NASCITA DEL DIALETTO/IDIOMA NAPOLETANO
Chi si pone come tema l’argomento in
epigrafe si imbatte súbito in alcune
questioncelle niente affatto facili da risolvere:
a)stabilire se il napoletano abbia o no una una
precisa data di nascita e stabilire se esso sia da considerarsi lingua o
dialetto;una volta poi chiarito che la
parlata partenopea fu la piú antica della penisola,deve
b) tentar di rispondere al perché quella
parlata non riuscí a diventar lingua nazionale e si
lasciò battere in ciò dal dialetto
fiorentino.
A tanto mi accingo, sperando con queste
paginette, di venire a capo di quanto ripromessomi.
Comincio con il dire súbito che:
1)Napoli(maggiore città della Magna Graecia, risalente con un emporio
dorico sull’isolotto di Megaride, al IX sec. a.C.) per
lungo tempo conservò il suo "greco" dorico, via via sopraffatto e
smantellato nel tempo da Roma, col suo "latino parlato" di militari,
commercianti, coloni, aministratori etc.;
2) Si costituí un "latino
popolare" parlato a Napoli già
nell'Alto Medioevo, anche se ci fu una parziale ripresa del "greco" durante la dominazione
bizantina (specie nei secoli VI-VII-VIII d. C.). Poi si ebbero mistioni solo
lessicali esterne nel Basso Medioevo:ad esempio Normanni, Angioini, Svevi..;
poi i Catalani, gli Spagnoli etc....Oggi si può tranquillamente affermare che il dialetto/idioma napoletano, cosí come
unanimamente riconosciuto, è un idioma romanzo che, accanto all'italiano,
è correntemente parlato (non solo in Italia meridionale, ma anche all’estero tra le
migliaia di emigrati che vogliono ancóra sentirsi vicini alla terra d’origine)
nelle sue molteplici variazioni diatopiche;
è parlato cioè nelle regioni
della Campania,
della Basilicata,
della Calabria
settentrionale, dell'Abruzzo, del Molise,
della Puglia
e nel Lazio
meridionale, al confine con la Campania
con le variabilità dovute alla
provenienza o alla collocazione geografica dei parlanti. Si tratta di
tutti quei territori che, nell’antico Regno/Reame delle Due Sicilie,
costituivano il Reame al di qua del faro di Messina,
laddove la lingua nazionale era appunto il napolitano, mentre il siciliano era quella del Reame al di là del faro (Sicilia).
Rammento che Il volgare pugliese (dove per pugliese
si intende tutto ciò che è relativo al Mezzogiorno)
è l’ altro nome con cui sono storicamente conosciuti il napoletano ed i dialetti ausòni (cioè dell’Ausonia, antico termine per indicare una parte della Campania, Basilicata, Calabria
e, per estensione, tutta l'Italia meridionale,), ed esso sostituí il latino
nel 1442 nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli,
dall'unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso V (Medina del Campo, 1394 – †Napoli, 27 giugno
1458); per cui si potrebbe ritenere la data del 1442 quella di nascita del napoletano;
tuttavia del napoletano che(come il
siciliano ed altre varietà italoromanze) possiede una ricchissima tradizione
letteraria si ànno testimonianze scritte di napoletano già a far tempo dal 960 con il famoso Placito di Capua
(considerato in genere il primo
documento in lingua italiana, ma di fatto si tratta invece della lingua utilizzata in Campania,e cioè
appunto del volgare pugliese) e
poi all'inizio del Trecento, con una volgarizzazione dal latino della Storia
della distruzione di Troia di Guido delle Colonne. La prima opera in prosa è
considerata comunemente un testo di Matteo Spinelli,
sindaco di Giovinazzo,
conosciuta come Diurnali, un Cronicon degli avvenimenti piú importanti
del Regno di Sicilia dell’ XI secolo,
che si arresta al 1268.
Si può dunque affermare che il napoletano/volgare pugliese nacque ben prima di
tutti gli altri dialetti della penisola e, come tutti i piú recenti studi ànno
chiarito, fu figlio non del “latino scritto o classico”, studiato nelle
scuole del passato ed in quelle odierne,
ma di quello “tardo, volgare o parlato”, nell’antico e
quotidiano uso orale di esso da parte
di tutte le classi sociali in ogni tempo e luogo dell’ampio
territorio romanzo; purtroppo dei
suoi effetti specifici nel “napoletano” non vi sono tracce informative, di modo che i
molteplici caratteri
delineati qua e là sono ricavati in base alle esperienze e deduzioni di molteplici
addetti ai lavori e dei loro studi.Piú precisamente è acclarato che il dialetto napoletano (da una visuale
fono-morfo-sintattica) si basò, come ò già détto, prevalentemente sul “latino”,
non
tanto quello “classico o scritto” studiato nelle scuole sui
testi di Cicerone e Cesare, ma quanto su
quello “volgare o parlato” da tutti quotidianamente, con tracce del sostrato
rappresentato da apporti fonetici (di
rado morfologici) della lingua “osca”, (collaterale del ramo “latino” rispetto
a cui con gli Umbri rappresenta l’ultima migrazione indeuropea in
Italia);infatti 2600 anni fa circa gli Osci erano padroni dell'intero Sud, finché dal
III secolo a. C. l'espansione romana non riguardò il Meridione e per un certo
periodo si ebbe una miscela delle due
lingue,fino a che a mano a mano la supremazia militare e linguistica
dell'Urbe non ne uscí vittoriosa. Da non dimenticare
poi che “quel latino tardo, volgare o
parlato” ebbe anche altri influssi d’un’altra eventuale lingua pre-latina;
di conseguenza, sotto quest’aspetto linguistico, il basilare impianto
linguistico del napoletano non è debitore di nessun influsso straniero subíto nell’Alto
e nel Basso Medioevo.
Va poi chiarito che tutti gli apporti che il partenopeo à subíto in
conseguenza del contatto con popoli stranieri (il greco antico e quello
bizantino dal
secolo VI all’inizio del VII; il francese
dei Normanni, degli Angioini e di esso in quanto lingua internazionale dal 1700 in poi; il contatto
con gli Svevi, quello indiretto coi Longobardi e quello con gli Arabi specie per il tramite della mediazione spagnola, la
breve dominazione austriaca dal 1707 al 1734) sono soltanto di natura
lessicale: cioè apporti ristretti a parole nude e semplici, senz’alcuna
struttura grammaticale di natura fonetica, morfologica o sintattica…Mi
pare però opportuno soffermarsi un po’ specificamente
sugli effetti del lungo contatto con la dominazione spagnola (in Italia con gli
Aragonesi-catalani e poi con i Castigliani rispettivamente dal 1442 al 1503 e
dal 1503 al 1707); se ne ricava che circa
un
mezzo migliaio di parole italiane sono entrate nell’uso di
tale lingua, e poco meno di altrettante voci spagnole sono state accolte nel
vocabolario italiano; ma certo se ne conterebbero di piú se si considerassero
anche i lemmi penetrati nel dialetto napoletano del passato ma ormai desueti.
Tuttavia un apporto piú straordinario è ascrivibile alla sola lingua spagnola,
cioè in particolare all’etnia castigliana, la cui lunga dominazione probabilmente
à lasciato nel dialetto/idioma napoletano quattro – forse cinque – nitide tracce grammaticali, al di là dei molteplici
ispanismi lessicali: 1) il verbo spagnolo “estar”, collaterale di
“ser = essere”, è impiegato innanzitutto in comunione col gerundio, in
abbinamenti lessicàlsintattici come “están comiendo” = “stanno mangiando” ecc.,
che il napoletano à ereditato in certi usi analoghi di “stare” in forme progressive:
sto durmenno = sono intento a dormire, sta facenno ’a spesa = è
intento a far la spesa, stanno parlanno = essi sono alle prese coi
colloqui…
Inoltre lo stesso verbo “estar” in unione con un
aggettivo o
participio indica una rispettiva caratteristica transitoria,
che invece con ”ser” risulta permanente: ecco “mi mujer está cansada = mia
moglie è stanca”,
“tú estás sudado = tu sei sudato”, “la chica está enferma =
la ragazza è malata”, ecc., cui il nostro dialetto risponde con tipologie
espressive analoghe, quali sta arraggiato = “è adirato”, stongo
assettato = “sono seduto”,
stanno malati = “sono ammalati”, tu staje
surato = “tu sei sudato”…
2) Cosí il verbo spagnolo “tener” è
usato assoluto al posto di “àber”= “avere” quando non à funzione d’ausiliare e
regge il complemento oggetto.
Ne dànno riprova frasi come “tengo sueño” = “ò sonno”,
“tenemos mucho dinero” = “abbiamo molto denaro” ecc., cui rispondono i nostri sintagmi
dialettali con tengo suonno, tengo famma e ssete, nu’ ttengo tiempo ’a perdere…
3) Ancòra: nel “complemento oggetto”
rappresentato da esseri animati si trova puntuale nelle due comunità
linguistiche la premessa del segnacaso “a”, come càpita anche nel
portoghese e addirittura in un’area
marginale qual è quella del rumeno, altra lingua neolatina;
ma si ritrova, senza tale preposizione indiretta, nel Basile (chiamma lo
scrivano), forse per vivido influsso della lingua “letteraria” fiorentina?
Ess.: “vi a tu hermano en la plaza = vidi tuo fratello nella
piazza”,
“he conocido al niño = ò conosciuto il bambino” ecc., con
analoghi echi nel napoletano quali aggiu visto a frateto, aggiu salutato a
Ppascale, à ‘ncuntrato ô (= a ’o) figlio, capisce a mme!, bbiato a tte! (complemento
esclamativo), salútame a ssoreta!
4) Il complemento di compagnia latino coi
pronomi personali
presenta il “cum” posposto (mecum, tecum = con me, con te);
però la ripetizione delle preposizioni anteposte in napoletano nei due primi pronomi
personali del singolare (cu mmico, cu ttico) indurrebbe al sospetto che
tali ulteriori premesse siano state modellate secondo la parallela
tipologia spagnola, nel resto autonoma per la grafia unica e
per la lenizione della gutturale “c→g” (conmigo, contigo + consigo).
5) Infine la maggiór parte dei verbi
intransitivi napoletani specie indicanti “movimento” mostra – in quasi tutte le
persone dei tempi composti – la possibilità d’alternanza degli ausiliari
“essere / avere”. È probabile che, accanto all’uso locale di “essere”, eguale a
quello prevalentemente tipico del fiorentino-italiano, il napoletano abbia
abbinato
l’altro ausiliare forse per riferimento e influsso diretto
dello spagnolo (attinto durante i lunghi duecentoquattro anni di dominazione),
che appunto ricorre esclusivamente ad “àber” = avere.
Ess.: yo he ido = i’ so’ gghjuto / i’ aggio juto = io
sono andato ; ellos àn venido conmigo = chille so’ vvenuti / ànno venuto cu
mmico = essi sono venuti con me; yo àbía casi muerto de miedo = i’ ero /
êvo quasi muorto ’e
paura = io ero quasi morto di paura, ecc..
Tuttavia la mancanza sia d’un dizionario che d’una
grammatica d’impronta storica c’ impedisce d’avere salde certezze negli
orientamenti d’ attestazione cronologica circa tali tipi di lessico, di
costrutti e sintagmi particolari.
Torniamo all’excursus storico ricordando che nel XVI secolo
re Ferdinando II d’Aragona, il Cattolico(Sos, 10 marzo
1452 –†
Madrigalejo,
25 gennaio
1516),
impose il castigliano
come
nuova lingua ufficiale ed il napoletano di stato sopravvisse solo nelle udienze
regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici.
Ora
chiediamoci come mai quel dialetto/idioma
napoletano, pur essendo il piú antico idioma che tenne dietro al latino tardo, volgare e parlato
sostituendoli in una vastissima area peninsulare ed insulare (Reame al di là ed
al di qua del faro), com’è che non riuscí ad imporsi come lingua ufficiale e
nazionale, cosa che invece riuscí ad un altro dialetto locale, quello
fiorentino, parlato in un’area piú circoscritta e versosimilmente da un numero
minore di soggetti? La risposta è relativamente semplice e penso che (checché
ne dica qualche moderno studioso, aduso a storcere il muso innanzi ad
affermazioni come quella che sto per fare) il dialetto fiorentino, come
giustamente disse Ferdinando Galiani (Chieti
1728 -† Napoli 1787) si
impose non per sue intrinseche capacità o virtú espressive, quanto per ragioni
storico-politiche, senza dimenticare la destrezza toscana e la soverchieria
di letterati e studiosi, mercanti e banchieri toscani che brigarono per imporre il loro
dialetto come lingua comune, mentre nel Meridione la perdita dell’indipendenza
post-unitaria penalizzò ulteriormente il
dialetto/idioma napoletano,che già non
piú in uso negli atti pubblici della nazione e già
confinato negli scritti
ingiustamente ritenuti buffoneschi di
scrittori del calibro di Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570 – †Napoli, 1640), Giambattista
Basile (Giugliano
in Campania, 1566 †Giugliano in
Campania, 23 febbraio 1632),Filippo Sgruttendio (pseudonimo dello
stesso G.C.Cortese), Niccolò Capasso (Grumo Nevano,
13 settembre
1671 - †
ivi 1744),
Pompeo Sarnelli (Polignano 1649 –†Bisceglie 1724). L’avvento della
monarchia sabauda fece il resto e la vanagloria glottica e riservata di quella
casa regnante poi, attraverso il fascismo, impedí la piena commistione tra la
parlata napoletana e quella toscana. Non
dimentichiamo infatti che ancóra tra il 1915 ed il 1918 i fantaccini meridionali, mandati a
difendere i sacri ( la retorica dell’epoca imponeva la sacertà di certe zone
nordiche…) confini d’Italia, parlavano
solo il napoletano e non riuscendo spesso a capire gli ordini dati in lingua italiana
finirono per eseguirli a modo loro rimettendoci in tantissimi le penne e tirando le cuoia per una patria
sentita tale solo nella pomposità interessata
di E.A.Mario (al secolo Giovanio Ermete Gaeta (Napoli 1884 - † ivi 1961) e
della sua La leggenda del Piave! Ci fossero stati graduati partenopei
che avessero tradotto gli ordini dall’italiano al napoletano, forse meno mamme
e spose e sorelle napoletane, lucane, abruzzesi, calabresi, siciliane e
pugliesi avrebbero pianto i loro congiunti mandati al macello sulle petraie del
Carso ed altre impervie alture estranee alle loro terre d’origine!
Infine conviene rammentare che
non è esatto quanto affermato dal prof.
Nicola De Blasi che tempo fa insistí nel dimostrare (?) ed
affermare che Napoli, pur nei molteplici secoli
"capitale" del regno meridionale, non fosse riuscita mai ad imporre la sua parlata alle altre regioni del
Sud, che continuarono a conservare ed
attuare un proprio sistema
linguistico; invece ancóra mo, se si va ad indagare nei linguaggi di Abruzzo,
Basilicata, Sicilia, Puglia e Calabrie
si possono trovare voci e costruzioni linguistiche mutuate chiaramente
dal napoletano; il prof. Nicola De Blasi (tanto
nomine!) forse con le sue affermazioni intese disconoscere le proprie origini,
tentò di rifarsi una verginità,sprovincializzandosi nella speranza forse di
passare un giorno dalla Federico II ad
università piú prestigiose (Luiss, Bocconi etc.).
Diamo, qui giunti, una risposta alla domanda che c’eravamo posti:
come definire il napoletano?
Non lo si può definire lingua perché pur essendo stato, per lunga pezza , un sistema di suoni
articolati distintivi e significanti (fonemi), di elementi lessicali, cioè parole e
locuzioni (lessemi
e sintagmi),
e di forme grammaticali (morfemi), accettato e usato da una comunità
etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo
scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo
storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche, morfologiche e
sintattiche (al pari della lingua italiana, francese, inglese, tedesca, araba, turca, cinese, ecc.) all’attualià, pur essendo mezzo di
comunicazione scritta ed orale di molti individui non è parlata da tutta una nazione e resta
nell’àmbito della varietà dei dialetti e
delle parlate regionali; non la si può definire lingua, mancandogliene la
dignità pur risultando essere mezzo
espressivo di moltissimi letterati, poeti, commediografi che servendosi del
napoletano ànno prodotto importanti opere letterarie (poesie, commedie,
narrativa), spesso anche accompagnate dalla musica (melodrammi, canzoni ecc.); ma
non lo si deve neppure definire dialetto
atteso che in genere con tale termine si
intende un volgare, riduttivo linguaggio minore tributario della lingua
ufficiale, cosa che non si attaglia per nulla al napoletano che è invece (e mi
ripeto sottolineandolo) è un
degnissimo idioma, una apprezzabilissima parlata autonoma, ad ampia diffusione regionale, figlia del
tardo latino e di quello volgare e parlato, idioma ricco di storia e di testi
ed usatissimo per secoli in tutto il meridione, non diventato lingua
nazionale solo per la protervia di certi governanti e per la furbizia di taluni
mercanti, banchieri, scrittori e/o poeti
toscani! Rammento a chi mi lègge che il fiorentino, diventò lingua nazionale peraltro (se non
ricordo male,e non ricordo male!)
rubando a piene mani nei linguaggi e nelle opere di artisti meridionali;
tutti son concordi nel riconoscere che l'italiano moderno è infatti, come spesso
accade con le lingue nazionali, un dialetto che è riuscito, per motivi a volte
incomprensibili, a far carriera; ad imporsi, cioè, come lingua ufficiale
di una regione molto piú vasta di quella originaria. Alla base dell’italiano si trova infatti il fiorentino letterario
usato nel Trecento
da Dante
(1265 -†1321), Petrarca(1304
-†1374), e Boccaccio(1313
-†1375), ed influenzato dalla lingua siciliana
letteraria elaborata in origine dalla Scuola siciliana
di Giacomo da Lentini (1230-†1250) e dal modello
latino.) italiano pervenuto poi alle nostre latitudine anche per il tramite
degli invasori lombardo- piemontesi,
soppiantando o almeno tentando di
soppiantare (senza riuscirvi) la ns. parlata autoctona costruita nobilmente, come del resto il fiorentino, e tutti gli
altri linguaggi locali dell’Italia, verosimilmente sul latino volgare
(parlato dal popolo, volgo) parlato in età classica (e non direttamente dal
latino illustre, che fu la lingua usata dai letterati dell'epoca). L’italiano
che non à nulla in piú del napoletano, si impose come lingua nazionale in epoca
trecentesca per l’opera interessata di
poeti e scrittori, di mercanti e di banchieri ed in età post-unitaria per la
proditoria diffusione voluta dai Savoia e dal fascismo e la vessatoria opera di
ministri, filosofi e professori che per anni imposero e continuano ad imporre a schiere di poveri indifesi ragazzi Divine
Commedie e Promessi Sposi, Libri Cuore etc.
a colazione, pranzo e cena, tenendo in non cale tutta la produzione
secentesca ed ottocentesca napoletana! In conclusione reputo che per evitare
confusione o fraintendimenti il napoletano non sia da definirsi nè dialetto, nè
lingua, ma idioma!
Idioma ch’io difendo a spada tratta e mi auguro che prima o poi
chi comanda i giuochi prenda una
decisione storica e si decida a fare
insegnare l’ idioma partenopeo almeno nel meridione, in tutte le
scuole d’ ogni ordine e grado affidandone l’insegnamento non a “strascinafacenne” incolti e
presuntuosi né ai soliti noti amici
degli amici, ma ad appassionati e preparati
studiosi sia pure estranei ai
palazzi del potere.
Hoc est in votis!
Raffaele Bracale
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