VERÓLA & VERULÀRO
Questa volta intendo soffermarmi sui due sostantivi in epigrafe ( di cui il
secondo è un evidente derivato del primo) nel tentativo, m’auguro non vano, di
fornire un’ipotesi etimologica piú o meno convincente del primo e
conseguenzialmente del secondo sostantivo atteso che all’attualità, circa
l’etimo della voce veróla ,tra gli addetti ai lavori non ci sono identità di
vedute, né ch’io speri di poterle suscitare mettendo d’accordo piú teste: in
primis perché non sono uno studioso patentato, né un addetto ai lavori, ma solo
un appassionato cultore di linguistica, e poi perché uno dei paludati addetti
che forní una prima ipotesi etimologica non è piú di questo mondo (F.sco
D’Ascoli) e servirebbe a poco convincere il suo epigono Antonio Altamura o
qualche altro che al D’Ascoli si rifà saccheggiandolo; d’altro canto l’altra
corrente di pensiero etimologico (Carlo Iandolo, [pure trapassato]) è un parto
troppo recente perché mi possa permetter di convincere il suo fautore a darle
immatura sepoltura!
Tanto premesso entriamo in medias res e diciamo che
veróla è un s.vo f.le sg. = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è voce
diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne
arrostite) e delle valleni (castagne bollite)) sia nella Campania che nel Lazio
che nelle Marche;
verúlaro è un s.vo m.le sg. = padellone bucherellato per arrostirvi le
castagne;ma è voce quasi esclusivamente campana.
E veniamo alla questione che ci occupa, coè a quella etimologica:
Secondo F.sco D’Ascoli ed i suoi epigoni alla base del sostantivo veróla ci
sarebbe il sostantivo latino viria con il diminutivo viriŏla→veróla; l’opinione
del D’Ascoli è assai poco convincente zoppicante com’è dal punto di vista
fonetico ed ancór piú da quello semantico: in realtà, a parte che normalmente
una breve (ŏ) dittonga (iò) o al meno apre (ò) e non chiude (ó), la voce latina
viriŏla indicò in quella lingua un braccialetto e fu voce poi attestata
nell’italiano come viròla indicando nell’ordine: 1. elemento «maschio» di una
giunzione, di un collegamento meccanico, costituito da un corpo filettato: se
ne ànno esempî nell’innesto a vite delle lampade elettriche, nel bocchettone di
scarico idraulico (nel quale, costruita in rame, collega le diramazioni di
scarico di piombo con le colonne di scarico di ghisa), ecc. 2. negli orologi
meccanici a bilanciere, è
l’anello tagliato che collega l’estremità interna della molla a spirale
all’asse del bilanciere. 3. ciascuno dei pezzi cilindrici di un serbatoio che,
saldati insieme, costituiscono la parete laterale del serbatoio stesso. Mi
chiedo: Quale salto mortale semantico ci chede di fare il D’Ascoli per
ricondurre uno dei elementi summenzionati ad una caldarrosta,cosa ànno da
spartire braccialetti, innesti a vite, bilancieri o pezzi di saldature con le
gustose caldarroste? No, no, in questa occasione il defunto prof. D’Ascoli o
uno dei suoi negri cui affidò la voce prese, a mio avviso, un fantasioso abbaglio!
D’altro canto neppure mi convice l’idea etimologica dell’amico prof. Carlo
Iandolo che scrive testualmente:
A proposito di questo lemma dalla forma
iniziale “beròla” attestata
dal vocabolario ottocentesco del solo D’Ambra e dal significato indicante
“castagna”, la spiegazione etimologica del D’Ascoli col richiamo al latino
“veru = spiedo” (??) è senz’altro non convincente sia per motivi fonetici
che semantici, per cui è forse meno azzardata la nostra congettura, che fa
appello al latino “badius” corrispondente al sabino “basus”, entrambi col
significato di “castagna marrone”.
Se supponiamo una forma diminutiva femminilizzata *badíola (sott.
“castanea”), poi divenuta *badiòla nel latino popolare sulla scia di “filia →
filíola → filiòla”, ma con iniziale vocale tonica chiusa com’è nei dittonghi
ascendenti del latino indigeno campano *badióla; se congetturiamo non
solo il normale passaggio “b → v” come attestano “bíbere → vèvere, barca →varca,
butte(m) → vótta, basiu(m)→vaso”
ecc., ma anche l’alternanza quasi solita “d /r” come
comprovano “Madonna/ Maronna, il brodo → ’o bbroro, i pièdi →’e piére,
(lat. “gradus” >) ’e ggrare = le scale ecc., a questo punto già si delinea
la
prima forma d’avvio *varióla, poi con cambio dell’accento fonico,
divenuto aperto: *variòla.
All’amico prof. Carlo contesto innanzitutto l’inesatta lettura dell’ipotesi del
D’Ascoli (ipotesi che però in ogni caso anch’io ò bocciato) e gli contesto
altresí il significato di castagna marrone attribuito al lemma badius che nel
Badellino e Calonghi e nel dizionario latino on line è riportato non come
castagna marrone, ma come baio ( uno dei mantelli del cavallo): cosa ànno da
spartire i cavalli con le castagne (inutilmente indicate marrone atteso che non
mi pare vi siano castagne di colore diverso dal marrone)?, a meno che il buon
prof. Iandolo scrivendo castagna marrone non abbia zompato una virgola
scrivendo castagna marrone e non castagna, marrone. Infine all’amico prof.
Carlo contesto l’affermazione che in napoletano l’accento fonico sia aperto e
si abbia veròla/ veròle; ciò è inesatto; i napoletani di Napoli e non
dell’entroterra o della provincia son usi a pronunciare veróla/ veróle e non
veròla/ veròle Del resto se il lemma di partenza fosse veròla con la ò aperta
la voce derivata sarebbe verolàro e non verulàro come invece è e dove è
leggibile l’ulteriore chiusura in u di un ó di partenza!(verularo ← veróla +il
suffisso di pertinenza aro←arius). Esaurita cosí la parte destruens, veniamo a
quella costruens; premesso che non è cosa semplicissima formulare una
accettabile e comprovabile ipotesi etimologica della voce veróla, ò in animo di
proporne due:
A)nel primo caso ipotizzo una partenza dal lat. vídua che già diede il
napoletano vérola = vedova; si potrebbe pensare ad un adattamento di vérola in
veróla con cambio d’accento per distinguere la vérola= vedova dalla veróla
=castagna arrostita, semanticamente
vedova del suo consueto abito (riccio).
B) nel secondo caso ipotizzo che la voce veróla sia sia ricavata partendo dalla
voce Berolasim riportata nel Du Cange pag. 600
apud Car. du Fresne in Epistola Iohannis VIII. cuius hic titulus; Omnibus
Episcopis Caietam, Neapolim, Capuam, Berolasim, et Amalfim, Beneventum et
Salernum incolentibus: locus est in veter Capua ad S. Stephanum, vulgari
nuncupatione hodieque dictus li Vorlasci, Anonymo Casinensi Berealis, Heremperto
Berelasis, Latine loquentibus Amphitheatrum. Neque mirum, si Episcopus in
veter. Capua constitutus Suricorum vel Berelasis nuncupabatur, cum illis in
vicis insigniores Ecclesiae essent. Vide eundem Iohannem Ep. 265. et Ughellum
in Episcopis Capuanis. Si può ragionevolmente ipotizzare cioè che in quella
località del capuano Berolasim si coltivassero e raccogliessero delle castagne
identificate con una adattamento del nome del paese: Berolasim→ Berola(sim)
→Veróla con consuenta alternanza partenopea di b→v“ cfr. bibere→vevere, basium→bas(i)u(m)→vaso,
botte→votte, barca→varca etc.
E qui faccio punto augurandomi che chi dovesse correggere il mio scritto non
usasse troppi freghi blu!
P.S. Sottoposi lo scritto al prof. Iandolo che cosí testualmente mi strapazzò: Carissimo don Raffaele, contesto
tutto ciò che ha scritto, perché io ho cercato di dare una spiegazione
fono-morfologica etica (i cui passaggi sono inappuntabili: scusi la vanità!) e
semantica su base razionale, laddove quel che Lei proprone è completamente
vacillante e campato in aria da una visuale linguistica. Non può assolutamente
immaginarsi "vidua" che, dopo avér dato "vérola =vedova",
avrebbe comportato l'estensione dell'abito scuro del lutto al colore similare
delle castagne (!!), per giunta con fantasioso cambio d'accento per distinguere
il lemma da quello collaterale ben diverso (veròle): far nascere cosí parole di
diversa semantica e famiglia linguistica rientra nel regno d'una fantasia
incontrollata e incontrollabile. E' egualmente assurdo che dal paese chiamato
anticamente "Berosalim" sia venuto quello delle "verole"
perché lí (solo lí, poi?) si producevano castagne, anche perché la conseguenza
fono-morfologica probabilmente sarebbe stata *verosale (a meno che non
s'immagina la caduta di "-sa-", che non sappiamo se tonica o atona,
con un'indubbia fantascienza propriziatrice della propria tesi: ma cosí si può
arrivare sulla Luna! 2) Ancóra: Lei si è fermato al Calonghi-Georges (semplice
vocabolario scolastico), ma se avesse letto la "Lingua latina" del
grande linguista inglese L. R. Palmer, nella traduzione italiana della Piccola
Biblioteca Einaudi 1977, a piè di pag. 48 c'è la seguente affermazione
documentaria, a sostegno del fatto che "il dialetto sabino fin dai tempi
assai antichi era talmente influenzato dal latino che la sua stessa
classificazione nel gruppo osco-umbro è dubitativa. Ma a rendere probabilmente
corretta tale classificazione sono i nomi sabini come Pompilius (che mostra
l'osco-umbro p- per la latina qu-) e Clausus (per Claudius, con l'assibilazione
non latina della -di-, esemplificata anche nella parola basus = badius :
castagna marrone" (senza virgole distintive: annotazione mia di rimando)
3) E' vero che il D'Ascoli proponeva un avvio da "viria - viríola",
ma alla fine connetteva la voce con "veru = spiedo" 4) infine la mia
supposizione *veróle (con accento fonico chiuso) parte dall'ovvia deduzione
fonetica che i dittonghi ascendenti in napoletano hanno appunto suono
eccezionalmente chiuso, e la diversa fonicità può non esser stata avvertita a
suo tempo dal D'Ambra; ma, come poi Le è sfuggito, ho anche ipotizzato che –se
il tipo d'accento fonico aperto di "veròla" documentato dal D'Ambra
fosse esatto– può ipotizzarsi un livellamento del nesso "-rio"- sul
tipo di "filíola > (lat. volg.) figliòla", che ha propiziato tale
sviluppo fonico italiano. 5) Ciascuno difende –a suo modo, ma con lo stesso
calore del Suo– le proprie criature, ma sul presupposto della razionalità e
della scientificità innanzitutto fono-morfologica, poi semantica.
Avevo promesso al caro professore di lacerare il mio scritto, ma me ne è
mancato il coraggio e proprio pe nun passà completamente pe ffesso debbo
ulteriormente precisare:
1) io non ò mai ipotizzato (come invece il prof. Iandolo m’accusò d’aver fatto)
un'estensione dell'abito scuro del lutto al colore similare delle castagne
(!!),ma ò solo ipoteticamente messo fantasiosamente in relazione lo stato
vedovile di chi è privata del marito, con un ipotetico stato vedovile della
castagna che per esser arrostita deve esser privata del riccio, che normalmente
l’accompagna! Tuttavia accetto di buon grado la critica che sia fantasioso il
cambio d'accento per distinguere il lemma (vérola) da quello collaterale ben
diverso (veròla); sí far nascere cosí parole di diversa semantica e famiglia
linguistica rientra nel regno d'una fantasia incontrollata e incontrollabile e
di ciò mi pento!
2) se è vero ch’io non ò consultato la "Lingua latina" del grande
linguista inglese L. R. Palmer, è parimenti vero che al nostro fine m’appaia
inconferente il fatto che "il dialetto sabino fin dai tempi assai antichi
sia stato talmente influenzato dal latino che la sua stessa classificazione nel
gruppo osco-umbro è dubitativa; come ancóra, m’appare appena conferente col
nostro fine il fatto che una classificazione dei nomi sabini come Pompilius
(che mostra l'osco-umbro p- per la latina qu-) e Clausus (per Claudius, con
l'assibilazione non latina della -di-, esemplificata anche nella parola basus =
badius : castagna marrone"; insomma che basus sia lo stesso che badius può
esser probabile, ma non certo, come è invece certa la inutilità d’aggiungere
marrone (ribadito aggettivo dal prof. Iandolo) alla voce castagna (che mai è
attestata di colore diverso dal marrone!), né d’altro canto il carissimo prof.
Iandolo m’indica una fonte certa dove riscontrare che la sua basus (= badius)
sia attestata come castagna marrone e non come mantello baio.
3) l’altro punto dove invece mi sento di concordare completamente è che sia
molto improbabile che dal nome del paese chiamato anticamente "Berosalim"
sia venuto il nome delle "veróle" perché la conseguenza
fono-morfologica probabilmente sarebbe stata *verosale ( poi che si potrebbe
solo immaginare, ma non comprovare la caduta di "-sa-", che non
sappiamo se tonica o atona).
A questo punto perciò temo che allo stato dei fatti, messe da parte tutte e
sottolineo tutte le ipotesi fin qui esaminate bisognerà ancóra lavorare sulla
voce veróla/verularo e chi sa se mai se ne verrà a capo d’una accettabile
etimologia!
Ed a tale scopo, prima di mettere il punto ò un’ultimissima idea etimologica da
proporre, idea che chiama in causa il francese brûler (bruciare, rostire) di
cui veróla potrebbe essere un deverbale secondo il seguente percorso
morfologico in cui leggere l’alternanza partenopea b/v, ed una epentesi
vocalica della prima e: brûler→ vrûler→veruler→verola.
Satis est. E spero che il prof. Iandolo non m’accusi d’aver lavorato troppo di
fantasia.
P.S. 2 Ò inoltrato questo scritto al prof. Iandolo che, nel rispondere, cosí à
inteso metter fine alla questione scrivendomi testualmente: Carissimo don
Raffaele, chiudiamo qui la questione (di modo che ciascuno rimane fermamente
convinto della sua ipotesi), evitando d'evidenziare un'altra carrellata di
abbagli miei e suoi, in rilievo reciproco nell'ultimo scritto.
Accolgo l’invito e non replico oltre restandomene però fermamente convinto
nella mia ultima idea, confortato in ciò da una lunga lettera che m’à inviato –
accogliendo la mia ultima tesi – l’altro amico il notissimo napoletanista
avv.to Renato de Falco!
Raffaele Bracale
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