7 ICONICHE ESPRESSIONI 24.8.21
1. MANNÀ A ACCATTÀ ‘O TTOZZABANCONE oppure MANNÀ A ACCATTÀ ‘O PPEPE
Ad litteram: mandare a comprare
l'urtabancone. oppure mandare a
comprare il pepe.
Anticamente, quando le famiglie erano
numerose, in ogni casa si aggirava un gran numero di bambini, la cui
presenza impediva spesso alle donne di casa di avere un incontro ravvicinato
col proprio uomo. Allora, previo accordo, il bottegaio (sallumiere, droghiere)
della zona si assumeva il compito di intrattenere, con favolette o
distribuzione di piccole leccòrnie, i bambini che le mamme gli inviavano con la
frase stabilita di “accattà 'o tozzabancone” oppure”accattà ‘o ppepe” . Altri tempi ed altre
disponibilità!
Nota:
1)Per l’etimo del verbo accattà cfr. oltre sub 3.
2)Il sost.vo pepe = pepe, in napoletano è di genere neutro come altri alimenti: ‘o ppane, ‘o
zzuccaro, ‘o ccafé etc. e come neutro preceduto dall’ art. ‘o oppure llu esige la geminazione della consonante iniziale; perciò ‘o/lllu
ppepe e non ‘o/lllu pepe come ‘o/lllu
ppane e non ‘o/lllu pane, ‘o/lllu
zzuccaro e non ‘o/llu zuccaro, ‘o/llu ccafé e non ‘o/llu cafè. Rammento che c’è
un solo caso in cui ‘o zzuccaro non esige la doppia zeta ed è nel caso del
diminutivo ‘o zuccariello usato però non
in riferimento all’alimento, ma come aggettivazione vezzeggiativa nei confronti
di un bambino piccolo accreditato d’essere quasi dolce come lo zucchero e
rammento altresí che il s.vo café quando non indichi la bevanda, ma il negozio
dove si serve o vende quella bevanda, diventa di genere maschile e non esige la
geminazione iniziale propria del neutro; per cui avremo ‘o/llu
ccafé = la bevanda di caffé, ma ‘o/llu
café = il bar; ugualmente il s.vo neutro ‘o/llu
ppane che indica l’alimento, nelle parole derivate perde la geminazione
della consonante ed usa la scempia: ‘o/llu
ppane ma ‘o/llu panettiere.
2.ACCATTARSE ‘O CCASO.
Ad litteram: portarsi via il formaggio. Per la verità nel napoletano il verbo accattà significa innanzitutto: comprare,
ma nella locuzione in epigrafe bisogna
intenderlo nel suo primo significato
etimologico di portar via dal latino: ad + captare iterativo di capere (prendere); questo il percorso
morfologico: ad + captare→ adcaptare→accaptare→accattare
con doppia assimilazione regressiva:
adc→acc, apta→atta
La locuzione non à legame alcuno con il fatto
di acquistare in salumeria o altrove del formaggio; essa si riferisce piuttosto
al fatto che i topi che vengono attirati
nelle trappole da un minuscolo pezzo di formaggio, messo come esca, talvolta
riescono a portar via l’esca senza restar catturati; in tal caso si usa dire ca
‘o sorice s’è accattato ‘o ccaso ossia che il topo à subodorato il
pericolo ed è riuscito a portar via il
pezzetto di formaggio, evitando però di esser catturato. Per traslato, ogni volta
che uno fiuti un pericolo incombente o
una metaforica esca approntatagli, ma se ne
riesce a liberare, si dice che s’è accattato ‘o ccaso.
3. FÀ ACQUA
'A PIPPA.
Letteralmente: la pipa fa acqua;
id est: la miseria incombe, ci si trova in grandi ristrettezze. Icastica
espressione con la quale si suole sottolineare lo stato di grande miseria in
cui versa chi sia il titolare di questa pipa che fa acqua. Sgombro súbito
il campo da facili equivoci: con la locuzione in epigrafe la pipa,
strumento atto a contenere il tabacco per fumarlo, non à nulla da vedere;
qualcuno si ostina però a vedervi un nesso e rammentando che quando a
causa di un cattivo tiraggio, la pipa inumidisce il tabacco acceso impedendogli
di bruciare compiutamente, asserisce che si potrebbe affermare che la
pipa faccia acqua. Altri ritengono invece che la pipa in questione è quella
piccola botticella spagnola nella quale si conservano i liquori, botticella che
se contenesse acqua starebbe ad indicare che il proprietario della menzionata
pipa sarebbe cosí povero, da non poter conservare costosi liquori, ma
solo economica acqua. Nessuna delle due spiegazioni mi convince ed a mio avviso reputo invece che la pippa in epigrafe sia
qualcosa di molto meno casto e della pipa del fumatore, e di quella del beone
spagnolo e stia ad indicare, molto piú prosaicamente il membro
maschile che laddove, per sopravvenuti problemi legati all’
età o ad altri malanni, non fosse piú in grado di sparger seme si
dovrebbe contentare di emettere i liquidi scarti renali, esternando cosí
la sua sopravvenuta miseria se non economica, certamente funzionale,
figurazione di ristrettezza e/o miseria piú generale e vasta.Tanto è avvolarato
anche dalla considerazione che nel
linguaggio popolare della città bassa per riferirsi all’atto masturbatorio maschile s’usa l’espressione: farse ‘na pippa.
4. TENÉ ‘E
PECUNE
Letteralmente
si può rendere con: avere, mostrar di avere pronunciati pichi (quella sorta di
punte presenti sulla pelle dei volatili, prodromiche dello spuntar delle piume);
non esiste un termine corrispondente nell’italiano; l’espressione
vale:
essere ormai o finalmente
cresciuto/maturato mentalmente e/o caratterialmente; lo si dice di
solito degli adolescenti che si mostrino piú maturi di quel che la loro età
farebbe sospettare; di per sé ‘o pecone(che per etimo è un derivato in forma
di accrescitivo (cfr. il suff. one) del francese pique/piqué=
punta/tessuto a rilievo) è una sorta di punta che appare sulla pelle del corpo
dei volatili, punta, come ò détto, prodromica dello spuntar delle piume/penne;
l’apparire di tali punte dimostra che il volatile non è piú un giovanissimo impllume,
ma è cresciuto e fisicamente evoluto, pronto ad affrontar la vita; per
similitudine degli adolescenti che siano
già o ormai maturi e si dimostrino scafati
e cioè attenti, svegli e smaliziati, si dice che abbiano ‘e pecune (pl. di
pecone), quantunque realmente sulla pelle degli adolescenti non si riscontrino
punte simili a quelle dei volatili.
5. (FARSE Fà)
‘NA SPAGNOLA
Letteralmente : Farsi fare una (sega) spagnola. La voce spagnola (che di per sé è un
agg.vo qui però sostantivato
indica una sorta masturbazione intermammaria): piú esattamente occorrerebbe perciò dire sega
spagnola in quanto che spagnola è
soltanto un aggettivo; la sega di per sé (con derivazione deverbale dal lat.
seca(re) indica quale s. f.
1 utensile usato per tagliare materiali diversi, costituito da una lama
di acciaio munita di denti, inserita in un telaio o in un manico: sega a
mano; sega da falegname, da macellaio; sega chirurgica;
sega da meccanico, seghetto per metalli | coltello a sega, con la
lama dentata; serve per tagliare pane, dolci e sim.
2 macchina che à
impieghi simili alla sega a mano: sega elettrica, meccanica; sega
a nastro, con la lama costituita da un nastro d'acciaio dentato, chiuso ad
anello e teso fra due pulegge; sega circolare, in cui la lama è un disco
d'acciaio dentato; sega alternativa, simile a un grosso seghetto per
metalli azionato da un motore elettrico
3 (mus.) strumento idiofono (s. m. (mus.) ogni
strumento musicale in cui il corpo vibrante è costituito dal corpo stesso dello
strumento p. e. la campana, il triangolo) del primo Novecento; consiste
in una normale sega a mano che, stretta fra le ginocchia, viene posta in
vibrazione sfregando il lato non dentato con un archetto di violino,
violoncello o contrabbasso
4 (region.) segatura; mietitura: la sega del grano
5 (volg.ed è il caso che ci occupa) masturbazione maschile | non
valere, non capire una sega, (fig.) niente, nulla; essere
una sega, una mezza sega, (fig.) una persona che vale poco o
anche persona piccola, minuta quasi frutto di un gesto onanistico però non
portato a compimento per intero ; ovviamente la masturbazione maschile è
semanticamente definita sega tenendo presente l’analogo movimento che si fa usando l’attrezzo per
tagliare o compiendo l’atto onanistico.
6 fare sega, (centr.)
nel gergo degli studenti, marinare la scuola
7 pesce sega, grosso pesce marino con un llungo prollungamento
della mascella simile alla lama di una sega (fam. Pristidi).
Ad
ogni buon conto preciso qui che la masturbazione maschile (sega) intermammaria prende il nome di (sega) spagnola in quanto metodo di soddisfazione sessuale maschile ideato
ed attuato dalle prostitute partenopee che prestavano la loro opera nei bassi e
fondaci attigui a quelli che sarebbero stati
gli acquartieramenti dei soldati spagnoli (XVI sec.), ma che già nel XV sec. ospitavano (1495)i soldati
francesi di Carlo VIII (Amboise,
30 giugno
1470 – † Amboise,
7 aprile
1498) che fu Re di Francia della dinastia dei Valois
dal 1483 al
1498. Salí alla ribalta
cominciando la llunga serie di guerre Franco-Italiane; Carlo VIII, campione di
disordine, disorganizzazione, dissesto, eccesso, intemperanza,
sfrenatezza,sperpero etc.
entrò in Italia
nel 1494
con lo scopo preciso di metter le mani sul regno napoletano e la sua avanzata
caotica e disordinata scatenò un vero terremoto politico in tutta la penisola.
Incontrò, nel viaggio di andata, timorosi regnanti, che gli spalancarono le porte delle città pur di non
aver a che fare con l'esercito francese e marciò attraverso la penisola,
raggiungendo Napoli
il 22 febbraio
1495. Durante questo
viaggio assediò ed espugnò il castello di Monte San Giovanni, trucidando 700
abitanti, ed assediò, distruggendone i due terzi e uccidendone 800 abitanti, la
città di Tuscania (Viterbo).Incoronato re di Napoli,
fu oggetto di una coalizione avversa che
comprendeva la Lega di Venezia, l'Austria,
il Papato
e il Ducato di Milano. Sconfitto nella Battaglia di Fornovo nel lluglio 1495, fuggí in Francia al
costo della perdita di gran parte delle sue truppe. Tentò nei pochi anni seguenti
di ricostruire il suo esercito, ma venne ostacolato dai grossi debiti contratti
per organizzare la spedizione precedente, senza riuscire a ottenere un
sostanziale recupero. Morí due anni e mezzo dopo la sua ritirata, per un
banale incidente, sbattendo la testa contro
l’architrave d’ un portone; trasmise una ben
misera eredità e lasciò la Francia nei debiti e nel disordine come risultato di una sconsiderata ambizione
che venne definita, nella forma piú benevola, come utopica o irrealistica; la sola nota positiva, la sua sconsiderata, dispendiosa ed
improduttiva spedizione fu di promuvere contatti tra gli umanisti
italiani e francesi, dando cosí vigore alle arti e alle lettere francesi nel
tardo Rinascimento.)
; i quartieri spagnoli, o più semplicemente i quartieri,
presero questo nome (che però non indicò come s. m. ciascuno dei quattro rioni in cui per lo piú
si suddividevano le città ed oggi, zona
circoscritta di una città, avente particolari caratteristiche storiche,
topografiche o urbanistiche: quartiere residenziale; un vecchio
quartiere popolare | quartieri alti, la zona più elegante della città;
quartieri bassi, la zona più popolare | quartiere satellite,
agglomerato urbano contiguo a una grande città, autonomo quanto a servizi ma
non amministrativamente, ma indicò il (mil.)
complesso di edifici o di attendamenti dove alloggia un reparto dell'esercito: quartiere
d'inverno, d'estate | quartier generale, il complesso degli
ufficiali, dei soldati e dei mezzi necessari al funzionamento del comando di
una grande unità mobilitata; il lluogo dove esso à sede | lotta senza
quartiere, (fig.) senza escllusione di colpi, spietata | chiedere,
dare quartiere, (fig.) chiedere, concedere una tregua, la resa) presero,
dicevo, questo nome intorno alla metà del
XVI secolo
(1532 e ss.) per la vasta presenza delle
guarnigioni militari spagnole, vollute dal viceré don Pedro di Toledo,
destinate alla repressione di eventuali rivolte della popolazione napoletana.
All'epoca, come già precedentemente al tempo di Carlo VIII, comunque tali
quartieri siti a Napoli a monte della strada
di Toledo erano un lluogo malfamato come
tutti i lluoghi dove siano di stanza i militari, un lluogo malfamato dove prostituzione
e criminalità
la facevano da padrone, con malgrado del
viceré di Napoli,
Don Pedro di Toledo (Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga (Salamanca,
1484 –† Firenze,
22 febbraio
1553) fu marchese consorte di Villafranca e dal 1532 al 1553 fu viceré di Napoli per conto di Carlo V d'Asburgo , da cui il nome della
strada, emanasse alcune apposite leggi tese a debellare il fenomeno; torniamo
dunque alla cosiddetta sega
spagnola che fu un ingenuo accorgimento adottato dalle meretrici
allorché si diffuse nella città un pericoloso morbo: la lue
o sifilide (détto comunemente: mal
francese o morbo gallico) e si ritenne che tale morbo fosse stato
portato e propagato ( nel 1495 circa)
nella città, attraverso il contatto con le prostitute locali, dai soldati
francesi al sèguito di Carlo VIII ; da notare che – per converso – i francesi
dissero la lue: mal napolitain nella pretesa che fossero state le
prostitute partenopee a diffonderlo fra i soldati carlisti; fósse francese o
napoletano il morbo, le prostitute
invece di soddisfare i clienti soldati con un normale coito, si limitarono ad
un contatto superficiale con
quell’esercizio che fu detto (sega) spagnola in quanto le
prostitute esercitavano in tuguri (bassi e fondaci) di quei quartieri poi détti
spagnoli.
6. NUN SAPé NIENTE ‘E SAN BIASE
Ad litteram: Non saper nulla di san Biagio. Détto ironicamente di
chi furbescamente e con una buona dose di improtitudine si finga all’oscuro di tutto e segnatamente
faccia le viste di non aver contezza di
avvenimenti che invece notoriamente non esulino dal suo campo di azione.
L’espressione fu in origine usata
nella morfologia: Tu manco ne saje
niente ‘e san Biase, eh!? nel corso degli interrogatori a cui la polizia partenopea sottopose dei
pregiudicati lestofanti che continuarono a negare, sospettando (e forse a ragione) che fossero loro gli autori del furto
sacrilego perpretato nel 1808,
d’una famosa statua di san Biagio
ospitata nell’omonima chiesa di via san Biagio dei Librari.
7. PE VINTINOVE E TTRENTA
Ad litteram: Per ventinove e trenta. Espressione usata ormai
soltanto[ma impropriamente al posto di a gghí a gghí(cfr. ultra)] con valenza
temporale in riferimento a risultati conseguiti quasi per un nonnulla, per un
pelo, all’ultimo minuto se non all’ultimo secondo ed in tale accezione non si
conprende per quale motivo si siano presi in considerazione i numerali
ventinove e trenta e non [che so?...] tredici e quattordici o venti e ventuno
etc.L’amico Renato de Falco ipotizza che si tratti degli ultimi due giorni del
mese, nella pretesa che i risultati
siano stati conseguiti quasi negli
ultimi giorni utili,cioè in prossimità della scadenza. Trovo la spiegazione un
po’ impraticabile ed azzardata soprattutto perché non si capisce per quale
ragione la cultura popolare che si inventò la locuzione avrebbe preso a riferimento i giorni finali (29 e 30)
dei mesi di novembre, aprile, giugno e settembre e non i due giorni finali (27
e 28) del mese di febbraio, o i ben piú
numerosi giorni finali (30 e 31) di tutti gli altri mesi; no non sono convinto
e non
accetto l’idea, anche perché ritengo che l’espressione a margine ebbe in
origine una valenza modale e non
temporale e fósse usata in riferimento a
risultati conseguiti non per caso, per
un pelo,oppure all’ultimo minuto, ma a quei risultati conseguiti solo con
l’ausilio di tutto il proprio impegno mettendo in campo gli attributi maschili
rappresentati esattamente nella smorfia napoletana dai numeri ventinove (il
membro, l’organo riproduttivo maschile) e dal numero trenta ( in primis le munizioni dell’obice di competenza del tenente, ma per traslato furbesco, come nel caso che ci
occupa, i testicoli che intesi, impropriamente, sferici vengono
assomigliati a delle sferiche palle da cannone).Del resto,cfr. alibi, sempre in riferimento a risultati conseguiti positivamente,con
abbondanza di esito, a faccende condotte
in porto con solerzia e diligenza, s’usa dire che trattasi di cose fatte cu sette parme ‘e ca**o (con sette palmi di pene)! E chiedo scusa all’amico Renato che
peraltro, contattato per le vie brevi, à apprezzato la mia idea, accogliendola. A margine e completamento di tutto quanto detto
rammento l’espressione A gghí a gghí da
collegarsi a questa locuzione esaminata
e che rappresenta quella da usarsi esattamente in senso temporale in luogo di
pe vintinove e ttrenta:
A gghí a gghí
letteralmente: ad andare ad andare;détto
a commento di tutte quelle azioni condotte a termine per un pelo ed i cui risultati siano stati
raggiunti risicatamente.Locuzione di carattere temporale, ma intesa talora
anche in senso modale.
Raffaele Bracale
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