto il bagnato della strada lo si deve alla pioggia e non al loro orinare. L’espressione è usata in senso esteso per sarcasticamente commentare il vigliacco comportamento di chi codardo , ignobile, abietto, sistematicamente evita di assumersi le responsabilità delle proprie azioni e la scarica su altri o sulla fatalità dell’esistenza umana. ‘e ffémmene ‘e Casanova =ad litteram le donne di Casanova ma da leggersi come: le sacerdotesse d’amore è locuzione nominale usata in luogo di uno dei tanti sinonimi napoletani di prostitute, meretrici, etc. (cfr. alibi sub Meretricio): fémmene s.vo f.le pl. di fémmena s.vo. f.le1 nome generico di ogni individuo umano o animale portatore di gameti femminili atti a essere fecondati da quelli maschili, e quindi caratterizzato dalla capacità di partorire figli o deporre uova; 2 essere umano di sesso femminile; donna, bambina ( vocedall’acc. latino foemina(m) = femmina, donna)con tipico raddoppiamento espressivo popolare della postonica m in parole sdrucciole). Casanova Giovanni Giacomo. – Dissoluto avventuriero, donnaiolo, gran tombeur de femmes (Venezia 1725 -† Dux, Boemia, 1798); figlio di attori, presto orfano di padre ed affidato dalla madre (Giovanna Maria C., detta Zanetta) alla nonna materna, fu studente a Padova, chierico a Venezia e in Calabria, segretario del cardinale P. Acquaviva a Roma, soldato dell'armata veneta in Oriente, violinista dal 1746 nel teatro S. Samuele a Venezia. Accolto come figlio dal senatore M. G. Bragadin, nel 1750 riprese la sua vita randagia attraverso la Francia, Dresda, Praga e Vienna, finché, tornato a Venezia nel luglio 1755, fu rinchiuso nei Piombi sotto l'accusa d'aver tentato di diffondere la massoneria. Evaso, tornò in Francia, ove introdusse il gioco del lotto nel 1757, e, sotto il nome di cavaliere di Seingalt, fu in Olanda, Germania, Svizzera, Italia, Polonia, Russia, seducendo donne, giocando, battendosi a duello, esercitando la magia, speculando sui valori pubblici e facendo perfino il confidente degli inquisitori di stato di Venezia. Finí la sua vita come segretario e bibliotecario del conte C. G. di Waldstein. Attivo, energico, intraprendente, il C. fu un avventuriero anche della penna e scrisse, tra l'altro, la Confutazione della storia del governo veneto di A. de la Houssaie (1769), la Storia delle turbolenze della Polonia (1774), una traduzione, incompleta, in ottava rima dell'Iliade (1775), l'opuscolo Scrutinio del libro: Eloges de M. de Voltaire par differens auteurs (1779), il romanzo Icosameron (1788); ma la sua notorietà è dovuta soprattutto alla drammatica narrazione dell'evasione dai Piombi (Histoire de ma fuite, 1788) e ai fantasiosi e licenziosi Mémoires, sostanzialmente veridici quanto alla rappresentazione della società di gaudenti e intriganti del Settecento. Stucchevole, ma forse veritiera, invece, la rappresentazione di sé stesso quale genio della seduzione. pisciano = mingono, orinano voce verbale (3ª pers.pl. ind. pres.)dell’infinito piscià = orinare, mingere (dal latino pitissare→pi(ti)ssare→pissare→pisciare→piscia(re)→piscià. 21.È UNO CA NUN FA CARTE È uno che (non intende) fare le carte; È uno che (non intende) distribuire le carte; Espressione che prendendo il la dai giochi fatti con le carte in cui per regola è previsto che ciscun giocatore distribuisca le carte cominciando la distribuzione secondo i tipi di giochi o dalla sua dritta o dalla mancina e finendo per essere l’ultimo a calare in tavolo le sue carte. Nel caso dell’espressione ci si riferisce a chi per arroganza, prepotenza e/o – ma meno spesso – per semplice indolenza non intende in alcun modo distribuire le carte e cioè non vuole assumersi le proprie responsabilità tentando in ogni modo di sfruttare le situazioni traendone i benefici senza aver conferito la propria fattiva partecipazione all’azione comune. 22.È PROPETO ‘NA SCOLA CAVAJOLA È proprio una scuola cavajola! Con tale icastica espressione esclamativa, della medesima portata di quella precedente che chiamava in causa la bottega di donna Peppa ormai non ci si riferisce ad una vera e propria scuola, ma a tutte quelle situazioni caotiche dove regnino chiasso,insubordinazione,disordine, frastuono, fracasso, baccano addizionati di negligenza, svogliatezza, menefreghismo, sciatteria, indolenza, noncuranza L’espressione molto datata nacque prendendo spunto e modello da alcune particolari opere teatrali, détte Farse cavaiole: farse nate nel Napoletano sulla fine del sec. XV e fiorite nel XVI; erano scritte in versi, in una lingua piena di espressioni dialettali, e rappresentava scene di vita popolare; fu insomma un genere drammatico popolare, caratterizzato dal ricorso a frottole o gliuommeri di endecasillabi, per lo piú con rima al mezzo.Furono denominate farse cavaiole per il loro prendere ad oggetto di beffa l’ingenuità e/o la rozzezza degli abitanti di Cava dei Tirreni.; scaturirono dalla penna d’ un tal prolifico Vincenzo Braca (Salerno 1566 - †Cava dei Tirreni, dopo il 1614), autore teatrale che raccolse e redasse per iscritto, sceneggiandole e aggiungendone di proprie, le satire che tradizionalmente erano diffuse, fra i salernitani, contro i vicini abitanti di Cava; cosa che rese ancor piú sentiti e profondi i vecchi rancori fra le due città, esponendo personalmente il Braca, per questo feroce accanimento denigratorio, all’odio dei cavesi. E pare che proprio da cavesi, o per loro istigazione, il Braca venne assassinato. La sua opera, comunque, ci pervenne in due manoscritti, di cui il piú interessante è, senza dubbio quello dal titolo“La farsa cavajola de la scola” o “de lo mastro de scola”. E, facendo riferimento a questa farsa, Benedetto Croce ebbe a scrivere: «Anche ora, si chiama a Napoli “scola cavajola” una scuola in cui tutto va alla peggio, con maestri inetti e scolari asini e indisciplinati».Dunque in origine con il termine “scola cavajola” ci si intese riferire ad un’autentica scuola come nell’opera del Braca; successivamente il termine “scola cavajola” fu inteso in senso estensivo con riferimento, come ò detto, ad ogni ambiente e situazione non solo caotici, ma improntati al peggior funzionamento per demerito di persone incapaci, incompetenti, inesperte nonché svogliate pigre, negligenti, sfaticate, e scansafatiche. gliuommere/i s.vom.le plurale metafonetico di gliommero che di per sé è il gomitolo con etimo dall’acc. latino glomere(m) con probabile metaplasmo nel passaggio da un originario neutro glomus al maschile glomere(m); il significato originario di gomitolo si è poi esteso ed è traslato a quello di peculio, come di ricchezze accumulate; in chiave letteraria come nel caso che ci occupa la voce gliommero fu usata per indicare alcuni endecasillabi non particolarmente fluidi e/o scorrevoli con complesse rime al mezzo; sempre in chiave letteraria, la voce venne pure usata per intitolare alcuni suoi componimenti poetici, non aulici, ma popolareschi da Jacopo Sannazaro ( nacque a Napoli nel 1456 e, tranne una breve parentesi in cui seguì nell'esilio l'amico Federico III d'Aragona, lì visse fino alla morte, avvenuta nei 1530. Discendente da una nobile famiglia oriunda della Lomellina, trascorse la fanciullezza e l’adolescenza a San Cipriano Piacentino, portando poi a lungo in sé la suggestione bucolica ed agreste di quell’ambiente. Entrato nell’Accademia pontaniana, dove assunse lo pseudonimo diActius Syncerus, si legò d’amicizia col Pontano (Cerreto di Spoleto [Perugia] 1429 † Napoli 1503), che a lui intitolò il dialogo Actius, sulla poesia. Il Sannazaro fu colto umanista e poeta raffinato. Ci à lasciato numerose opere in lingua latina ed in volgare. Fra le prime ricorderò le "Bucoliche", di ispirazione virgiliana, le "Eclogae piscatoriae" (5 composizioni che descrivono il golfo di Napoli), le "Elegie" in tre libri, il poema sacro "De partu Virginis"; fra quelle in volgare ricordo, appunto, gli "Gliommeri" (= "gomitoli",componimenti poetici di origine popolare in napoletano e destinato alla recitazione in forma di monologo; costituito di endecasillabi a rima interna, intrecciava motti, frizzi e argomenti vari tra cui filastrocche di proverbi napoletani ed altri varî argomenti popolari), le "Farse" e le "Rime" (ad imitazione del Petrarca)); 23.È RRUMMASO ‘O ZUCO D’ ’E VALLÈNE È avanzato (solo) la broda delle castagne lesse. Icastica espressione usata figuratamente a rammaricato commento di situazioni in cui regni la massima penuria di mezzi e/o miseria. Fu espressione esclamativa rivolta dai genitori ai loro figlioli perché recedessero da esose, continue richieste di beni e/o danaro e si rendessero conto che era inutile insistere con petizioni di provvidenze in quanto con i mezzi familiarî ridotti al lumicino non era possibile aderire alle loro pretese. Il concreto zuco d’ ‘e vallene (broda delle castagne lesse) (qui figuratamente usato per indicare le ultime sostanze nella disponibilità d’ una famiglia) è l’acqua di bollitura (addizionata di foglie d’alloro, semi di finocchi e sale) delle castagne che private del riccio e della prima corteccia vengon lessate in un grosso paiolo, portato in giro su di un trespolo (montato su di un piccolo pianale di legno provvisto di ruote), trespolo che insiste su di un fornello a carbone che tiene a lento continuo bollore la broda; le castagne lesse vengon poi vendute al minuto in numero contato raccolte in cartoccetti conici (cuoppe) sino ad un primo esaurimento (infatti spesso il/venditore/trice di queste castagne lesse, esaurita la prima quantità di castagne provvede illico et immediate alla bollitura di altre castagne versandole nel medesimo brodo residuo riutilizzato per non eleminare con l’acqua anche gli odori); queste castagne bollite che una volta private della pellicina vengon consumate addizionate di zucchero o poco sale, vengon détte in napoletano alternativamente allesse o vallene: allesse s.vo f.le plur. di allessa= castagna privata del riccio e della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità in quanto nulla osta al passaggio che riporto elixare→alissare→allissare→allessare e da quest’ultimo il part. pass allessato/a→allessa(to/a)→allessa; vàllene/vàllane s.vo f.le plur. del m.le vàlleno/vàllano= marrone, varietà di castagna piú grossa e pregiata della normale castagna ; come questa privata del riccio e della dura scorza esterna e lessata in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio ; voce derivata dall’acc.vo lat. bàlanu(m), con tipica alternanza partenopea b/v e raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (l), tipico nel tipo di parole sdrucciole (cfr. còllera←cholera(m); quando le castagne siano bollite private del riccio, ma non della buccia dura vengon piú acconciamente détte bballuotte (voce derivata con gran probabilità dall'ar. ballut 'ghianda');a margine della voce in esame rammento una gustosa, antica espressione popolare usata sarcasticamente quando ci si voglia riferire alla pochezza di mezzi economici conferiti per il raggiungimento di uno scopo; quando quei mezzi siano molto esigui s’usa dire: Aeh, ce accatte ‘o ssale p’’e vallane! (Eh,ci copri il sale per le castagne bollite); cuoppo s.vo m.le questa voce napoletana cuoppo non può esser resa con un solo vocabolo nella lingua nazionale e ciò per il motivo che nell’idioma napoletano la voce cuoppo indica piú cose e queste nell’italiano ànno volta a volta nomi del tutto differenti tra di loro. In primis nel napoletano con la voce cuoppo s.vo m.le si indica una particolare piccola rete da pesca a forma di cono, legata a un cerchio di legno o di ferro sostenuto da una lunga asta con cui viene manovrata; tale rete è detta in italiano, quale adattamento della voce napoletana, coppo; con la medesima voce cuoppo s.vo m.le si indica una piccola tegola curva, leggermente conica, usata, in disposizione a file parallele, per coperture di tetti; anche tale tegola è detta in italiano, ancóra per adattamento della voce napoletana, coppo; con la medesima voce cuoppo s.vo m.le in napoletano si indica uno dei due piatti della bilancia, segnatamente quello di forma concava, in cui di solito vien messa la merce da pesare; in questo caso però l’italiano non accoglie il suggerimento napoletano e preferisce usare il s,vo piattello; ugualmente la voce napoletana non viene piú accolta per adattamento nell’italiano allorché si tratti di indicare, come nel caso che ci occupa, un involucro, un cartoccio, piú o meno grosso di forma conica atto a contenere alcunché; in effetti quello che nel napoletano è pur sempre ‘o cuoppo e – se piccolo - cuppetiello in italiano diventa volta a volta: involucro, cartoccio, involto, pacco, pacchetto, fagotto tutte voci che non fanno alcun riferimento, come sarebbe giusto che fosse, alla forma dell’involucro (cosa che invece è espressa dal napoletano cuoppo= involto di forma conica ), ma si riferisce spesso al materiale dell’involto: cartoccio←carta , pacco←olandese pak(balla di lana) etc. Giunti a questo punto conviene fare un piccolo riepilogo e dire che il s.vo m.le napoletano cuoppo può indicare: una rete da pesca, un embrice semicilindrico, un piatto di bilancia ed un cartoccio conico; quanto all’etimo cuoppo è da un lat. *cŏppu(m)→cuoppo forma resa maschile e dittongata del tardo lat. f.le *cŏppa(m)→cupa(m) per il class. cupa(m)= botte,semanticamente raccostati per la comunanza funzionale, sebbene non di forma, del concetto di capienza e ricezione;al proposito rammento che nel napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella. Nella fattispecie la cuppa(m) è certamente piú grande d’un cartoccio per cui cŏppa(m)f.le deve divenire *cŏppu(m)→cuoppo maschile. A margine di tutto quanto fin qui détto mi piace rammentare alcune icastiche espressioni del napoletano dove la fa da protagonista il s.vo cuoppo; e comincio con l’epiteto cuoppo ‘allesse! (cartoccio di castagne lesse!); inteso tale cartoccio bagnato e macchiato (la buccia interna delle castagne lesse tinge di scuro la carta con cui si confeziona il cartoccio!) lo si pensa quindi lercio, sporco e tali sono ritenute le donnaccole cui è riferito l’epiteto; allesse plur. di allessa= castagna privata della dura scorza esterna e bollita in acqua con aggiunta di foglie d’alloro e semi di finocchio derivata dal part. pass. femm. del tardo lat. elixare 'far cuocere nell'acqua, sebbene qualcuno proponga un tardo lat. *ad-lessa(m) ma non ne vedo la necessità; e rammentiamo l’espressione cuoppo d’acene ‘e pepe anzi piú precisamente cuppetiello d’acene ‘e pepe (cartoccetto di pepe) espressione usata in riferimento ad uomini di statura eccessivamente minuta e di corporatura esile, come piccoli e contenuti erano i cartoccetti usati dai droghieri per vendere al minuto le piccole bacche sferiche, nere, di forte aroma,della pianta del pepe, bacche usate intere o macinate come condimento; trattandosi di una spezie d’importazione ed abbastanza costosa, non erano ipotizzabili – per la sua vendita al minuto – cartocci grossi, cuoppi voluminosi (come quelli usati per vendere castagne lesse o altre merci commestibili quali frutta, pesce fresco etc.), ma solo cartoccetti piccoli; per cui non cuoppi, ma cuppetielle! Rammento adesso un significativo proverbio/scioglilingua che è: A cuoppo cupo pocu ppepe cape.che tradotto è: Nel cartoccetto conico stretto entra poco pepe. in realtà piú che di un proverbio si tratta di uno scioglilingua giocato sulle assonanze delle varie parole, ma che nasconde un’osservazione disincantata della realtà e cioè che chi è stretto perché pieno, sazio non può riempirsi di piú(e ciò sia in senso positivo che negativo posto che chi sia già tanto pieno, saziato di doti positive morali e/o di cultura, difficilmente potrà migliorarsi, come per converso chi sia cosí tanto sprovvisto di moralità e/o cultura difficilmente potrà aver modo di evolversi in meglio stante le ristrettezze morali del suo io che non gli consentiranno l’aggiunta d’alcunché); l’agg.vo m.le napoletano cupo non corrisponde all’italiano cupo che vale 1 profondo, molto incassato: pozzo cupo; valle cupa ' (region.) fondo, concavo: piatto cupo 2 (fig.) riferito a stati d'animo o sentimenti negativi, profondo, radicato: odio, rancore cupo; un cupo dolore | impenetrabile, tetro, malinconico: carattere, volto cupo | sinistramente ambiguo, misterioso: cupe minacce; ma in napoletano vale in primis: stretto, angusto, limitato e solo estensivamente buio, tenebroso, e detto di suono: cupo, basso, sordo. Ed in chiusura rammento un’altra icastica locuzione partenopea che suona: Piglià ‘o cuoppo ‘aulive p’’o campanaro ‘o Carmene (confondere il cartoccio conico contenente le olive con il campanile del Carmine Maggiore),locuzione usata per prendersi sarcasticamente beffe di qualcuno incorso in un madornale quiproquò, la medesima d’un non meglio identificato individuo macchiatosi della confusione iperbolica ed impensabile di scambiare un contenuto cartoccio con un campanile, non potendosi mai paragonare un piccolo cartocetto, sia pure conico con lo svettante e massiccio campanile del Carmine Maggiore campanile adiacente l’omonima basilica napoletana fatta erigere a partire dal 1301 con le elargizioni di Elisabetta di Baviera (Landshut, 1227 –† Greifenburg, 9 ottobre 1273), madre di Corradino di Svevia e con le sovvenzioni di Margherita di Borgogna (Eudes di Borgogna 1250 - †Tonnere 4 settembre 1308) , seconda moglie di Carlo I d’Angiò (21 marzo 1226 –† Foggia, 7 gennaio 1285); il campanile tirato su dall’architetto Giovan Giacomo di Conforto (Napoli, 1569 – †Napoli, 1630) e dal frate domenicano fra’Vincenzo Nuvolo(al secolo Giuseppe Nuvolo:Napoli, 1570– †Napoli,1643) che lo coronò con la cella ottagonale e la cuspide a pera carmosina, è uno dei monumenti piú famosi e riconoscibili della città partenopea. 24.FÀ ‘NA REVERENZIA CU ‘A PALA. soprattutto nell’espressione Te faccio ‘na reverenzia cu ‘a pala! Fare una riverenza con la pala. Espressione minacciosa ed ironica nata in ambito contadino allorché i lavoranti la terra del signorotto erano soliti inchinarsi al passaggio di costui stringendo sempre nelle mani lo strumento del loro lavoro, nella fattispecie una vanga, quasi a significare che essi erano sempre pronti a servirsene come mezzo d’offesa vendicativa qualora quel loro padrone li avesse maltrattati o vessati. Dall’àmbito rurale l’espressione passò poi ad avere una valenza piú generale e venne usata ad avvertimento e monito nei confronti di chiunque si comportasse in maniera oppressiva per significargli che si era pronti alla ritorsione. reverenzia s.vo f.le in primis riverenza, inchino (per traslato) deferenza, ossequio, riguardo; voce dritto per dritto dal lat. reverentia(m), deriv. di reverens -entis 'riverente' cu preposizione semplice che corrisponde all’italiano con in tutte le sue funzioni ed accezioni : 1) esprime relazione di compagnia, se è seguito da un nome che indica essere animato (può essere rafforzato da insieme): è partito cu ‘o pato ; à magnato cu ll’ amice; campa (‘nzieme) cu ‘a sora; se ne jeva passianno cu ‘o cane ; 2) in senso piú generico, introduce il termine cui si riferisce una qualsiasi relazione: s’è appiccecato cu ‘o frato; à sfugato cu mme; 3) con valore propriamente modale: restà cu ll’uocchie nchiuse; vulé bbene cu tutto ‘o cuore; trattà cu ‘e guante gialle( cioè con rispetto e dedizione quelli dovuti ai nobili che usavano indossare guanti di camoscio in tinta chiara) | con valore tra modale e di qualità: pasta cu ‘e ssarde; stanza cu ‘o bbagno; casa cu ‘o ciardino; 4) introduce una determinazione di mezzo o di strumento: cu ‘a bbona vulontà s’ave tutto; ‘o vino se fa cu ll'uva; scrivere cu ‘a penna stilografica; partí cu ‘o treno ; 5) indica una circostanza, stabilendo un rapporto di concomitanza: nun ascí cu ll’acqua!; 6) può avere valore concessivo o avversativo, assumendo il significato di 'non ostante,a malgrado': cu tutte ‘e guaje ca tène, riesce ancòra a ridere; cu tutta ‘a bbona vulontà, ma è proprio ‘mpussibbile. L’etimo della preposizione a margine è dal lat. cum. Rammento qui e valga anche a futura memoria che tutte le parole che abbiano un etimo da voce latina terminante per consonante (che nella parola formata cade) non necessitano di alcun segno diacritico in quanto il segno diacritico dell’apocope (accento o apostrofo) è necessario apporlo graficamente quando a cadere sia una sillaba e non una o due consonanti; nel caso in esame cum dà cu e non l’inesatto cu’ che spesso mi è occorso di trovare negli scritti anche di famosi autori, accreditati da qualcuno (ma evidentemente a torto) d’essere esperti della parlata napoletana, autori che invece ànno spesso marcato o marcano erroneamente il loro napoletano sulla sintassi e la grammatica dell’italiano Ciò che ò appena detto vale anche per la preposizione seguente cioè pe che (con etimo dal lat. per) corrisponde all’italiano per in tutte le sue funzioni ed accezioni. pala s.vo f.le 1in primis pala, vanga; 2 (per traslato) qualsiasi attrezzo d’uso contadino; 3 (per ampiamento semantico) utensile di legno di varie dimensioni usato da fornai e/o pizzaioli per infornare e poi prelevar dal forno pane e/o pizze; rammento che dal s.vo pala in questa terza accezione se ne ricavarono i nomi indicanti alcune pezzature di pane: palatone, palata e palatella: ‘o palatone è il grosso filone di ca 2 kg., bastevole al fabbisogno giornaliero di una famiglia numerosa, il suo nome gli derivò dal fatto che un tempo, al momento di infornarlo, detto filone occupava quasi per intero la lunga pala usata alla bisogna; la palata è invece il filone il cui peso non eccede 1 kg.(ma in origine fu di 28 once cioè ca 680 grammi e poi al tempo della rivoluzione di Masaniello(7 - 16 luglio 1647), fu portata a 36 once di poco superiore cioè al peso di 1 kg.) ed occupava la metà della pala per infornare; un quarto o meno della pala occupano le cosiddette palatelle (piccoli filoncini da 500 o 250 gr.); altri nomi della pezzatura del pane esulano dal riferimento alla pala : ‘o paniello o ‘a panella (etimologicamente dal latino panis + i suffissi di genere iello o ella ); per ambedue si tratta di un’ampia pagnotta rotondeggiante di ca 1 kg.; cocchia che(con derivazione dal lat. cop(u)la(m)→cocchia), sta per coppia in quanto in origine fu un tipo di pane formato da due palatelle accostate ed unite al momento della lievitazione e poi cosí infornate; in seguito pur mantenendo la pezzatura di 1 kg. corrispondente al peso di due palatelle accoppiate, la cocchia prese una sua forma diversa: un po’ piú larga, piú schiacciata e meno lunga della palata. Un’ altra pezzatura ormai scomparsa, ma che fu prodotta sino alla fine del 1600 fu la cosiddetta ciampetella ( voce diminutiva di cianfa/ciampa varianti di zampa tutte dal long. zanka)ed il nome derivò a questa pezzatura di pane croccante di circa 4 etti per il fatto d’avere la forma d’ un ferro di cavallo (in nap. cianfa). 25.FÀ ‘O SECUTASORICE Fare il perseguita-sorci, comportarsi da gatto. Détto sarcasticamente di chi sleale, falso ed infido sia incline al tradimento, alla fellonía,mostrandosi in ogni occasione votato al voltafaccia, all’infedeltà, all’inganno, all’imbroglio, alla slealtà, falsità, doppiezza, ipocrisia comportandosi ad un dipresso cosí come il gatto che degli animali domestici al contrario del cane, è quello che offre minori garanzie di fedeltà, attaccamento, lealtà ed è pronto a tradire ed ingannare anche il padrone che lo abbia benificato.Il s.vo m.le e f.le secutasorice è stato coniato per rendere icasticamente la voce gatto aduso ad inseguire i topi per catturali; secutasorice s.vo m.le e f.le = gatto; la voce è etimologicamente il risultato dell’agglutinazione del s.vo m.le sorice con la voce verbale secuta: secuta voce verbale (3ª pers. sg. ind. pres.) dell’infinito secutà = inseguire, rincorrere; seguire, incalzare, braccare, ma anche tallonare, pedinare etimologicamente da un lat. volg. *secutare frequentativo di sequi; sorice s.vo m.le = sorcio, topo domestico etimologicamente da un acc.vo lat. sorice(m) di sorex-soricis. 26.FÀ N’ ASCIUTA ‘E QUARTA Antica icastica espressione che si traduce ad litteram:Fare un’uscita di quarta ma che sarebbe piú opportuno rendere (e chiarirò il perché) con Fare un’uscita da quarta. Si tratta in ogni caso di un’espressione che può avere una doppia valenza a seconda del significato che si attribuisce al sostantivo sottinteso di quarta. E mi spiego;nel caso che con il termine quarta si intenda: quarta fila di palchi, l’espressione significa assumere un atteggiamento esagerato eccedente, enorme, spropositato commisurato alle situazioni in cui ci si trovi coinvolti ; in questo caso l’espressione trae origine dal linguaggio teatrale; quando infatti, in una rappresentazione teatrale, un attore sortito dalle quinte fa il suo ingresso in iscena in maniera eclatante, senza controllare il proprio volume di voce, anzi quasi gridando al segno di poter essere tranquillamente percepito sin nei palchi di quarta fila(situati molto lontano dal palcoscenico ed in alto appena al di sotto del loggione che è la parte piú elevata del teatro, sopra gli ordini dei palchi, dove sono i posti di minor prezzo); in tal caso si dice che l’attore à fatto un’uscita di quarta. Nel caso invece che con il termine quarta si intenda: quarta posizione, l’espressione significa assumere un atteggiamento adirato, arrabbiato, sovraeccitato quasi avvertendo una pericolosa tensione dei nervi,prodromica di reazioni anche violente.; in questo caso l’espressione trae origine dal linguaggio sportivo e precisamente da quello della scherma; infatti nel linguaggio dello schermidore chi si trovi o si ponga in quarta posizione è in una posizione di difesa, ma tesa ed irritata, premonitrice di un possibile attacco con tutte le conseguenze che ne derivano.Piú comunemente, in questa seconda accezione s’usa l’espressione stà ‘nquartato stare inquartato cioè in quarta posizione che è di difesa, ma di preparazione ad un attacco. asciuta s.vo f.le uscita, sortita, (di un attore sulla scena) apparizione, comparsa; etimologicamente part. pass. f.le sostantivato dell’infinito ascire/ascí = uscire che è dal tardo lat. abexire→*a-(be)xire→assire→ascire; quarta s.vo o agg.vo f.le 1 la quarta classe di un corso di studi: la quarta elementare 2 la quarta parte della circonferenza dell'orizzonte 3 (mar.) la trentaduesima parte della rosa dei venti, pari a 11ª 15' 4 (mus.) intervallo di quattro gradi della scala diatonica 5 nei cambi di velocità di autoveicoli e motoveicoli, la quarta marcia: ‘ngranà ‘a quarta(innestare la quarta) | partí ‘nquarta(partire in quarta), (fig.) intraprendere qualcosa con baldanza, con irruenza 6 la quarta fila delle poltrone o dei palchi in teatro, 7una delle posizioni di guardia della scherma; anche, una posizione della danza classica, 8 (dir.) nel diritto romano, quarta parte dell'eredità del marito che spettava alla vedova priva di dote; voce marcata al femminile dal lat. quartu(m), corradicale di quattuor 'quattro' 27. ASCÍ 'A VOCCA Ê CANE E FERNÍ 'MMOCCA Ê LUPE Ad litteram: scampare alla bocca dei cani e finire in quella dei lupi. Maniera un po' piú drammatica di rendere l'italiano: cader dalla padella nella brace: essere azzannati da un cane è cosa bruttissima, ma finire nella bocca ben piú vorace di un lupo, è cosa ben peggiore. 28.JÍ ASCIANNO PAGLIA PE CIENTO CAVALLE Volere paglia per cento cavalli Id est Accampare pretese enormi, fare richieste esorbitanti che con tutta probabilità non potranno mai essere soddisfatte; Espressione di contrarietà estrema riferita a commento del comportamento di persone esose, avide, ingorde quando non voraci o insaziabili; l’espressione è usata a fronte di una richiesta evidentemente spropositata ; l’origine di détta locuzione risale a diversi secoli addietro, quando il possesso di un cavallo era simbolo di notevole abbienza economica, sia per il costo dell’animale che per la dispendiosità delle quotidiane cure che il quadrupede necessitava ; va da sé ed è evidentissimo quindi che, se già il mantenimento di un solo cavallo era un onere che pochissimi potevano affrontare, pensare di mantenerne cento era assolutamente impensabile, tanto elevato era il patrimonio che sarebbe necessitato, ed ancóra piú impensabile il fare richiesta a terzi di procurare gratuitamente la paglia bastevole a cento bestie. Ovviamente l’espressione è usata estensivamente in tutti i casi di richieste spropositate, esagerate, sproporzionate, smisurate che con tutta probabilità non potranno mai essere soddisfatte. jí ascianno espressione verbale andar cercando cioè volere, pretendere; jí = andare infinito del verbo jí/jire dal latino ire; ascianno = cercando ; voce verbale (gerundio) dell’infinito asciare/ ascià= cercare con impegno, quasi affannosamente con etimo dal lat. volgare adflare→afflare =annusare con il normale esito fl→sci; 29.LL’ È GGHIUTO A ALLICCHETTO oppure A LLICCHETTO o anche LL’ È GGHIUTO A CCIAMMIELLO. Letteralmente in ambedue i casi :Gli è andata alla perfezione; locuzione riferita a tutte quelle cose che evolvono positivamente, quasi perfettamente con riferimento al loro stato di tenuta richiamante quello di un valido lucchetto, oppure con riferimento al riuscito stato di forma che richiama una ben costrutta ciambella. allicchetto/a llicchetto avverbio modale a mo’ di lucchetto cioè perfettamente Da notare come l’espressione a licchetto (a mo’ di lucchetto) si sia fusa in allicchetto trasformandosi in un avverbio modale (alla perfezione) ; licchetto s.vo m.le lucchetto, catenaccio, chiavistello, chiavaccio (dal fr. loquet, dim. del fr. ant. loc 'catenaccio') ciammiello s.vo m.le ciambella, focaccina in forma di corona circolare, berlingozzo ; l’espressione a ciammiello vale alla perfezione poiché la focaccina per esser détta ciambella deve necessariamente aver la forma di una corona circolare cioé la pasta che sostanzia la focaccia deve esser diposta circolarmente intorno ad un buco centrale ; quando questo manchi ( cfr. non tutte le ciambelle riescono con il buco!) ecco che il dolcetto non può arrogarsi il nome di ciambella ; viceversa quando il buco esista il dolce risulta bene acciambellato, riusulta cioé esser fatto alla perfezione, a ciammiello. etimologicamente ciammiello è voce che - a mio avviso – è un prestito del dialetto abruzzese ciambelle→ciammelle→ciammiello (focaccina di farina di frumento cotta alla brace) piú che un derivato dal lat. *cymbellu(m) diminutivo di cýmbalum = cembalo, antico strumento a percussione, simile ai moderni piatti, usato dai coribanti nei baccanali, tamburello; strumento che semanticamente non à nulla da spartire con il dolce a forma d’anello qual è il ciammiello/ciammella. 30. FURIA FRANGESE E RRETIRATA SPAGNOLA! Impetuosità francese e ritirata spagnola! Lo si dice di tutte le cose fatte con eccessiva veemenza e/o premura; l’espressione la si riferisce a chi tenga atteggiamenti comportanti pressappochismo, approssimazione, faciloneria, superficialità; va da sé che le azioni di costoro son destinate all’insuccesso o implicano un grave, ma inconferente dispendio d’energie. La locuzione molto datata (metà del XVI sec.) prende a divertito modello due consueti atteggiamenti, l’uno (attacchi forsennati, furiosi e spesso scriteriati) dell’esercito francese, l’altro (ritirate repentine, impreviste, inaspettate lasciandosi alle spalle terra bruciata) dell’esercito spagnolo. Da questa consuetudine iberica nacque anche l’espressione 30.bis ABBRUSCIÀ ‘O PAGLIONE. Ad litteram: bruciare il pagliericcio id est: far terra bruciata attorno a qualcuno. Grave minaccia con la quale si comunica di voler procure a colui cui è rivolta un grave anche se non specificato danno; la locuzione rammenta ciò che erano soliti fare gli eserciti sconfitti , in ispecie quelli spagnoli che, nell’abbondonare repentinamente l’accampamento fino a quel momento occupato, usavano bruciare tutto per modo che l’esercito sopravveniente non potesse averne neppure un sia pur piccolo tornaconto.Oggi la locuzione in epigrafe è usata per minacciar imprecisati ma totali danni; epperò in senso traslato e furbesco l’espressione è usata anche – contrariamente a quanto ò or oa détto – per minacciare un ben preciso, oltraggioso danno cioè quello di sodomizzare il minacciato: infatti in quest’ultimo senso il termine paglione in luogo di pagliericcio vale furbescamente: culo, sedere, fondoschiena. abbruscià= ardere, bruciare, tendere al bruciore; etimologicamente da un tardo latino *ad-brusiare→abbrusiare→abbrusciare = bruciare, tendere al bruciore, con tipica palatalizzazione di si→sci come per simia→ scimmia; paglione = 1.pagliericcio, materasso della truppa, ma anche 2.saccone contenente le c.d. sbreglie: scartocciatura delle pannocchie (la voce sbreglia è un derivato, per successivi adattamenti del prov. sbregar= frammentare, in quanto la scartocciatura delle pannocchie è una sorta di frammentazione delle foglie.); 3. per traslato furbesco) culo, sedere, fondoschiena ; la voce paglione deriva da paglia (lat. palea) in quanto quegli antichi materassi per la truppa erano riempiti non di lana ma di paglia; come ò precedentemente accennato la voce a margine oltre che nel senso di pagliericcio, materasso della truppa, saccone viene usata nel linguaggio gergale e furbesco per indicare il culo,il sedere, il fondoschiena che se sottoposto ad una oltraggiosa pratica sodomitica,finirebbe figuratamente per ardere, sottoposto ad una sensazione dolorosa causata da calore, scottatura, infiammazione, insomma da un bruciore tanto da giustificare l’espressione abbruscià ‘o paglione! 30 ter TENÉ ‘A CÓRA ‘E PAGLIA. Ad litteram: Avere la coda di paglia. Id est Avere un comportamento tale da indurre i terzi a sospettare di trovarsi ad avere a che fare con persona che non abbia la la coscienza pulita,in quanto ci si allarmara alla prima allusione sfavorevole, ci si discolpa senza essere stati accusati, reagendo con eccessiva ed inusitata velocità o violenza verbale a critiche od osservazioni, quasi si prenda celermente fuoco", proprio come la paglia. Si raccontava, in un’antica favola contadina che una giovane volpe fósse caduta disgraziatamente in una tagliola; pur riuscendo a fuggire, gran parte della coda le rimase presa e l’animale la cui bellezza stava tutta nella coda si vergognava di farsi vedere in giro con quell’antiestetico brutto mozzicone. Gli animali amici che la conoscevano e sapevano del suo disagio ne ebbero pietà e le costruirono una coda di paglia. Pare che tutti mantenessero il segreto tranne un galletto che disse la cosa in confidenza a qualcuno e, di confidenza in confidenza, la cosa fu saputa dai padroni dei pollai, i quali accesero un po' di fuoco davanti ad ogni stia. La volpe, per paura di bruciarsi la coda, evitò di avvicinarsi alle stie. Da quel momento si usò dire che avesse la coda di paglia chiunque,commessa una qualche birbonata, temesse di essere scoperto e si comportasse guardingamente, come pure si usa dire che abbia la coda di paglia chiunque ritenga e tema che taluni inusitati atteggiamenti e/o comportamenti di un suo contrattante siano aqscrivibili a lui (responsabile di una qualche malefatta tenuta nascosta e di cui declini la paternità). 31. RROBBA 'E MANGIATORIO, NUN SE PORTA A CCUNFESSORIO Ad litteram: faccende inerenti il cibarsi, non vanno riferite in confessione. Id est: il peccato di gola... non è da ritenersi un vero peccato da confessare ; a malgrado che la gola sia uno dei vizi capitali, per il popolo napoletano, atavicamente perseguitato dalla fame, non si riesce a comprendere come sia possibile ritenere peccato lo sfamarsi anche lautamente... ed in maniera eccessiva. Brak

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