giovedì 13 luglio 2017

VARIE 17/719



1. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE OPPURE MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare l'urtabancone. oppure mandare a comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano numerose, in ogni  casa si aggirava un gran numero di bambini, la cui presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (sallumiere, droghiere) della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette  o distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere  neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dall’ art. ‘o oppure llu esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o/lllu ppepe e non ‘o/lllu pepe come  ‘o/lllu ppane  e non ‘o/lllu pane, ‘o/lllu zzuccaro e non ‘o/llu zuccaro, ‘o/llu ccafé e non ‘o/llu cafè. Rammento che c’è un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del diminutivo ‘o zuccariello  usato però non in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero e rammento altresí che il s.vo café quando non indichi la bevanda, ma il negozio dove si serve o vende quella bevanda, diventa di genere maschile e non esige la geminazione iniziale propria del neutro; per cui avremo  ‘o/llu ccafé = la bevanda di caffé, ma ‘o/llu café = il bar; ugualmente il s.vo neutro  ‘o/llu ppane che indica l’alimento, nelle parole derivate perde la geminazione della consonante ed usa la scempia: ‘o/llu ppane ma ‘o/llu panettiere.

2.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano   il verbo accattà significa innanzitutto: comprare, ma nella locuzione in epigrafe  bisogna intenderlo nel suo primo  significato etimologico  di portar via  dal latino: ad + captare iterativo di capere (prendere); questo il percorso morfologico: ad + captare→ adcaptare→accaptare→accattare  con doppia assimilazione regressiva: adc→acc, apta→atta
La locuzione non à legame alcuno con il fatto di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto al fatto  che i topi che vengono attirati nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca ‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il pericolo  ed è riuscito a portar via il pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta che uno fiuti un pericolo incombente  o una metaforica esca approntatagli, ma se ne  riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.

3. FÀ ACQUA 'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua; id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in cui versa chi  sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe  la pipa, strumento atto  a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere; qualcuno si ostina però a vedervi un nesso  e rammentando che quando a causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli di bruciare  compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata pipa sarebbe cosí povero, da non poter  conservare costosi liquori, ma solo economica acqua. Nessuna delle due spiegazioni mi convince ed a  mio avviso reputo  invece  che la pippa in epigrafe sia qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone spagnolo  e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro  maschile  che laddove, per sopravvenuti problemi legati   all’ età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di  sparger seme si dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale, figurazione di ristrettezza e/o miseria piú generale e vasta.Tanto è avvolarato anche  dalla considerazione che nel linguaggio popolare della città bassa per riferirsi  all’atto masturbatorio maschile  s’usa l’espressione: farse ‘na pippa.
4. TENÉ ‘E PECUNE
Letteralmente si può rendere con: avere, mostrar di avere pronunciati pichi (quella sorta di punte presenti sulla pelle dei volatili, prodromiche dello spuntar delle piume); non esiste un termine corrispondente nell’italiano; l’espressione 
vale: essere ormai o finalmente  cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma di   accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué= punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo dei volatili, punta, come ò détto, prodromica dello spuntar delle piume/penne; l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo impllume, ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per similitudine degli adolescenti  che siano già o ormai maturi e si dimostrino scafati e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di pecone), quantunque realmente sulla pelle degli adolescenti non si riscontrino punte simili a quelle dei volatili.
5. (FARSE Fà) ‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un agg.vo qui però sostantivato
indica  una sorta masturbazione  intermammaria): piú esattamente  occorrerebbe perciò  dire sega spagnola in quanto che spagnola è soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat. seca(re) indica quale  s. f.
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica; sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim.
2 macchina che à impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino, violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco o anche persona piccola, minuta quasi frutto di un gesto onanistico però non portato a compimento per intero ; ovviamente la masturbazione maschile è semanticamente definita sega tenendo presente l’analogo  movimento che si fa usando l’attrezzo per tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.) nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un llungo prollungamento della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).
Ad ogni buon conto preciso qui che  la   masturbazione maschile  (sega) intermammaria prende il nome di (sega) spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato ed attuato dalle prostitute partenopee che prestavano la loro opera nei bassi e fondaci  attigui a  quelli che sarebbero  stati   gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già  nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati francesi  di Carlo VIII  (Amboise, 30 giugno 1470 – † Amboise, 7 aprile 1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois dal 1483 al 1498. Salí alla ribalta cominciando la llunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza, sfrenatezza,sperpero etc. entrò in Italia nel 1494 con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola. Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli  spalancarono le porte delle città pur di non aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola, raggiungendo Napoli il 22 febbraio 1495. Durante questo viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700 abitanti, ed assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli, fu  oggetto di una coalizione avversa che comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria, il Papato e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel lluglio 1495, fuggí in Francia al costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un banale  incidente, sbattendo la testa contro l’architrave d’ un portone;  trasmise una ben  misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine  come risultato di una sconsiderata ambizione che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o  irrealistica; la sola nota  positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed improduttiva   spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel tardo Rinascimento.) ; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri, presero questo nome (che però non indicò come s. m.  ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú si suddividevano le città ed  oggi, zona circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche, topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città; quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite, agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma non amministrativamente, ma indicò il  (mil.) complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di una grande unità mobilitata; il lluogo dove esso à sede | lotta senza quartiere, (fig.) senza escllusione di colpi, spietata | chiedere, dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero, dicevo, questo nome intorno alla metà del  XVI secolo (1532 e ss.) per la vasta presenza  delle guarnigioni militari spagnole, vollute dal viceré don Pedro di Toledo, destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana. All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali quartieri siti a Napoli a  monte della strada di Toledo erano  un lluogo malfamato come tutti i lluoghi dove siano di stanza i militari, un lluogo malfamato dove prostituzione e criminalità la facevano da padrone, con malgrado  del viceré di Napoli, Don Pedro di Toledo (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca, 1484 –† Firenze, 22 febbraio 1553) fu marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 fu viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , da cui il nome della strada, emanasse alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo dunque  alla cosiddetta  sega spagnola  che fu un ingenuo  accorgimento adottato dalle meretrici allorché  si diffuse nella città un pericoloso morbo:  la  lue o sifilide  (détto comunemente: mal francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato portato e  propagato ( nel 1495 circa) nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fósse francese o napoletano il morbo,  le prostitute invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad un contatto superficiale con  quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti spagnoli.
6. NUN SAPé NIENTE ‘E SAN BIASE
Ad litteram: Non saper nulla di san Biagio. Détto ironicamente di chi furbescamente e con una buona dose di improtitudine  si finga all’oscuro di tutto e segnatamente faccia le viste di non aver contezza  di avvenimenti che invece notoriamente non esulino dal suo campo di azione.
L’espressione fu in origine usata  nella morfologia: Tu manco ne saje niente ‘e san Biase, eh!? nel corso degli interrogatori  a cui la polizia partenopea sottopose dei pregiudicati lestofanti che continuarono a negare,  sospettando (e forse a ragione)  che fossero loro gli autori del furto sacrilego perpretato nel 1808,  d’una  famosa statua di san Biagio ospitata nell’omonima chiesa di via san Biagio dei Librari.
 7. PE VVINTINOVE E TTRENTA
Ad litteram: Per ventinove e trenta. Espressione usata ormai soltanto[ma impropriamente al posto di a gghí a gghí(cfr. ultra)] con valenza temporale in riferimento a risultati conseguiti quasi per un nonnulla, per un pelo, all’ultimo minuto se non all’ultimo secondo ed in tale accezione non si conprende per quale motivo si siano presi in considerazione i numerali ventinove e trenta e non [che so?...] tredici e quattordici o venti e ventuno etc.L’amico Renato de Falco ipotizza che si tratti degli ultimi due giorni del mese, nella pretesa che i  risultati siano stati  conseguiti quasi negli ultimi giorni utili,cioè in prossimità della scadenza. Trovo la spiegazione un po’ impraticabile ed azzardata soprattutto perché non si capisce per quale ragione la cultura popolare che si inventò la locuzione avrebbe  preso a riferimento i giorni finali (29 e 30) dei mesi di novembre, aprile, giugno e settembre e non i due giorni finali (27 e 28) del mese di febbraio, o  i ben piú numerosi giorni finali (30 e 31) di tutti gli altri mesi; no non sono convinto e  non  accetto l’idea, anche perché ritengo che l’espressione a margine ebbe in origine una valenza  modale e non temporale e fósse usata in riferimento  a risultati conseguiti non  per caso, per un pelo,oppure all’ultimo minuto, ma a quei risultati conseguiti solo con l’ausilio di tutto il proprio impegno mettendo in campo gli attributi maschili rappresentati esattamente nella smorfia napoletana dai numeri ventinove (il membro, l’organo riproduttivo maschile) e dal numero trenta ( in primis le munizioni dell’obice di competenza del tenente, ma per traslato furbesco, come nel caso che ci occupa,  i testicoli  che intesi, impropriamente, sferici vengono assomigliati a delle sferiche palle da cannone).Del resto,cfr.  alibi, sempre in riferimento  a risultati conseguiti positivamente,con abbondanza di esito,  a faccende condotte in porto con solerzia e diligenza, s’usa dire che trattasi di cose fatte cu sette parme ‘e ca**o (con sette palmi di pene)!   E chiedo scusa all’amico Renato che peraltro, contattato per le vie brevi, à apprezzato la mia idea, accogliendola.  A margine e completamento di tutto quanto detto rammento l’espressione A gghí a gghí da collegarsi a questa locuzione  esaminata e che rappresenta quella da usarsi esattamente in senso temporale in luogo di pe vintinove e ttrenta: 
A gghí a gghí
letteralmente: ad andare ad andare;détto  a commento di tutte quelle azioni condotte a termine   per un pelo ed i cui risultati siano stati raggiunti risicatamente.Locuzione di carattere temporale, ma intesa         talora anche in senso modale.

Raffaele Bracale


Nessun commento: