LA MADRE ED IL PADRE DEI SANTI
Premesso il noto adagio: omnia
munda, mundis dirò che un
impertinente frequentatore (di cui, nel timore di incorrere in un reato contro
la riservatezza, indico solo le iniziali: A.G.) del sito messo su dall’amico prof. R. Andria, sito cui indegnamente collaborai nel
passato per informazioni circa la
parlata napoletana,mi chiede proditoriamente (pensando di pormi in difficoltà) ch’io gli
illustri e gli indichi oltre che il significato, un probabile, o certo etimo
della voce sciúscia e piú in generale gli elenchi esaminandole
analiticamente le voci napoletane in uso per indicare quella che il Belli
chiamò la madre de li santi e, per
completare l’argomento,elenchi ed esamini le voci usate per indicare il
padre de li santi . Non è mio costume farmi mettere in difficoltà con argomenti
intesi scabrosi, nè son solito esimermi dal trattarli , per cui, attrezzatomi alla bisogna,
raccolgo la sfida/provocazione ed entro súbito in medias res e comincerò col
dire che il termine sciúscia, voce domestica,epperò intesa quasi volgare (ma - come vedremo – non penso lo sia ) è uno dei
numerosi, icastici sinonimi con i quali,
con linguaggio piú o meno colorito e volta a
volta mutuato da riferimenti storici o da osservazioni visivo-gastronomiche, si è soliti indicare la vulva della donna, l’organo femminile esterno della riproduzione.
Tra i piú usati di détti sinonimi, rammento: fessa,fibbia, fresella, purchiacca/pucchiacca,quatturana,brioscia,sfugliatella,
carcioffola,carusella, ficusecca, mulignana,
patana,pummarola, vòngola, còzzeca,
scarola, ‘ntacca, bbuatta,caccavella cestúnia,cardogna,ciaccara/ciaccarella,senga,
sesca,sarcenella/sarchiella, pesecchia/pesocchia, pettenessa, furnacella,
tabbacchera etc. e qui di
sèguito li illustrerò uno alla volta. Procediamo ordunque ordinatamente:
féssa= fessura,
apertura con etimo dal lat. fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce a
margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche
del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m),
variante di volva(m)=porta, accesso) dell’italiano;
fibbia s.vo f.le [dal lat. fībŭla, affine a figĕre «attaccare,
appendere»]. in primis di
per sé, letteralmente la fibbia è un tipico fermaglio d’osso, di
metallo, di legno, di materiale plastico, ecc., di forma varia, provvisto di
una traversa (staffa)
in cui sono fissate una o più punte o un gancio per chiudere cinture, mantelli,
scarpe, ecc. la fibbia si distingueva e distingue per la varietà delle forme
(quadrate, a medaglione, a losanga, a quadrifoglio, ecc.) e per il pregio
artistico, specialmente quelle gote e longobarde, adorne di smalti, filigrane,
cammei, e quelle che, anche in seguito, furono adoperate per paramenti sacri e
da cerimonia, ornate di smalti e di oreficerie; nei sec. 17°-18° ebbero gran
voga le fibbie per scarpe, spesso di materiale prezioso (oro, argento), e
talvolta tempestate di gemme; per
traslato come nel caso che ci occupa vulva
femminile; semanticamente la fibbia si collega alla vulva per il fatto di
essere l’una e l’altra ornamento prezioso, la prima di abiti o calzature, la
seconda del corpo femminile. Tuttavia in una tipica locuzione popolare valse
cosa senza importanza, sciocchezza di cui non tener conto e ciò forse perché
come da fessa si ricavò fessaria cioé fesseria, bazzecola, inezia, nonnulla, nullaggine,
quisquilia, scemenza, sciocchezza, stupidaggine, cosí nell’espressione E
salutace â fibbia, disse don Fabbio![Porgi i (nostri)saluti alla fibbia,
disse don Fabio] la fibbia/vulva valse, senza alcun adattamento minchiata, scemenza, scempiaggine; rammento infatti
che la locuzione testé presa in considerazione è usata a divertito commento
quando si sia perso qualcosa di pochissima importanza di cui si possa non
dolersi o ci si trovi in presenza di
notizie/situazioni buone o cattive cosí
poco interessanti da cui si possa tranquillamente chiamar fuori o disinteressarsi come di faccende di alcuna
rilevanza.Rammento infine che con il don
Fabbio della locuzione non ci si
riferisce ad alcun personaggio reale o inventato, atteso che il nome Fabbio fu
usato solo per la gradevole assonanza che à con fibbia.
fresella di per
sé, letteralmente la fresella è un tipico biscotto (pane biscottato) usato
in un po’ tutto il meridione, variamente
condito con diversi ingredienti(in
massima parte vegetali) per un gustoso
asciolvere; la voce fresella è un deverbale del lat. frindere= spezzettare in quanto,esso biscotto/pan biscottato à
bisogno, per esser consumato, d’esser frantumato in piú pezzi.Va da sé che il
significato traslato di fresella
usata per indicare la vulva non nasce
dal fatto che quest’ultima sia edibile tal quale la fresella-biscotto, né dal fatto che come la fresella, la vulva
debba esser frantumata; la via semantica è un’altra ed attiene alla forma;
infatti la fresella-biscotto può
avere la forma di una fettina rettangolare di pane cotto e poi biscottato, ma piú spesso la fresella-biscotto a Napoli o nelle
Puglie à la forma di corona circolare ed il pane biscottato si sviluppa intorno
ad un congruo buco centrale, cosa che – ad un dipresso accade per la vulva;
purchiacca o pucchiacca = letteralmente,
fodero
di fuoco, faretra infuocata e
genericamente vulva, vagina;
premesso che la voce originaria fu purchiacca trasformato poi nel lessico popolare in pucchiacca con tipica assimilazione regressiva
rc→cc
dirò che l’etimo non è tranquillissimo ed infatti io stesso penso di poterne proporre per lo meno un paio
dei quali opterei comunque per il primo;
1 -la prima ipotesi è che la voce a margine potrebbe risultar derivata dal greco pyr(fuoco) + koilos(faretra, vagina)+ il suff. dispreg. acca (femminilizzazione del maschile acco/accio suffisso
che continua il lat. -aceu(m), usato per formare sostantivi e aggettivi
alterati con valore peggiorativo . ),secondo un percorso
morfologico che da koilos, attraverso
un *koleaca porta a cljaca→chiaca
e dunque: pyr+cliaca+acca= purcliacca→
puccliacca→pucchiacca con tipica assimilazione regressiva rc→cc, tutto ciò in luogo di quanto proposto da altri quali l’Altamura, il D’Ascoli, e tutti coloro che vi
attingono, che ipotizzano un latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→
pucchiacca (erba porcellana); l’idea non
m’appare perseguibile in quanto, in effetti in pretto, corretto napoletano la voce usata per indicare l’ erba commestibile porcacchia,che giunge sulle tavole partenopee sempre in unione con un’altra erba/insalata detta arucola
(rughetta), la voce dicevo è purchiacchiello
(diminutivo masch. ricostruito del femm. purchiacca = porchiacca con tipica chiusura della ō→u; la
porcacchia/porcellana è pianta erbacea commestibile, con fusto
ramoso e piccoli fiori gialli della fam. Portulacacee; tale erba non
si vede però, a mio avviso, neppure per traslato o estensione (come invece
avviene – e lo vedremo súbito – con altri nomi mutuati dagli ortaggi e/o
da prodotti ittici), cosa possa avere in comune
con l’ organo femminile esterno della riproduzione;
2 - l’altra mia ipotesi
circa l’etimo di pucchiacca fa riferimento ad una iniziale porcacchia, ma questa non è l’erba porcacchia /porcellana; nel caso da me ipotizzato occorre infatti partire
da una radice porc ( del
latino porca=maiale/scrofa; tale voce
(sostituendo il classico sus, nel
latino parlato fu usata per indicare esattamente oltre che la scrofa, anche la sua vulva ) radice addizionata del suffisso
diminutivo- spregiativo (cfr. Rohlfs) acchia:
da porcacchia→purcacchia e pucchiacca con il medesimo significato di porca=vulva della scrofa ed
estensivamente vulva in genere;
- quatturana letteralmente quattro grani; il grano fu vilissima moneta in uso nel Napoletano
(Regno delle Due Sicilie) sin dall’epoca degli Aragonesi ed Angioini (fine 13°
sec.). Al proposito rammenterò, per incidens, che l'unità del Regno delle due
Sicilie si era spezzata sin dalla ribellione dei Vespri Siciliani del 1282.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi ed Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
La Sicilia era divisa fra Aragonesi ed Angioini fino al trattato di Caltabellotta quando fu sancita l'esistenza di due regni di Sicilia, quello di Trinacria che comprendeva solo l'isola e quello di Sicilia, che anacronisticamente si riferiva alla parte continentale, meglio conosciuta come Regno di Napoli, cioè le terre oltre il faro dello stretto fino al fiume Garigliano ed il Tronto.
Il regno di Trinacria era governato da Pietro d'Aragona che aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi.
Il regno di Napoli era governato, con l'appoggio del papa, suo signore feudale, dal conte di Provenza Carlo d'Angiò.
Anche questo trattato, però non riportò pace fra Angioini e Aragonesi, che si accanirono sempre piú a combattersi.
Dopo vari tentativi da parte degli Angioini e degli Aragonesi di imparentarsi fra loro per riunificare il regno.
Nel 1420 la regina Giovanna II d'Angiò, rimasta senza eredi, per difendersi dal pontefice e da Luigi d'Angiò, chiese aiuto agli Aragonesi proponendo l'adozione di Alfonso V , figlio di Ferrante re d'Aragona, offrendogli il titolo di duca di Calabria e la qualifica di erede al trono.
Torniamo al grano che, dicevo,fu vilissima moneta corrispondente all’incirca al valore di 60
centesimi dell’attuale euro per cui 4 grani corrispondevano all’incirca a 2,40 euro, cioè a quasi 5000 delle vecchie lire. e questa somma,
secondo una teoria, era quanto si facevano pagare, per ogni rapporto, le meretrici di infimo ordine che prestavano
la loro opera lungo la c.d. ‘mbricciata
‘e san Francisco (imbrecciata (di cui dissi alibi) di san Francesco)malfamata
strada ubicata a Napoli poco fuori le mura di porta Capuana, nei pressi di
quell’edificio che fu in origine il monastero dei cosiddetti monaci di sant’Anna (in quanto ebbero
come loro cappella la chiesa di sant’Anna posta all’imboccatura del Borgo sant’Antonio
abate), poi sede delle Carceri san
Francesco ed infine sino ad or non è
guari sede degli uffici della Pretura ;
secondo altra teoria, che reputo piú esatta, la somma di quattro grani fu
quanto sotto Alfonso V d’Aragona, si pretese dalle meretrici a mo’ di tassa
sulle singole prestazioni; ora sia che fosse una tassa, sia che si trattasse
del prezzo da pagare alla meretrice, la voce quatturana (quattro grani)finí per indicare lo strumento di lavoro
della prostituta, e con estensione volgare, l’organo riproduttivo esterno di
ogni altra donna soprattutto di basso ceto;
- ‘ntacca = fessura,
apertura, scanalatura, contrassegno con probabile etimo deverbale da ‘ntaccà=intaccare derivato dal germ. *taikka
'segno';
- bbuatta s.vo f.le=
letteralmente la parola a margine vale barattolo,
contenitore cilindrico in banda stagnata
usato per commercializzare generi alimentari dalla frutta sciroppata ai
pomidoro, alle melanzane, ai peperoni, al caffè; il traslato semantico è di
facile comprensione; l’etimo è dal francese boite;
-caccavella s.vo f.le=
letteralmente la parola a margine vale pentolina
,piccolo paiolo di creta o talora di rame usato per la cottura di alimenti;
per traslato e figuratamente valse anche grosso
cappello da donna; sempre per
traslato come la precedente buatta
indicò l’organo femminile esterno della riproduzione cui semanticamente è
avvicinata per esser come quello un contenitore;partendo da tale accostamento
con la voce a margine si indicò anche per metonimia la prostituta, soprattutto se
non particolarmente avvenente e di forme
sgraziate, che quel contenitore usasse; infine con la voce a margine
(etimologicamente dal lat. tardo caccabella
femminilizzazione di caccabulus diminutivo di caccabus = paiolo,pentolone, dal greco kàkabos) per traslato sarcastico si indicò
una donna che fosse grossa,grassa e bassa; piú precisamente tale donna fu détta
caccavella ‘e Sessa: Sessa Aurunca (comune
della provincia di Caserta, noto con il solo nome di Sessa,in origine Suessa, città appartenete alla Pentapoli Aurunca; il nome di Sessa derivò dalla felice posizione (sessio =
sedile - dolce collina dal clima mite)fu una località dove veniva prodotto vasellame in terracotta, d’uso quotidiano;
-chitarra
(dall'ar. qîtâra, che è dal gr. kithára. che
normalmente indica un noto strumento musicale a corde,provvisto di cassa
armonica formata da due tavole (di cui la superiore con foro centrale, détto
rosa) unite da una fascia,di un manico provvisto di divisioni per cercar le
note e di paletta con meccanica per
tender le corde) è usata per indicare
furbescamente la vulva femminile, semanticamente richiamata dalla rosa/foro centrale, ed inteso quale
strumento di piacere ;
in tale medesima accezione la voce chitarra la si ritrova nella smorfia napoletana che al numero 67 fa corrispondere l’espressione ‘o totaro
dint’ â chitarra letteralmente: il totano nella chitarra,
e ci si trova davanti ad una figurazione
dal sapore marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figura
riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire
'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia
adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra
con il foro della rosa; quanto
all’etimologia abbiamo: totaro deriv.
del gr. teuthís o têutòs con lo stesso significato di
mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal greco è giunta nel
napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con metaplasmo e cambio
di suffisso nu→ro.
- senga propriamente si tratta di una fessura, una
screpolatura una contenuta lesione, tutte cose riscontrabili su oggetti in
legno (porte, antine di mobili) o in muratura e per giocoso traslato la voce a
margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione cui
semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta
fenditura verticale) che ripete quasi quella dell’organo suddetto; l’etimo di senga
si fa concordemente risalire al lat. signum quale lettura
metatetica poi femminilizzata; da signum→singum→singo e da questo il
femminile metafonetico senga;
- sesca propriamente si tratta di una ferita,il piú
delle volte da taglio, una contenuta
lesione prodotta da un’arma bianca sulla
viva carne del corpo umano, e come per la voce precedente, per giocoso traslato
la voce a margine si riferisce all’organo femminile esterno della riproduzione
cui semanticamente è avvicinata per la tipica forma della lesione (contenuta
apertura verticale) che ripete quasi quella
dell’organo suddetto; non di tranquilla lettura l’etimo di sesca che di per sé è la
femminilizzazione metafonetica del maschile sisco=
fischio che è un deverbale del latino fistulare→fisclare→fischiare→fischio.
Ora rammento che anche in
lingua italiana, per furbesco traslato, con la voce fischio si intende il membro maschile,cosí anche in napoletano con
la corrispondente voce di fischio e
cioè sisco soprattutto nel linguaggio colloquiale, si intende il membro maschile; e dunque non
meraviglia se per analogia con il femm. di sisco
e cioè con sesca si
è finito per indicare il corrispondente
organo femminile e quest’ultimo semanticamente è stato avvicinato ad un piccolo
taglio, una contenuta lesione prodotta
da un’arma bianca sulla viva carne del corpo umano per la tipica forma della lesione (contenuta
apertura verticale) che ripete quasi
quella dell’organo suddetto, per cui la voce sesca indica sia la vulva che una ferita da taglio.
sarcenella/sarchiella s.vi f.li di
carattere marcatamente furbesco atteso che con il termine sarcenella, ma
anche con sarchiella(quantunque quest’ultima voce non trova riscontro
alcuno, se non declinato al plurale ‘e
ddoje sarchielle a commento del numero 66 del giuoco della tombola, e sia solo una patente corruzione della
precedente sarcenella), si intende riferirsi all’organo sessuale
femminile, e segnatamente a quello di
una donna che per essere ancora nubile, sebbene abbastanza anziana l’abbia
ispido e ben serrato a guisa di una
piccola fascina (...buona solo per essere arsa!); il termine sàrcena ed il
diminutivo sarcenèlla, nonché la corruzione sarchiella valse appunto in primis fascina,
fardello di sterpi e poi – come ò spiegato - ebbe il significato traslato è
voce derivata dal lat. sarcina(m), propr. 'bagaglio avvolto in una
tela cucita', deriv. di sarcire 'cucire';
- pesecchia/pesocchia propriamente fessurina, piccola apertura
atteso che con le voci a margine si indicano alternativamente la
vulva di bambine molto piccole o un po’ piú cresciute; l’etimo è da una voce
onomatopeica ps→pes (dello zampillo)
addizionata di suffissi ecchia (diminutivo) o occhia (accrescitivo).
cestunia s.vo f.le= in primis tartaruga; per traslato
come nel caso che ci occupa, vulva vecchia e rattrappita di una donna ben
matura. Etimologicamente voce adattamento fono-morfologico per incrocio
greco-latino di khelòne e testudine-m.
Prima di illustrare le voci mutuate dall’àmbito orticolo o ittico,
rammento le due voci ricavate dall’àmbito dolciario; e sono brioscia e
sfogliatella;
brioscia s.vo f.le –
1 in primis piccolo dolce,
soffice, leggero e saporito, a base di farina, burro, latte, zucchero e lievito di birra (la cosiddetta pasta
brioche),d’uso segnatamente francese che viene cotto in forno in varie forme,
di cui la piú tradizionale è quella di una mezza sfera sormontata da una mezza
sfera più piccola, mentre in Italia è piú comune quella a mezzaluna, chiamata
anche cornetto, spesso farcito di crema e/o marmellata.
2 per
traslato d’uso volgare nel senso che ci
occupa sesso femminile, vulva; il collegamento semantico
si coglie tenendo presente che nell’inteso popolare non v’à nulla di più dolce
del sesso femminile e dell’atto sessuale ch’essa permette di compiere. Voce adattamento del francese brioche;
rammento che il termine in esame, nel significato sub 2, è presente in una
icastica anche se becera espressione popolaresca nata nella città bassa ed
improntata al piú sfrenato edonismo ed al materialismo pessimistico,espressione nella quale si afferma, giocando con numerose
assonanze:’A vita, bbella mia, è ‘na brioscia, n’araputa ‘e cosce,’na
‘nfilata ‘e pesce, ‘na chiusura ‘e cascia e ttutto fernesce! Non mette conto tradurla atteso che è di
facilissimo intendimento. Mette invece conto rammentare il nome di
un altro
gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia
(sfogliatella riccia) che viene usato per traslato
furbesco per indicare appunto la vulva, il sesso femminile
sfugliatella =
sfogliatella s.vo f.le 1piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
2 per traslato, ma non d’uso volgare, quanto affettuoso nel senso che ci occupa sesso femminile, vulva; la sfogliatella riccia appunto per la sua forma triangolare, a conchiglia, (vagamente rococò) oltre che per la sua dolcezza ben superiore a quella della brioche→brioscia è semanticamente accostata alla vulva femminile.
E passiamo ora a tutte le voci mutuate dall’àmbito orticolo o ittico; abbiamo:
- carcioffola s.vo f.le = carciofo con
riferimento all’organo stretto e serrato di una giovane donna tal quale il
carciofo che se fresco e giovane à le brattee ben chiuse e serrate; ciò è tanto
piú vero se si pensa che di una donna che
non sia piú giovane e che per
tanto si pensa abbia già avuto piú o meno numerosi rapporti coniugali, s’usa dire ironicamente che tene ‘a
carcioffola sfrunnata=à il carciofo
sfrondato id est:la vulva deflorata;
l’etimo della voce carcioffola risulta derivato dall’arabo harsûf addizionato del suff. diminutivo lat. ola (femm. di olus);
sfrunnata=sfrondata p. p. femm. dell’infinito sfrunnà= sfrondare che
è un denominale di fronda con prostesi di una s distrattiva; normale nella voce napoletana l’assimilazione
progressiva nd→nn;
- carusella s.vo f.le =1(in primis
e di per sé) finocchiella, varietà selvatica di finocchio; 2(per traslato giocoso) organo femminile di donna matura, glabro
e/o canuto come ad un dipresso il
finocchio selvatico; nell’accezione sub 2 la voce a margine è d’uso provinciale
e d’àmbito rurale, adoperato quale contraltare di rafaniello = ravanello, voce che nel medesimo àmbito indica
l’organo maschile della riproduzione, cui è semanticamente accostato per la
forma oblunga.Etimologicamente trattasi di voce deverbale di carusà (tosare) che è da una rad. greca *kar- [cfr. karēnai inf.
aor.pass. di keìrō di analogo
significato].
- cardogna s.vo f.le = s.vo f.le = cardo pianta erbacea con foglie
lunghe, carnose, di colore biancastro, commestibili affine al carciofo con
riferimento all’ irsuto organo stretto e serrato di una donna matura, ma ancóra illibata; voce derivata dal lat.volg. cardunĭa marcato sul greco kardonía.La voce a margine è usata in
una icastica espressione esclamativa che suona s’è ‘nfucata ‘a cardogna!
(si è accalorato il cardo spinoso!), con riferimento all’innalzarsi della
temperatura atmosferica durante il periodo dell’anno (primavera/estate)quando
la pianta è piú rigogliosa; ma usata anche furbescamente per commentare gli
improvvisi bollori d’una donna non sposata e non
piú giovane, cui repentinamente si risveglino i sensi.
- ciaccara s.vo f.le ed
il suo diminutivo ciaccarella voci domestiche, mai intese
volgari (anzi il diminutivo è pensato ipocoristico e quasi affettuoso) è uno dei numerosi, icastici sinonimi con i quali, con linguaggio piú o
meno colorito e volta a volta mutuato da
riferimenti storici o da osservazioni che investono i piú vari campi dalla gastronomia,alla botanica, alla fauna
ittica etc. si è soliti indicare la vulva della donna adulta , l’organo femminile esterno della
riproduzione, mentre con il diminutivo ci si riferisce alla vulva di una
bambina; per quanto riguarda la semantica e l’etimologia della voce in
esame,a mio avviso non penso si debba sbrigativamente parlare di voce
onomatopeica (cosa mai dovrebbe fare ciacc
?)cosí come invece, pur senza chiarire,
ipotizzò F.sco D’Ascoli e
l’ Altamura che lo saccheggiò...Penso invece che la voce ciaccara sia stata costruita partendo dal s.vo ciacco (suino,
maiale voce adattamento del greco sýbax-sýbakos→siacco→ciacco)
addizionato del suffisso di competenza ara
f.le di aro che continua il lat. arius; semanticamente come vedremo
affrontando l’etimo di sciuscia ci troviamo a ragionare di parola (ciacco) che
usata al maschile indicò il maiale,mentre
usata al femminile(ciacca) sia pure solo
nel parlato della città bassa indicò la scrofa e per metonimia la
sua vulva; nulla osta poi che per
traslato giocoso la voce passasse ad indicare anche la vulva della donna adulta
e con il diminutivo poi quella di una bambina.
- ficusecca s.vo
f.le con derivazione, con passaggio al femminile dal masch. lat. ficum(che
corrisponde al greco sýcon con cambio
metaplasmatico s/f)+ siccum da una radice sik = secco, sterile.
usata in senso furbesco, in
napoletano si identifica la vulva avvizzita d’una donna anziana e non piú
appetita; al proposito preciso che anche in greco con la voce sýcon si indica sia il frutto del fico che
furbescamente la vulva.
- patana, s.vo f.le=
patata; il noto tubero edule è preso semanticamente a riferimento poiché come esso vive nascosto e protetto sottoterra, alla
stessa stregua s’usa tener nascosta e protetta la vulva femminile, che di suo è già posta anatomicamente in posizione riservata; l’etimo
della voce a margine è per adattamento dallo
sp. patata, sorto dall'incrocio di papa (di orig. quechua) con batata
(di orig. haitiana);
- pummarola s.vo f.le = pomodoro il frutto
rosso e carnoso della solanacea è preso a riferimento, cosí come l’altrove
usato fica, non perché la vulva sia
edula come il pomodoro o il frutto del fico, ma perché, come questi ultimi à il
suo interno rosso ; l’etimo di pummarola è, come per la voce della lingua nazionale pomodoro da pomo d’oro con il passaggio
in sillaba d’avvio di ō ad u (cfr. notte→nuttata),
raddoppiamento espressivo popolare della
labiale m (cfr. comme←q(u)omo(do),
alternanza osco mediterranea d/r, onde pomodoro→pummororo, dissimilazione r-r→r-l e cambio di genere per cui pummororo→pummarola;
- vongola, s.vo f.le=
noto mollusco bivalve gustosissimo il cui nome anche in italiano,
ripete quello a margine, voce di origine
napoletana trasmigrata come molte
altre (guaglione, camorra, scugnizzo, sfogliatella e derivati e molti altri )
nel lessico nazione; la voce vongola,
come la successiva còzzeca è presa a modello per indicar la vulva, in
quanto il bivalve aperto ricorda quasi la forma dell’organo femminile, l’etimo
di vongola (voce che indica oltre che il mollusco e la
vulva,estensivamente anche una sciocchezza, una panzana che, del resto altrove
è detta anche fesseria con evidente riferimento alla prima voce di
questa elencazione) l’etimo dicevo di vongola è da un acc.vo lat. concula(m)/*goncula(m)→gongula(m) da cui vongula→vongola
con normale passaggio di g→v (vedi
gulío/vulío – golpe/volpe etc.);
- cozzeca, s.vo f.le=
cozza, mitilo bivalve che aperto, come la
precedente vongola ricorda quasi la forma dell’organo femminile;
in piú la cozza, per essere di colore nero e provvista
di bisso, ben si presta a rappresentare
il fronzuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di cozzeca è, quasi certamente, da una forma ampliata
di un lat. volg. *cocja→*cocjala→cozzala→cozzaca→cozzeca;
e veniamo ai
riferimenti orticoli cominciando da
- scarola s.vo f.le = scarola letteralmente
scariola, varietà di indivia; anche, in
alcune regioni, varietà di lattuga o cicoria; la scarola e segnatamente la
specialità detta riccia per essere in
cespo arricciato, ben si presta a significare il fronzuto ricciuto organo femminile di una donna giovane; l’etimo di scarola è dal lat. volg. *escariola(m), deriv. del
lat. escarius 'che serve per mangiare', da ìsca 'cibo, esca;
- mulignana s.vo f.le letteralmente melanzana; siamo sempre nell’ambito orticolo
ed essendo la mulignana = melanzana
una pianta erbacea largamente coltivata
per i frutti commestibili di forma oblunga o ovoidale, con buccia violacea
lucente e polpa amarognola (fam. Solanacee), proprio per questa sua
buccia liscia e lucente, viola scuro,
quasi nera si presta a rappresentare icasticamente la scura e fronzuta, ma
liscia vulva d’una giovane donna ; l’etimo della voce a margine è dall'ar. badingian,
di orig. persiana, riaccostato, secondo alcuni al lat. mala(mela)+insana in quanto in origine si pensò che la melanzana
fosse frutto che inducesse alla pazzia.
- pettenessa s.vo f.le
ultima(anni ‘950) voce entrata nel lessico popolare partenopeo
per indicar la vulva, ed è voce traslata e giocosa; di per sé ‘a pettenessa indica
un tipico pettine, in forma di conchiglia, d’osso o tartaruga, a denti lunghi e sottili, disadorno o ornato di piccoli orpelli spesso semipreziosi, grosso pettine usato dalle donne per sorreggere la
crocchia dei capelli; atteso che in
napoletano, per indicare il pube ( in ispecie)femminile si
à la voce pettenale (derivato da un acc.vo lat. pectinale(m) da pecten= pettine), come del resto in
lingua nazionale si à, per indicare la medesima cosa, la voce pettignone (derivato da un acc.vo lat. volg. *pectinione(m), dim. del class. pecten
-tinis 'pettine'con riferimento (sia per l’italiano che per il napoletano)
alla lunghezza dei peli del pube che ricordano i denti dei pettini,sia la forma
a mo’ di conchiglia di ambedue: del pube e del grosso pettine, ecco che in senso traslato la voce pettenessa= grosso pettine (dal class.
lat. pecten con suff. femminilizzante
essa secondo il criterio che una voce
femminile è usata per indicar qualcosa di piú grande del corrispondente
maschile (cfr. pennellessa piú grande
di penniello, tammorra piú grande di tammurro, cucchiara piú grande di cucchiaro, tina piú grande di tino carretta piú grande di carretto,
etc., ma per eccezione caccavo piú
grande di caccavella e tiano piú grande di tiana,,)) ben si prestò ad indicar la vulva ubicata
all’estremità del pube i cui peli richiamano l’idea del pettine.
- tabbacchèra s.vo f.le letteralmente tabacchiera,contenitore metallico, spesso finemente cesellato,
provvisto di coperchio incernierato e chiusura a scatto; contenitore da
asporto(solitamente celato in tasca) per tabacco da fiuto;
per
traslato furbesco sesso femminile; il traslato semantico è dovuto
probabilmente al fatto che come la tabacchiera, se tenuta ben chiusa, serve a conservare il tabacco da fiuto con
tutto il suo aroma, cosí il sesso femminile se tenuto serrato serve a difendere
e conservare la virtú femminile.
La voce etimologicamente è un derivato di tabacco (dallo spagnolo
tabaco) + il suff. di pertinenza iera→era;
normale nel napoletano il raddoppiamento espressivo della labiale esplosiva
onde tabacchiera→tabbacchera. Relativamente
al significato trasòato furbesco rammento il détto: Redimmo e pazziammo, ma nun tuccammo ‘a tabbacchera che letteralmente vale: Ridiamo e giochiamo, ma non tocchiamo la tabacchiera e fa riferimento ai comportamenti che si auspica tengano tra
di loro gli innamorati ai quali si consiglia di contenersi e cioè di ridere e giocare,evitando di oltrepassare taluni limiti che coinvolgerebbero
pesantemente il sesso.
- furnacella s.vo f.le soprattutto addizionato dell’aggettivo sfunnata
furnacella sfunnata letteralmente piccolo forno
sfondato; va da sé che tale accoppiata è usata quale epiteto rivolto ad una donnaccola;
nella fattispecie con la voce fornacella
non si indica certamente il fornetto in pietra o metallo, ma furbescamente la
vulva di colei cui è diretto
l’epiteto, vulva che risultando sfunnata (sfondata) accredita la
donnaccola offesa d’esser donna di facili costumi, se non addirittura una
meretrice abbondantemente conosciuta in
senso biblico; furnacella= fornetto portatile alimentato a carbone; nell’espressione a margine vale però per traslato : vulva
atteso che sia il fornetto sia la vulva son sede(l’uno di un reale fuoco,
l’altra di uno figurato; rammenterò al proposito che nel parlato napoletano, come
ò già riferito, tra le piú comuni voci
per indicare la vulva c’è quella che suona purchiacca/pucchiacca che con etimo dal greco pýr
+k(o)leacca>*cljacca sta per fodero di fuoco; tornando a furnacella dirò
che l’etimologia è dall’acc. lat. volgare
furnacella(m) che è un diminutivo con cambio di suffisso per cui in
luogo dell’atteso furnacula(m) dim.
di furnum si è ottenuto la ns. furnacella(m); sfunnata= sfondata,
rotta , consunta part. pass. femm. aggettivato dell’infinito sfunnà =
sfondare; denominale del latino fundu(m) con protesi di una s
questa volta distrattiva; in coda alle tante voci con cui viene reso il
sesso femminile, rammenterò che in taluni paesi dell’entroterra napoletano
(cfr. Visciano) talora la vulva viene resa con la voce
sguessa/sguessera, s.vo f.le = mento pronunciato e sfuggente, ma non è in alcun modo
chiaro quale possa essere il passaggio semantico che conduca a parlare della
vulva come di una sguessa/sguessera; in
effetti nelle parlate meridionali il
mento pronunciato,quando non addirittura scentrato, deviato (cfr. il
famosissimo mento del principe della risata Antonio de Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898
– † Roma, 15 aprile 1967),),
la bazza sono resi con la voce sguessa o anche sguéssera;
ambedue queste due ultime voci (di cui la seconda: sguéssera, è solo un’estensione espressiva popolare dell’originaria sguessa) risultano essere, quanto all’etimo, un adattamento della voce sghessa
che (derivata da un ant. alto tedesco geicz (voracità), con tipica pròstesi di
una s intensiva) indica una fame smodata, eccessiva quella
che,talvolta, impegnando in un lavoro
abnorme bocca e mandibola, può determinare gli apparenti sviamento e pronunciamento del mento; da sghessa→sguessa con caduta dell’
acca e successiva palatalizzazione della e che intesa breve viene dittongata
in ue;
infine da sguessa→sguessera.
Rammenterò infine che la voce sghessa
nell’identico significato di fame
smodata, si ritrova con varî adattamenti in molti dialetti: emiliano (idem sghessa), lombardo(sgheiza, sgüssa) piemontese(gheisi) sardo(sghinzu) e persino nell’italiano sghescia; epperò in nessun modo si riesce a spiegare o ad
ipotizzare il perché del passaggio semantico
da fame smodata o mento pronunciato,quando non addirittura
scentrato, deviato a vulva femminile; posso solo sospettare un iniziale
errato riferimento protrattosi nell’uso popolare.
Rammento ancóra che in taluni dialetti provinciali (Capri,
Visciano etc.) la vulva viene indicata anche con il nome di brasciola s.vo f.le( che, vedi alibi,
di per sé indica un grosso
involto di carne imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla ed in
quanto tale è un s.f. derivato dal tardo latino brasa+ il suff.diminutivo ola femm. di olus; semanticamente la faccenda si spiega col fatto che
originariamente la brasola fu una fetta di carne da cuocere alla brace, e
successivamente con la medesima voce adattata nel napoletano con normale
passaggio della esse + vocale (so) al palatale scio che generò da brasola, brasciola si intese non piú una
fetta di carne da cucinare alla brace, ma la medesima fetta divenuto grosso
involto imbottito da cucinare in umido con olio, strutto, cipolla e molto
frequentemente, ma non necessariamente sugo di pomidoro, involto che è d’uso
consumare caldissimo.furbescamente, come ò détto, in talune province con
tale voce viene indicata la vulva, con
riferimento semantico alla focosità e carnalità del sesso femminile. A Napoli
dove sono in uso numerose voci per
indicar la vulva, questa provinciale brasciola non viene di norma usata.
Esaurita la spiegazione delle voci elencate a monte, veniamo finalmente a trattare
la voce proditoriamente propostami dal sig. A.G. Parliamo cioè della sciuscia.
- sciuscia s.vo f.le. Come ò già detto è
voce generica che vale vulva, vagina, organo riproduttivo esterno della
donna il tutto senza particolari specificazioni concernenti l’età o la
destinazione d’uso, ed è voce
colloquiale privata in uso tra
contraenti (sposi, amanti, fidanzati etc.) dei due sessi di qualsiasi ceto
sociale.
Per la verità dico súbito che solo tre calepini della parlata napoletana (
l’antico D’Ambra,ed i piú vicini Altamura e D’Ascoli che vi attingono
spudoratamente) dei numerosi in mio possesso e che ò potuto consultare,
prendono in considerazione la voce a margine, e però a malgrado che tali vocabolaristi àbbiano il merito di considerare la voce, per
ciò che riguarda l’etimo non ànno merito alcuno, in quanto copiandosi l’un
l’altro optano,ma a mio avviso,
maldestramente, per un inconferente
generico idiotismo (.s. m. (ling.)
locuzione, voce o costrutto
caratteristici di una lingua o di un dialetto) fatto scaturire con un
arzigogolo fastidioso ed inattendibile da far risalire a cíccia→ciàccia→sciàscia→sciúscia … che pasticcio!
Personalmente penso di poter proporre altri due etimi di cui il primo, pur essendo perseguibile quanto alla
morfologia, convengo che zoppichi e non poco quanto alla semantica; a mio
avviso si potrebbe morfologicamente pensare al solito latino ad un part. pass.
femm. fluxa dell’infinito fluere atteso che il gruppo latino fl evolve sempre nel
napoletano sci (vedi alibi flumen→sciummo,
flore-m→sciore flamma→sciamma - flaccare→sciaccà etc.) ed
ugualmente x=ss seguito da vocale diventa sci e dunque fluxa=flussa
potrebbe aver dato morfologicamente sciuscia;
ma, come ò io stesso notato, vi si oppone la semantica: una cosa scorsa, fluita
poco o nulla à che spartir con una vulva… Occorre tenere altra via! È ciò che
faccio e prendendo per buona un’idea dell’amico prof. Carlo Jandolo, la faccio
mia e dico che partendo dalla considerazione che la voce sciuscia termina con il
suff. latino/greco di appartenenza ia e che d’altro canto la voce classica latina sus indicò indifferentemente il maiale, la scrofa e la vulva, e tenendo
presente che la sibilante s anche scempia seguíta da
vocale evolve, come la precedente doppia ss in napoletano nel gruppo palatale sci,
ecco che da un origianario sus addizionato
del suffisso d’appartenenza ia si è potuto
avere súsia→sciúscia e non susía→sciuscía ponendo bene attenzione
che il suffisso latino ia comporta
la ritrazione dell’accento tonico sulla sillaba radicale, mentre è il corrispondente ía greco che sposta l’accento sul suffisso come si ricava
osservando la voce filosofia che in
lat. è philosòphia(m), mentre
in greco è philosophía; e posta l’ipotesi in
questi termini, possiamo dire che anche la semantica (ramo della linguistica e, piú in
generale, della teoria dei linguaggi (anche artificiali e simbolici), che
studia il significato dei simboli e dei loro raggruppamenti e, nel caso delle
lingue, studia il significato delle parole, delle frasi, dei singoli enunciati)
possa esser contentata cosí come
m’auguro sia soddisfatto il provocatorio sig. A.G. e chiunque altro fosse interessato
all'argomento. Esaurita la trattazione circa la madre de li santi passiamo a quella concernente il padre
de li santi.
precisando súbito che sono numerosissime
le voci usate in napoiletano lasciando
libero sfogo alla fantasia; lasciando da parte la voce cazzo che non è segnatamente napoletana, ma è usata su
tutto il territorio nazionale,ed ugualmente tenendo separate un paio di espressioni che non son
riconducibili a classificazioni e cioè: ‘o pate d’ ‘e ccriature e ‘o dito ‘e san Paolo ca ‘ntorza ‘a panza
dirò
che quelle che son voci d’uso strettamente
meridionale possono genericamente esser suddivise in tre gruppi; del
primo fanno parte le voci mutuale dal mondo animale: pesce,cefalo,palàmmeto, capitone senza recchie, piccione,suricillo;
del secondo quelle attinte dal regno vegetale: fenucchio, cetriuolo, fava,
fungio, pipero, rafaniello ed infine del terzo gruppo fanno
parte quelle in prestito tra altri dolciumi o alimenti: franfellicco, saciccio, bbabbà,
panzarotto, pasticciotto oppure
tra gli oggetti:chiuovo,
junco,penniello,spruoccolo, martino.
E
passo ad analizzare le voci cosí come elencate:
cazzo s.vo m.le1(in primis e come nel caso che ci occupa ) membro virile, pene
2 (fig.) persona
sciocca, minchiona; testa di cazzo, (fig.) imbecille, minchione
3 (fig.) nulla, niente:
3 (fig.) nulla, niente:
voce
del gergo marinaresco dal greco (a)kàtion
= albero della nave); è ovvio l’accostamento semantico tra l’albero della nave ed il pene in
erezione.
‘o pate
d’ ‘e ccriature ad litteram: il padre dei piccoli; id est padre di
bambini/e e cioè l’organo maschile della riproduzione, senza del quale si
pensava fosse impossibile mettere al mondo dei nati, il péne; il giro di parole
fu eufemisticamente usato per evitare di pronunciare parole piú disdicevoli;
per vero tale circonlocuzione non è solo napoletana, ad un dipresso la si
ritrova anche altrove; nel dialetto romanesco il poeta G.G.Belli trattando del
medesimo organo riproduttivo intitolò un suo divertente sonetto addirittura Er
padre de li santi e in riferimento all’organo femminile La madre de li
santi.
Prendiamo in esame la voce ‘e ccriature; scritta con
la geminata iniziale cc essa è il plurale di criatura/o (che etimologicamente vengono dal latino creatura(m))
comprendente i due generi maschile e femminile: insomma ‘e ccriature sono onnicomprensivamente i nati maschi e le
nate femmine e talvolta anche solo le
nate femmine; mentre usando la c scempia: ‘e criature si indica il plurale del maschile criaturo
e dunque i soli nati maschi.
‘o dito
‘e san Paolo ca ‘ntorza ‘a panza ad litteram: il dito di san Paolo che gonfia
la pancia; espressione eufemistica/furbesca nella quale al pene, per evitare di
assegnargli altro nome triviale è
dato il nome di dito di san Paolo
nell’inteso che al miracoloso santo fósse sufficiente l’uso del solo dito e di non altro per riuscire
ad ingravidare una donna. Non è
dato però sapere perché mai si parli di
san Paolo e non di altro santo miracoloso a meno che con l’espressione non si
faccia riferimento al fatto che san Paolo da
lussurioso gentile fu convertito in credente purificandosi in età matura dopo d’aver abbondantemente
esercitato svariate pratiche sessuali durante la sua gioventú.
‘ntorza = gonfia, indurisce voce verbale (3ª pers. sg. ind. pr.
dell’infinito ‘nturzà= gonfiare, indurire, rendere incinta verbo denominale
dal lat. in + tursu-m);
panza = s.vo f.le pancia, epa; nella fattispecie ventre ingravidato; voce dal basso latino panticem con metaplasmo e sincope della sillaba ti donde pantice(m)→
*pan(ti)cja→*pancja→panza);
pesce s.vo m.le
1 animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo piú fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo: pesce ago, pesce marino dal corpo lungo e sottile, comune nel Mediterraneo; pesce corvo, ombrina dalla tinta bruna scura e con i fianchi a strisce dorate; pesce dorato (o rosso), originario della Cina, allevato per ornamento; pesce farfalla, dotato di una pinna dorsale la cui parte anteriore è simile a un'ala di farfalla; pesce vela, istioforo; pesce pappagallo, pesce marino, presente nel Mediterraneo, con livrea vivacemente colorata; pesce rondine (o volante), pesce di mare dal corpo allungato, grigio e roseo a macchie, con capo grosso e arrotondato; le ampie pinne pettorali gli permettono di compiere lunghi salti fuori dell'acqua | natà comme a ‘nu pesce nuotare come un pesce, (fig.) benissimo ' essere, sentirese ‘nu pesce fora d’acqua essere, sentirsi un pesce fuor d'acqua, (fig.) sentirsi a disagio in un ambiente che non si conosce nun sapé che pisce piglià non sapere che pesci pigliare, (fig.) non sapere che decisione prendere 'menarse a ppesce buttarsi a pesce (su qualcosa), (fig.) con entusiasmo; riferito a cibo, cominciare a mangiarlo con avidità | fà ‘o pesce ‘mbarile fare il pesce in barile, (fig.) fare l'indifferente, far finta di nulla | piglià a ppisce ‘nfaccia prendere (qualcuno) a pesci in faccia, (fig. popolarmente) trattarlo in malo modo | pesce ‘e cannuccia' pesce da canna' (fig.) essere credulone, abboccare facilmente | pesce gruosso, piccerillo ' pesce grosso, piccolo, (fig.) persona molto, poco potente | pesce d’abbrile pesce d'aprile, burla che si fa tradizionalmente il primo di aprile ' prov. :’e pisce gruosse se magnano ê piccerille i pesci grossi mangiano quelli piccoli, i potenti ànno sempre la meglio.
1 animale vertebrato acquatico di varia grandezza, per lo piú fusiforme, rivestito di squame e provvisto di pinne per nuotare, con respirazione branchiale e scheletro osseo o cartilagineo: pesce ago, pesce marino dal corpo lungo e sottile, comune nel Mediterraneo; pesce corvo, ombrina dalla tinta bruna scura e con i fianchi a strisce dorate; pesce dorato (o rosso), originario della Cina, allevato per ornamento; pesce farfalla, dotato di una pinna dorsale la cui parte anteriore è simile a un'ala di farfalla; pesce vela, istioforo; pesce pappagallo, pesce marino, presente nel Mediterraneo, con livrea vivacemente colorata; pesce rondine (o volante), pesce di mare dal corpo allungato, grigio e roseo a macchie, con capo grosso e arrotondato; le ampie pinne pettorali gli permettono di compiere lunghi salti fuori dell'acqua | natà comme a ‘nu pesce nuotare come un pesce, (fig.) benissimo ' essere, sentirese ‘nu pesce fora d’acqua essere, sentirsi un pesce fuor d'acqua, (fig.) sentirsi a disagio in un ambiente che non si conosce nun sapé che pisce piglià non sapere che pesci pigliare, (fig.) non sapere che decisione prendere 'menarse a ppesce buttarsi a pesce (su qualcosa), (fig.) con entusiasmo; riferito a cibo, cominciare a mangiarlo con avidità | fà ‘o pesce ‘mbarile fare il pesce in barile, (fig.) fare l'indifferente, far finta di nulla | piglià a ppisce ‘nfaccia prendere (qualcuno) a pesci in faccia, (fig. popolarmente) trattarlo in malo modo | pesce ‘e cannuccia' pesce da canna' (fig.) essere credulone, abboccare facilmente | pesce gruosso, piccerillo ' pesce grosso, piccolo, (fig.) persona molto, poco potente | pesce d’abbrile pesce d'aprile, burla che si fa tradizionalmente il primo di aprile ' prov. :’e pisce gruosse se magnano ê piccerille i pesci grossi mangiano quelli piccoli, i potenti ànno sempre la meglio.
2 (estens.) la
carne del pesce come cibo; vivanda di pesce:
pesce scaurato, ‘mbianco,â pezzajuola, affummecato; pesce lesso, in
bianco, in umido, affumicato; zuppa, fritto ‘e pesce zuppa, fritto di pesce | pesce luvardo pesce azzurro,
denominazione comune di alici, sardine,
acciughe e sgombri | tené ‘na faccia ‘e pesce scauratoavere una faccia da
pesce lesso, (fig.) avere un viso inespressivo
3 pl. (zool.) la classe di vertebrati acquatici cui appartiene ogni pesce
4 (pl.) Pesci, (astr.) costellazione e segno dello zodiaco in cui il Sole transita dal 20 febbraio al 20 marzo
5 (estens.) persona nata sotto questo segno
6 (tip.) errore di stampa che consiste nel saltare una parola o una frase del testo originale.
7 ( popolarmente come nel caso che ci occupa) pene. Da notare che nel sud d’Italia, circondato dal mare, popolarmente per pene s’usa, quale termine rappresentativo, un termine ittico (pesce), mentre nel centro-nord d’Italia, cioè in zone lontane dal mare, popolarmente per pene s’usa, quale termine rappresentativo un termine venatorio (uccello); la voce a margine è dal lat. pisce-m.
3 pl. (zool.) la classe di vertebrati acquatici cui appartiene ogni pesce
4 (pl.) Pesci, (astr.) costellazione e segno dello zodiaco in cui il Sole transita dal 20 febbraio al 20 marzo
5 (estens.) persona nata sotto questo segno
6 (tip.) errore di stampa che consiste nel saltare una parola o una frase del testo originale.
7 ( popolarmente come nel caso che ci occupa) pene. Da notare che nel sud d’Italia, circondato dal mare, popolarmente per pene s’usa, quale termine rappresentativo, un termine ittico (pesce), mentre nel centro-nord d’Italia, cioè in zone lontane dal mare, popolarmente per pene s’usa, quale termine rappresentativo un termine venatorio (uccello); la voce a margine è dal lat. pisce-m.
totaro s.vo m.le .
1mollusco marino
commestibile, con corpo allungato, pinne triangolari posteriori e dieci
tentacoli provvisti di ventose; è noto anche col nome di totano
2 (fig. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene
infatti nella smorfia
napoletana al numero 67 si fa
corrispondere l’espressione ‘o totaro dint’ â chitarra
letteralmente: il totano nella chitarra, e ci si trova davanti ad una figurazione dal sapore
marcatamente gioioso e furbesco, intendendosi con questa figurazione riferirsi all’immagine del coito ( che è dal lat. coitu(m), deriv. di coire
'andare insieme') in effetti è molto semplice rendersi conto di cosa sia
adombrato sotto la figura del totaro e cosa adombri la chitarra
con il suo foro della rosa; quanto all’etimologia totano/aro è un deriv. del gr. teuthís o têutòs con lo
stesso significato di mollusco simile al calamaro; la voce pur partendo dal
greco è giunta nel napoletano attraverso un basso latino tutanu(m) con
metaplasmo e cambio di suffisso nu→ro.
piccione s.vo m.le
1 [f. -a] nome comune del colombo domestico, uccello di media grandezza, forte e veloce, con piumaggio grigio scuro e becco leggermente arcuato; è addomesticabile e viene allevato per le sue carni gustose (ord. Colombiformi) | tiro al piccione, gara sportiva nella quale i concorrenti cercano di abbattere con un colpo di fucile un piccione fatto uscire improvvisamente da una gabbia; piccione di gesso, di rame, bersagli di forma simile al piccione usati un tempo nelle gare di tiro al volo | piglià dduje picciune cu ‘na fava prendere due piccioni con una fava, (fig.) ottenere due risultati in una sola volta | fanno gluglú comme a dduje picciune tubano come due piccioni, (fig.) si dice di due innamorati che amoreggiano teneramente.
2 (fig. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene, persona sempliciotta, che si può raggirare con facilità (cfr. sub cazzo n°2)
3 in macelleria, taglio di carne di bue compreso fra la rosa e le costole. Piccolo taglio triangolare situato sopra la noce, particolarmente tenero e saporito, si utilizza farne arrosti, ben legato.la voce piccione è voce in uso nel nord dell’Italia da Bologna in su; nel sud e segnatamente nel napoletano il termine piccione è sostituito con cularda/codarda(da non confondere con il cucuizzo che è la parte apicale e polposa della tracchia di gola) mentre in Calabria e Lucania è d’uso la voce tudisco.
piccione è voce dal lat. tardo pipione(m), deriv. di pipiare 'pigolare' cfr. piccià←pipiare; rammento che nel napoletano l’accostamento del pene al piccione lo si ritrova nel commento al numero 29 della smorfia dove sotto l’espressione d’accompagnamento della sortita del numero: “Piccione e ova” giocata sull’assonanza tra nove ed ova, piccione è ovviamente il pene e le ove,sono i testicoli!
1 [f. -a] nome comune del colombo domestico, uccello di media grandezza, forte e veloce, con piumaggio grigio scuro e becco leggermente arcuato; è addomesticabile e viene allevato per le sue carni gustose (ord. Colombiformi) | tiro al piccione, gara sportiva nella quale i concorrenti cercano di abbattere con un colpo di fucile un piccione fatto uscire improvvisamente da una gabbia; piccione di gesso, di rame, bersagli di forma simile al piccione usati un tempo nelle gare di tiro al volo | piglià dduje picciune cu ‘na fava prendere due piccioni con una fava, (fig.) ottenere due risultati in una sola volta | fanno gluglú comme a dduje picciune tubano come due piccioni, (fig.) si dice di due innamorati che amoreggiano teneramente.
2 (fig. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene, persona sempliciotta, che si può raggirare con facilità (cfr. sub cazzo n°2)
3 in macelleria, taglio di carne di bue compreso fra la rosa e le costole. Piccolo taglio triangolare situato sopra la noce, particolarmente tenero e saporito, si utilizza farne arrosti, ben legato.la voce piccione è voce in uso nel nord dell’Italia da Bologna in su; nel sud e segnatamente nel napoletano il termine piccione è sostituito con cularda/codarda(da non confondere con il cucuizzo che è la parte apicale e polposa della tracchia di gola) mentre in Calabria e Lucania è d’uso la voce tudisco.
piccione è voce dal lat. tardo pipione(m), deriv. di pipiare 'pigolare' cfr. piccià←pipiare; rammento che nel napoletano l’accostamento del pene al piccione lo si ritrova nel commento al numero 29 della smorfia dove sotto l’espressione d’accompagnamento della sortita del numero: “Piccione e ova” giocata sull’assonanza tra nove ed ova, piccione è ovviamente il pene e le ove,sono i testicoli!
cefalo s.vo m.le 1 (in primis) pesce
di mare commestibile dal corpo quasi cilindrico,grossa testa e dorso scuro a squame argentee (ord.
Mugiliformi) 2( fig. e
popolarmente come nel caso che ci
occupa) pene. voce dal
lat. tardo cephalu(m), che è dal gr. képhalos, deriv. di kephalé 'testa';
l’accostamento semantico tra la voce cefalo ed il pene è da cercarsi proprio
nella turgicità del glande in erezione
che nell’inteso popolare richiama la grossa testa del cefalo.
palàmmeto s.vo m.le
1 (in primis) pesce di mare commestibile
simile al tonnetto (ord. Perciformi)
2( fig. e
popolarmente come nel caso che ci
occupa) pene.voce
dal gr. pílamís –ídos; come per
la precedente voce l’accostamento semantico tra la voce palàmmeto ed il pene nel furbesco inteso popolare è da
cercarsi nella voluminosità del pesce
palamida con il turgore dell’asta
in erezione.La voce infatti è usata quando iperbolicamente e per
vanteria si intenda millantare le dimensioni del proprio membro.
capitone s.vo m.le 1 (in primis) famosa anguilla femmina di grosse
dimensioni, pregiata per le sue carni, che è cibo tradizionale delle feste di
Natale;di essa si dice che sia provvista di orecchi: in effetti il capitone e
cioè la grossa anguilla femmina, regina delle napoletane tavole di magro della
vigilia di Natale, allorché viene ammannito arrostito alla brace, in carpione,
in umido, all’agro o fritto à una morfologia particolare e la sua grossa testa
appare fornita di due minuscole appendici laterali traslucide, volgarmente
détte orecchie; 2 (per traslato furbesco e giocoso. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene;
tuttavia in tale accezione si precisa che trattasi di un capitone privo di
orecchie; la voce capitone
etimologicamente è dall’accusativo latino capitone(m) da capito/onis
collaterale di caput/tis in quanto oltre il corpo à una testa molto
pronunciata; rammenterò che nelle tombole familiari quando si estraesse il num.
32 chi lo estraeva annunciava trionfante: trentaroje
‘o capitone!,ma súbito chiosava: cu
‘e rrecchie volendo significare che si intendeva riferire proprio alla
grossa anguilla provvista ai lati del capo di due piccole, trasparenti
appendici ritenute orecchie, e non intendeva, col dire capitone, riferirsi ad
altro furbesco richiamo non ittico, di appendice maschile spesso ricordata come
ò détto con la voce: ‘o capitone senza recchie (il capitone privo d’orecchie).
suricillo s.vo m.le diminutivo 1 (in primis) topino, piccolo topo; 2 (per
traslato furbesco e giocoso. e popolarmente
come nel caso che ci occupa)
pene;nell’accezione sub 2 la voce a margine è rammentata in una famosa
esclamazione/maledizione : mannaggia ô suricillo e ppezza ‘nfosa che
ad litteram è : accidenti al topino ed
(alla) pezza bagnata;Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra
piú triviale specialmente davanti a situazioni
negative sí, ma poco importanti.
di tale
esclamazione/maledizione diffusamente dissi alibi e lí rimando chi volesse
approfondire; qui mi limito a rammentare
l’etimo della parola che deriva da uno xurikilla tardo latino usato in luogo
del piú classico mentula per indicare il membro maschile.
Abbandoniamo ora il regno animale e passiamo a quello vegetale,nel quale si
pescano alcuni nomi di ortaggi per
assegnarli al pene sempre con
riferimento alla durezza o alla forma allungata dell’ortaglie; vi incontriamo:
fenucchios.vo m.le 1 (in primis) pianta erbacea con foglie basali dal picciolo
largo, bianco e carnoso che vengono consumate come ortaggio; i semi sono usati
per aromatizzare i cibi (fam. Ombrellifere) | finocchio dolce, si
coltiva negli orti per consumarne la testa carnosa ed il fusto ingrossato; 2 (per
traslato furbesco e giocoso. e popolarmente
come nel caso che ci occupa)
membro maschile; rammento che in questa seconda accezione si fa riferimento
semantico al finocchio dolce, quello
dalla grossa testa carnosa e dal fusto ingrossato; voce dal lat. tardo fenuculum→ fenuclum→fenucchio,
per il class. feniculu(m), deriv. di fìnum 'fieno'.
cetriuolo s.vo m.le 1 (in primis) pianta erbacea
rampicante con foglie lobate e fiori gialli, coltivata per i frutti
commestibili verdi, allungati e carnosi (fam. Cucurbitacee). 2 (fig.)
uomo sciocco, goffo
3 (per traslato furbesco e giocoso. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene, membro virile; di tutto riposo l’accostamento semantico da cercarsi nella forma e nel turgore dell’ortaggio;
3 (per traslato furbesco e giocoso. e popolarmente come nel caso che ci occupa) pene, membro virile; di tutto riposo l’accostamento semantico da cercarsi nella forma e nel turgore dell’ortaggio;
voce
dal lat. volg. *citriolum, deriv. di citrus 'cedro', per il
colore verde
fava s.vo f.le 1 (in primis) pianta
erbacea con foglie paripennate, fiori bianchi macchiati di nero e legume a
baccello contenente semi commestibili, di color verde e della forma di un
grosso fagiolo appiattito (fam. Leguminose) | (estens.) il seme
commestibile della pianta: piglià dduje picciune cu ‘na fava - prendere due
piccioni con una fava, (fig.) raggiungere due obiettivi in un colpo
solo
2 (ant.) voto in un'assemblea che si esprimeva deponendo in un vaso fave bianche o nere
3 (per metafora furbesca e giocosa e popolarmente come nel caso che ci occupa) glande; e per estens., pene: voce dal lat. faba-m; anche in questo caso l’accostamento semantico è da cercarsi nella forma allungata dell’ortaglia; rammento che nell’accezione sub 3 il s.vo in esame è presente in una canzone di Raffaele Viviani [Castellammare di Stabia10/1/ 1888 – †Napoli22/3/1950] La rumba degli scugnizzi lí dove il poeta mette sulla bocca di uno scugnizzo l’espressione, rivolta ad una procace contadinella:”Pacchianè, chi s’ ‘o ppenzava, tiene chistu campo ‘e fave!” con riferimento salace al fondoschiena della ragazza ritenuto terreno da poterci piantare metaforiche fave.
2 (ant.) voto in un'assemblea che si esprimeva deponendo in un vaso fave bianche o nere
3 (per metafora furbesca e giocosa e popolarmente come nel caso che ci occupa) glande; e per estens., pene: voce dal lat. faba-m; anche in questo caso l’accostamento semantico è da cercarsi nella forma allungata dell’ortaglia; rammento che nell’accezione sub 3 il s.vo in esame è presente in una canzone di Raffaele Viviani [Castellammare di Stabia10/1/ 1888 – †Napoli22/3/1950] La rumba degli scugnizzi lí dove il poeta mette sulla bocca di uno scugnizzo l’espressione, rivolta ad una procace contadinella:”Pacchianè, chi s’ ‘o ppenzava, tiene chistu campo ‘e fave!” con riferimento salace al fondoschiena della ragazza ritenuto terreno da poterci piantare metaforiche fave.
fungio s.vo m.le 1 (in primis)
vegetale inferiore privo di clorofilla, e perciò obbligato a vita parassitaria
o saprofitica, costituito da cellule disposte lungo filamenti detti ife |
nell'uso comune, corpo fruttifero dei funghi piú grandi, di solito formato da
un gambo sormontato da un cappello; può essere velenoso o commestibile: funghi
freschi, secchi; funghi velenosi, mangerecci; risotto
coi funghi; funghi trifolati, fritti | andare a, per
funghi, a cercarli nei boschi | crescere, venir su come funghi,
(fig.) rapidamente e in gran quantità | a fungo, a forma di
fungo.
2 (estens.) qualsiasi oggetto a forma di fungo
2 (estens.) qualsiasi oggetto a forma di fungo
3 (per traslato
furbesco e giocoso. e popolarmente
come nel caso che ci occupa) pene,
membro virile; ancóra un accostamento semantico da cercarsi nella forma del
vegetale con particolare attenzione al turgido e lungo gambo del fungo ed al
cappello che lo sormonta; voce dal lat. fungu-m→fungio (dove il pl. funge giustifica anche la palatalizzazione
del sg. fungio laddove in italiano fungo continua il suono gutturale latino
mantenuto anche nel pl. attraverso l’acca diacritica: funghi; rammento che
nell’accezione sub 3 anche il s.vo in
esame pure se addizionato dello specificativo cinese è presente in una gustosa, salace canzonetta
di Renato Carosone [pseudonimo di Renato Carusone (Napoli , 3
gennaio 1920 – †Roma , 20 maggio 2001),] ‘Stu fungo cinese nella
quale il vegetale, con evidente metafora è accreditato della potenzialità di ingravidare
una donna!
pípero s.vo m.le ( al plurale
pípere)1(in primis) nella
parlata napoletana si identifica un tipo particolare di gustoso peperone,di
vario colore (rosso, giallo, verde chiaro), non quadrilobato, ma di pizzuta
forma conica allungata e di sapore piuttosto forte come dal nome che con
derivazione dall’ acc.vo neutro tardo latino pipere(m) indica appunto un peperone dal sapore intenso, quasi
pepato); è una bacca di colore verde
chiaro , rosso o giallo di gustoso
sapore piuttosto piccante, di
media grandezza e di forma conica richiamante quella di un corno di toro ed in
effetti nel resto d’Italia questo peperone è détto appunto corno di toro; si presta ad essere
consumato per intero o ridotto in piccole falde fritto o imbottito e talvolta
è usato nella elaborazione di risotti o altri primi piatti oppure nella preparazione di
spezzatini di maiale (cfr. alibi); 2(per traslato furbesco e giocoso come nel
caso che ci occupa ) la voce nel parlato vale pene, membro maschile con
riferimento semantico alla tipica forma
di questo peperone.
rafaniello
s.vo m.le 1(in primis) ravanello, pianta erbacea che si coltiva per
la radice commestibile di colore rosso o bianco, dal sapore forte (fam.
Crocifere). 2(per traslato furbesco e giocoso come nel caso che ci occupa ) la
voce nel parlato vale pene, membro maschile con riferimento semantico non
solo alla tipica forma allungata e
puntuta di questo ortaggio, ma anche
alla sua piccantezza. voce diminutiva (cfr. suffissi i + ello del s.vo rafano
che è dal lat. raphanu(m),marcato
sul greco rháphanos.
Abbandonato cosí il regno vegetale, passiamo
ad altri alimenti dolci o rustici; troveremo:
franfellicco s.vo m.le 1(in primis) duro, dolcissimo bastoncino di zucchero filato, da succhiare, a forma di J che è l’iniziale del nome Jesus e nella
tradizione popolare napoletana il
franfellicco essendo un dolce, in
origine natalizio, destinato ai bambini
fu ritenuto figurazione del Bambino Gesú, roccia su cui fonda la salvezza
dell’uomo. 2(per traslato furbesco e giocoso come nel caso che ci occupa ) la
voce nel parlato vale pene, membro maschile con riferimento semantico alla forma ed alla durezza del dolciume;
la
voce
franfellicco etimologicamente è un adattamento locale del fr. franfeluque.
bbabbà s.vo m.le 1(in primis) dolce soffice e cedevole monoporzione di forma tronco-conica sormontata da un
gonfio cappello, dolce principe,
accanto alla sfogliatella ed alla mitica
pastiera, della cucina partenopea.
Esso
dolce pur essendo originario della Polonia pervenne a Napoli (divenendo uno dei
dolci piú graditi della pasticceria partenopea) attraverso i cuochi francesi (i
famosissimi monzú[voce corruttiva del
fr. monsieur]) chiamati a Napoli
dalla regina Maria Carolina d’Asburgo (sorella della notissima Maria Antonietta, quella che finí i suoi giorni ghigliottinata con
il consorte Luigi XVI al tempo (1793 rispettivamente 21/1 il re e 16/10 la
regina) della rivoluzione francese) in occasione delle proprie nozze ( 7 aprile
1768) con Ferdinando IV Borbone – Napoli. Il dolce deve il suo nome alla
morbidezza e cedevolezza dell’impasto atto alla malferma dentatura delle
persone anziane;baba in lingua
polacca vale:nonna,donna vecchia; quando
poi il baba polacco, al seguito del
re Stanislao Leszczinski, (che
qualcuno vuole ne sia stato casualmente l’inventore)re di Polonia dal 1704 al
1735, giunse in Francia dapprima a
Luneville e di lí a Parigi alla pasticceria Sthorer, dove
tutti lo conobbero ed apprezzarono, esso
vide il suo nome pronunciato alla francese con la a finale accentata babà e tale fu anche a Napoli (che anzi ne raddoppiò
espressivamente la seconda esplosiva labiale e babà diventò babbà e
preceduto dall’articolo addirittura ‘o
bbabbà); nella città partenopea , come ò détto, prese stabile dimora per il tramite dei monzú francesi (cuochi di corte); anzi a
Napoli vide raddoppiata b intervocalica
diventando babbà e fu dolce tanto amato ed apprezzato da
pervenire in talune locuzioni napoletane; Cito,ad es. : Sî ‘nu bbabbà! (Sei un babà)
détto di persona (uomo) d’indole buona e mansueta fino alla prona
accondiscenza, mentre riferito ad una donna
Sî ‘nu bbabbà vale Sei tanto bella e buona (che meriteresti
d’esser mangiata, come un babà!).
Rammento altresí che soprattutto nell’
icastico parlato della città bassa la
voce bbabbà è usata 2quale traslato furbesco
e giocoso come nel caso che ci occupa per indicare il pene, il membro virile con
riferimento semantico alla forma del dolce monoporzione.
panzarotto
s.vo m.le 1(in primis) specialità della cucina napoletana; voce
con cui si indica una tipica frittella
di forma cilindrica, frittella lunga 10, 12 cm.ricavata da un impasto di patate lesse e
schiacciate, farina, rossi d’uova, sale, pepe, erbe aromatiche, farcita di
pezzetti di salame e bastoncini di mozzarella o provola affumicata
,frittella intinta nella chiara d’uovo,
rollata nel pan grattato e fritta in olio bollente e profondo; allor che la
parola napoletana panzarotto emigrò nella lingua toscana ecco che, inopinatamente,forse
per confusione con il panzerotto pugliese, perdette la seconda a (per
altro etimologica e dunque sacrosanta) in favore della chiusa E ritenuta piú elegante e consona
alla lingua di Alighieri Dante,e si ridusse a
panzerotto voce con la quale,
come ò detto, non si indicò piú la
frittella di pasta di patata, ma una sorta di piú o meno grosso raviolo di
semplice pasta lievitata rustica o dolce adeguatamente imbottito di ingredienti
salati (ricotta, formaggi etc.) o dolci (marmellate, uvetta etc.) e la
frittella di patate divenne, nell’italiano,
crocchetta o crocchè, assegnandole scioccamente ed erroneamente (la
frittella di patate non deve esser croccante, ma morbida e tenera!) un nome mutuato
dal francese croquant = che crocca, nella fallace convinzione che una
preparazione di origine popolare e rustica si ingentilisca e diventi di nobile
prosapia se le si assegna un elegante nome francesizzante, come alibi già
capitò con l’umile, ma gustosa frittata di sole uova, formaggio sale e
pepe frittata che,diventata omelette, non migliorò…, né d’altra
parte lo poteva: era già buona di suo! Etimologicamente sia il panzerotto pugliese che il panzarotto
napoletano derivano quali diminutivi con riferimento al rigonfiamento sia del
panzerotto che del panzarotto. dal s. panza
(lat.pànticem→pan(ti)cem, donde per metaplasmo pan(ti)cia→
pan(ti)cja→panza.). Nella città bassa la voce panzarotto, con riferimento
semantico alla sua forma, è usato anche per indicare 2quale traslato
furbesco e salace come nel caso che ci occupa il
membro maschile.
pasticciotto s.vo m.le 1(in primis) dolce monoporzione, per
solito di pasta choux farcito di crema
2quale traslato furbesco e
salace come nel caso che ci occupa il
membro maschile; questa voce però è usata solo
nell’espressione SFRUCULIÀ 'O PASTICCIOTTO
Ad litteram: sbreccare il
dolcino. Id est:annoiare, infastire, molestare qualcuno; locuzione di
valenza simile a quella che recita NUN SFRUCULIÀ 'A MAZZARELLA 'E
SAN GIUSEPPE, usata anch'essa in tono imperativo preceduta da un canonico NON. Qui, in luogo della mazzarella,
l'oggetto fatto segno di figurate sbreccature
è un ipotetico pasticcino, chiaramente usato eufemisticamente al posto
dell’ intuibilissimo sito anatomico maschile
Esaurite
cosí anche le voci alimentari passiamo a vedere quali oggetti sono presi a
prestito per indicare il membro virile. Troviamo:
chiuovo,
chiuovo s.vo m.le
(in primis)1 barretta metallica di varie forme e dimensioni, generalmente appuntita a un'estremità e con una testa piú o meno larga all'altra, che serve a unire fra loro parti di metallo, legno o altro materiale, o per appendere oggetti alle pareti: conficcare, piantare un chiodo con il martello; chiodi da tappezziere, da calzolaio, da carpentiere | elemento metallico da applicare a suole di scarpe, pneumatici ecc. per rinforzarli e migliorarne l'aderenza al suolo | in alpinismo, attrezzo che si conficca in parete per sostenere una corda: chiodo da roccia, da ghiaccio | essere sicco comme a ‘nu chiuovo -esseremagro come un chiodo, magrissimo | rrobba ‘a chiuove - roba da chiodi, (fam.) cosa incredibile o gravemente riprovevole, meritevole d’essere inchiodata al muro a mo’ di ricordo o ammonimento | chiuovo leva chiuovo - chiodo scaccia chiodo, (fig.) una preoccupazione ne fa dimenticare un'altra | attaccà quaccosa ô chiuovo - attaccare qualcosa al chiodo, (fig.) cessare di usarla: attaccà ‘e guantune, ‘a bicicletta ô chiuovo- attaccare i guantoni, la bicicletta al chiodo, ritirarsi dal pugilato, dal ciclismo | tené ‘nu chiuovo ‘nfronte, dint’ô scianco avere un chiodo in fronte, al fianco, (fig.) avere mal di testa, provare una fitta al fianco | tené ‘nu chiuovo ‘ncapa-avere un chiodo in testa, (fig.) un'idea fissa, una preoccupazione assillante;
2 (fig. fam.) debito: piantà e levà chiuove-piantare e levar chiodi, fare, pagare debiti
3 (figuratamente e semanticamente collegato al sentimento d’amore, perché – come questo – punge e perfora (l’animo))i figli, la prole definiti chiuove ‘e dDio.)
(in primis)1 barretta metallica di varie forme e dimensioni, generalmente appuntita a un'estremità e con una testa piú o meno larga all'altra, che serve a unire fra loro parti di metallo, legno o altro materiale, o per appendere oggetti alle pareti: conficcare, piantare un chiodo con il martello; chiodi da tappezziere, da calzolaio, da carpentiere | elemento metallico da applicare a suole di scarpe, pneumatici ecc. per rinforzarli e migliorarne l'aderenza al suolo | in alpinismo, attrezzo che si conficca in parete per sostenere una corda: chiodo da roccia, da ghiaccio | essere sicco comme a ‘nu chiuovo -esseremagro come un chiodo, magrissimo | rrobba ‘a chiuove - roba da chiodi, (fam.) cosa incredibile o gravemente riprovevole, meritevole d’essere inchiodata al muro a mo’ di ricordo o ammonimento | chiuovo leva chiuovo - chiodo scaccia chiodo, (fig.) una preoccupazione ne fa dimenticare un'altra | attaccà quaccosa ô chiuovo - attaccare qualcosa al chiodo, (fig.) cessare di usarla: attaccà ‘e guantune, ‘a bicicletta ô chiuovo- attaccare i guantoni, la bicicletta al chiodo, ritirarsi dal pugilato, dal ciclismo | tené ‘nu chiuovo ‘nfronte, dint’ô scianco avere un chiodo in fronte, al fianco, (fig.) avere mal di testa, provare una fitta al fianco | tené ‘nu chiuovo ‘ncapa-avere un chiodo in testa, (fig.) un'idea fissa, una preoccupazione assillante;
2 (fig. fam.) debito: piantà e levà chiuove-piantare e levar chiodi, fare, pagare debiti
3 (figuratamente e semanticamente collegato al sentimento d’amore, perché – come questo – punge e perfora (l’animo))i figli, la prole definiti chiuove ‘e dDio.)
4
chiuovo ‘e carofano = chiodo di garofano,
(bot.) gemma florale di un albero esotico delle mirtacee che, essiccata,
si usa come spezie
voce derivazione del lat. clavu(m);normale nel napoletano la
risoluzione in chi del digramma cl
(cfr. clausum→chiuso, ecclesia→chiesa, clave-m→chiave etc.)
5(per traslato furbesco e salace, come nel
caso che ci occupa ) la voce nel parlato della città bassa vale pene, membro maschile con riferimento
semantico alla tipica forma di una
grossa barretta metallica appuntita ed alla sua attitudine a penetrare qualcosa.
Voce dal lat. volg. claudu-m→clauvu-m→chiuovo con caduta della –d- intervocalica
sostituita dal suono di transizione –v-.
junco s.vo m.le [pl. -che] 1(in primis) pianta erbacea monocotiledone dallo stelo
flessibile, che cresce spontanea nei terreni umidi e paludosi, pianta le foglie
forniscono materiale d'intreccio (fam. Giuncacee)
2 (estens.) il fusto stesso della pianta,
fusto che mondato delle foglie viene usato per produrre flessuosi bastoncini da
passeggio;
3(per traslato furbesco e salace, come nel caso che ci occupa ) la
voce nel parlato della città bassa vale
pene, membro maschile in erezione con
riferimento semantico alla rigidezza, elasticità e fllessuosità del fusto giuncaceo
[cfr. Raffaele Viviani in ‘O guappo
‘nnammurato]; voce dal lat. iuncu-m
penniello 1(in primis) attrezzo costituito da un mazzetto di peli naturali o di
fibre sintetiche fissato all'estremità di un supporto di legno, per lo piú
adoperato per dipingere, per verniciare o per spalmare sostanze liquide o
semiliquide: pennello di setole di maiale, di tasso; pennello
da imbianchino, da pittore | penniello p’ ‘a barba pennello per la
(o da) barba, con cui ci si insapona il viso prima della rasatura
' pennello per labbra, per occhi, pennellino usato per il trucco '
pennello da spolvero, per la pulizia di mobili intagliati o di oggetti
delicati 'll’arte d’ ‘o penniello l'arte del pennello, la pittura ' a
pennello, alla perfezione: chillu vestito te sta a ppenniello -quel
vestito ti sta a pennello;
2(per traslato furbesco e caustico, come nel caso che ci occupa ) la
voce nel parlato della città bassa vale
pene, membro maschile con riferimento semantico non solo alla tipica forma dell’attrezzo, ma
salacemente con riferimento alla capacità del pennello e del pene di splamare
sostanze liquide o semiliquide; voce dal lat. volg. *penĕllu(m), dim. di
pínis 'coda, pene' con dittongazione della breve ĕ e raddoppiamento
espressivo della consonante nasale
dentale (n)
spruoccolo
s.vo m.le1(in primis) stecco, pezzetto
di legno 2o di ramo, bastoncello, zeppa
2(per traslato furbesco e salace, come nel caso che ci occupa ) la
voce nel parlato della città bassa vale
pene, membro maschile con riferimento semantico non soltanto alla forma
dell’aggeggio ma anche rammentandosi di una tipica espressione partenopea che
associa lo stecco ad un buco.Questa la locuzione:'Nfila 'nu spruoccolo dinto a 'nu purtuso!
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.L’espressione rammenta una cerimonia in uso nell’antica Roma repubblicana allorché il Sommo sacerdote, a fini eponimi, soleva ad inizio d’anno infiggere un chiodo in una delle pareti del tempio di Giano. Nel salace inteso della città bassa partenopea il purtuso/buco dell’espressione richiamò d’acchito quello anatomico femminile per cui lo spruoccolo finí per indicare il membro maschile deputato a riempire quel purtuso (buco); etimologicamente spruoccolo è da un tardo lat. *(e)xperŏccolo→sp(e)roccolo→spruoccolo (da ex + pedunculu-m) con sincope, assimilazione regressiva nc→cc dittongazione della ŏ diventata tonica e roticizazione osco/mediterranea d→r;
Letteralmente: Infila uno stecco in un buco! La locuzione indica una perentoria esortazione a compiere l'operazione indicata che deve servire a farci rammentare l'accadimento di qualcosa di positivo, ma talmente raro da doversi tenere a mente mediante un segno ben visibile come l'immissione di un bastoncello in un buco di casa, per modo che passandovi innanzi e vedendolo ci si possa rammentare del rarissimo fatto che si è verificato. Per intenderci, l'espressione viene usata, a sapido commento allorchè, per esempio, un uomo politico mantiene una promessa, una donna è puntuale ad un appuntamento et similia.L’espressione rammenta una cerimonia in uso nell’antica Roma repubblicana allorché il Sommo sacerdote, a fini eponimi, soleva ad inizio d’anno infiggere un chiodo in una delle pareti del tempio di Giano. Nel salace inteso della città bassa partenopea il purtuso/buco dell’espressione richiamò d’acchito quello anatomico femminile per cui lo spruoccolo finí per indicare il membro maschile deputato a riempire quel purtuso (buco); etimologicamente spruoccolo è da un tardo lat. *(e)xperŏccolo→sp(e)roccolo→spruoccolo (da ex + pedunculu-m) con sincope, assimilazione regressiva nc→cc dittongazione della ŏ diventata tonica e roticizazione osco/mediterranea d→r;
pertuso/purtuso s.vo m.le = buco, foro, fessura, passaggio stretto
voce da un lat. tardo pertusiu(m), deriv.
del class. pertusus, part. pass. di pertundere 'bucare, forare',
comp. di per 'attraverso' e tundere 'battere.
martino
s.vo m.le1(in primis) coltello , pugnale, generica arma bianca affilata ed
appuntita; 2(per icastico traslato furbesco e salace, come nel caso che
ci occupa ) la voce in tale accezione desueta nel parlato della città bassa valse pene, membro maschile con riferimento
semantico non soltanto alla forma dell’aggeggio ed alla sua attitudine a perforare
e/o deflorare, ma soprattutto
rammentandosi di una tipica espressione partenopea dalla quale la voce
fu mutuata.Questa la locuzione:Chiave ‘ncinta e martino dinto!
Letteralmente:Chiave nella cintola,e membro dentro! Antichissima locuzione risalente addirittura al tempo della ultima crociata [1271-1272] e che si riferí alla disavventura occorsa ad un geloso cavaliere che, partito portando seco la chiave della cintura di castità di cui aveva fornito la consorte,ritornando ebbe la sgradita sorpresa di imbattersi nel fabbro (costruttore della cintura)che, evidentemente in possesso di un duplicato della chiave, gli stava violando la moglie con il suo martino. Etimologicamente la voce martino è una voce furbesca – gergale ricavata sul nome , del soldato san Martino che perdura ancóra nell’agg.vo ammartenato : che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martino alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto.
Letteralmente:Chiave nella cintola,e membro dentro! Antichissima locuzione risalente addirittura al tempo della ultima crociata [1271-1272] e che si riferí alla disavventura occorsa ad un geloso cavaliere che, partito portando seco la chiave della cintura di castità di cui aveva fornito la consorte,ritornando ebbe la sgradita sorpresa di imbattersi nel fabbro (costruttore della cintura)che, evidentemente in possesso di un duplicato della chiave, gli stava violando la moglie con il suo martino. Etimologicamente la voce martino è una voce furbesca – gergale ricavata sul nome , del soldato san Martino che perdura ancóra nell’agg.vo ammartenato : che è precisamente colui che incede con aria di gradasso, di spavaldo, di prepotente , come chi sia – in linea con la etimologia – provvisto di martino alternativamente la spada, lo stocco, il coltello, l’arma bianca insomma qualsiasi arma che offra sicurezza, quando non sicumera a chi ne sia provvisto.
Infine rammento che il membro maschile in un’unica tipica
espressione è raffigurato sotto il termine ‘mpigna [cfr. me staje scassanno ‘a ‘mpigna
id est mi stai rompendo la… tomaia] cosa che a tutta prima indurrebbe a ricondurre la voce all’oggetto ‘mpigna [cioé
tomaia, dal fr. empeigne] ma che nella realtà del parlato non è altro nella fattispecie che una corruzione
per assonanza del siciliano minchia [ dal latino volgare mencla per mentula].
Non mi
pare ci sia altro da aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere
accontentato il provocatorio lettore A.G. . ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e chi forte dovesse imbattersi in queste
paginette. Satis est.
Raffaele Bracale
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