giovedì 16 aprile 2015

VARIE 15/319

1 PIGLIÀ VAVIA E METTERSE 'NGUARNASCIONE. Letteralmente: prender bava e porsi in guarnaccia/guarnacca. Id est: assumere aria e contegno da borioso arrogante; lo si dice soprattutto di coloro che, essendo assurti per mera sorte o casualità a piccoli posti di preminenza, si atteggiano ad altezzosi ed onniscienti,cercando di imporre agli altri il loro modo di veder le cose, se non addirittura tutta la vita, laddove in realtà poggiano la loro arrogante albagia sul nulla. vavia (deverbale di vaviarse=imbrattarsi il mento di bava letteramente sta per vava= bava quel liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, o anche da quella di bambini, vecchi, o persone che si trovino in un'anormale condizione fisica o psichica, quale è quella di chi, raggiunto un posto di preminenza, pensa di essere superiore a tutto e tutti e si regola con altezzosa, boriosa arroganza; è questa la spiegazione semantica del mettere vavia(=secernere bava). Faccio notare l'opportuna anaptissi (inserzione di una vocale in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) operata nell’idioma napoletano immettendo una i atona nella originaria parola vava= bava per ottenere vavia mantenendo con vava il significato di liquido viscoso che cola dalla bocca di taluni animali, spec. se idrofobi, etc. ed assegnando a vavia l'idea di quell 'anormale condizione fisica o psichica,che può generare iperproduzione di bava reale o figurata ,come càpita per chi, raggiunto un posto di preminenza, si regoli con altezzosa, boriosa arroganza. guarnascione sost. masch. accrescitivo (vedi il suff. one) di una voce femminile derivata dal provenzale guarnacha=guarnacca/guarnaccia=lussuosa sopravveste medioevale di pelliccia, indossata dagli uomini ed usata come segno di importanza e/o preminenza. 2 NCE VONNO CAZZE 'E VATECARE PE FÀ FIGLIE CARRETTIERE Letteralmente: occorrono membri da vetturali per generare figli carrettieri Id est: per ottenere i risultati sperati occorre partire da adeguate premesse; addirittura nella locuzione si adombra quasi la certezza che taluni risultati non possano essere raggiunti se non per via genetica, quasi che, ad esempio, il mestiere di carrettiere non si possa imparare se non si abbia un genitore vetturale di bestie da soma... vatecare=vetturale, trasportatore di merci sost. masch. derivato dall’agg.vo lat. viaticus + il suff. di pertinenza areus→aro. 3 SI MINE 'NA SPORTA 'E TARALLE 'NCAPO A CHILLO, NUN NE VA MANCO UNO 'NTERRA Letteralmente: se butti il contenuto di una cesta di taralli sulla testa di quello non ne cade a terra neppure uno (stanti le frondose ed irte corna di cui è provvista la sua testa e nelle quali corna , i taralli rimarrebbero infilati). Icastica ed iperbolica descrizione di un uomo molto tradito dalla propria donna. 4 MUNTAGNE E MUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO. Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. È una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili...e non vogliono o possono scendere sul terreno dello scontro con i proprii simili! 5 FACCIA 'E TRENT'ANNE 'E FAVE. Letteralmente: faccia da trent'anni di fava. Offesa gravissima con la quale si suole bollare qualcuno che abbia un volto poco rassicurante,quasi da galeotto, dal quale pertanto non ci si attende niente di buono, anzi si paventano ribalderie. La locuzione fu coniata tenendo presente che la fava secca era il cibo quasi quotidiano che nelle patrie galere veniva somministrato ai detenuti; i trent'anni rammentano il massimo delle detenzione comminabile prima dell'ergastolo; per cui un individuo condannato a trent'anni di reclusione si presume si sia macchiato di colpe gravissime e sia pronto a reiterare i reati, per cui occorre temerlo e prenderne le distanze. L’assunto in epigrafe forse conferma se non dimostra che non aveva tutti i torti Cesare Lombroso(Verona, 6 novembre 1835 –† Torino, 19 ottobre 1909) famoso antropologo, criminologo e giurista italiano. che fu uno dei pionieri degli studi sulla criminalità e nei suoi studi di fisiognomica operò una classificazione dei delinquenti in base ai loro tratti somatici; ebbe certamente torto però quando però, dopo d’averlo ipotizzato, pretese addirittura di dimostrare che tutti i crani di meridionali da lui studiati o presi in esame presentassero le caratteristiche di esseri inferiori, stupidi ed imbecilli oltre che criminali! 6 SPARÀ A VRENNA. Letteralmente: sparare a crusca. Id est: minacciare per celia senza far seguire alle parole , nessuno dei fatti minacciati. L'espressione la si usa quando ci si riferisca a negozi, affari che si concludono in un nulla di fatto e si ricollega ad un'abitudine dell'esercito borbonico i cui proiettili, durante le esercitazioni, erano caricati anziché con piombo con la crusca, affinchè i colpi non procurassero danno alla truppa che si esercitava. 7 'E SCIABBULE STANNO APPESE E 'E FODERE CUMBATTONO. Letteralmente: le sciabole stanno attaccate al chiodo e i foderi duellano. L'espressione è usata per sottolineare tutte le situazioni nelle quali chi sarebbe deputato all'azione, per ignavia o cattiva volontà si è fatto da parte lasciando l'azione alle seconde linee, con risultati chiaramente inferiori alle attese. 8 'A TAVERNA D''O TRENTUNO. Letteralmente: la taverna del trentuno. Cosí, a Napoli sogliono, inalberandosi, paragonare la propria casa tutte quelle donne che vedono i propri uomini e la numerosa prole ritornare in casa alle piú disparate ore, pretendendo che venga servito loro un veloce pasto caldo. A tali pretese, le donne si ribellano affermando che la casa non è la taverna del trentuno, nota bettola del contado napoletano, situata in quel della zona vecchia di Pozzuoli in via san Rocco (oggi) 16, all’insegna : Taverna del trenta e trentuno che prendeva il nome dal civico dove era ubicata e che aveva due ingressi contigui: ai civici 30 e 31, bettola dove si servivano i pasti in modo continuato a qualsiasi ora del giorno e della notte. taverna = bettola, osteria di infimo ordine; etimologicamente dal latino taberna(m) che significò bottega ed osteria ed è in quest’ultimo significato che la voce fu accolta,con tipica alternanza partenopea di B - V, nell’idioma napoletano che per il significato di bottega preferí ricorrere, come vedemmo alibi, al greco apoteca donde trasse la voce puteca. trentuno = agg. num. card. invar. numero naturale corrispondente a trenta unità piú uno; nella numerazione araba è rappresentato da 31, in quella romana da XXXI; l’etimo è dal lat. triginta + unum 9 'A VACCA, PE NUN MOVERE 'A CODA SE FACETTE MAGNÀ 'E PPACCHE DA 'E MOSCHE. Letteralmente: la mucca per non voler muovere la coda, si lasciò mangiare le natiche dalle mosche. Lo si dice sarcasticamente riferendolo a gli indolenti ed ai pigri che son disposti a subire gravi nocumenti, ma non muovono un dito per evitarli alla stessa stregua di una vacca che assalita dalle mosche, per non sottostare alla fatica di agitare la coda, lasci che le mosche le pizzichino il fondo schiena! 10 TRASÍ O PASSÀ CU 'A SCOPPOLA. Letteralmente: entrare o passare con lo scappellotto. Id est: entrare in teatro o altri luoghi pubblici come musei o pinacoteche o mostre artistiche senza pagare e senza le necessarie credenziali: biglietti o inviti. La locuzione fotografa il benevolo comportamento di taluni custodi che furono soliti fare entrare i ragazzi senza pagare il dovuto, spingendoli dentro con un compiacente scappellotto. Per traslato la locuzione si attaglia a tutte quelle situazioni, come ad es. degli esami superati senza meriti, con la benevolenza dell’esaminatore o situazioni nelle quali gratuitamente si ottengono benefìci per la magnanimità di coloro che invece dovrebbero controllare. 11 POZZA MURÍ 'E TRUONO A CCHI NUN LE PIACE 'O BBUONO. Letteralmente: possa morire di violenta bastonatura chi non ama il buono. In una città come Napoli dove vi è un'ottima e succulenta cucina chi non è buongustaio merita di morire bastonato violentemente. in napoletano truono (dal lat. tronitus) significa sia tuono che, per ampiamento semantico, percosse violente. Faccio notare che nell’idioma napoletano il complemento oggetto - anche in frasi rette, come in questo caso, da verbo impersonale - se essere animato è sempre preceduto da una A segnacaso che invece manca se il complemento è un oggetto o cosa inanimata (ad es. aggiu visto a pateto= ò visto tuo padre – aggiu chiammato ô= a ‘o zio = ò chiamato lo zio – ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere etc.). 12 'A FORCA È FFATTA P''E PUVERIELLE. Letteralmente: la forca è fatta per i poveri. Id est: nei rigori della legge incorrono solo i poveri, i ricchi trovano sempre il modo di scamparla. In senso storico, la locuzione rammenta però che la pena dell'impiccagione era comminata ai poveri, mentre ai ricchi ed ai nobili era riservata la decapitazione o - in tempi piú recenti - la fucilazione. 13. - QUANNO 'O MELLONE JESCE RUSSO, OGNEDUNO NE VO’ 'NA FELLA. Letteralmente: Quando il cocomero al taglio si presenta ben colorito di rosso, ognuno ne vuole una fetta. Id est: Quando l'occasione è buona, ognuno cerca di ottenerne il massimo vantaggio. Per traslato, l'espressione si usa quando si voglia bollare il comportamento di chi (come l’italiano medio) è sempre pronto a saltare sul carro del vincitore... quanno = quando, allor che, nel momento che, ogni volta che, tutte le volte che (con valore iterativo): avv. di tempo dal lat. quando con assimilazione progressiva nd→nn; mellone = anguria, cocomero; in napoletano ‘o mellone è sia la pianta erbacea con foglie lobate e fusto strisciante, originaria dell'Asia e dell'Africa tropicale, coltivata nelle regioni temperate per i frutti commestibili (fam. Cucurbitacee) | il frutto di tale pianta, sferico od ovoidale, con polpa biancastra, gialla o arancione, dolce e profumata(mellone ‘e pane) sia la pianta erbacea con fusto strisciante, coltivata per il grosso frutto tondeggiante dalla polpa dolce, rossa e acquosa; anguria, (mellone d'acqua) (fam. Cucurbitacee); l’etimo della voce mellone è dal lat. tardo melone(m), nom. mìlo, forma abbr. di melopepo -onis, che è dal gr. mìlopépon -onos, comp. di mêlon 'melo, frutto' e pépon 'popone; nella voce napoletana, al contrario della voce italiana melone che à mantenuto la scempia etimologica, si è avuto un tipico raddoppiamento popolare lella liquida l nella sillaba centrale; jesce letteralmente esce e cioè si presenta, s’appalesa, si mostra voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito ascí= uscire, sortire, venir fuori con etimo dal lat. volg. ab-exire→a(be)xire→axire→*assire→ascire; russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso)di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber; ògneduno = ognuno pronome indef. [solo sing.] dal lat. omne(m) et de unu(m) vo’/vole= vuole voce verb. (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito vulé/volere dal lat. volg. *volíre, per il class. velle, ricostruito sul tema del pres. volo e del perfetto volui; ‘na= una art. indeterm. femm. ed agg. numerale femm. nella sua grafia completa una; ‘na infatti è dall’acc. latino una(m) aferizzato; fella= fetta, porzione ricavata per affettamento, pezzo di cibo tagliato largo e sottile: ‘na fella ‘e pane = una fetta di pane,’na fella ‘e pizza =una fetta di di torta; taglià a ffelle= tagliare a fette; l’etimo probabile è dal lat. volg. *offella(m), dim. di offa 'focaccia'; 14. - SI 'O SIGNORE ME PRUVVEDE, M'AGGI' 'A FÀ 'NU QUÀCCHERO LUONGO NFINO Ê PIERE. Letteralmente: Se il Cielo mi dà provvidenza, debbo farmi un soprabito lungo fino ai piedi. Id est: se avrò fortuna e aiuto dal Cielo mi voglio ricoprire fino ai piedi, un po’ per sollevar l’invidia del prossimo e per modo che, ben coperto, non possa temere offese dall'esterno. . Signore= signore, ma scritto con la maiuscola indica il Signore per antonomasia: il Padreterno, il Dio Padre; la voce a margine, che è presente anche nell’italiano è un derivato del Lat. seniore(m), compar. di senex senis , 'vecchio', ma è pervenuta nel napoletano probabilmente attraverso lo spagnolo señor o il franc. seigneur nel pari significato di piú vecchio, piú anziano; pruvvede= dà provvidenza, dà assistenza ed aiuto voce verbale (3ª pers. sing. ind. pres.) dell’infinito pruvvedé =provvedere, disporre quanto è necessario affinché qualcosa non manchi o non subisca danni o avvenga felicemente; in partic., disporre il necessario per soddisfare un pubblico bisogno o per garantire una privata occorrenza; con etimo dal latino providíre, comp. di pro¯- a favore' e vidíre 'vedere' m’ aggi’ ‘a fà = devo farmi; letteralmente: ò da fare per me ; locuzione verbale formata dalla 1ª pers. sing. ind. pres. dell’infinito avé=avere (dal latino habíre; in napoletano l’aspirata d’avvio, intesa inutile e pletorica è eliminata) seguito dalla preposizione ‘a(da) e dall’infinito fà/fare (dal lat. sincopato fa(ce)re) nel significato di dover fare, dire etc. qlc.; il me d’avvio della locuzione vale il mihi latino dativo di vantaggio;a margine rammento che locuzioni verbali simili vengono spesso usate al posto dell’indicativo futuro presente nella grammatica napoletana, ma poco usato preferendoglisi l’ind. pres. in funzione futura o locuzioni simili a quelle in esame. quàcchero neologismo di inizio 20ª sec. sost. masch. intraducibile ad litteram, ma con attestato significato nel parlato di cappotto, lunga palandrana; la voce fu modellata sul termine quaccheri ( un movimento religioso appartenente al protestantesimo); il termine quàcchero proviene dall’inglese to quake che significa tremare, quindi significa "i tremolanti"; era l’appellativo con cui venivano indicati, in senso dispregiativo, gli appartenenti ad un movimento protestante, sorto nell’ambito della chiesa Anglicana in Inghilterra nel XVII secolo, perché nelle loro riunioni quando scendeva lo Spirito avevano alcune manifestazioni esteriori, fisiche, (tremori estatici), tra cui il tremare. Loro preferivano autodefinirsi: "Society of friends", ossia "Società degli amici" (di Gesú), e traevano questo nome dal Vangelo di Giovanni cap.15 ver.15, dove Gesú dice ai discepoli: "Io non vi chiamo piú servi; perché il servo non sa quel che fa il suo signore; ma voi vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio". A Napoli, rammentando i lunghi, severi costumi indossati dagli aderenti al movimento suddetto fu assunto il sing. quàcchero come sinonimo di cappotto, palandrana; luongo= lungo agg. qual. masch. dal lat. longu(m) con dittongazione popolare della sillaba d’avvio; la dittongazione manca nel femm. che è longa da longa(m); nfino= fino, sino preposizione impropria ed altrove avv. dal lat. fine, abl. di finis 'limite', col significato preposizionale di 'fino a'; morfologicamente la n protetica di nfino non è l’aferesi di (i)n, ma una consonante eufonica, per cui non va scritta con il segno d’aferesi ‘n ma semplicemente legato a fino per ottenere nfino; ê piere = ai piedi; cominciamo con il sottolinere che ê (ai) è preposizione articolata plurale masch (ai – a gli). e femminile(alle) secondo una grafia fusa alternativamente di a + ‘e (li) o di a+ ‘e (le) e pertanto non vaconfusa con ‘e(i/le) art.determ. plur. maschile o femm; piere= piedi sost. masch. plurale del sing. pede/pèro= piede con etimo dal lat. pede(m) con la tipica rotacizzazione osco – mediterranea d/r nella variante pèro. 15.- LL'ABBATE TACCARELLA. Letteralmente: l'abate Taccarella. Con questo soprannome viene bollato, a Napoli, la malalingua, lo sparlatore, colui che, metaforicamente, tagliuzzi gli abiti addosso ad una persona; abbate= abate, il superiore di un'abbazia o di un monastero nel sec. XVIII, chiunque godesse di un beneficio ecclesiastico, pur avendo ricevuto i soli ordini minori, la voce a margine ed in epigrafe è usata in senso ironico essendo lo sparlatore, la malalingua, il tagliuzzatore persona non meritevole di alcun rispetto e/o considerazione, proprio al contrario di un autentico superiore di un'abbazia o di un monastero; l’etimo di abbate è dal lat. eccl. abbate(m), che è dall'aram. ab `padre', attrav. il gr. abbâ il soprannome giocoso Taccarella è chiaramente un deverbale desunto appunto dal verbo taccarià che significa tagliuzzare, ridurre in minuti pezzetti, con derivazione dal sostantivo tacca= scheggia, pezzetto, a sua volta da un gotico taikn. 16 - T' HÊ PIGLIATO 'E CCIENT' OVE? Letteralmente: ài preso le cento uova; ài bevuto cento uova? Id est: Sei diventato pazzo? La locuzione rammenta un antichissimo metodo di cura della pazzia in uso a Napoli nei sec. XV e XVI, al tempo di un famosissimo medico dei pazzi, quel tal Giorgio Cattaneo - dal cui nome derivò poi il termine mastuggiorgio che indica appunto il castigamatti - il quale medico pare inventasse la cura coercitiva per il folle di dover assumere ben cento uova di sèguito e poi, sotto la minaccia di una frusta, di girare la ruota di un pozzo. hê pigliato = ài preso, ài assunto, ài ingurgitato voce verbale (2ª pers. sing. ind. pass. pross.) dell’infinito pigliare/piglià con etimo dal lat. volg. *piliare,per il class.pilare'rubare,saccheggiare'; ciento= cento agg. numerale dal lat. centu(m) con tipica dittongazione ie nella sillaba d’avvio intesa breve; ove = uova sost. femm. plur. del masch. uovo, cellula germinativa o gamete femminile di forma per lo piú rotondeggiante o ellittica, di dimensioni variabili secondo la specie, con citoplasma piú o meno ricco di riserve nutritive; à origine nell'ovaio e da esso, all'interno o all'esterno del corpo materno, si forma l'embrione del futuro animale; l'uovo degli animali ovipari, che viene espulso dal corpo materno prima che l'embrione si sviluppi; l’etimo è dal lat. volg. òvu(m), dal greco oòn. 17 - MONECA 'E CASA: DIAVULO ESCE E TTRASE, MONECA 'E CUNVENTO: DIAVULO OGNI MUMENTO. Letteralmente: monaca di casa: diavolo entra ed esce, monaca di convento: diavolo ogni momento. La locuzione, con una punta di irriverenza, viene usata, quando si voglia eccepire qualcosa sul comportamento di chi, invece, istituzionalmente dovrebbe avere un comportamento irreprensibile. La monaca di casa era a Napoli una di quelle attempate signorine che, condannate a restar nubili, per non essere tacciate di zitellaggio, facevano le viste di dedicarsi alla cura di qualche parente anziano o prete. Va da sé che il diavolo della locuzione è usato eufemisticamente per indicare il medesimo diavolo di talune novelle del Boccaccio; e la locuzione sostiene che tali monache di casa non fossero cosí irreprensibili come lasciavano intendere ed al contrario si dessero, di nascosto, alla buona vita; ai medesimi piaceri del corpo si riteneva di dessero anche le monacate dei monasteri e per ciò che attiene al convento è facile pensare che la locuzione faccia riferimento a quel convento di sant'Arcangelo a Baiano in Napoli, finito nelle cronache dell'epoca (1550 e ss.) e delle successive per i comportamenti decisamente libertini tenuti da quasi tutte suore ivi ospitate.( cfr. Cronaca del convento di Sant'Arcangelo a Bajano attribuito a Stendhal); moneca ‘e casa letteralmente monaca di casa nel senso già spiegato; moneca= monaca, suora , colei che à abbracciato il monachesimo; nel cattolicesimo, membro di un ordine monastico o religioso che à pronunciato i voti solenni di povertà, castità e obbedienza sost. femm. del masch. monaco che deriva dal lat. tardo monachu(m), che è dal gr. monachós 'unico', poi 'solitario' (e quindi 'monaco'), deriv. di mónos 'solo, unico'; casa = casa, dimora privata familiare con etimo dal lat. casa(m), propr. 'casa rustica'opposta alla domus, abitazione signorile del dominus; diavulo= diavolo, nell'ebraismo e nel cristianesimo, potenza che guida le forze del male e si identifica con Lucifero, il capo degli angeli che si ribellarono a Dio, poi divenuto Satana, principe delle tenebre; per estens., ognuno degli altri angeli ribelli e la forza del male che essi incarnano | nella fantasia popolare è concepito per lo piú come un mostro di forme umane con corna, ali, coda e altri attributi animaleschi, grande tentatore, amante di ogni disordine ed eccesso, con etimo dal lat. tardo diabolu(m), dal gr. diábolos, propr. 'calunniatore', deriv. di diabàllein 'disunire, mettere male, calunniare', che nel gr. cristiano traduce l'ebr. satan 'contraddittore'; nella locuzione in epigrafe la voce a margine è usata – come ò già detto – in senso furbesco/osceno jesce= esce, viene fuori voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinito ascire/ascí = uscire venire fuori da un luogo chiuso, circoscritto o idealmente delimitato con etimo dal lat. volg. ab-exire→*axire→assire→ascire ; trase = entra, penetra voce verb. (3ª pers. sing. pres.ind.) dell’infinitotrasire/trasí = penetrare in un luogo, andar dentro, introdursi con etimo dal lat. volg. *trasire per il class. transíre; cunvento =convento, edificio in cui vive una comunità di religiosi o religiose che ànno pronunciato voti solenni; nell'uso corrente, sin. di monastero sost. masch. con etimo, come per la corrispondente voce italiana, dal lat. conventu(m) 'adunanza, convegno', deriv. di convenire 'trovarsi insieme'; nella voce napoletana si è avuta la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga; mumento = momento, periodo di tempo di varia durata, considerato in relazione alle condizioni che in esso si determinano; circostanza, occasione, opportunità con etimo dal lat. momentu(m),sincope di *movimentum, deriv. di movíre 'muovere'; propr. 'impulso, moto', poi 'peso che fa muovere (la bilancia)' e anche 'brevissimo periodo di tempo' con la tipica chiusura o→u nella sillaba d’avvio intesa lunga; 18 - FRIJERE 'O PESCE CU LL' ACQUA. Letteralmente: friggere il pesce con l'acqua. La locuzione stigmatizza il comportamento insulso o quanto meno eccessivamente parsimonioso di chi tenti di raggiungere un risultato apprezzabile senza averne i mezzi occorrenti e necessari in mancanza dei quali si va certamente incontro a risultati errati o di risibile efficacia, come sarebbe quello di una frittura, che d'altronde non si può acconciamente fare senza disporre di olio o di grasso; frijere= friggere,cuocere nell'olio o in altro grasso bollente ed estensivamente rodersi, struggersi; fremere; voce verbale infinito dal verbo onomatopeico latino frígere con caduta della g sostituita dal suono di transizione intervocalico j; pesce= pesce sost. masch. generico per indicare qualsiasi animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo piú fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo che quando il pesce sia stato cotto e spolpato viene detto lisca da un tardo lat. lisca(m), di origine germanica; l’etimo di pesce è dal lat. pisce(m); acqua= acqua, composto di idrogeno e ossigeno, presente in natura allo stato liquido (in mari, fiumi, laghi, nel sottosuolo o in forma di goccioline nelle nubi), allo stato solido (ghiaccio e neve) e allo stato di vapore (nell'atmosfera); costituente fondamentale degli organismi, in condizioni ordinarie è un liquido trasparente, inodore, insapore ed incolore, azzurrognolo se in grandi masse; l’etimo è dal lat. aqua(m) con raddoppiamento popolare della consonante q→cq. 19 - MEGLIO 'NA MALA JURNATA, CA 'NA MALA VICINA. Meglio una cattiva giornata che una cattiva vicina. Id est: meglio sopportare gli effetti negativi di una giornata improduttiva o fastidiosa, che la frequentazione quotidiana con pessimi vicini, colleghi di lavoro ed assimilati… Ed il perché è facile da comprendersi: una giornata cattiva, prima o poi passa e probabilmente, con essa, i suoi effetti negativi, ma dei cattivi vicini, dei pessimi colleghi di lavoro, perdurante la loro stabile vicinanza, di giornate cattive ne possono procurare parecchie...ed a maggior ragione quando i cattivi vicini, i pessimi colleghi di lavoro siano di sesso femminile. meglio = meglio, avv. e agg.nel senso di migliore con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, nell'uso pop. regionale, preceduto dall'art. determ. (‘o – il), à valore di superlativo relativo, equivalendo a il migliore (‘o meglio jucatore= il miglior giocatore, ‘o meglio attore= il migliore attore etc.); con valore neutro, nel significato di cosa migliore, preferibile, preceduto dall’art. determ. ‘o che comporta la geminazione della consonante m e seguíto dallo specificativo partitivo de (‘e) es.: ‘o mmeglio d’’o mmagnà= la cosa migliore del pranzo etc. l’etimo è dal lat. melius, neutro di melior -oris 'migliore' mala= cattiva, non buona , brutta, trista agg. qual. femm. con etimo dal lat. malu(m) reso femm. *mala(m); jurnata = giornata, il periodo compreso tra la mattina e la sera in rapporto al tempo atmosferico o al lavoro, all'attività che vi si svolge, oppure (come nel caso che ci occupa) agli avvenimenti che vi accadono; l’etimo è dal francese journée da un antico jornée derivati di journ/jorn= giorno; vicina= vicina sost. femm. (dall’agg. qualif. vicino/a = che, chi non è lontano o è poco lontano nello spazio o nel tempo, confinante, anche chi à rapporti di parentela o di amicizia: con etimo dal lat. vicina(m), deriv. di vicus 'villaggio'; propr. 'che appartiene allo stesso villaggio'. 20 - FATTE 'NA BBONA ANNUMMENATA E VA' SCASSANNO CHIESIE. Letteralmente: procura di farti una buona nomea e poi saccheggia pure le chiese.Amara, disincantata osservazione della realtà dalla quale si ricava che ciò che conta nella vita è l’apparenza, piuttosto che la sostanza; in virtú di ciò, basta godere di una buona opinione presso i terzi, poi si possono operare i peggiori misfatti, addirittura furti sacrileghi, nessuno mai sospetterà di uno che goda di buona nomea. La locuzione insomma affronta l'antico dilemma: essere o apparire e propende, stranamente per la cultura popolare, da sempre incline dalla parte della sostanza piuttosto che da quella della forma, per il secondo corno del dilemma. fatte= fatti= fa’ per te voce verbale (da non confondere con l’omografo ed omofono sost. masch. plur. di fatto= accadimento) (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito fà/fare (con etimo dal lat. sincopato fa(ce)re) addizionato in posizione enclitica del pronome te→tte con valore di dativo di vantaggio per te; bbona =buona, conforme al bene; onesta, moralmente positiva agg. qual. con etimo dal lat. bona(m); annummenata/’nnummenata = nomea, rinomanza, nome, reputazione, fama letteralmente aggettivo poi sostantivato ricavato dal part. pass. femm. del verbo annummenà/’nnumenà= nominare, dare fama, reputazione con etimo dal lat.ad+ nominare,forma intensiva(vedi ad) di nominare deriv. di nomen -minis 'nome'; va’= vai voce verbale (2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito jí= andare ( con etimo dal lat. ire; ma per le forme che ànno per tema vad→vac derivano dal lat. vadere 'andare'; scassanno= rompendo,infrangendo ed estensivamente , come qui,rapinando, perpetrando furti voce verbale (gerundio) dell’infinito scassare/scassà= rompere, infrangere etc. con etimo da un tardo latino s (intensiva)+ quassare frequentativo di quatere; ricorderò che in napoletano esiste una seconda voce scassà con etimo e significato diversi; questa seconda voce verbale sta per raschiare, cancellare e deriva da un tardo latino s (intensiva)+ cassare denominale di cassus=vano, vuoto; chiesie/chiese= chiese, luoghi di culto, sost. femm. plur. di chiesia/chiesa= comunità di fedeli che professano una delle confessioni cristiane, ma piú spesso segnatamente il luogo, l’edificio dove si svolgono le riunioni e le cerimonie di culto delle confessioni cristiane (l’etimo è dal lat. ecclesia(m), derivato dal gr. ekklēsía 'assemblea', deriv. di ekkalêin 'chiamare'. 21. -AMMACCA E SSALA, AULIVE 'E GAETA. Letteralmente: schiaccia e sala, olive di Gaeta! Di per sè è la voce - ossia la frase di richiamo – lanciata dai venditori girovaghi o da quelli usi ad affacciarsi sulla imboccatura della propria bottega (per attirare a viva voce l’attenzioni di probabili clienti) di olive e con essa voce si rammenta la tecnica della conservazione in salamoia delle olive che vengono stipate in botticelle e conservate in un bagno di acqua salata. Con la stessa locuzione si suole sarcasticamente commentare a mo' di riprovazione, il comportamento di coloro (lavoranti e/o figliuoli) che operano in maniera rapida e superficiale, senza porre attenzione ed applicazione a ciò che sono stati chiamati a fare. ammacca= comprime, schiaccia, pigia voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito ammaccà = comprimere, schiacciare, pigiare (con etimo dal tardo latino ad+maccare forma intensiva (vedi ad) di maccare di pari significato; dal verbo maccare è derivata la voce maccarone (maccherone) = impasto schiacciato; ssala= sala, cosparge di sale voce verbale (3ª pers. sing. ind. presente o altrove 2ª pers. sing. imperativo) dell’infinito salare/salà = c ondire un cibo col sale; e qui cospargere di sale un alimento per conservarlo ( denominale di sale ( lat. sale(m)) aulive = olive o ulive, s. f. plur. di auliva il frutto dell'olivo, costituito da una piccola drupa ovale, commestibile, ricca di olio commestibile: l’etimo della voce napoletana è dall’acc. lat. (il)la(m) uliva(m) con agglutinazione eufonica dell’ articolo ‘a da la; Gaeta splendido comune laziale di 21mila abitanti circa, posizionato sul livello del mare nella parte bassa della Provincia di Latina, sede Arcivescovile, sede del Parco Regionale Riviera di Ulisse, dista circa 120 Km. da Roma e 80 Km. da Napoli. Le origini del nome di Gaeta sono tuttora avvolte nella leggenda: Strabone indicò la sua provenienza dal termine Caiatasusato dai pescatori locali per indicare il sito, con chiaro riferimento all'ampia insenatura del suo golfo; Diodoro Siculo collegò queste terre al mito degli argonauti facendo derivare il nome della città da Aietes, mitico padre di Medea (figlia di Circe), la maga innamorata di Giasone. Virgilio, nell' "Eneide" (Eneide, VII, 1-4) trovò la sua origine nel nome della nutrice di Enea,Cajeta, sepolta dall'eroe troiano in quel sito durante il suo viaggio verso le coste laziali. Dante, quasi a significare la storicità dell'Eneide, confermò l'avvenimento (Inferno, XXVI, 92). Salto a pie’ pari gli abbondanti riferimenti storici della città di Gaeta, rammentando solo che essa subí ben quattordici assedi che coincisero con importanti avvenimenti, a partire dalla sconfitta del ducato di Gaeta ( 1140 ca con annessione al Regno di Sicilia) fino all'ultimo assedio, quello tenuto dalle truppe del generale piemontese Cialdini nel 1861 (che sarà nominato duca di Gaeta) e che diede inizio all'unità d'Italia. In coda ricorderò che il 25 novembre 1848 il papa Pio IX si rifugiò a Gaeta, ospite dei Borbone, in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, e vi rimase fino al 4 settembre 1849, periodo durante il quale Gaeta assunse la denominazione di "Secondo Stato della Chiesa". E fu proprio durante questo soggiorno che papa Pio IX venne illuminato dallo Spirito Santo durante le sue preghiere presso la Cappella d'Oro e proclamò il Dogma dell'Immacolata Concezione al suo ritorno a Roma. Il 13 febbraio 1861 Francesco II di Borbone a Gaeta, ultimo baluardo del suo regno, si arrese capitolando all'assedio delle truppe del generale Enrico Cialdini (assedio di Gaeta (1860-1861)): determinando la fine del Reame delle Due Sicilie e l’inizio dell'unità d'Italia ad opera dei Savoia. Da questo momento in poi iniziò la lenta decadenza di Gaeta come importante centro politico, militare ed amministrativo. Storicamente parte dell'antica provincia di Terra di Lavoro in Campania, fu trasferita al Lazio nel periodo fascista, quando venne incorporata nella nascente Provincia di Littoria (Latina). 22. - CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SAPONE. Letteralmente: di qui le pezze e di qua il sapone. È il modo rapidamente incisivo per dire che non si fa credito di sorta. Chi usa detta locuzione intende comunicare che con lui non si fanno contratti se non a prestazione e controprestazione immediata, contratti dove il do ed il dai devono verificarsi senza soluzione di continuità, quasi contemporaneamente. Originariamente, la locuzione era usata dai robivecchi girovaghi detti sapunari appunto perché cedevano in cambio di abiti dismessi o stoviglie ed oggetti usati un tot di sapone quale merce di scambio. cca = qua, in questo luogo, (indica il luogo dov'è chi parla o un luogo molto vicino a chi parla; è meno determinato di qui, non altrove avv. di luogo, talvolta usato impropriamente quale rafforzativo anche in locuzioni di tempo del tipo cca mmo mmo= immantinente, senza indugio; l’etimo è dal lat. ec)cu(m) hac, propr. 'ecco per di qua'; rammento che in napoletano esiste un altro monosillabo ca = che quasi omofono dell’avv. a margine, ma non si tratta di un avverbio, bensí di una cong. o pronome relativo; trattandosi di due monosillabi simili regola grammaticale vorrebbe che o l’uno o l’altro fosse corredato d’un segno diacritico (accento, apostrofo ); ò usato il condizionale in quanto si è trovata la strada piú immediata e comoda di usare sempre la geminazione della c iniziale, evitando erronei, pletorici ed inutili accenti per l’avverbio di luogo, per modo di avere non l’errato ccà (come talvolta mi è capitato di trovare negli scritti perfino di commediografi famosi) ma l’esatto cca= qua,mentre per la congiunzione/pronome ca si usa la c iniziale scempia ed in tal modo viene evitata la confusione tra ca e cca; ppezze= pezze, stracci, ritagli di tessuti usati, cenci; altrove la voce a margine indicò pure delle grosse monete d’argento sost. femm. plurale di pezza che è dal lat. pettia(m) forse dall’ant. tedesco pfetzen= brandello, pezzo, brano; sapone= sapone, generico nome dei sali alcalini di acidi grassi, di consistenza pastosa o solida, usati come detergenti con etimo dal lat. sapone(m) affine a sapiu(m) ed all’ant. ted. sapp/sap= succo; propriamente il latino sapone(m), fu una 'miscela di cenere e sego per tingere i capelli', voce di orig. germ. (vedi sapp) e solo successivamente indicò le paste usate quali detergenti. In chiusura rammenterò che i saponi conferiti dai saponari nei loro scambi, non erano le saponette che conosciamo , ma un tipo di sapone molto morbido e di colore ambra (da usare per detergere abiti e biancheria, non per la pulizia personale),di produzione artigianale ad opera spesso dei medesimi robivecchi girovaghi ,sapone che veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, affettato, staccandolo con una lama da un parallelepipedo compatto; tale sapone era comunemente detto sapone ‘e piazza= sapone di piazza, perché venduto non in negozio, ma esclusivamente per istrada /piazza da venditori girovaghi e/o rigattieri, robivecchi (saponari) che ne erano anche i produttori. 23. -STÀ BBUONO MALATO Questa icastica locuzione, che (se tradotta pedissequamente ad litteram) si risolverebbe in un patente ossimoro, in realtà configura e rappresenta la deprecabile situazione di chi versa in una grave malattia risultando molto malato; come si vede l'aggettivo buono è qui usato in una particolare accezione forse impropria, ma certamente efficace, per indicare una quantità (molto), non una qualità. 24 -STÀ A STECCHETTO Ad litteram:stare a stecco Id est: essere costretto a rigide norme comportamentali ,risultandone come stretto fra stecchi, ma anche potersi nutrire - per necessità o -meno spesso - per volontà, del poco solo strettamente necessario assumendolo, data la parva quantità,quasi come si fa con gli uccellini, sulla punta di un piccolo stecco. 25 -STÀ CAURO/CAUDO Ad litteram:stare caldo; ma non riferito alla temperatura corporea, quanto a quella della tasca che è intesa calda in quanto ben provvista di danaro. 26 -STÀ CCHIÚ 'A LLA CA 'A CCA Ad litteram:stare piú di là che di qua. Detto di chi versa in pessime condizioni di salute tali da lasciar preconizzare un'imminente fine e da farlo ritenere piú prossimo all'altro che a questo mondo; locuzione usata correttamente nel caso menzionato, ma usata - a volte - enfaticamente in situazioni non veramente gravi , ma solo paventatate tali. 27-STÀ COMME A CCRISTO 'NCROCE Ad litteram:stare come Cristo in croce Id est:aver perso ogni libertà ed autonomia, essere astretto e costretto trovandosi perciò nella impossibilità di agire e provvedere ai propri bisogni, iperbolicamente come un Cristo inchiodato alla croce e dover perciò dipendere in tutto e per tutto dagli altri. 28-STÀ CU 'E PPACCHE DINT' A LL' ACQUA. Ad litteram:stare con le natiche nell'acqua. Id est: versare in grave miseria e trovarsi a combatterla abbassandosi al mestiere (un tempo ritenuto povero) del pescatore che per meglio tirare la rete, entra in acqua fino a sentirsi bagnato il fondoschiena. 29-STÀ CU DDUJE PIEDE DINT’ A UNA SCARPA Ad litteram:stare con ambedue i piedi in una sola scarpa. Id est: stare costretti e quieti tenendo un atteggiamento succubo e remissivo evitando addirittura di muoversi per non dare fastidio o intralcio ai terzi; tutto ciò sarebbe favorito dal fatto iperbolico di avere ambedue i piedi calzati in un’unica scarpa (cosa materialmente impossibile!). 30. STÀ CAZZA E CUCCHIARA. Ad litteram:stare secchio della calcina e cucchiaia. - Cioè:andare di pari passo, stare sempre insieme. Icastica espressione usata in riferimento a chi sia uso procedere cotidie di conserva con qualche altro Erroneamente qualcuno riferisce il modo di dire con l’espressione: Stà tazza e cucchiaro (stare tazza e cucchiaio), espressione inesatta innanzi tutto perché la posata che accompagna la tazza, a Napoli è esclusivamente riportata come diminutivo: ‘o cucchiarino (il cucchiaino) o come ‘o cucchiaro (il cucchiaio) nel caso che con la voce tazza ci si riferisca non alla chicchera per il caffé, ma all’ampia scodella per il latte, ed invece la locuzione, sulle labbra dei vecchi napoletani comporta la presenza della grossa cucchiara, cioè della cazzuola l’arnese tipico dei muratori,arnese che non viene ovviamente usato né per accompagnare la tazzina da caffè, né il tazzone/scodella da latte, ma per mescolare la calcina nella cazza e per spargerla! La cazza come ò accennato fu in origine un recipiente per lo piú di ferro, provvisto di manico, nel quale si fondevano i metalli , poi indicò ed ancóra indica quel contenitore ,quel secchio di ferro in cui i muratori usano impastare malta e/o calcina; la voce è dal lat. tardo cattia(m), da collegarsi al gr. kyathos 'coppa, tazza'; la voce è usata piú spesso in italiano che in napoletano dove il suddetto contenitore è chiamato piú acconciamente cardarella diminutivo adattato di caldara→cardara= caldaia = in origine recipiente metallico in cui si fa bollire o cuocere qualcosa e poi estensivamente ogni capace recipiente metallico atto a contenere materiali caldi o freddi; caldara→cardara è voce derivata del latino tardo caldaria(m), deriv. di calidus 'caldo'. Poiché, come ò detto, la voce cazza è poco nota e usata a Napoli accade che l’espressione in epigrafe venga talvolta impropriamente enunciata come Essere cazzo e cucchiara con un accostamento erroneo ed inconferente non essendovi certamente nessun nesso tra il membro maschile e la cucchiara= cucchiaia, cazzuola che è appunto la mestola che usano i muratori per rimestare o prelevar la calcina o malta dalla cazza distribuendola e pareggiandola su muri e/o mattoni; cucchiara è di per sé il femminile di cucchiaro con etimo dal latino cochlearju(m) con normale semplificazione - di rju→ru→ro e chiusura della o di co in u di cu in sillaba atona; cucchiaro è stato reso femminile appunto per indicare, come già dissi altrove, un oggetto piú grande del corrispondente maschile (es.: tammurro piú piccolo – tammorra piú grande, tino piú piccolo – tina piú grande etc.);ugualmente è erroneo stravolgere l’espressione in epigrafe in (come pure talvolta m’è occorso d’udire) Essere tazza e cucchiara , atteso che la tazza , per grande che possa essere (fino a diventar una ciotola) potrebbe procedere di conserva con un cucchiaino (tazza da caffè) al massimo con un cucchiaio (tazza/ciotola da caffellatte) mai con una cucchiara (cazzuola). Brak

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