1. STÀ
A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: stare,
essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per
traslato, trovarsi nella condizione estrema
di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'abblativo della locuzione è appunto l'ablativo, cioè l’ultimo caso delle
declinazioni latine, caso che
indica il luogo in cui o da cui avviene/proviene l'azione, lo strumento o il modo
dell'azione, la causa ecc.; la denominazione di ablativo è stata estesa
poi anche ai casi terminali delle
declinazioni di altre lingue
indoeuropee: ed ambedue le voci
derivano dal lat. ablativu(m) (casum), deriv. di ablatus,
part. pass. di auferre 'portare via'; nella voce napoletana
abbiamo il tipico raddoppiamento rafforzativo espressivo
della labiale esplosiva b;
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per
dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un
movimento; stare, trovarsi, essere;
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2. STÀ MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere
prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno
per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione
era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era
insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva
davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato
nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente
è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per
traslato adiacente, collegato, unito
espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato
ad altro, ma anche traslato riferito a
cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e
legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m)
o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di
cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
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3 CU 'O TIEMPO E CU 'A
PAGLIA...
Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La
frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe
vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i
risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo,
come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi
quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo
le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con
pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso
ciò che avviene per le famose mele annurche
che raccolte non ancóra
completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a
che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della
maturazione che rendono annurco=indulcato→annulca(t)o→annurco
il frutto.
tiempo= tempo dal
lat. tempus con tipica dittongazione nella sillaba d’avvio intesa breve: ie←ĕ;
paglia = paglia, l'insieme degli
steli disseccati dei cereali già mietuti e battuti con
etimo dal basso lat.palia(m) o palea(m), ma nel napoletano forse per il tramite del catalano palla (cfr. pronunzia paglia)
ammaturano=
maturano voce verbale (3° pers. plur.ind.
pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv.
di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost.
femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti
globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e
lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat.
mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il
neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che
avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte
ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino
assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e
croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare=
addolcire deriva la voce annurca
secondo il percorso indulcata→annulcata→annurca(ta),come
ò già indicato, quantunque qualcuno un
po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il
vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella
zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il
perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è
limite!
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5. STAMMO ALL'EVERA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine,
non c'è piú niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente
detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in
maniera piú estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il
verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei
pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde,
significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far
qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo
all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
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6. HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: ÀI sciupato un
sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei
propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi
alla miseria piú cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere;
il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il
Signore istituí la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa
Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo
a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si
tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de
Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa
da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro,
riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti
gli altri cavalieri non abbastanza puri.
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7. FATTE CAPITANO E
MAGNE GALLINE.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica
di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina
era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi
capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra
valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere
un capitano e gòdine i benefici.
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8 CHI NASCE TUNNO NUN
PO’ MURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non può morire quadrato. Id est: è impossibile
mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà
dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando
l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive
inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità
della quadratura del cerchio.
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9 A CHI PARLA ARRETO, 'O
CULO LE RISPONNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponde il sedere. La locuzione
vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli
sparlatori, gli spettegolatori meritano come risposta del loro vaniloquio una
salve di peti.
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10 A CRAJE A CRAJE COMME
 CURNACCHIA.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa
per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a
procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso
della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che
significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non ha
seria intenzione di lavorare .
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11 CHELLO CA NUN SE FA
NUN SE SAPE.
Letteralmente:(solo) ciò che non si fa non si viene a sapere. Id est: La fama
diffonde le notizie e le propaga, per cui se si vuole che le cose proprie non
si sappiano in giro, occorre non farle, giacché ciò che è fatto prima o poi
viene risaputo.
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12 'O PESCE GRUOSSO,SE
MAGNA Ô PICCERILLO.
Letteralmente: il pesce grande si mangia il piccolo. Id est piú generalmente:
il potente divora il debole per cui se ne deduce che è certamente lotta impari destinata sempre all'insuccesso
quella combattuta da un piccolo contro un grande, checché ne dicano taluni
arruffapopolo che blaterano di pretestuose lotte vittoriose condotte da
poveri e deboli, accreditati di essere comandati da eroi senza macchia e senza paura…
Sciocchezze! Gli eroi non esistono…
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13 'O PUORCO SE 'NGRASSA PE NE FÀ SACICCE.
Letteralmente: il maiale è ingrassato per farne salsicce. La locuzione vuole
amaramente significare che dalla disincantata osservazione della realtà si
deduce che nessuno fa del bene disinterassatamente; anzi chiunque fa del bene
ad un altro mira certamente al proprio tornaconto che gliene deriverà, come -
nel caso in epigrafe - il maiale non deve pensare che lo si lasci ingrassare
per fargli del bene, perchè il fine perseguito da colui che l'alleva è quello
di procurarsi il proprio tornaconto sotto specie di salsicce.
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14 JÍ METTENNO 'A FUNE 'E NOTTE.
Letteralmente: Andar tendendo la fune di notte. Lo si dice sarcasticamente
nei confronti specialmente dei bottegai che lievitano proditoriamente i
prezzi delle loro mercanzie, ma anche nei confronti di tutti coloro che
vendono a caro prezzo la loro opera. La locuzione usata nei confronti di
costoro - bottegai e salariati - li equipara quasi a quei masnadieri che nottetempo
erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale
incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano
facilmente cosí oggetto di rapina da parte dei masnadieri.
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15 SE SO' RUTTE 'E TIEMPE, BAGNAJUÓ.
Letteralmente: Bagnino, si sono guastati i tempi(per cui non avrai piú
clienti bagnanti e i tuoi guadagni precipiteranno di colpo). La locuzione la
si usa quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in
peggio e si appropinquano relative conseguenze negative.
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16 PARLA QUANNO PISCIA ‘A GALLINA!
Letteralmente: parla quando orina la gallina. Cosí, icasticamente ed in
maniera perentoria, si suole imporre di zittire a chi parli inopportunamente
o fuori luogo o insista a profferire insulsaggini, magari gratuite
cattiverie. Si sa che la gallina âespleta le sue funzioni fisiologiche, non
in maniera autonoma e separata, ma in un unicum, per modo che si potrebbe
quasi pensare che, non avendo un organo deputato esclusivamente alla bisogna,
la gallina non orini mai, di talché colui cui viene rivolto l'invito in
epigrafe pare che debba tacere sempre.
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17 PUOZZE PASSÀ P''A LOGGIA.
Letteralmente: Possa passare per la
Loggia (di Genova). E' come a dire: Possa tu morire. Per la
zona della Loggia di Genova,adiacente l’attuale via Nuova Marina infatti,
temporibus illis, transitavano tutti i cortei funebri partiti dal centro
storico della città e diretti al
Camposanto.
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18 CORE CUNTENTO Â LOGGIA.
Letteralmente: Cuor contento alla Loggia. Cosí il popolo suole apostrofare
ogni persona propensa, anche ingiustificatamente, ad atteggiamenti giocosi ed
allegri, rammentando con la locuzione il soprannome dato, per la sua perenne
allegria, alla fine dell'Ottocento, ad un celebre facchino della Loggia di
Genova che era una sorta di territorio franco concesso dalla città di Napoli
alla Repubblica marinara di Genova, dove i genovesi svolgevano i loro
commerci, autoamministrandosi.
BRAK
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