giovedì 17 dicembre 2009

VARIE 488

1 STÀ A LL'ABBLATIVO.
Letteralmente: stare, essere all'ablativo. Id est: essere alla fine, alla conclusione e, per traslato, trovarsi nella condizione estrema di non poter porre riparo a nulla. Come facilmente si intuisce l'abblativo della locuzione è appunto l'ablativo, cioè l’ultimo caso delle declinazioni latine, caso che indica il luogo in cui o da cui avviene/proviene l'azione, lo strumento o il modo dell'azione, la causa ecc.; la denominazione di ablativo è stata estesa poi anche ai casi terminali delle declinazioni di altre lingue indoeuropee: ed ambedue le voci derivano dal lat. ablativu(m) (casum), deriv. di ablatus, part. pass. di aufe°rre 'portare via'; nella voce napoletana abbiamo il tipico raddoppiamento rafforzativo popolare della esplosiva b;
stà = stare, trovarsi, essere voce verbale infinito di stare/stà con etimo dritto per dritto dal tardo latino stare =, fermarsi interrompendo un movimento; stare, trovarsi, essere;
2 ESSERE MURO E MMURO CU 'A VICARIA.
Letteralmente: essere adiacente alle mura della Vicaria. Id est: essere prossimo a finire sotto i rigori della legge per pregressi reati che stanno per esser scoperti e puniti.
La Vicaria della locuzione era la suprema corte di giustizia operante in Napoli dal 1550 ed era insediata in CastelCapuano assieme alle carceri viceregnali. Chi finiva davanti alla corte della Vicaria e veniva condannato, era subito allocato nelle carceri ivi esistenti o in quelle vicinissime di San Francesco.
muro e mmuro letteralmente è muro con muro quasi muro addossato a muro e dunque per traslato adiacente, collegato, unito espressione che si usa non solo in senso reale architettonico, di muro costruito addossato ad altro, ma anche traslato riferito a cose e/o persone che si trovino a stare anche solo idealmente, connessi e legati con loro omologhi; la voce muro è dal lat. muru(m) da un antico moiru(m) o moeru(m) da collegarsi ad una radice moe – mu di moenia= mura di cinta della città contrapposto a paries= pareti o muri della casa e munire=fortificare.
3 CU 'O TIEMPO E CU 'A PAGLIA...
Per esteso e completo il proverbio recita: Cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia, ammaturano ‘e nespole.
Letteralmente: col tempo e la paglia (maturano le nespole). La frase, pronunciata anche non interamente, ma solo con le parole in epigrafe vuole ammonire colui cui viene rivolta a portare pazienza, ad attendere, a non precorrere i tempi, perché i risultati sperati si otterranno solo attendendo un congruo lasso di tempo, come avviene per le nespole d'inverno o nespole coronate che vengono raccolte dagli alberi quando la maturazione non è completa e viene portata a compimento stendendo le nespole raccolte su di un letto di paglia in locali aerati e attendendo con pazienza: l'attesa porta però frutti dolcissimi e saporiti, ad un dipresso ciò che avviene per le famose mele annurche che raccolte non ancòra completamente mature vengono distese su paglia e periodicamente girate fino a che non acquistano il tipico colore rosso cupo indice del completamento della maturazione che rendono annurco=indulcato il frutto.
tiempo= tempo dal lat. tempus con tipica dittongazione popolare nella sillaba d’avvio iepaglia = paglia, l'insieme degli steli disseccati dei cereali già mietuti e battuti con etimo dal basso lat.palia(m) o palea(m), ma nel napoletano forse per il tramite del catalano palla (cfr. pronunzia paglia)
ammaturano= maturano voce verbale (3° pers. plur.ind. pres.) dell’infinito ammaturà rafforzativo di maturà che è dal lat. maturare, deriv. di maturus 'maturo';
nespole = nespole sost. femm. plurale di nespola tipico frutto del nespolo (arbusto con foglie ellittiche, fiori bianchi e frutti globosi di color ocra, che diventano commestibili solo staccati dall'albero e lasciati maturar sulla paglia) (fam. Rosacee) l’etimo è dal lat. mespilum, dal gr. méspilon con conversione popolare della originale m etimologica in n e cambio di genere intendendo femminile il neutro plurale mespila;
annurca tipica varietà di mela campana che al massimo della maturazione (che avviene su approntati lettucci di paglia su cui vengono distese le raccolte ancòra semiacerbe e periodicamente girate a mano fino a che non maturino assumendo un tipico colore rosso cupo ma brillante, mentre la polpa soda e croccante perde un originario sapore aspro e si addolcisce: dal verbo latino indulcare= addolcire deriva la voce annurca secondo il percorso indulcata→annulcata→annurca(ta), quantunque qualcuno un po’ troppo fantasiosamente ricollegandosi ad uno scritto (?) di Plinio il vecchio parli di una orcola (mela coltivata nell’agro puteolano nella zona dell’ Orco/Solfatara (?) da orcola si sarebbe avuto anorcola ed annorcola ma nessuno spiega la via semantica ed il perché di tale trasformazione, dimostrando solo che alla fantasia non v’è limite.

5 STAMMO ALL'EVERA.
Letteralmente: stiamo all'erba. Id est: siamo in miseria, siamo alla fine, non c'è più niente da fare. L'erba della locuzione con l'erba propriamente detta c'entra solo per il colore; in effetti la locuzione, anche se in maniera più estensiva, richiama quasi il toscano: siamo al verde dove il verde era il colore con cui erano tinte alla base le candele usate nei pubblici incanti: quando, consumandosi, la candela giungeva al verde, significava che s'era giunti alla fine dell'asta e occorreva tentare di far qualcosa se si voleva raggiunger lo scopo dell'acquisto del bene messo all'incanto; dopo sarebbe stato troppo tardi.
stammo = stiamo, siamo, ci troviamo voce verbale (1° pers. plr. ind. pres.) dell’infinito stare/stà vedi sub 1.
evera o evra= erba, ogni pianta bassa il cui fusto rimane verde e tenero, senza diventare legnoso; l’etimo delle voci napoletane sono dal latino *hebra(m)>hevra metatesi di herba(m) con aferesi popolare dell’aspirata iniziale h intesa pleonastica ed inutile , mentre per evera con medesimo etimo si è avuto l’anaptissi (dal gr. anáptyxis 'spiegamento, apertura': inserzione di una vocale eufonica in un gruppo consonantico; epentesi vocalica) di una e semimuta.
In coda ed a margine della voce evera/erva segnalo una ulteriore espressione partenopea che suona: tené o avé ‘o piero a ll’evera e letteralmente è : tenere o avere il piede all’erba nel significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole).
Devo sùbito precisare che così come espressa in napoletano, in nessun modo essa potrebbe signifare ciò che nell’inteso comune l’espressione si pensa significhi atteso che non v’à nessun collegamento possibile tra l’erba ed una occasione propizia; in effetti mantenendo il significato di avere l’occasione adatta, propizia, avere il destro (per poter fare ciò che si vuole). l’esatta espressione napoletana che la illustra è: tené o avé ‘o piero ‘a llepera id est letteralmente: tenere o avere il piede da lepre (quell’arto cioè affrancato e veloce, atto all’azione libera); intesa così con riferimento alla lepre (e non all’erba!) ecco che l’espressione rende veramente il significato attribuitole ; purtroppo spesso nella tradizione orale di talune antiche espressioni, queste vengon malamente riportate lasciandosi fuorviare da gustose assonanze quali,nella fattispecie: evera/lepera; faccio notare come nell’errata espressione tené o avé ‘o piero a ll’evera la a che precede ll’evera è la preposizione semplice a che con derivazione dal lat. ad esprime una relazione di termine o di destinazione, il punto di arrivo di un'azione, mentre nella corretta tené o avé ‘o piero ‘a llepera la ‘a che precede llepera non è l’articolo determinativo ‘a(la),
ma la forma aferizzata ‘a della preposizione semplice da che con etimo dal lat. de ab esprime allontanamento, separazione nei valori di moto da luogo, origine, agente ecc.; mentre dal lat. de ad è unita a verbi nei valori di moto a luogo, stato in luogo, destinazione, finale; oppure è unita a sostantivi in espressioni modali (è il nostro caso!), ecc
piero= piede ed estensivamente zampa d’animale di mobile etc. sost. masch. dal lat. pede(m) con dittongazione popolare della sillaba d’avvio e tipica rotacizzazione mediterranea d/r;
lèpera = lepre mammifero lagomorfo con lunghe orecchie, grandi occhi, mantello grigio-bruno, lunghe zampe posteriori, coda corta; di indole timida, con abitudini prevalentemente notturne, velocissima nella corsa e ottima saltatrice, dotata di udito, olfatto e vista eccellenti, è cacciata per le sue carni pregiate sost. femm. con etimo dal lat volgare *lepera(m) per il class. lepore(m).
6 HÊ SCIUPATO ‘NU SANGRADALE.
Letteralmente: Ài sciupato un sangradale. Lo si dice di chi, a furia di folli spese o cattiva gestione dei propri mezzi di fortuna, dilapidi un ingente patrimonio al punto di ridursi alla miseria più cupa ed esser costretti, magari, ad elemosinare per sopravvivere; il sangradale dell'epigrafe è il santo graal la mitica coppa in cui il Signore istituì la santa Eucarestia durante l'ultima cena e nella quale coppa Giuseppe d'Arimatea raccolse il divino sangue sgorgato dal costato di Cristo a seguito del colpo infertogli con la lancia dal centurione sul Golgota. Si tratta probabilmente di una leggenda scaturita dalla fantasia di Chrétien de Troyes che la descrisse nel poema Parsifal di ben 9000 versi e che fu ripresa da Wagner nel suo Parsifal dove il cavaliere Galaad, l'unico casto e puro, riesce nell'impresa di impossessarsi del Graal laddove avevan fallito tutti gli altri cavalieri non abbastanza puri.
hê sciupato = ài sciupato voce verbale (2° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito sciupà= sciupare, ridurre in cattivo stato, guastare, rovinare con etimo dal lat. volg. *exsupare = guastare;

7 FATTE CAPITÀNO E MAGNE GALLINE.
Letteralmente: diventa capitano e mangerai galline. Id est: la condizione socio-economica di ciascuno, determina il conseguente tenore di vita (olim il mangiar gallina era ritenuto segno di lusso e perciò se lo potevano permettere i facoltosi capitani non certo i semplici, poveri soldati). La locuzione à pure un'altra valenza dove l'imperativo fatte non corrisponde a diventa, ma a mostrati ossia: fa’ le viste di essere un capitano e godine i benefici.
fatte=fa’ + te voce verbale (2° pers. sing. imperativo) addizionata in posizione enclitica del pronome te obliquo di tu dell’infinito fare/fà che, come alibi dissi, preferisco scrivere – per analogia con tutti gli altri infiniti partenopei accentati sull’ultima sillaba ( vedi ad es. mangià, cadé, saglí etc.)con la à (fà)piuttosto che con un’ a apocopata (a’)(fa’) che potrebbe ingenerar confusione tra infinito fare ed imperativo fai; l’etimo di fare/fà è dal latino fa(ce)re;
capitàno= capitàno, ufficiale, ben retribuito, comandante una compagnia di soldati, che à grado intermedio fra tenente e maggiore; l’etimo è da un lat. volg. *capitanu(m), per il lat. tardo capitaneu(m), deriv. di caput -pitis 'capo';
magna letteralmente mangia voce verbale (2° pers. sing. imperativo), ma qui – come altrove in napoletano con valore di futuro, dell’infinito magnà etimologicamente forma metatica del francese manger originata dal latino manducare incrociata con una voce popolare (gnam, gnam) di tipo onomatopeico;
galline sost. femm. plurale di gallina tipico animale da cortile, femmina del gallo, più piccola del maschio, con piumaggio meno vivacemente colorato, coda più breve, cresta piccola o mancante, speroni e bargigli assenti; viene allevata per le uova e per le carni (ord. Galliformi); nell’immaginario comune è inteso animale stupido e di nessuna intelligenza e ciò forse perché – avendo testa piccola – si pensa che abbia poco cervello; come alimento fu un tempo ritenuto gustoso e di lusso etimologicamente il nome è dal lat. gallina(m), deriv. di gallus 'gallo';

8 CHI NASCE TUNNO NUN PO’ MURÍ QUATRO.
Letteralmente: chi nasce tondo non puó morire quadrato. Id est: è impossibile mutare l'indole di una persona che, nata con un'inclinazione, se la porterà dietro per tutta la vita. La locuzione, usata con rincrescimento osservando l'inutilità degli sforzi compiuti per cercar di correggere le cattive inclinazioni dei ragazzi, in fondo traduce il principio dell'impossibilità della quadratura del cerchio.
chi pron. rel. invar. (solo sing. ; ant. anche pl.) colui il quale, colei la quale (con valore dimostrativo-relativo; uno il quale, una la quale; qualcuno che, qualcuna che (con valore indefinito-relativo): usato sia come sogg. sia come compl. nei casi obliqui: ‘a chi= da chi, a cchi= a chi, pe chi):etimologicamente dal lat. qui(colui) ilquale',nom.sing.;
nasce= nasce voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito nascere con etimo dal lat. volg. *nascere, per il lat. class. nasci;
tunno = tondo, che à forma circolare, fatto a mo’ di cerchio agg. qual. derivato dal lat. (ro)tundu(m), deriv. di rota 'ruota'con la consueta assimilazione progressiva nd→nn;
more =muore voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito murire/murí con etimo dal lat. volg. morire, per il class. mori;
quatro =quadrato, di forma quadrata qui opposta a quella circolare di tunno; agg. qual. derivato (cosí come il sostantivo omofano ed omografo quatro=quadro) dal lat. tardo quadru(m), deriv. di quattu°or 'quattro'con alternanza della dentale d/t.
9 A CHI PARLA ARETO, 'O CULO LE RISPÓNNE.
Letteralmente: a chi parla alle spalle gli risponda il sedere. La becera, ma icastica locuzione vuole significare che coloro che parlano alle spalle di un individuo, cioè gli sparlatori, gli spettegolatori, i saccenti vaniloquenti meritano come risposta al loro vaniloquio solo una salva di peti, salva demandata al naturale organo preposto a produrla sonante di peti in luogo dei surrogati pernacchi emessi dalla bocca sul modello dei peti.
parla= parla voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito parlare/parlà con etimo dal lat. volg. *parabolare, deriv. di parabola 'parabola', poi 'discorso, parola';
areto/arreto = dietro avverbio di luogo e preposizione impropria accompagnata (in tal caso) dalla prep. sempl. a o dalle sue articolate ô (al/allo=a + ‘o), â (alla= a + ‘a), ê (alle= a+ le), ê (a gli= a+ gli)dando in napoletano areto ô laddove l’italiano à dietro il; l’etimo di areto/arreto è dal at. tardo ad + retro 'di dietro';
culo = culo, deretano sedere . e per traslato fondo di un recipiente soprattutto di vetro: fiasco, bottiglia etc. sost. masch. derivato del latino culum che fu dal greco koýlon- kôlon= intestino;
risponne lett. risponde, ma anche come qui risponda voce verbale(3° pers. sing. ind. pres. o cong. pres. ) dell’infinito rispónnere con etimo dal lat. respondìre, comp. di re-, indicante il ripetersi dell'azione in senso contrario, e spondìre 'promettere'; propr. 'fare una contropromessa, promettere di rimando' con ritrazione dell’accento tonico ed assimilazione nd→nn.
pernacchie sost. masch. plurale di pernacchio suono penetrante e becero, emesso con un forte soffio a labbra serrate,facendo vibrare la lingua tra le labbra, in segno di disprezzo, dileggio o di scherno; la voce napoletana è maschile quasi a voler sottolineare la virilità e la potenza espressiva del pernacchio che non è la molle, volgare, inconsistente pernacchia della lingua italiana che non può mai raggiungere i fasti del tronfio pernacchio partenopeo ; l’etimo di pernacchio è dal lat. vernaculu(m) 'servile, scurrile', deriv. di verna 'schiavo nato in casa'; la pernacchia è stata invece etimologicamente marcata sulla voce napoletana pernacchio ed è stata ingentilita volgendola al femminile, compiendo però – a mio avviso – un’inutile castroneria!
10 A CRAJE A CRAJE COMME Â CURNACCHIA.
Letteralmente: a crai, a crai come una cornacchia. La locuzione, che si usa per commentare amaramente il comportamento dell'infingardo che tende a procrastinare sine die la propria opera, gioca sulla omofonia tra il verso della cornacchia e la parola latina cras che in napoletano suona craje e che significa: domani, giorno a cui suole rimandare il proprio operato chi non à seria intenzione di lavorare .
craje = domani avv. di tempo derivato dal latino cras;
altri tipici avverbi di tempo sono: piscraje= dopodomani dal latino biscras; pescrille= tra tre giorni dal latino post tres ille=dopo tre di quei(giorni); pescruozzo=tra quattro giorni forse da un acc. lat. volg. post croceu(m);
comme= come, allo stesso modo, alla medesima maniera avv. modale e preposizione impropria dal latino quo-mo abbreviazione di quo-modo; normale, come popolare il raddoppiamento della labiale m; quanto alla prep. art. â che segue comme vedi sopra sub 9: areto;
curnacchia = cornacchia: grosso uccello simile al corvo, ma con becco più grosso e incurvato all’estremità; sost. femm. derivato dal lat. volg. *cornacula(m), per il class. cornicula(m), dim. di cornix -icis 'cornacchia'.
Raffaele Bracale

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