giovedì 4 novembre 2021

ALCUNE LOCUZIONI PARTENOPEE CON IL VERBO FARE

 

ALCUNE LOCUZIONI  PARTENOPEE CON IL VERBO FARE

 

  CACÀ L’UVA, L’ACENO E ‘O STREPPONE.

Ad litteram: far defecare il grappolo d’uva, gli acini(vinacciuoli) ed il raspo relativi.Locuzione, spesso usata sotto forma di minaccia: te faccio cacà ll’uva, ll’aceno e ‘o streppone (ti faccio defecare la pigna d’uva, i singoli acini(vinacciuoli) ed il raspo) con la quale si significa  l’azione violenta di chi costringa    o intenda costringere un ladro o anche solo un profittatore  a restituire tutto il mal tolto, e cioè   pretenda di farsi restituire, sia pure sotto forma di feci, non solo la pigna d’uva che gli sia stata sottratta, ma addirittura i singoli acini  e persino ad abundantiam il vuoto raspo che non viene mangiato, ma che si intende far restituire da digerito.La minaccia estensivamente poi viene usata nei confronti di chiunque (adulti e/o bambini) siano messi in condizione di dover esser severamente puniti per eventuali malefatte trascorse.

cacà= cacare, defecare  voce verbale infinito derivata dal lat. cacare= andar di corpo;

uva = uva, il frutto della vite, costituito da un grappolo composto di acini: dal lat. uva(m) nell’espressione in epigrafe  vale grappolo di uva   che a Napoli più spesso è detto pigna d’uva per la forma a cono rovesciato  vagamente simile al  frutto conico delle conifere, costituito da squame legnose che nascondono i semi (pinoli);

aceno= acino, chicco dell’uva o di frutta similare  dal latino acinu(m); in napoletano con il termine a margine non si intende però solo il vero e proprio acino/chicco d’uva, ma anche il vinacciuolo e cioè  ciascuno dei semi che si trovano in un acino d'uva; il  fiocine che molti, mangiando un grappolo d’uva, evitano di ingoiare e sputano via, per cui sarebbe poi difficilissimo renderlo digerito, atteso che non viene mangiato ; la medesima cosa avviene anche con lo

streppone= raspo, grappolo di uva privo dei chicchi, gambo, fusto di fiori recisi; la voce etimologicamente è dal lat. stirpe(m) attraverso un accrescitivo *sterpone(m) con metatesi e raddoppiamente espressivo della p→pp.

VA’ FÀ LL’OSSE Ô PONTE

Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est: mandare qualcuno a quel paese.Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte, con il medesimo significato.

Un tempo  a Napoli presso il ponte della Maddalena, già ponte Licciardo esisteva un macello

dove il popolo si recava ad acquistare le carni  delle bestie macellate. I  meno abbienti si accontentavano di prelevare gratis et amore Dei le ossa usate per preparar economici brodi, per cui spingere qualcuno a fare le ossa al ponte significa  augurargli grande miseria. La medesima accezione  vale per la locuzione mannà ô ponte; tenendo presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione à una valenza un po’ piú amara giacché la si rivolge a chi  - probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire fino in fondo  gli strali dell’avversa fortuna.

FÀ ‘E  UNO TABBACCO P''A PIPPA.
Letteralmente: farne di uno tabacco per pipa. Id est ridurre a furia di percosse qualcuno talmente a mal partito al punto da trasformarlo, sia pure metaforicamente, in minutissimi pezzi quasi come il trinciato per pipa.

FÀ CARNE 'E PUORCO
Ad litteram: far carne di porco; id est:trarre il massimo del profitto, lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale, è noto, non si butta via nulla...

 

FÀ 'O PARO E 'O SPARO
Ad litteram: fare a pari e dispari; id est:tentennare, non prendere decisioni, essere eternamente indecisi ed affidar tutto, per non assumer responsabilità, all'alea della sorte
PAVÀ O FÀ PAVÀ ‘E PERACOTTE

Letteralmente: pagare o far pagare le pere cotte.
Presa nel suo significato letterale, l’espressione a margine significa ben poco e va da sé che occorre, per intenderla, andare alla ricerca di un qualche nascosto significato.
Comincio col sottolineare che il verbo pavà = pagare dell’epigrafe – cosí come letteralmente tradotta - non può essere inteso nel comune senso di corrispondere una somma di denaro per beni acquistati, servizi ricevuti, obbligazioni contratte e sim. cosí come normalmente è inteso il verbo pavà = pagare che dal lat. pacare 'pacificare'e cioè porre in pace cioè mettere in   parità prestazione e controprestazione (da notare che  la consonante etimologica c, occlusiva velare sorda,come la corrispondente occlusiva velare sonora g,  nel napoletano divengono spesso  (sia pure non sempre)  v (come in fravula che è da fragula(m) con consueta alternanza partenopea   della  c o della  g con la v  o altrove al contrario della v con la  g come ad es in guappo  che è dal latino vappa; cfr.anche  volpe/golpe, vunnella/gunnella, vongola←concula etc. ;) quella v  che è invece la consonante fricativa labiodentale sonora  che nel napoletano di solito si alterna con la b consonante occlusiva bilabiale sonora) dicevo che il verbo pagare   deve essere qui  inteso nel senso estensivo e figurato di temere, scontare, espiare; l’espressione in effetti vale, nel suo significato recondito: temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui. Proprio in ragione di tale interpretazione, la scuola di pensiero piú comune interpreta sbrigativamente, ma – a mio avviso – poco convincentemente il termine peracotte= pere cotte nel non meglio chiarito senso di percosse , atteso che non vedo (se si eccettua un tenue ed inconferente bisticcio fonetico…) cosa possa mettere in rapporto una squisitezza gastronomica quale le pere in giulebbe, con l’amarezza delle percosse .A mio avviso, pur non mutandosi il significato nascosto dell’espressione in epigrafe che sta per temere, oppure minacciare di andare incontro o somministrare severe punizioni o anche sopportare o far sopportare spiacevoli conseguenze di malefatte proprie o altrui, il termine peracotte non deve intendersi come agglutinazione di pere cotte, quanto come corruzione della voce peraconne  = ippericon pianta medicinale, nota anche con il nome di erba di san Giovanni con proprietà astringenti e/o  decongestionanti  .
Mi sembra che accogliendo tale proposta si possa innanzi tutto restituire il significato primo al verbo pavà=pagare nel senso che l’espressione a margine sostanzierebbe piú chiaramente la situazione incresciosa o di chi si trovasse, per problemi di salute, costretto a far ricorso all’acquisto di medicinali derivati dalla pianta di ippericon (che,come chiarisco qui di sèguito  dà l’etimo a peraconne) o la ancóra piú incresciosa situazione di colui cui siano stati indotti  problemi di salute da parte di chi lo metta nella condizione di ricorrere all’acquisto di medicamenti, facendogli pagare ‘e peracotte= peraconne (medicine derivate dall’ippericon.); dal punto di vista etimologico rammento che in napoletano le parole derivate da voci straniere terminanti per consonante di solito comportano il raddoppiamento espressivo della consonante  e la paragoge di una vocale finale  semimuta;non esistono quasi eccezioni a questa regola: rammento appena le voci sanfrasòn/zanfrasòn o sanfasòn = alla carlona, voci   che sono corruzione del francese sans façon (senza misura) e sono tra le pochissime, se non quasi uniche voci del napoletano che essendo accentate sull’ultima sillaba si possono permettere il lusso di   terminare per consonante in luogo di una  consueta vocale evanescente  paragogica finale (e/a/o) e raddoppiamento della consonante etimologica: normalmente in napoletano ci si sarebbe atteso sanfrasònne/zanfrasònne o sanfasònne come altrove barre per e da bar  o tramme  per e da tram  e come è successo qui che da ippericon si è pervenuti a (ip)peraconne.

FÀ PALLA CORTA

Ad litteram: fare la palla corta  Id est: mancare il fine prefissato, non giungere al risultato  per avere errato  nel conferire la forza necessaria  affinché  si potesse raggiungere lo scopo; con altra valenza riferito ad uno che infastidisca, vale: con le tue richieste e/o parole non otterrai nulla di ciò che vuoi: non sei  convincente, né induci a prestarti fede e/o aiuto!    La   locuzione è  mutuata dal giuoco delle bocce o del bigliardo, giochi  nei quali la biglia (palla) messa in giuoco può  mancare di raggiungere il punto voluto  e risultare corta   se, per conclamata imperizia,  nel lanciarla il giocatore non vi à impresso la necessaria e giusta spinta.

Palla s.vo f.le 1 corpo di forma sferica: una palla di ferro, di marmo, di vetro, di neve ' le palle degli occhi, (fam.) i globi oculari | palla di lardo, di grasso, (fig.) persona molto grassa.
2 sfera di gomma, cuoio, legno o altro materiale, con cui si gioca: palla di biliardo, da tennis; giocare a palla | battere la palla, nel tennis e in altri giochi, iniziare a giocare | palla-goal, nel calcio, palla che può essere con facilità inviata in rete ' prendere, cogliere la palla al balzo, (fig.) sfruttare al volo un'occasione propizia ' essere, sentirsi in palla, (fig.) in forma, in giornata buona

Voce dal long. *palla con medesima radice di balla

Corta  agg.vo f.le1 di poca lunghezza o di lunghezza inferiore al normale: la via più corta per arrivare; capelli (tagliati) corti; armi a canna corta; calzoni, pantaloni corti, al di sopra del ginocchio; maniche corte, sopra il gomito; mi va, mi sta corto, si dice di indumento che non raggiunge la misura giusta, soprattutto delle gambe e delle braccia | palla (tirata) corta, che non arriva a destinazione | andare per le corte, sbrigarsi, venire al dunque | venire alle corte, concludere qualcosa in fretta; alle corte!, veniamo al sodo! | l'ultimo a comparir fu gamba corta, (scherz.) si dice a chi arriva per ultimo.
2 che non dura a lungo; breve, conciso: una visita corta, una risposta corta | settimana corta, settimana lavorativa di cinque giorni, da lunedì a venerdì
3 (estens.) insufficiente, scarso, poco dotato

Voce da un lat. *curta(m) marcata sul m.le curtu(m).

FÀ ZITE E MURTICIELLE E BATTESIME BUNARIELLE.
Letteralmente: fare(partecipare a)matrimoni e funerali e battesimi abbastanza buoni.Id est: non mancare mai, anche se non espressamente invitati, a celebrazioni che comportino elargizioni di cibarie e libagioni, come accadeva temporibus illis quando la maggior parte delle cerimonie si svolgevano in casa, allorchè il parroco o prete del rione non mancava mai di rendersi presente a battesimi o matrimoni, per presenziare alla tavolata che ne seguiva. La cosa valeva anche per i funerali (murticielle) giacché, dopo la sepoltura del morto, i vicini erano soliti offrire ai parenti del defunto un pantagruelico pasto consolatorio spesso comportante gustose portate di pesce fresco di cui ovviamente profittavano anche chi aveva partecipato alla cerimonia funebre.

FÀ SCENNERE 'NA COSA DA 'E CCOGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al richiedente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stantene la augusta (che  in realtà è falsa)  provenienza.

coglie  s.vo fem.le pl. di coglia = testicolo derivato dal lat. volg. *colea(m); la voce coglia con il suo plurale coglie è attestata nel parlato popolare della città bassa come alternativo di coglione e del pl. metafonetico  cugliune usati piú spesso come voci offensive  

AbramoAvraham, "Padre di molti popoli";è il primo patriarca dell'Ebraismo, del Cristianesimo e dell'Islam. La sua storia è narrata nel Libro della Genesi ed è ripresa nel Corano. Secondo Gen17,5 il suo nome originale Avram, poi cambiato da Dio in Avraham; è considerato dall’Islam antenato del popolo arabo, attraverso Ismaele. L'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam  (détte religioni abramitiche) proclamano tutte una  loro presunta discendenza comune da Abramo.

Non esistono tuttavia  altre  testimonianze storiche  della sua esistenza indipendenti dalla Genesi, quindi non è possibile sapere se fu una reale figura storica. Se lo fu, visse tra il ventesimo ed il XIX secolo a.C. L’episodio piú significativo riguardante la vita di Abramo si riferisce alla richiesta fattagli da Dio di sacrificargli l’unico figlio Isacco generato ad Abramo in vecchiaia da sua moglie Sara. Abramo, seppur a malincuore, accettò. Mentre legava Isacco per il sacrificio, però, apparve un angelo che gli disse di non far male a suo figlio e che Dio aveva apprezzato la sua ubbidienza, benedicendolo "con ogni benedizione".

FÀ ‘E SSETTE CHIESIELLE.

Letteralmente: visitare le sette chiesine ovvero per traslato : andarsene in giro per le case altrui senza uno specifico motivo, ma solo per il gusto di intrattenersi  negli altrui domicili, nella speranza - magari  - di scroccare un pranzo, o quanto meno un caffé che a Napoli non si rifiuta a chicchessia. Detto anche di chi, prima di decidersi a fare un acquisto visita innumerevoli negozi per informarsi sui prezzi dell’articolo cercato, per confrontarli e metterli a paragone.

 Originariamente le sette chiese  della locuzione  sono sette bene identificati luoghi di culto e cioè nell’ordine: Spirito santo, san Nicola alla Carità, san Liborio alla Pignasecca, Madonna delle Grazie, santa Brigida, san Ferdinando di Palazzo e san Francesco di Paola, quelle chiese cioè che tutti i napoletani  andando dalla odierna piazza Dante (anticamente Largo del Mercatello) a piazza del Plebiscito (l’antico Largo di Palazzo) percorrendo la centralissima strada di Toledo,  sono soliti visitare  durante il cosiddetto struscio  la rituale passeggiata  che si compie il giovedì santo , durante la quale  si “visitano” i cosiddetti sepolcri  ovvero le solenni esposizioni dell’Eucarestia che si tengono in ogni chiesa di culto cattolico.Dal fatto che le chiese incontrate nel rituale tratto dello struscio fossero sette  si instaurò  la consetudine pseudo-religiosa che i cosiddetti sepolcri da visitare dovessero essere in numero dispari e qualche devoto poco propenso a camminare per ottemperare a tale pseudo-precetto  si recava nella chiesa piú vicina alla propria abitazione e vi entrava ed usciva  sette volte di fila per biascicare orazioni, ritenendo in tal modo di aver fatte le rituali dispari visite previste.

FÀ LL’AMICO E ‘MPRENÀ ‘A VAJASSA.

Ad litteram: fare l’amico ed ingravidare la serva  id est: comportarsi da “doppiogiochista”, da falso amico come chi , atteggiandosi ad amico,  frequenti una casa ed in luogo di ricordi amicali lasci la fantesca di casa ingravidata,  profittando della libertà che si usa concedere agli amici.

amico = amico,animato da amicizia, benevolo agg.vo e s.vo m.le dallat. amicu(m), deriv. di amare 

‘mprenà= ingravidare, render pregna voce verbale infinito dal lat. tardo impraegnare 'rendere gravida', comp. di in illativo  e un deriv. del lat. volg. *praegnu(m), che diede il napoletano prena= ingravidata;

vajassa = serva, fantesca Etimologicamente il termine vajassa è dalla voce araba baassa pervenutaci attraverso il francese bajasse: fantesca, donna rozza e un po’ sporca, ed estensivamente donna del popolo villana e gridanciana;   dalla medesima voce bajasse il toscano trasse bagascia = meretrice.

FÀ ‘A FATICA D’’E PRIEVETE.

Ad litteram: fare il lavoro dei preti. Id est: fare un’attività tranquilla e non impegnativa  quale, ingiustamente, si riteneva ed ancóra si ritiene che fosse e   sia  quella svolta dai sacerdoti  al segno che, altrove si dice che si ‘a fatica fosse bbona ‘a faccesro ‘e prievete (se il lavoro  fosse  una cosa buona, lo farebbero  i preti).

Fatica s. f.  sinonimo di lavoro, impegno quantunque di per sé il termine fatica connoti il semplice lavoro, ma uno  sforzo fisico o intellettuale che genera stanchezza, quella  che nasce da un'attività fisica o psichica troppo intensa o prolungata; l’etimo è dal  lat. volg. *fatiga(m), deriv. di fatigare 'prostrare, stancare';

prievete s. m. plurale metafonetico  di prevete: prete,presbitero, sacerdote, uomo consacrato, addetto al culto,  che abbia ricevuto il sacramento dell’ordinazione; etimologicamente il napoletano prevete  da cui poi per sincope della sillaba implicata ve si è probabilmente  formato il toscano prete è dal tardo latino  presbyteru(m), che è dal greco presbyteros, propriamente: piú anziano; cfr. presbitero;

 la via seguíta per giungere a prevete partendo da presbyteru(m)  è la seguente: presbyteru(m)→pre’bytero/e→prebeto/e→preveto/e;

 FÀ SCENNERE 'NA COSA DA 'E CCOGLIE 'ABRAMO.
Letteralmente: far discendere una cosa dai testicoli d'Abramo. Ruvida locuzione partenopea che a Napoli si usa a sapido commento delle azioni di chi si fa eccessivamente pregare prima di concedere al petente un quid sia esso un'opera o una cosa lasciando intendere che il quid richiesto sia di difficile ottenimento stantene la augusta provenienza.

FÀ TRE FFICHE NOVE ROTELE

Letteralmente: fare con tre fichi nove rotoli.

Con l'espressione in epigrafe, a Napoli si è soliti bollare i comportamenti o - meglio - il vaniloquio di chi esagera  e si ammanti di meriti che non possiede, né può possedere.

Per intendere appieno la valenza della locuzione occorre sapere che il rotolo era una unità di peso del Regno delle due sicilie corrispondente in Sicilia a gr.790 mentre a Napoli e suo circondario, 890 grammi per cui nove rotole corrispondevano a Napoli a circa 8 kg. ed è impossibile che tre fichi (frutto, non albero) possano arrivare a pesare 8 kg. Per curiosità storica rammentiamo che il rotolo, come unità di peso, ancora oggi è in uso a Malta, che prima di divenire colonia inglese apparteneva al Regno delle Due Sicilie.

Ancora ricordiamo che il rotolo deriva la sua origine dalla misura araba RATE,trasformazione a sua volta della parola greca LITRA, che originariamente indicava sia una misura monetaria che di peso; la LITRA divenne poi in epoca romana LIBRA (libbra)che vive ancora in Inghilterra col nome di pound che indica sia la moneta che un peso e come tale corrisponde a circa 453,6 grammi, pressappoco la metà dell'antico rotolo napoletano.

  FETECCHIA:

I l termine in epigrafe ha un variegato ventaglio di significati nella lingua napoletana, ma tutti riconducibili  al primario significato di vescia, scorreggia non rumorosa, scoppio silenzioso simile a quello del fungo che giunto a maturazione esplode silenziosamente emettendo le spore; col termine fetecchia , restando nell’ambito della silenziosità,viene indicato altresì lo scppio non riuscito di un fuoco d’artificio, e più in generale un qualsiasi fallimento o fiasco di un’operazione non giunta a buon fine

Per ciò che attiene l’etimologia, tutti concordemente la fanno risalire al latino foetere nel suo significato di puzzare – tenendo prersente il primario significato di fetecchia, ma anche negli altri significati c’è una sorta  di non olezzo che pervade la parola.e la riconduce al foetere latino.

FÀ QUATTO CIAPPETTE.

Letteralmente: fare quattro ciappette. Id est: compiere un lavoro  in maniera rabberciata  e disimpegnata ; detto soprattutto di lavori  che impegnano poco le braccia e molto la mente, lavori  che però  siano fatti con poca attenzione e dedizione  e se ad es. si tratta  di vergare uno scritto, lo si fa servendosi di  concetti triti, ripetitivi  e striminziti, vergati alla meno peggio,  , messi in fila in maniera abborracciata,   quasi automaticamente conseguenziali, non supportati da idee nuove, ma farciti di ovvietà noiose e monotone. Con altra valenza leggermente differente, ma corposamente sarcastica il concetto  in epigrafe viene riferito, con una tipica espressione che è: Sape fà quatte ciappette!, a chi saccente e supponente, faccia le viste, al contrario,  di essere molto colto,  di conoscere tutte le evenienze del vivere vantandosi di possedere conoscenze in vasti campi dello scibile umano, laddove in realtà  tutta la sua cultura e  tutte le sue conoscenze si riducono a pochissime nozioni trite e ritrite, ovvie, non originali,  noiose e monotone spesso non accompagnate da autentica e conclamata scienza e/o esperienza, ma fondate esclusivamente  sul sentito dire. o sui manualetti di pronto impiego di talune professioni e non le specifico per non incorrere nelle ire di amici e/o parenti...

La parola     ciappetta  di per sé non è che il diminutivo di ciappa  s f  fibbia, fermaglio, borchia  voce pervenuta nel napoletano attraverso lo spagnolo chapa derivato del lat. capulum  attraverso un plurale metatetico, inteso poi femminile,   regionale *clapa→chiapa→chapa.

Va da sé che semanticamente è quasi impossibile collegare il concetto di un piccolo fermaglio, una piccola fibbia o  una borchietta con l’idea di nozioni trite e ritrite, ovvie noiose e monotone. Ma la cosa si può risolvere seguendo quella che fu  l’originaria formulazione dell’espressione in epigrafe, espressione che purtroppo,  nessuno mai degli addetti ai lavori si è peritato di prendere in considerazione od esame. Lo faccio qui di sèguito,pur non essendo un paludato o patentato addetto, augurandomi di fare cosa gradita a chi mi leggerà.

In origine infatti nelle isole al largo di Napoli (dove l’espressione  nacque) non si usò l’espressione Sapé fà quatte ciappette  ma s’usò dire Sapé fà quatte scippe sciappe  con riferimento a chi avesse imparato a fare appena pochi tratti di penna (scippi) e si vantasse, chiaramente a torto,  di essere molto istruito; quando poi l’espressione  Sapé fà quatte scippe sciappe  approdò a Napoli  fu trasformata in Sapé fà quatte cippe ciappe  e ciò perché probabilmente le  voci scippe sciappe (di cui la seconda non corrispondeva né ad un oggetto, né ad una idea, ma era stata ricavata da scippe (plurale di scippo (deverbale del lat. ex-cippare) nel senso però  di tratto di penna e non di graffio) per bisticcio ed allitterazione espressivi )   furono intese come  originarie cippe e ciappe addizionate della solita esse protetica intensiva napoletana, ma poiché i concetti che gli originarii scippe sciappe dovevano rappresentare erano concetti riduttivi e negativi, si pensò – a ragione forse – che non avevano senso le esse intensive e scippe sciappe divennero cippe ciappe; allorché poi ci si rese conto che al derivato cippe non si poteva collegare alcun oggetto reale o concetto comprensibile si preferí eleminar tout court quel  cippe  e mantenere solo  quelle residuali ciappe (in origine sciappe) divenute quasi per magia corrispondenti ad un oggetto reale (fibbie, fermagli, borchie) e dovendo esse ciappe esprimere concetti negativi e riduttivi, se ne fece il diminutivo ciappette  e l’espressione diventò Sape fà quatte ciappette che vale saper fare quattro insignificanti cosucce  e menarne vanto quasi si trattasse di cose pregnanti e/o importanti, che è poi  l’atteggiamento tipico d’ogni saccente e supponente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento: