ALTRI
EPITETI
Accodo alla
precedente nutrita elencazione di epiteti numerosi altri molto icastici ed espressivi quantunque \ antichi e desueti,
tutti riportati nelle sue opere dal Basile
(Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) notissimo letterato
napoletano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di
espressione popolare.. Gli epiteti desueti sono
Ciernepérete agg.vo f.le
e solo femminile letteralmente setacciatrice
di scorregge ma va da sé che non potendosi passare allo staccio le
emissioni gassose intestinali, si tratti
di una divertitente, quantunque
offensiva voce traslata con cui si indica una donna dal
voluminoso fondoschiena che abbia un incedere ancheggiante e dondolante facendo
oscillare il sedere per modo che imiti il movimento d’un setaccio; la voce è
formata dall’agglutinazione di cierne + il s.vo pérete:
cierne v.ce verbale (2ª
pers. sg. ind. pres. dell’infinito cèrnere= stacciare, setacciare dal lat. cernere
'vagliare, separare',
pérete s.vo f.lepl. di péreta femminilizzazione
espressiva di píreto s.vo m.le = peto,
emissione rumorosa di gas dagli intestini. (dal lat. pēditu(m), deriv. di pedere
'fare peti' con alternanza osco mediterranea di d→r onde pēditu(m)→piritu(m)→píreto);il s.vo f.le
péreta fu coniato nell’intento di
connotare un emissione di gas
intestinali che fosse piú rumorosa di quella normalmente indicata dal m.le píreto e ciò perché In napoletano un oggetto o cosa che sia è inteso
se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad .
es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo
),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ),
‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a
carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ) ,‘a
canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú
grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella;
Forcelluta agg.vo f.le;
al maschile, ma poco usato, è furcelluto mordace, maledico/a
aggressivo/a, caustico/a, graffiante, tagliente, salace, sferzante, ironico/a
ma sempre addizionati di una dose di malevoli bugie; con linguaggio moderno si
direbbe lingua biforcuta ; etimologicamente
la voce infatti è un denominale di furcella/forcella =
forcina,forcella, nome generico di vari utensili costituiti da un'asta biforcata in due bracci: dal lat. furcilla(m),
dim. di furca 'forca';
Perogliosa agg.vo f.le;
al maschile, ma poco usato, è perogliuso = cencioso/a – lacero/a,
sbrindellone/a, sciattone/a; epiteto rivolto soprattutto a giovane donna o
giovane uomo che siano molto poco attenti al loro decoro personale mantenendo
un atteggiamento di immagine o comportamentale
trasandato, trascurato, disordinato, scalcinato; la voce è un denominale di pèroglie
s.vo f.le pl. =cenci,
cianfrusaglie,pezze per i piedi dal lat.
pedulĭa : da notare la roticizzazione
osco-mediterranea della d→r;
Pontonèra/Puntunèra doppia morfologia alternativa di cui la
prima adottata da scrittori meno adusi alla verace parlata popolare napoletana d’un'unica voce che sostanzia un epiteto altamente offensivo
rivolto ad una donna e solo a donne; ambedue le forme, con la distinzione che ò
fatto, furono usate sia in letteratura
(cfr. Ferdinando Russo che però adoperò la piú esatta e veracemente popolare puntunèra ) che nel parlato della città bassa quale epiteto offensivo; il significato fu
univoco senza possibilità di confusione: prostituta, donna di malaffare, donna
da strada, donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca; la voce
etimologicamente è un denominale di pontone/puntone
(angolo di strada, spigolo di
muro,cantonata di via,) addizionato del suff. di competenza f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma panett-iere etc.);
pontone/puntone
s.vo m.le = angolo di strada, spigolo
di muro, cantonata; voce ricavata dal s.vo
puncta(m) con riferimento allo
spigolo del muro, addizionato del suff. accr. m.le one.Rammento altresí che nella medesima
valenza e significato della voce in
esame fu usato sebbene piú in
letteratura che nel parlato un analogo cantonèra/cantunèra (marcato sul s.vo - che non è della parlata
napoletana cantone) voce mutuata dal
siciliano;
Puppeca prostituta,
malafemmina, battona etc. ; totalizzante offesa rivolta a donna e solo a donne;
di per sé la voce a margine varrebbe (donna)pubblica in quanto voce
etimologicamente derivata per adattamento locale dall’agg.vo lat. publĭca (passato inalterato nello
spagnolo cfr. mujer publica=prostituta) secondo
il seguente percorso morfologico publĭca→pubbica→pubbeca→puppeca;
Quaquarchia/Quarchiosa/Quarchiamma triplice morfologia d’un unico vocabolo di
partenza: quaquarchia che sostanziò una pesante offesa rivolta ad una donna
e solo a donne: donna brutta,sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida nonché sordida;
volgare, scurrile, indecente e quindi
spregevole; la voce quaquarchia come le successive, etimologicamente derivano
tutte da quarchia (s.vo f.le
d’origine onomatopeica per indicare una cosa sporca, un oggetto unto); quaquarchia
presenta l’iterazione espressiva e rafforzativa della prima sillaba posta in posizione
protetica; sempre partendo da quarchia si
ottenne (addizionandole il suff. osa
suffisso di pertinenza derivato dal lat.
osa←osu(m)),si ottenne l’agg.vo sostantivato quarchiosa
= sporca, unta,impiastricciata e
dunque lorda, lercia, lurida nonché
sordida, volgare, scurrile, indecente;
infine sempre partendo da quarchia
si ottenne (addizionandole il suff.dispregiativo
amma (cfr. lut-amma/lot-amma) suffisso affine ad imma←imen (cfr. zuzz-imma
cazz-imma etc.), si ottenne quarchiamma s.vo f.le e solo f.le = cosa eccessivamente sporca o unta di grasso
fluido, donna sporca, sudicia, lorda, lercia, lurida, sconcia, abietta, turpe,
laida, immonda, ignobile
Varvera s.vo f.le e solo
f.le bruciante offesa che sta per prostituta esosa, donnaccia pelatrice ed
estensivamente anche piú semplicemente donna che sia
avida, ingorda, gretta, tirchia, spilorcia nonché
profittatrice,sfruttatrice, opportunista, adusa a pelare amici e conoscenti. Di
per sé infatti la voce a margine quale denominale del s.vo varva (dal lat. barba(m)
con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m),
varca←barca etc.) addizionato del suff. f.le èra che al m.le è iere (cfr.salum-era ma salum-iere, panett-era ma
panett-iere etc.) indicherebbe la barbiera f.le di barbiere: la donna o l’uomo che svolge il mestiere di radere la barba e tagliare o acconciare i
capelli ( rammento en passant che fino agli inizi del sec. XIX all'esercizio di
questo mestiere erano connesse anche pratiche mediche e chirurgiche);posto,
dicevo, che la voce indicherebbe in
primis la donna che svolgesse il mestiere di barbiere, è del tutto pacifico che
si possa indicare con il medesimo termine, a fini offensivi, una donna sfruttatrice, opportunista, adusa a
pelare (togliere figuratamente… i peli ad) amici e conoscenti.
Vammana comincio con il
dire che la voce vammana fu un tempo accostato a mammana
= levatrice domestica levatrice, donna esperta che assiste le
partorienti e ne raccoglie il parto ( sia vammana che mammana son voci derivate dalla medesima voce del
lat. volgare *mammàna(m)) ma per
vammana con forma dissimilata nella
cons. d’avvio che da mammàna
passa a vammana;
la vocevammana è
usata, nel parlato comune popolare, non per indicare una vera e propria
levatrice che assiste la puerpera e ne raccoglie il parto, ma per significare, in senso dispregiativo, e quindi
offensivo quelle praticone, prive di
adeguata preparazione, ma non di esperienza,
aduse ad esercitare pratiche
abortive clandestine (spesso servendosi di mezzi di fortuna, inidonei e pericolosi).Che si tratti di termine
dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile) la voce vammana
era usata quale epiteto.
Vommacavracciólle ancóra
un epiteto abbondantemente desueto quantuque molto icastico ed espressivo; s.vo o agg.vo f.le voce composta addizionando una voce verbale (vommeca)
ed un sostantivo pl. (vracciolle); letteralmente vale: vomitabraccine ma significò quale grave epiteto offensivo strega
antropofoga, fattucchiera, ingorda arpía,
megera adusa iperbolicamente a cibarsi di bambini di cui però poi recedesse le braccia; un tempo la
voce a margine fu usata non solo come s.vo ma anche come agg.vo accostato al
s.vo janara ottenendosi un’offensiva janara vommecavracciollle (megera
antropofoga) accostata alle pregresse janara
catarrosa ed janara
cecagnòla o scazzata (per ambedue
cfr. antea);
vommeca voce verbale (3 p.sg. ind. pres. dell’infinito
vummecà (= vomitare,recere,)
adattamento del lat. vomitare, intensivo di vomere 'vomitare': vomitare→vomicare→vommicare/vummecà;
vracciolle s.vo f.le diminutivo di vraccia pl. del m.le vraccio = braccine del corpo umano; vraccio
è dal lat. brachiu(m), che è dal
gr. brachíon con normale passaggio di b a v (cfr. vocca←bucca(m),
varca←barca etc.); rammento che negli anni ’50 del 1900 la voce in esame era
completamente sparita anche nel parlato nella zona bassa della città e se ne
adottò, quanto meno nel solo parlato, una sorta di adattamento che fu vommecavrasciole con il medesimo
significato di strega, megera, ingorda fattucchiera che vomitasse indigeste
braciole ripiene; la voce adottata metteva da parte le iperboliche e
raccapriccianti vracciolle (braccine)
per accontentarsi di piú probabili e meno inorridenti vrasciole (braciole/involtini ripieni); per ciò che riguarda la voce brasciola/vrasciola s.vo f.le dirò ch’esso s.vo deriva dal
tardo latino brasa/vrasa+ il
suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si
spiega col fatto che originariamente la brasola
fu una fetta di carne da cuocere
alla brace, e successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con
normale passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola,
brasciola si intese non piú una fetta di carne da cucinare alla brace, ma
la medesima fetta divenuta grosso involto imbottito da cucinare in umido con
olio, strutto, cipolla e molto frequentemente, ma non necessariamente sugo di
pomidoro, involto che è d’uso consumare caldissimo.
A margine di tutto ciò rammento che la voce brasciola
viene usata nel napoletano quale voce furbesca e di dileggio riferita
ad un uomo basso e grasso détto comunemente fra’
brasciola; ancóra la medesima voce è usata per traslato, ma piú spesso nei
dialetti della provincia, che nell’autentica parlata napoletana,per indicare un
tipo di pettinatura maschile, segnatamente quella del ciuffo prospiciente la fronte che semanticamente si ricollega alla brasciola
perché il ciuffo è quasi ripiegato come un grosso involto; a Napoli il medesimo
ciuffo cosí pettinato viene détto ‘o
cocco voce del linguaggio infantile che oltre ad indicare il ciuffo
suddetto è un s. m. [f. -a;
pl. m. -chi] voce familiare usata per indicare una persona prediletta, un oggetto di affettuosa e protettiva tenerezza
(spec. un bambino)che semanticamente si ricollega all’affettuosa tenerezza con
cui le mamme sogliono sistemare la pettinatura dei proprii bambini,
prediligendo il ciuffo ripiegato a mo’ di involto.
Infine rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali
(Capri, Visciano etc.) , furbescamente
con la voce brasciola viene
indicata la vulva, con riferimento semantico alla focosità e carnalità del
sesso femminile.A Napoli che pure (vedi alibi) sono in usi numerose voci per
indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Vottacàntere/ Votacàntere altra desueta voce composta s.vo f.le
raramente anche m.le, ma come epiteto esclusivamente femminile; valse
letteralmente butta/svuotacànteri cioè
serva o anche servo addetto ai lavori piú umili
e segnatamente a quello di vuotare in mare i cànteri cioè i grossi vasi
di comodo in cui la famiglia depositava le proprie deiezioni giornaliere; va da
sé che una siffatta misera serva o talora misero servo fosse ritenuto un essere
immondo, sudicio, sporco, sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso,
disgustoso, nauseabondo, sconcio, laido tale che con la voce a margine si
sostanziasse una corposa offesa.
Se si trattò di una donna che fósse addetta al còmpito
rammentato, essa fu détta anche
zambracca= serva di
infimo conio, fantesca addetta alla
pulizia dei cessi e/o dei cànteri. La voce a margine origina dall’addizione del
suffisso dispregiativo acca (=accia) con
la parola zambra (che è dal
francese chambre) in francese la voce chambre
indicò dapprima una generica camera,
poi uno stanzino ed infine il gabinetto di decenza. Pure questa zambracca
fu usato quale epiteto offensivo nella medesima valenza precedente; tornando a
vottacàntere ripeto che si tratta di una
voce s.vo f.le o talora m.le composta da una voce verbale votta = butta, svuota etc. (3° pers. sg. ind. pres. dell’infinito vuttà = gettare,buttare, svuotare etc.
dal fr. ant.
bouter, provenz. botar, di orig. germ con
il consueto passaggio di b a v.; la voce
verbale votta non è da
confondere con l’omofono omografo s.vo votta = botte (dal lat. tardo
*butta(m)→vutta(m)→votta 'piccolo vaso') che semanticamente nulla à a
che vedere dall’incombenza esercitata dal/dalla vottacàntere;
leggermente diversa la morfologia della voce votacàntere
piú vicina al parlato della letteraria vottacàntere;
votacàntere è composta addizionando la voce càntere a quella verbale vota = vuota, svuota etc. (3° pers. sg. ind.
pres. dell’infinito vutà =
vuotare,liberare, svuotare etc.) cfr. ultra
1)
càntare/càntere s.vo m.le pl. di càntaro/càntero
alto e vasto vaso cilindrico dall’ampia
bocca su cui ci si poteva comodamente sedere, vaso di comodo atto a contenere le deiezioni
solide; etimologicamente la voce càntero o càntaro è dal basso latino càntharu(m) a sua volta dal greco kàntharos; rammenterò ora di non confondere
la voce a margine con un’altra voce partenopea e cioè con:cantàro (che è dall’arabo
quintâr) diversa per accento tonico e
significato: questa seconda infatti è voce usata per indicare una unità di
misura: cantàio= circa un quintale ed è
a tale misura che si riferisce il detto napoletano: Meglio ‘nu cantàro ‘ncapo ca n’onza ‘nculo ( e cioè: meglio
sopportare il peso d’un quintale in testa che (il vilipendio) di un’oncia (ca
27 grammi) nel culo (e non occorre spiegare cosa rappresenti l’oncia richiamata…)); molti napoletani
sprovveduti e poco informati confondono la faccenda ed usano dire,
erroneamente: Meglio ‘nu càntaro ‘ncapo…etc.(e cioè: meglio portare un pitale
in testa che un’oncia nel culo!), ma ognuno vede che è incongruo porre in
relazione un peso (oncia) con un vaso di comodo (càntaro) piuttosto che con un
altro peso (cantàro)!Per restare in tema di càntaro/càntero riporto qui di sèguito un’interessante
espressione che suona:
Vutà ‘o càntero = vuotare
il vaso di comodo vale a dire:
rinfacciare torti subíti o spiacevolezze patite; anche in questo caso è
relativamente semplice cogliere il collegamento semantico tra il vuotare un vaso di comodo ed il rinfacciare
torti subíti trattandosi in ambedue i casi di due operazioni fastidiose e/o
spiacevoli, ma necessarie ed in fondo chi rinfaccia
torti subíti o spiacevolezze patite si affranca di qualcosa di sgradevole che fino al momento
di liberarsene era stata tenuta come un
peso increscioso sul proprio io, il tutto alla medesima stregua di chi in tempi
andati, come ò già riferito ( e cfr. ad abundantiam alibi ‘a
malora ‘e Chiaia ) era costretto all’incresciosa, ma necessaria operazione
di svuotare in mare i vasi di comodo colmi degli esiti fisiologici della
famiglia.
Vutà/are v. tr. = vuotare, rendere vuoto, privare qualcosa
del contenuto; svuotare; etimologicamente denominale del lat. volg. *vocitu(m),
variante di *vacitu(m), part. pass. di *vacíre 'essere vuoto',
corradicale del lat. vacuus 'vuoto'.
Faccio notare che nel napoletano non va confuso il verbo a
margine vutà = vuotare con il verbo avutà/are = voltare,
girare, volgere, indirizzare in un altro senso; orientare altrove (derivato dal
lat. volg. * a(d)+volutare, intensivo di volvere 'volgere'; da * a(d)+volutare→av(ol)utare→avutare).
E sempre per restare
in tema di di càntaro/càntero e di
insulti/epiteti veniamo a dei duri brucianti insulti che sono: a) Piezzo
‘e càntero scardato! e b) Pezza
‘e càntero!
Sgombero súbito il campo da
un facile equivoco: è vero che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo
dandogli del coccio infranto di un vaso da notte sbreccato, nell’intento di
classificarlo e considerarlo moralmente
sporco, lercio, immondo, individuo sordido, abietto, corrotto,
ripugnante come potrebbe essere un pezzaccio di un vaso da notte che per il lungo uso risulti
sporco e sbreccato; dicevo è pur vero
che l’insulto sub a) per solito è rivolto ad un uomo, mentre l’insulto sub b) è
rivolto ad una donna,bollando anche costei come persona moralmente sporca,
sozza, lorda e quindi da evitare, ma le voci usate piezzo e pezza
non sono il maschile ed il
femminile di un unico termine, come qualche sprovveduto potrebbe ipotizzare, ma
sono due sostantivi affatto diversi di significato affatto diversi:
piezzo s.vo m.le = pezzo, quantità,
parte non determinata, ma generalmente piccola, di un materiale solido, qui
usato nel significato di coccio, ciascuno dei pezzi in cui si rompe un oggetto
fragile; l’etimo della voce a margine è dal lat. med. pettia(m) con metaplasmo e cambio di genere; ben diverso il sostantivo
pezza s.vo f.le = straccio, cencio, pezzo,
ritaglio di tessuto (con etimo dal dal
lat. med. pettia(m)); nella
fattispecie la pezza dell’insulto in esame fu quello straccio, quel cencio
usato in tempi andati per ricoprire, in attesa di vuotarli, i cànteri usati quando cioè risultassero
colmi di escrementi; la medesima pezza era talora usata per nettarsi dopo
l’operazione scatologica ed in tal caso però
prendeva furbescamente il nome di ‘o
liupardo (il leopardo) risultando détta pezza al termine delle operazioni
maculata a macchie come il mantello d’un leopardo.
Rammento infine che in luogo dell’insulto piezzo
‘e càntero
un tempo fu usato un corrispondente scarda ‘e ruagno che ad
litteram è: coccio di un piccolo vaso da
notte. Cosí con gran disprezzo si usò e talvolta ancóra s’usa definire chi sia
sozzo, spregevole ed abietto al punto da poter essere paragonato ad un lercio
coccio di un contenuto vaso da notte infranto, vaso che è piú piccolo e basso
di quello detto càntaro o càntero.
Per ciò che attiene alla etimologia della parola
scarda s.vo f.le che è pari pari anche nel
siciliano, nel pugliese ed in altri linguaggi meridionali, considerata da sola
e senza aggiunte specificative, vale:
pezzo, scheggia frammento, scaglia (di legno, di vetro o di altro); per ciò che
attiene l’etimo,dicevo noto che il
D.E.I. si trincera dietro un pilatesco etimo incerto una scuola di pensiero (C.
Iandolo) propone una culla tedesca sarda= spaccatura, qualche altro
(Marcato) opta per una non spiegabile, a mio avviso, derivazione da cardo che
dal lat. cardu(m) indica quale s. m.
1 pianta erbacea con foglie lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili
(fam. Composite) | cardo mariano, pianta erbacea con foglie grandi e
infiorescenze globose a capolino (fam. Composite) | cardo dei lanaioli, pianta
erbacea con foglie fortemente incise e infiorescenze a capolino, di colore
azzurro, con brattee uncinate, usate per cardare la lana e pettinare le stoffe
(fam. Dipsacacee)
2 il riccio della castagna
ed ognuno vede che non v’à alcun collegamento semantico possibile tra questa
pianta ed un pezzo, scheggia frammento, scaglia (di un qualcosa).
A mio modo di vedere è molto piú opportuno chiedere soccorso etimologico al
francese écharde: scheggia.
Sistemata cosí la questione etimologica, affrontiamo quella semantica
ricordando che in napoletano con l’accrescitivo femminile scardona la voce in
epigrafe assume un significato del tutto positivo valendo gran bel pezzo di
ragazza,di donna; con la voce scardona viene infatti indicata una donna
giovane, bella, alta, formosa fino ad esser procace; al contrario una valenza
affatto negativa la voce scarda (che
attraverso il verbo scardare=
sbreccare è anche alla base dell’agg.vo scardato/a) l’assume nell’espressione Sî‘na scarda ‘e ruagno! = Sei un coccio
d’un piccolo vaso da notte!
Ruagno s.vo m.le =
pitale, piccolo vaso da notte.Per ciò che riguarda etimo e semantica di questa
voce dirò súbito che essendo solitamente questo vaso di comodo ubicato nei
pressi del letto per essere prontamente reperito in caso di impellenti
necessità, scartata l’ipotesi fantasiosa che ne fa derivare il nome da un
troppo generico greco organon (strumento), penso si possa aderire all’ipotesi
che fa derivare il ruagno da altro
termine greco, quel ruas che indica
lo scorrere, atteso che il ruagno era ed in alcune vecchie case dell’entroterra
campano ancóra è destinato ad accogliere improvvisi contenuti scorrimenti o viscerali o derivanti da cattiva ritenzione
idrica.
schiattacàntere anche in questo caso ci troviamo di
fronte
ad un antico, desueto epiteto in forma di voce composta,
voce f.le, ma pure m.le che letteralmente sta per crepacànteri e che pertanto
non è un sinonimo (come invece qualche
disaccorto addétto ai lavori à erroneamente
opinato)in quanto la voce in
esame non è riconducibile all’attività svolta da un/una servo/a di vuotare i
vasi di comodo liberandoli delle deiezioni ivi contenute e come tale essere immondo, sudicio, sporco,
sozzo, lurido; repellente, ripugnante, schifoso, disgustoso, nauseabondo,
sconcio, laido; niente di tutto ciò! Con la voce a margine ci troviamo invece
difronte a tutt’altra tipologia di soggetto per quanto anch’esso nauseante,
ripugnante, ributtante, stomachevole, sgradevole in quanto soggetto aduso a
stomachevoli pletoriche ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la
crepatura o rottura dei vasi destinati a contenerle; in napoletano l’azione del
crepare, rompere, squarciare è resa con l’infinito schiattare/à (voce intesa d’origine onomatopeica, ma è lecito
ipotizzare un tema latino sclap-it da un originario sclap (il medesimo di schiaffo), da sclapit
si ricavò un lat. parlato *sclapitare→sclaptare→schiaptare→schiattare);
dicevo che in napoletano l’azione del crepare, rompere, squarciare è
resa con l’infinito schiattare/à per cui addizionando la 3° pers. sg. dell’ind.
pres. schiatta con il consueto s.vo cànatare/càntere si ottenne la voce a
margine usata quale epiteto rivolto ad una ripugnante donna accreditata, per
offesa di stomachevoli pletoriche
ripetute deiezioni tali da produrre iperbolicamente la crepatura o rottura dei
vasi destinati a contenerle;
vocca ‘e cernia antico,
desueto offensivo epiteto di pertinenza femminile e talora anche m.le; epiteto
formato addizionando al s.vo f.le vocca (=bocca, dal lat. bucca(m)→vucca→vocca con consueto,
normale passaggio di b a v (cfr. varva←barba(m),
varca←barca etc.) ) con lo specificativo ‘e cernia (di cernia) per indicare
una donna brutta, deforme, sguaiata,
volgare, triviale, scurrile, sboccata, maleducata, rozza, zotica, grossolana,
linguacciuta e pettegola provvista iperbolicamente, alla bisogna d’una bocca
ampia tal quale quella della cernia; la cernia (dal lat. tardo (a)cernia(m)
infatti è un pesce marino, comune nel
mediterraneo, di dimensioni medio grandi con carni pregiate, ma d’aspetto poco
rassicurante, brutto e deforme, provvista altresí di una grossa brutta ed
irregolare bocca vorace;
zoria eccoci all’ultimo
antico, desueto epiteto, registrato dal Basile e di pertinenza f.le e solo
f.le; si tratta d’un s.vo f.le usato anche come agg.vo nel significato di
furba,maliziosa, maligna, malevola,
adescatrice,seduttrice, ammaliatrice; con diversa valenza: prostituta,
donna da marciapiede, sgualdrina, baldracca, donnaccia; la voce a margine voce marcata sullo spagnolo zorra
(dove vale volpe e/o zoccola):
come volpe semanticamente riporta al significato di furba, adescatrice,seduttrice,
ammaliatrice etc.; come zoccola semanticamente richiama il significato di
sgualdrina, baldracca, donnaccia, prostituta etc.
E giunti a questo punto ritengo di poter porre un punto
fermo. Satis est.
Raffaele Bracale
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