LA SCRIZIONE DEGLI INFINITI NEL
NAPOLETANO
Mi è stato chiesto da alcuni miei
abituali lettori che passim usufruiscono delle cosucce che scrivo qua e là e mi
è stato chiesto di spendere una parola chiarificatrice sul modo migliore di
vergare gli infiniti del napoletano, se cioè sia piú
corretto usare gli infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ad es.: magnà=
mangiare) oppure una forma apocopata (es.: magna’) o addirittura (come fa uno
sprovveduto compilatore di lessico partenopeo) una forma pletorica con accento
e segno d’apocope (cfr. magnà’). Dico súbito che il modo piú
corretto è quello di scrivere gli
infiniti accentanti sull’ultima sillaba (ess.:
fà, dà,jí,parlà, cantà,saglí,ferní,cadé,
tené etc.) e chiarisco qui di sèguito il perché1)uniformità di scrittura degli
infiniti che in napoletano (nelle forme troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son
tutti accentati sull’ultima sillaba (cfr. ad es.fa(re)→fà – magna(re)→magnà
– cammena(re)→cammenà –cade(re)→cadé
- murire→murí etc.), 2) la grafia
apocopata degli infiniti monosillabi (cfr.
fa’, da’) presta il fianco,se considerati fuor del
contesto ad esser confusa con la 2ª
p.sg. dell’imperativo: da’= dai,fa’= fai.
Rammento altresí che durante le mie numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere
sui dialetti centro meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in
taluni autori che, ritenendo di fare
cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in luogo dell' accento
tonico facendo le viste di dimenticare
che solo l'accento tonico può appunto dare un tono alla parola,e
può (solo!) indicarne graficamente l'esatta pronuncia; mi è
capitato peraltro di imbattermi, ripeto,
in altri maldestri autori ed addirittura compilatori di lessici, che per
tema di errore, abbondano in segni diacritici e sbagliano parimenti . In
effetti nella parlata napoletana è un
errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed aggiungervi
anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope dell' ultima
sillaba:
l'accento, inglobando in sé la
doppia funzione, è piú che sufficiente
alla bisogna; il segno dell'apostrofo
in fin di parola si deve porre quando si voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo èssere può essere
apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancóra ad es. il
verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche essere
apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando
alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo
cadere va reso con la grafia cadé e non
cade’ che si dovrebbe leggere càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade
nel dialetto romanesco dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento
d’accento tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es.
càpita con il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va letto: vede e non vedé.)È
pur vero che, in napoletano, alcuni
infiniti di verbi che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero
esser scritti con il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in
quanto che nei monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non
può cadere su altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il
verbo stare l’ apocopato: sta’ in luogo di stà , per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’ invece di fà, per
l’infinito di dare l’ apocopato: da’ invece
di dà, ma personalmente reputo piú
comodo come ò détto per mantenere una
sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o
plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà, dà
in luogo dei pur corretti sta’ e fa’,
da’ che valgono stare, fare,dare tenendo
conto altresí che almeno nel caso di fa’
e da’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come voce degli imperativo (fai→fa’dai→da’), piuttosto che degli
infiniti fare,dare cosa che invece
non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non è sta’,
ma statte. Rammento
che, normalmente occorre
accentare sull’ultima sillaba tutte le
voci verbali degli infiniti (per lo meno bisillabi) tronchi o apocopati (ess.:
magnà, purtà, pusà, cadé, rummané etc.) per modo che si possa facilmente
individuare la sillaba su cui poggiare il tono della parola, cosa che non
avverrebbe se in luogo di accentare il verbo si procedesse ad apostrofarlo per indicarne l’apocope
dell’ultima sillaba; in tal caso infatti
non spostandosi l’accento
tonico si altererebbe completamente la
lettura del verbo; facciamo un esempio: il verbo spàrtere (dividere) che apocopato dell’ultima sillaba
diventa spartí se in luogo
dell’accento fosse scritto con il segno dell’apocope sparti’ dovrebbe
leggersi col primitivo accento spàrti e non indicherebbe piú l’infinito,
ma – forse - una scorretta forma della
2ª pers. sing. dell’ind. pres.che è sparte
e non sparti. Premesso tutto ciò,
a mio sommesso, ma deciso avviso ripeto che
è opportuno – per una sorta di omogeneità - accentare sull’ultima sillaba tutti i verbi
al modo infinito anche quelli
monosillabici (ovviamente quando si
tratti di autentici verbi presenti nel lessico napoletano e non presi in prestito dall’italiano!, come
impropriamente fa qualcuno che annovera tra gli infiniti del napoletano un
inesistente dí contrabbandato per infinito apocopato del verbo dícere
laddove è risaputo che il napoletano pretto e corretto usa sempre la forma dícere
e mai, se non per rare licenze ed
esigenze metriche poetiche, l’apocopato dí
e chi lo usasse o avesse usato in prosa, sbaglierebbe o si sarebbe sbagliato
quand’anche si fósse
chiamato Di Giacomo! )
Et de hoc satis, augurandomi
d’essere stato chiaro e d’aver adeguatamente risposto al quesito di alcuni
dei miei ventiquattro lettori.
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