VOCI VARIE
Il carissimo amico parmense Michelangelo M. (spero mi
autorizzi a violarne la riservatezza, facendone almeno il nome…)mi à chiesto di illustrare le voci
dell’italiano qui di sèguito elencate precedute dal segno ^ ; lo faccio aggiungendo in coda ad ognuna di esse, volta a volta, ove esistano, le corrispondenti voci del napoletano e m’auguro di riuscire ad esser preciso ed esauriente.
Cominciamo:
^Amicizia, s. f.
1 legame tra persone basato su affinità di sentimenti, schiettezza,
disinteresse e reciproca stima: fare amicizia; vivere in amicizia;
rompere, troncare l'amicizia; amicizia interessata, che
mira ad un utile, non sincera | (estens.) buone relazioni: l'amicizia
tra due paesi, stati, nazioni, popoli | proverbio: : patti chiari, amicizia lunga
2 (eufem.) relazione amorosa | amicizia particolare, (eufem.)
relazione omosessuale
3 spec. pl. persona con cui si à un legame di amicizia: la
cerchia delle mie amicizie | (estens.) persona con cui si à una
particolare relazione sociale: avere amicizie influenti.
Per quanto riguarda l’etimo, è voce attestata nel Boccaccio;
voce dotta dal lat. amicitia (cfr.
Cicerone: De Amicitia) senza
continuatori neolatini; sostituisce il lat. volgare *amicitas/atis donde amistà (amista(de)→amistà cfr. Guittone) nell’ant. fr. amistiet→amitié, nell’ant. spagnolo: amizad; nel port. amizade.Nel napoletano la voce amicizia
è resa con quattro icastici sostantivi astratti che sono: carnentaría, cardasciaría, misciusciaría,
patutaría; prima di esaminarli singolarmente dirò che essi sostantivi
derivano tutti e ciascuno da un agg.vo
cui è stato aggiunto il suffisso femminilizzante dei s.vi astratti aría;
gli aggettivi di riferimento sono carnente,
cardàscio,misciòscio e patuto.Passiamoli
in rassegna:
carnente agg.vo e
sv.vo m.le e f.le = amico/a fedele e
per estensione anche amante; quanto
all’etimo si tratta d’un adattamento di comodo(esattamente si sarebbe dovuto
avere carnïante) d’un part. pres.
dell’infinito carnïà che vale: tastare, palpeggiare ed anche estensivamente coire;
le prime due accezioni richiamano
semanticamente gli abbracci in uso tra gli amici fraterni, mentre l’ultima
accezione si collega semanticamente al significato esteso di amante;
cardàscio, agg.vo
e sv.vo m.le = amico fedele,fratello con etimo dall’arabo kardasč;
misciòscio agg.vo
e sv.vo m.le = letteralmente sta per mio
socio e quindi amico fedele; quanto
all’etimo si tratta dell’adattamento del lat.: meus-socius→me-socius→mi→scioscio→miscioscio dove è leggibile la palatizzazione della esse seguíta da vocale (so→scio)
e la successiva assimilazione della
sillaba ciu(cio)all’iniziale scio;
patuto agg.vo m.le che
letteralmente vale malaticcio, appassionato di un’attività o di uno sport; estensivamente
vale cascamorto, amante e perciò amico fedele, fraterno. quanto
all’etimo si tratta d’un part. pass. dell’infinito patí che vale:
1 provare, subire qualcosa che causi dolore, disagio, danno,
offesa: patire il freddo, la fame; patire le pene dell'inferno;
patire un affronto, un'ingiustizia
2 sopportare, tollerare: non
poter patire qualcuno o qualcosa
3 (assol.) affliggersi,
provare dolore; riferito a cosa, ricevere danno, guastarsi: à patito molto
nella vita; il dipinto à patito per l'esposizione all'aria | finire di
patire, si dice di chi è morto dopo una vita travagliata, o per una
malattia lunga e dolorosa
4 (lett.) appassionarsi a qualcosa, ad una attività o ad uno sport: essere
patuto d’’o pallone, d’’a bicicletta, d’’a televisione | essere oggetto di
un'azione, subirne l'effetto; in questo sign. il verbo era usato nell'antica
terminologia grammaticale: nella proposizione passiva il soggetto patisce
l'azione espressa dal verbo ||| v. intr. [aus. avere] (non
com.) essere afflitto da un male; soffrire: patire di stomaco, d'insonnia;
patire d'invidia, di gelosia, essere invidioso, geloso; il verbo patí o pàtere è dal lat. volg. *patire,
per il class. pati 'soffrire, subire'.
Amore, s. m.
1 affetto intenso, sentimento di profonda tenerezza o devozione: amore
paterno, materno, fraterno, filiale; sentire, provare
amore per, verso qualcuno | essere tutto amore, essere pieno
di benevolenza | per amore di qualcuno, per fargli piacere, per
l'affetto che gli si porta: fallo per amor mio! ' d'amore e d'accordo,
in perfetto accordo, senza contrasti | amore di sé, egocentrismo | amor
proprio, sentimento e cura della propria dignità; desiderio
dell'approvazione altrui; orgoglio legittimo
2 inclinazione forte ed esclusiva per una persona, fondata sull'istinto
sessuale, che si manifesta come desiderio fisico e piacere dell'unione
affettiva: amore corrisposto, non corrisposto; amore tenero,
appassionato, ardente; dichiarare il proprio amore a qualcuno;
ardere, struggersi d'amore; giurarsi eterno amore; pena,
tormento d'amore; lettera, poesia, romanzo, canzone
ecc. d'amore, di argomento, di soggetto amoroso | mal d'amore,
struggimento amoroso (anche scherz.) | languire d'amore, essere
talmente innamorato da patirne fisicamente | fare l'amore, all'amore
con qualcuno, avere rapporti sessuali con qualcuno; anche, ma oggi non
com., amoreggiare, essere fidanzato con qualcuno | amore platonico,
attrazione amorosa che prescinde dall'aspetto sessuale; (filos.) impulso
che spinge l'uomo verso la bellezza ideale | amore socratico, pederastia
| amore libero, libero amore, fuori da ogni vincolo legale e
dalle convenzioni sociali | figlio dell'amore, (eufem.) figlio
naturale, nato da relazione non regolare o illegittima | proverbio : il primo amore non si
scorda mai.
3 (estens.) la persona amata; anche, persona
graziosa, attraente: tu sei il mio amore; un amore di bambina
4 pl. vicende, esperienze amorose: gli amori di Paolo e
Francesca
5 comportamento istintivo degli animali che li porta all'accoppiamento,
e quindi alla riproduzione; estro, calore: il tempo, il periodo degli
amori; andare, essere in amore
6 (teol.) dilezione, affezione infinita di Dio per le sue
creature; per estens., Dio stesso: l'eterno, il sommo, il
divino amore; il primo amore, lo Spirito Santo | il senso di carità
che spinge l'uomo a Dio e, di riflesso, l'uomo verso gli altri uomini; per
estens., volontà di fare il bene: amore cristiano del prossimo | amore
sacro, l'amore di Dio e degli altri beni spirituali; si contrappone ad amore
profano, l'amore dei beni e dei piaceri terreni | per (l') amore di Dio!,
del cielo!, esclamazioni che accompagnano invocazioni, suppliche,
raccomandazioni e sim.
7 vivo interesse, desiderio, passione nei confronti di qualcosa: amore
del denaro, del potere, del sapere, della scienza; amore
per lo studio; amore di patria | con amore, volentieri,
accuratamente, con zelo: studiare, lavorare con amore | per
amore di qualcosa, a causa, a ragione di qualcosa: per amore di pace,
di verità | per amore o per forza, con le buone o con le cattive,
a ogni costo
8 ciò che è oggetto di interesse, passione, predilezione: il suo
amore sono i cavalli ' (estens.) cosa graziosa, attraente: questo
vestito è un amore
9 Amore, (mit.) il dio dell'amore, Cupido.
Quanto all’etimo si tratta di una voce panromanza (con
esclusione del rumeno) derivata dal lat. amore(m)
che è dal radicale di amare.
Nel napoletano sono due le voci attestate che rendono quella
in esame. E sono:
1)ammore si tratta
d’un s.vo m.le che riproduce, come quello italiano,il lat. amore(m) con la sola particolarità, rispetto all’italiano del
raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale m.
Al margine rammento che anche nel napoletano esiste la locuzione fà l'ammore, all'ammore cu quaccuno,che
ripete l’italiana fare l'amore, all'amore con qualcuno,ma nel napoletano,
come già ricordò il D’Ambra nel suo insostituibile vocabolario,
dall’espressione è assente l’idea lúbrica atteso che il napoletano ammore è o almeno fu voce che riguarda la sfera del sentimento e non quella della carnalità!
2)chiuovo s.vo m.le
che letteralmente (con derivazione dal lat. clavu(m)
) vale chiodo, ma è semanticamente collegato al sentimento d’amore, perché
– come questo – punge e perfora (l’animo).Rammento che spesso nell’icastico
linguaggio partenopeo i figli frutto dell’amore son definiti chiuove ‘e dDio.
^Armonia, s. f.
.– 1. a. Consonanza di voci o
di strumenti; combinazione di accordi, cioè di suoni simultanei (per estens.,
anche associazione di suoni successivi), che produce un’impressione piacevole
all’orecchio e all’animo: come
viene ad orecchia Dolce a. da
organo (Dante); Passero
solitario, alla
campagna Cantando vai finché non muore il giorno; Ed erra l’a. per questa valle (Leopardi);
un’a. soave, celeste, delicata, flebile, ecc. b. In senso piú tecnico,
pratica e teoria della formazione e concatenazione degli accordi musicali,
secondo una concezione polifonica della musica, nella quale lo sviluppo del
discorso tematico si realizza in una successione non di suoni singoli ma di
accordi, cioè di piú suoni prodotti
simultaneamente: lo studio
dell’a.; lezioni,
trattato di a.; le leggi dell’armonia.
Nell’antichità classica, il termine era usato come equivalente di modo (o scala): a. dorica, frigia. 2. Per analogia,
riferito alla parola non modulata nel canto, l’impressione gradevole che
risulta, nella prosa e nel verso, da un musicale accostamento di suoni,
accenti, pause: a.
dello stile, del periodo; l’a. d’una strofa; Né da te, dolce amico, udró piú il verso E la mesta a. che lo governa (Foscolo). A. imitativa, accorgimento retorico,
simile all’onomatopea, per cui si cerca di riprodurre, con gli elementi fonici
delle parole, l’impressione acustica di ciò che le parole stesse rappresentano
con il loro contenuto semantico (per es., «Chiama gli abitator de l’ombre
eterne Il rauco suon de la tartarea tromba ...», T. Tasso, Ger. Lib. IV, 3, vv. 1-2), o,
attraverso suggestioni acustiche, la sensazione immediata della rapidità, di un
movimento (per es., «Ed el sen gí, come venne, veloce», Dante, Purg. II, 51) o della
lentezza (per es. «e cantando vanío Come per acqua cupa cosa grave», Dante, Par. III, 122-23). 3. a. Con sign. piú ampio,
proporzione, conveniente accordo di piú parti o elementi: l’a. dell’universo o a. cosmica; l’a. del corpo umano. Nella
concezione filosofica di Leibniz, a.
prestabilita, la
legge predisposta da Dio all’atto della creazione, che regola il rapporto tra
le sostanze spirituali che compongono il mondo (monadi), ciascuna delle quali contiene in sé
come rappresentazione, implicita o esplicita, la totalità delle altre, e svolge
tale rappresentazione in modo corrispondente allo svolgersi di quelle di tutte
le altre, pur senza influire direttamente su di esse e senza subirne
l’influsso. b.
In architettura, proporzionata corrispondenza tra le parti principali e le secondarie,
e tra i singoli membri architettonici e l’intero; in pittura e scultura,
conveniente disposizione delle figure nell’insieme dell’opera: a. di linee, di forme; a. di colori o a. cromatica, accordo di colori
ottenuto accostando toni diversi o anche, nella forma piú semplice, toni di una stessa gamma o
gradazioni diverse di un solo tono. c.
Accordo, conformità, in senso generico: a.
di pensiero e di azione;
a. dei fatti con le parole; in a. con, d’accordo con, in
conformità a: agire in a.
con i proprî principî;
prendere provvedimenti in a.
con le disposizioni generali.
In partic., a. evangelica, accordo tra i
quattro Vangeli canonici, spec. tra i sinottici, dimostrato sia mediante tavole
in cui vengono messi a raffronto i passi relativi al medesimo episodio, sia
componendo un racconto unico, in cui varî episodî sono fusi insieme, secondo
uno schema cronologico e con procedimenti che possono andare dalla
rielaborazione letteraria a un vero e proprio lavoro d’intarsio di frasi e di
parole. 4.
fig. Concordia di sentimenti e di opinioni tra piú persone: essere,
stare, vivere in a. o in buona a., in pace, in
perfetto accordo; tra suocera
e nuora non c’è (o
non regna) buon’a.;
turbare l’a. di una famiglia, di un gruppo d’amici.
Quanto
all’etimo è voce dal lat. harmonĭa,
gr. ἁρμονία, affine a ἁρμόζω
«comporre, accordare» la voce accompagnò nel medio evo lo sviluppo del canto
liturgico. Il napoletano à la medesima voce con medesima derivazione dal lat. harmonĭa; l’unica differenza
è rappresentata dalla chiusura in u dell’atona o intesa ō
che comporta il passaggio di harmōnĭa
ad armunía.
Fede, s. f.–
1. a. Credenza piena e
fiduciosa che procede da intima convinzione o si fonda sull’autorità altrui piú
che su prove positive: avere f. in Dio, nella Provvidenza, nei valori umani, nella democrazia; dare, prestare f. a una persona, a una notizia; parole che trovano f., che
sono credute; toglier f.,
rendere poco credibile: vedrai
Cose che torrí en f. al
mio sermone (Dante); un
testimone, un
comunicato degno di f., che
merita f., attendibile. Con sign. piú vicino a «fiducia»: aver f. in un medico, in una medicina (cioè nella
sua efficacia); lottare con f.;
Invoco lei che ben sempre
rispose, Chi la
chiamò con f. (Petrarca); o a «ferma speranza»: avere f. nella vittoria, nell’avvenire, nella propria stella, nel trionfo della giustizia.
Con accezioni partic., buona fede
(in grafia unita buonafede), coscienza di agire rettamente; nel
linguaggio giuridico, ignoranza di ledere un diritto altrui: agire in buona
fede | mala fede (in grafia unita malafede), slealtà,
doppiezza | fede pubblica, particolare fiducia accordata a determinati
atti, persone e cose | far fede, attestare | in fede mia, in
fé di Dio, (antiq.) locuzioni usate per assicurare la verità di
un'affermazione | in fede, (burocr.) formula con cui si conferma
e conclude una dichiarazione scritta | persona di poca fede, che non à fiducia
nell'operato altrui buona
f., mala f.,
v. buonafede, malafede. b. F. pubblica, fiducia riposta
dalla generalità delle persone in cose che, per l’esistenza di un sistema di
mezzi precauzionali atti a garantirne la sincerità, si presumono vere o
veridiche; si considerano delitti
contro la f. pubblica,
nel vigente diritto italiano, tutti i delitti cosiddetti «di falsità». 2. a. Il complesso delle
proprie credenze, dei principî fermamente seguiti: f. religiosa,
politica, letteraria, ecc.; f. sincera, profonda, fanatica; f. inconcussa, incrollabile; f. schietta; f. viva, operosa; una malinconia remota, che non contrastava con la sua f. attiva
ed energica, anzi
le dava una qualità struggente (Luigi Meneghello). Usato assol.,
fede religiosa, e spec. quella cattolica, per cui si credono vere le cose
rivelate da Dio, cioè i misteri soprannaturali e non dimostrabili della
Trinità, Incarnazione, Redenzione, ecc., e anche quelle verità che la teologia
cattolica ritiene dimostrabili razionalmente e che pure sono comprese nella
Rivelazione (per es., l’esistenza di Dio): Fede
è sustanza di cose sperate E argomento de le non parventi (Dante); avere, non avere f.; perdere la f.; riacquistare o ritrovare la f.; uomo di poca f. (anche fig.,
scherz., nel senso di fiducia); f.
e ragione; f. e scienza; le verità, i misteri della f.; articolo, dogma di f.; dubbî in materia di f.; peccati contro la f., i peccati
di eresia, scisma, apostasia. Atto
di f., in senso astratto, l’assenso della volontà e dell’intelletto
del credente alle verità rivelate da Dio, non per la loro evidenza intrinseca
ma per l’autorità e veridicità di Dio rivelante; in senso concr., la manifestazione
verbale di tale adesione, per lo piú espressa con formule fisse suggerite dal
catechismo. b.
Confessione religiosa, per lo piú con riferimento esclusivo alla confessione
cristiana e cattolica: la f.
di Cristo; la vera f.; benefica Fede ai trionfi avvezza!
(Manzoni); convertirsi alla f.;
abbracciare la f.,
la causa della f.;
professare la f.,
manifestarla esternamente, dichiararla; rinnegare
la f.; predicare,
propagare la f.; combattere, sacrificarsi, morire per la f.; confessore, martire della f. cristiana; i conforti della f., i
sacramenti, l’assistenza religiosa prestata a un moribondo: morire coi conforti della fede.
3. a. Osservanza di una
promessa, di un patto; fedeltà: f.
d’amico, di sposo; f. coniugale; promettersi reciproca f.; mantenere la f.; serbare f. alla parola data; la
promessa stessa, l’impegno assunto con la parola, col giuramento: violare, tradire la f., la f. giurata; rompere f., venir meno
all’obbligo di fedeltà: L’altra
è colei [Didone] che
s’ancise amorosa, E
ruppe fede al cener di Sicheo (Dante). Per antifrasi, f. punica, f. greca, slealtà, perfidia; le
due espressioni erano proverbiali già in latino (Punica fides, Graeca fides), per l’opinione diffusa che sia i
Cartaginesi sia i Greci fossero poco leali. b. ant. Devozione: Federigo ... con somma f. le serviva (Boccaccio). 4. L’anello nuziale,
costituito da un semplice cerchio liscio d’oro: mettere la f. al dito; portare,
non portare la fede.
Con questo sign., è ellissi di anello
della f. (lat. anulus
fidei); cfr., per es.: mi
cadde lo sguardo su
l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra
(Pirandello). 5.
a.
Attestazione, testimonianza certa: fare
f., attestare, essere prova di un fatto: documenti che fanno f. dell’attività dei mercanti medievali;
monumenti che fanno f.
della grandezza passata.
Con senso sim., linea di f.,
linea segnata sulla parte fissa o su una parte mobile di uno strumento, con lo
scopo di indicare una direzione o di consentire letture su una graduazione
(sono linee di fede, per es., quelle segnate sul cursore del regolo
calcolatore, e quella segnata sulla parte fissa della bussola navale per
indicare la direzione della prua della nave). b. Con sign. concr., attestato,
certificato: f. di battesimo, di matrimonio, di stato libero. F. di credito, titolo di
credito all’ordine, caratteristico degli antichi banchi pubblici napoletani,
che ebbe dal sec. 17° grandissima diffusione nelle regioni meridionali e
riscosse tanta fiducia da essere spesso preferito alle monete stesse ( fino a qualche
anno fa venne ancóra emessa dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia). F. di deposito, titoto di
credito emesso dai magazzini generali per attestare l’avvenuto deposito di
merci o derrate; à la funzione di consentire uno o piú trasferimenti in proprietà delle merci
depositate senza effettuare la materiale consegna e senza spostarle dal
deposito, ma attraverso la sola girata. 6.
In araldica, figura costituita da due mani strette insieme e allacciate, poste
ordinariamente in fascia. 7.
Locuzioni: in fede,
in f. mia, in f. di galantuomo e sim.,
formule con cui si conferma una propria dichiarazione; in f. di che, in f. di ciò, con riferimento a
cosa già dichiarata, per introdurre testimonianze o fatti che la comprovino.
Nell’esclam. in fede di Dio
e sim., è forma meno com. di fé
(v.); quanto all’etimo è voce derivata dal lat. fide(m);non esiste diversa voce napoletana che la riproduca.
Felicità,s.f.le 1. Stato e sentimento di chi è
felice: piena, intera f.; una f. serena, pura, tranquilla, senza ombre; aspirare alla f.; trovare la f. sulla terra; godere, assaporare momenti di f.; l’eterna f., la beatitudine
celeste; felicità!,
augurio (oggi molto meno com. di salute,
e talora scherz.) rivolto a chi
starnuti. Con senso piú vicino a
«gioia»: provò un’intima f.;
iron., che f.!, a proposito di cosa
molesta, di grattacapi e sim.
2. Opportunità, convenienza, e
in genere la qualità di ciò che è riuscito in modo eccellente: f. di una frase, di un’espressione, di un’idea; con quanta f. i suoi concetti descrivesse
(Machiavelli); quanto all’etimo è voce derivata dal lat. felicitate(m→felicita(te)(m));non esiste diversa voce napoletana
che la riproduca.
^Gioia, s. f.
1 sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo; allegria,
letizia, felicità: gioia grande, profonda, immensa; lacrime
di gioia ' darsi alla pazza gioia, divertirsi molto | saltare per
la gioia, essere pazzo di gioia, essere fuori di sé dalla gioia,
(iperb.) essere contentissimo, felicissimo
2 persona, fatto o cosa che è causa di felicità, fonte di soddisfazione
o di consolazione: una bambina che è la gioia della famiglia; le
gioie della vita;
3 spec. pl. pietra preziosa; gioiello
4 (fig.) persona o cosa di pregio, particolarmente amata | come
appellativo affettuoso, spec. di bambini: che cosa vuoi, gioia?;
quanto all’etimo è voce derivata dal fr. joie, che è
dal lat. gaudia, neutro pl. di gaudium 'gioia',inteso poi s.vo f.le
Vastisimo il ventaglio delle voci napoletane che rendono
quella a margine; abbiamo: priezza s. f. = gioia, allegria,ed
addirittura tripudio,contentezza, letizia tutte voci che esprimono la festosa
manifestazione di uno stato d'animo felice, gaio; in effetti la napoletana priezza
(che un tempo fu registrata come prejezza
(cfr. G.B. Basile(Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) , G.C. Cortese(Napoli 1570 circa -†
ivi 1646 circa); ed altri) è vocabolo ( che ritroviamo con
qualche diversa morfologia anche in
altri linguaggi regionali centro-meridionali cfr. calabrese:prijízza, salentino: priscezza, pugliese: prescézze e varianti, abruzzese:prejézza) usato per significare qualcosa in piú della
semplice gioia, qualcosa che va al di là
anche della allegrezza vivace, della gaiezza, giungendo addirittura ad una manifestazione
vivace e rumorosa di felicità, di esultanza la stessa che si ritrova nei termini tripudio e letizia.
Non tranquillissima l’etimologia di priezza; c’è disparità di vedute tra gli addetti ai lavori di cui ò
potuto compulsare i calepini; riferisco in primis l’idea dell’amico avv.to
Renato de Falco che legge in priezza (cosa che del resto in ultima analisi fece
pure il prof. M.Cortelazzo parce
sepulto) una derivazione del lat. pretium
nel senso di ricompensa remunerativa, appagante, allietante atteso che per l’amico de Falco la priezza è
addirittura un giubilo ai confini dell’entusiasmo, un rallegramento intimo e
profondo traboccante di soddisfatto
appagamento, una gratificazione vera e propria che si può ritrovare appunto nel pretium latino. Voglio bene
all’amico de Falco e molto lo stimo come glottologo e ricercatore del
napoletano, ma questa volta penso che si sia lasciato trascinare dal suo amore
per il latino e per il greco e non abbia colto la sforzatura semantica presente
nella sua ipotesi;ragion per cui non mi sento di seguirlo lungo il percorso che
à ipotizzato; ugualmente poco praticabili m’appaiono i sentieri etimologici
imboccati dal defunto prof. F. D’Ascoli e dall’altro amico il carissimo prof.
Carlo Iandolo; ambedue pensano ad un deverbale di priarse = rallegrarsi,gioire epperò
per quanto riguarda l’etimo di priarse ànno
idee diverse che semanticamente non mi convincono: Iandolo ipotizza
(dubitativamente però) un lontano lat.
precari sibi= pregare per sé con fiducia e speranza e francamente non trovo
legami semantici fra un pregare (sia pure) per sé ed il rallegrarsi, lo gioire;
il D’Ascoli (forse sulla scia del D.E.I.) pensò al catalano prehar che deriverebbe dal tardo lat. pretiare (ed
ecco che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra il pretium ipotizzato da de Falco e dal Cortelazzo, portandosi
però dietro, come ò detto – a mio avviso – una qualche incongruenza
semantica che si legge nello sforzato legame tra la ricompensa remunerativa,
appagante, allietante di pretium e la vera e e propria allegria e gioia che non
mi pare siano obbligatoriamente frutto di remunerazione!
No, non ci siamo! Non mi sento di seguire né D’Ascoli, né l’amico Iandolo, né
Cortelazzo,né il D.E.I. e neppure
l’amico de Falco. Meglio, a mio
avviso,affidarsi al Rohlfs che lesse in priezza un deverbale dell’ ant.
francese preister.
Sistemata cosí la voce
priezza rammenterò che in napoletano i sinonimi di
tale voce piú usati sono i seguenti:
addecrío/arrecrío s.m. = esultanza, piacere anche fisico,
non solo spirituale, soddisfazione; come si vede si tratta di voce che si
riferisce a sentimenti piú pregnanti e
corposi dell’esaminata priezza; etimologicamente il vocabolo a margine (
ne parlo al singolare trattandosi infatti di un solo termine attestato sia come
addecrío che nella forma arrecrío con la tipica rotacizzazione
osco-mediterranea della d che diventa r) è un deverbale di addecrià/arse/arrecrià/arse
= allietare/arsi, sollazzare/arsi, provare allegria che etimologicamente è da un lat. volg. *ad-recreare→arrecreare→arrecriare= vivificare, dar conforto e ristoro.
allerézza/allería s.f. allegrezza vivace; gioia, gaiezza, ilarità
pur senza giungere a manifestazioni di entusiasmo, festosità, tripudio,
manifestazioni che appartengono invece
alla esaminata priezza;
etimologicamente ambedue le voci a margine derivano probabilmente dal fr. ant. allègre, che è dal lat. alacre(m):
alleria si è forse
formata aggiungendo al tema alle(g)r il suffisso femminile di nomi
astratti ía ( suffiso greco in quanto sposta sulla desinenza
l’accento, mentre lo ia suff. latino mantiene l’accento radicale per cui si
sarebbe ottenuto allèria e non
l’attestata allería;
allerezza si è
invece forse formata aggiungendo al tema alle(g)r
il suffisso femminile ezza che ripete
il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Però se non si vuole
pensare per l’etimologia delle voci a margine
al fr. ant. allègre con la successiva strada morfologica che ò
indicato, si può ipotizzare, come fa il prof. C. Iandolo, direttamente un lat. volg. *allecritia→allegritia
e successiva semplificazione gritia→ritia (cfr. gruosso→ruosso);
questa strada (aggiungo io) ci consente
poi forse di ottenere ambedue le voci allerézza ed allería:1)*allecritia→allegritia→alleritia→allerezza:
2) *allecritia→allegritia→alleritia→aller(it)ía;
Cuntentezza s.f.
astratto contentezza, appagamento,
soddisfazione intima, allegrezza
anche vivace; gioia, gaiezza, ilarità
che possono anche giungere a
manifestazioni di entusiasmo, festosità,
tripudio, manifestazioni che appartengono alla esaminata priezza; etimologicamente la voce è un derivato di contento ( dal lat. contentus, part. pass.
di continēre "contenere", quindi propriamente "contenuto, pago
di qualcosa, appagato)con l’aggiunta del suff. femminile ezza che ripete il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Contiento/cuntiento s.m.
letteralmente oggi, sebbene voce in
disuso,(con etimo dal lat.
contentus, part. pass. di continēre "contenere", quindi propriamente
"contenuto, pago di qualcosa, appagato) indica il sovrappiú,
l’aggiunta, il contentino, ciò che si dà, o meglio si dava in piú di quanto stabilito o dovuto, per
accontentare qualcuno, come nel caso delle derrate alimentari concesse
gratuitamente dal negoziante in aggiunta o eccedenza sul peso;un tempo, soprattutto
la prima delle due voci a margine venne invece usata quale esatto sinonimo
della voce precedente;ò trovato altresí usata la voce cuntiento impropriamente
in luogo di cuntento che è invece l’esatta forma in napoletano dell’italiano
contento.
Joja s.f. astratto voce desueta
e pochissimo usata anche nel passato nel significato di gioia, gaiezza etc. avendo i
napoletani usato sempre una delle voci
fin qui esaminate con preferenza per priezza o allerezza; la voce a margine (che a mio avviso deriva come
l’italiana gioia dal fr. joie,
che è dal lat. gaudia, neutro pl. di gaudium ) fu registrata da
R. D’Ambra nei soli significati di zacchera, bagattella,ciancia, baia per cui è giocoforza pensare che i significati
di
1sentimento di
piena e viva soddisfazione dell'animo; allegria, letizia, felicità,
2 persona, fatto o cosa che è causa di felicità,
fonte di soddisfazione o di consolazione,
siano significati attribuiti alla voce a margine solo successivamente,
tenendo dietro al significato della voce francese donde si trasse quella di cui
parlo.
Rammento a margine della voce testé esaminata che il
napoletano d’antan ebbe anche la voce gioja ma con etimo dallo spagnolo joja nel significato (che esula da
quelli in esame) di gemma, gioia, monile
Scialata s.f. voce dall’ampio ventaglio di
significati tra i quali in primis: largo
e sovrabbondante uso di danaro o di beni, sfarzo, lusso smodato ma (ed
è il caso che ci occupa) per ampiamento semantico il grandissimo godimento e l’enorme
soddisfazione con relative allegria, letizia, felicità che se ne ricava.
Etimologicamente è un deverbale di scialare che è dal lat. ex-halare= espirare, metter fuori, spandere.
Giunto a questo punto mi pare utile indicare una sorta di
scala di valori delle voci napoletane riportate, partendo dalla voce che indica
il moto d’allegrezza meno forte e/o profondo, per giungere a quello maggiore
e/o piú corposo.
Abbiamo nell’ordine partendo dal basso: joja, cuntiento, cuntentezza,
allerezza, priezza, addecrio, scialata.
Veniamo in coda alle
accennate voci forti o strane o meno note dell’italiano, pur se mi limiterò,
per non eccedere, ad illustrarne solo alcune;precisamente abbiamo:
esultanza: s. f. [dal lat. tardo exsultantia]. - Gioia intensa e anche
chiassosa.In napoletano si rende con addecrio
letizia s.
f. [dal lat. laetitia(m), deriv. di laetus
'lieto' ]. gioia, allegria molto intensa,soprattutto
spirituale spesso accompagnata da manifestazioni esteriori. In napoletano si può rendere
con priezza.
tripudio s. m. [ dal lat. tripudiu(m),
comp. di tri- 'tri-' e pís pedis 'piede', prob. perché la danza
aveva un ritmo di tre tempi che si batteva con il piede a terra. ]
1 nell'antica Roma, danza dei sacerdoti salii |
(poet.) danza
2 manifestazione vivace e rumorosa di gioia, di esultanza;
3 (fig.) aspetto gioioso. In napoletano si può rendere
con allerezza. zacchera s. f.[dal longob. zahar 'goccia, lacrima ].
1 schizzo di fango sui vestiti o sulle scarpe; pillacchera:
2 (fig. non com.) inezia, bagattella, cosa da
nulla;
ciancia s. f.[deverbale di cianciare
voce onomatopeica= fare discorsi inutili ; divertirsi, scherzare. ]. 1 (spec.
pl.) discorso inutile, sconclusionato o non rispondente al vero: raccontar
ciance
2 (ant.) scherzo, burla.
baia s. f.[ dall'ant. baiare "abbaiare" ]. scherzo,
canzonatura, spec. nella loc. dar la baia, prendere in giro,
burlare; sciocchezza, inezia. Sia ciancia che baia nel significato di
scherzo, burla, canzonatura si rendono in napoletano con pazzía voce deverbale del
greco pàizō= giocare.
^Serenità, s. f.
– 1. Qualità, stato di ciò
che è sereno; in senso proprio: s.
del cielo, dell’aria;
e in senso fig.: s. d’animo,
di giudizio; la s. dell’imputato àimpressionato
favorevolmente i giudici. 2.
ant. Titolo d’onore che spettava ai dogi di Venezia e di Genova: Sua Serenità. Quanto all’etimo
la voce è dal lat. serenǐta(tem),
der. di serenus
«sereno (agg. 1 limpido, chiaro, senza nubi: mattino
sereno | a ciel sereno, all'aperto 2 (fig.) che è
esente da preoccupazioni, dolori, turbamenti; quieto, tranquillo: vita, esistenza
serena; animo, aspetto, volto sereno | giudizio
sereno, obiettivo, imparziale); manca una voce napoletana che ripeta questa
a margine;
^Speranza, s. f.–
1.
a. Sentimento di aspettazione
fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera: nutrire, accarezzare, concepire una s.; gli sorride, lo sorregge, lo sostiene la s.; infondere s.; la s. è svanita, è venuta meno, è morta; tutte le nostre s. sono ormai crollate;
abbandonare, perdere, togliere ogni s.; far rinascere la s.; con la
stessa reggenza del verbo sperare:
à s. di vincere, di riuscire, di guarire; à rubato con la s. (nella s.) di farla franca; Senza s. di sapere mai Cosa stato sarei
piú che poeta Se non m’avesse tanta morte Dentro occluso e divorato
(Dario Bellezza); mi sostiene
la s. che le cose possano accomodarsi; c’è speranza (ci sono speranze) che si salvi; con un compl. di specificazione: à
perso ogni s. di riuscita;
non c’è piú s. di salvezza, di scampo; con la
determinazione di aggettivi: c’è
poca, molta s.;
esiste una debole s.;
Ma pur seguendo sua vana
speranza, Pervenne
in un fiorito e verde prato (Poliziano); ci sono poche s., non ci sono s., non c’è piú speranza, e
sim., con riferimento a malato grave che non à possibilità di sopravvivere; in
espressioni limitative: ò una
mezza s. di riuscire; c’è,
o ci rimane, ancora un filo di s.; in usi
assol.: finché c’è fiato,
o vita, c’è s. (provorbio); la s. è l’ultima a morire
(frase prov.); Mentre che la
s. à fior del verde (Dante); Lasciate
ogne s., voi
ch’intrate (Dante); avea
sul volto Il pallor della morte e la s. (Foscolo); il simbolo della s.,
l’àncora; il colore della s.,
il verde; oltre ogni s.,
di tentativo fatto senza fiducia di riuscita, o che si è risolto
favorevolmente, in modo del tutto insperato. b. Piú genericamente, fiducia
nell’avvenire, nella buona riuscita di qualcuno o qualcosa: aprire il cuore alla s.; amare qualcuno senza s.; un giovane pieno di speranza nel futuro;
finalmente à ritrovato la s.;
ant., essere di perduta s.,
di persona che non lascia sperare bene di sé: ma quasi matto [=stolto] era e di perduta s.
(Boccaccio); al plur.: vivere,
pascersi di speranze;
un giovane, o una ragazza, di belle s., che appaiono
destinati a un brillante avvenire. c.
Nella morale cattolica è, insieme con la fede e la carità, una delle tre virtú
teologali ( virtú: la disposizione costante della volontà a uniformarsi
alla legge morale; l'abitudine connaturata di fare il bene: praticare, esercitare
la virtú ; seguire la via della virtú ; essere esempio di virtú | nella teologia cristiana: virtú etiche, naturali o cardinali,
prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, virtú che riguardano la vita attiva e che l'uomo
può praticare perfettamente con le sole sue forze; virtú soprannaturali o teologali, fede,
speranza e carità, virtú infuse da Dio
nell'uomo per grazia e necessarie alla salvezza). 2.
Con sign. concr.: a.
Persona, o cosa, in cui si ripongono le proprie aspettative: il nuovo sindaco è la s. del paese;
tu sei la mia ultima s.;
l’intervento chirurgico è la
sua unica speranza; rivolgendosi alla persona amata: Dove, s. mia, dove ora sei? (Ariosto). In
partic., persona che inizia un’attività, spec. artistica o sportiva, dando
ottimi risultati e facendo sperare bene di sé: una s. del tennis, del cinema; le
giovani s. della narrativa italiana. b. Con iniziale maiuscola,
la Speranza,
personificazione della speranza, nell’antichità classica venerata come una
divinità e rappresentata in piedi, con un bocciòlo di fiore nella mano destra e
la veste sollevata sul fianco sinistro: il
tempio, la statua
della S.; la S., ultima dea (v. anche speme, e spes ultima dea). 3. In marina, àncora di speranza, l’ancora
di riserva, tenuta in cubia o sul ponte. 4.
In diritto civile, vendita di
speranza, forma di contratto aleatorio che comporta per il
compratore l’obbligo di pagare al venditore il prezzo anche se l’evento sperato
non si realizzi o sia diverso, per quantità e qualità, da quello previsto. 5. Nel calcolo delle
probabilità e nella statistica: a.
S. matematica di un giocatore
in un gioco d’azzardo, la vincita o perdita che, in media, il
giocatore deve aspettarsi a priori, in base alle probabilità degli eventi
legati all’esito del gioco: per es., la speranza matematica di chi compra un
biglietto in una lotteria nazionale è negativa ed è uguale a circa il 55% del
prezzo del biglietto, perché, in media, un giocatore perde piú della metà di quanto spende (un gioco è equo se, tenendo conto anche
della posta, la speranza matematica di ciascun giocatore è nulla); con sign. piú
generale: s. matematica di una variabile casuale, la
somma dei prodotti dei valori che essa assume per le rispettive probabilità. b. S. di vita o di vita residua, numero
medio di anni che un individuo di una certa età e di una certa popolazione,
supposta in equilibrio demografico, deve aspettarsi di vivere. 6. Gioco che si effettua
con 2 dadi fra un numero illimitato di giocatori: stabilita la posta che ognuno
deve versare al piatto, il numero dei gettoni da distribuire a ciascuno, e chi
deve aprire il gioco, se il primo giocatore scopre un asso, dà un gettone al
proprio vicino di sinistra; lo paga al piatto se scopre un 6; se scopre un
doppione ripete il colpo e se fa di nuovo un doppione vince il piatto; di chi à
perduto tutti i suoi gettoni si dice che «è morto», e chi resta possessore di
gettoni dopo aver visto «morire» tutti gli altri partecipanti vince. 7. Al plur., speranze, nome tosc. della
pianta Dian-thus barbatus,
detta comunem. garofano a
mazzetti . ◆ Dim. speranzèlla, speranzina, speranzuòla, tutte
limitate all’uso fam., piccola speranza, speranza debole o cauta;
anche per questa
voce manca nel napoletano una voce che la riproduca;rammento soltanto una piccola curiosità e cioè che a Napoli esiste
una popolarissima strada, ubicata a monte dei quartieri spagnoli che à come
toponimo Speranzella derivatogli dalla
chiesa di Santa Maria Della Speranza (detta dal popolino ‘a speranzella) chiesa edificata,
con l’annesso convento, nel 1559 per volere di Francisco de la
Cueva e di Juan de Ciria Portocarrera,
nobili spagnoli.
E qui giunto penso di potermi fermare.
Raffaele Bracale 14/07/09
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