PRODOTTI NEGLI ORTI E NELLA CAMPAGNA DELLA CAMPANIA FELIX
Questa volta, su invito dell’amica Lucilla mi soffermerò a parlare
brevemente dell’argomento in epigrafe illustrandoli senza sistematicità, ma
cosí come mi sovverranno in mente,
dapprima con i lori nomi della lingua nazionale ed a seguire con quelli
dell’idioma napoletano.
Principiamo:
castagna s.vo f.le [ dal lat. castanea, der. del gr.
κάστανον «castagna, castagno»]. – Il frutto mangereccio del castagno: è un
achenio, globoso-schiacciato, a pericarpo (buccia o scorza) coriaceo, di color
marrone, lucido all’esterno, peloso di dentro, racchiuso, da solo o con una o
due altre castagne, nella cupola (riccio), armata di densi e lunghi aculei; in
napoletano il frutto in esame prende diversi nomi a seconda di come venga
cotto; avremo perciò 1)allessa
[dal lat. ad
+elĭxa-m→ad(e)lixa-m→allixa-m→allessa «bollita»] quando il frutto venga
lessato sbucciato e privo della scorza
coriacea, ma non della prima pellicina;
2)veróla = caldarrosta, bruciata, castagna arrostita; è
voce diffusa, specialmente al plurale veróle (cfr. sagra delle veróle(castagne
arrostite) sia nella Campania che nel Lazio, che nelle Marche; etimologicamente, scartata
l’idea proposta dal D’Ascoli ( dal latino viria
con il diminutivo viriŏla→veróla)per incongruenza semantica atteso che la voce
latina viriŏla indicò in quella lingua un braccialetto e fu voce poi attestata
nell’italiano come viròla indicando nell’ordine: 1. elemento «maschio» di una
giunzione, di un collegamento meccanico, costituito da un corpo filettato: se
ne ànno esempî nell’innesto a vite delle lampade elettriche, nel bocchettone di
scarico idraulico (nel quale, costruita in rame, collega le diramazioni di
scarico di piombo con le colonne di scarico di ghisa), ecc. 2. negli orologi
meccanici a bilanciere, è
l’anello tagliato che collega l’estremità interna della molla a spirale
all’asse del bilanciere. 3. ciascuno dei pezzi cilindrici di un serbatoio che,
saldati insieme, costituiscono la parete laterale del serbatoio stesso, tutte
cose che nulla ànno a che spartir con la caldarrosta; e scartata altresí per problemi morfologici
la proposta dal prof. Indolo (che fa appello ad un latino “badius” corrispondente al sabino “basus”, entrambi col significato di
“castagna marrone”.
Iandolo ipotizza una forma diminutiva
femminilizzata *badíola (sott.“castanea”), poi divenuta *badiòla nel latino popolare
sulla scia di “filia →filíola → filiòla”, ma con iniziale vocale tonica chiusa
com’è nei dittonghi
ascendenti del latino indigeno campano *badióla; e congettura non solo il
normale passaggio “b → v” come attestano “bíbere → vèvere, barca →varca, butte(m)
→ vótta, basiu(m)→vaso” ecc., ma
anche l’alternanza quasi solita “d /r” come comprovano “Madonna/ Maronna, il
brodo → ’o bbroro, i pièdi →’e piére, ggrare←gradus
= le scale ecc., e delinea una prima forma d’avvio *varióla, poi con cambio
dell’accento fonico,
divenuto aperto: *variòla; reputo questi di Iandolo tuttiarzigogoli poco convincenti e son invece
convinto (cosí come anche
l’avv.to deFalco) che la voce sia un
deverbale del francese brûler
(bruciare, rostire) secondo il seguente
percorso morfologico in cui leggere l’alternanza partenopea b/v, ed una
epentesi vocalica della prima e: brûler→ vrûler→veruler→verola; da veróla+il suffisso di pertinenza
aro←arius) è derivato poi il termine verularo (voce quasi esclusivamente
campana)
s.vo m.le sg. = padellone bucherellato per
arrostirvi le castagne 3)vallena/vallana
castagna lessa bollita con la
scorza dura, ballotta; la voce napoletana nella doppia morfologia è una
femminilizzazione del m.le lat. balanu-m→balana-m→ballana-m→vallana/vallena
con raddoppiamento espressivo della consonante laterale alveolare (L);
questa voce or ora illustrata però ormai
non è usata che dai napoletani d’antan e da quelli piú versati nel loro
idioma; tutti gli altri oramai
sciattamente usano il termine palluotte/palluottole inutile, sconcio adattamento dell’italiano ballotte.
cachisso s.vo neutro lo
stesso che lignasanto, frutto dell’albero noto in italiano come kaki
o cachi s. m. [voce di origine giapp.]. la voce napoletana è derivata dal pl. di kaki, kakis→cachisso con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale
in parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una
semimuta finale (qui O) atteso che i napoletani non amano
le parole che terminino per consonante (cfr. alibi
tramme←tram, bisse←bis, barre←bar,gasse←gas,
autobbusso←autobus etc. con l’ unica eccezione della negazione nun che tuttavia talora diventa none
).
La voce cachisso è usata anche furbescamente con
significato negativo riferito a persona molle, flaccida e/o inadatta
all’azione; in tal senso la voce cachisso è
spessissimo accompagnata dall’aggettivo ‘nzuvarato/’nzuarato
aggettivi sui quali è opportuno soffermarsi per dire che
trattasi morfologicamente di due forme leggermente diverse di un unico
part. passato del verbo ‘nzuvarà/’nzuarà
= allappare, allegare i denti (riferito a della frutta( e su tutta appunto il cachi)
che non avendo raggiunto la dovuta maturità, risulti alla masticazione aspro e
legnoso tale appunto da allappare,
allegare i denti; da notare che stranamente
gli aggettivi in esame pur essendo un
participio passato, si traducono come se si trattasse di un participio presente
per cui ‘nzuvarato, ‘nzuarato si
rendono non (come sarebbe corretto) con allappato, allegato ma con allappante,
allegante i denti, mentre in senso traslato valgono che rende trascurabile cosa
che semanticamente si spiega con il fatto che un frutto non maturo poco si
presta ad esser gustato rendendosi cosí quasi inavvertibile, trascurabile da
parte di chi evita di mangiarne.
E passiamo alla questione morfologica ed etimologica.
Comincerò col dire che due dei piú consultati calepini della
parlata napoletana ( il D’Ascoli e l’ Altamura) stranamente (che si siano
copiati pedissequamente l’un l’altro?...) accanto alle corrette voci in esame, elencano uno scorretto e –
reputo - inesistente infinito ‘nzuvarí/‘nzuarí donde deriverebbero (che pretese!) nzuvarato/‘nzuarato laddove chi appena
appena mastichi un po’ di idioma
napoletano può cogliere l’incongruenza di voler
ottenere un participio passato in
ato da un verbo della terza
coniugazione cioè in ire che al massimo avrebbe potuto
generare nzuvarito, ‘nzuarito, non
certamente nzuvarato, ‘nzuarato che
son figli di un infinito della 1ª coniugazione e perciò di ‘nzuvarà/‘nzuarà e non di ‘nzuvarí/‘nzuarí!
Quanto all’etimologia una comune corrente di pensiero (cui peraltro aderí un tempo il D’Ascoli (parce sepulto!) ed oggi pure
l’amico prof. Carlo Iandolo) parla di una derivazione dal lat. in (illativo) + suber = sughero, arzigogolando
che un sughero addendato produca sui denti e tutta la bocca una sensazione
spiacevole, tal quale quella che produce un frutto non maturo se addentato. Mi
spiace per l’amico Iandolo, ma la strada semantica che propone mi pare impervia
e perciò non percorribile (chi o perché mai dovrebbe addentare (per assaporarlo) un sughero?); reputo che sia piú corretto e semanticamente vicino
al vero pensare per ‘nzuvarà/‘nzuarà,
ad una derivazione dal lat.in (illativo) + una lettura metatetica di sorbum
= sorbo il cui frutto sorba [dallat. *sŏrba-m] che in
napoletano con medesimo etimo diventa sòvera] raccolta ancòra acerba è messa a
maturare su di un letto di paglia e qualora questo frutto venga addentato prima
della dovuta maturazione risulta (questo sí!) allappante ed allegante denti e
bocca.
Un ultima precisazione; se mi si chiedesse quale delle due voci
esaminate sia la piú corretta; direi che nel linguaggio popolare sono
usatissime ambedue, epperò la prima: ‘nzuvarato
la si ritrova maggiormente nello scritto
e mi appare quella morfologicamente piú rispondente all’etimo (sia pure
con la tipica alternanza partenopea b/v) , laddove la seconda: ‘nzuarato è dell’àmbito del parlato con
sincope della v ritenuta pleonastica e retaggio forse di un’antica epentesi
eufonica. In coda rammento che il frutto del cachi, in napoletano oltre che
quello di cachisso prende il nome di ‘o
lignasanto (al sg.) e di ‘e legnasante
(al pl.) in quanto è frutto che matura in autunno inoltrato in prossimità della
festa di Ognissanti e non perché l’albero del cachi sia sacro a gli dei come
pensa qualcuno confondendo il cachi con il guajaco o albero di sant’Andrea che
è il vero “albero santo”nella tradizione dell’america centrale.
ciliegia s.vo f.le [dal lat. *ceresia per
*cerasia] (pl. –gie)
Il frutto del ciliegio,
costituito da una drupa di 1-2 cm di diametro, di colore rosso, piú o meno
cupo; le ciliegie sono adoperate per il consumo diretto, oppure si conservano o
si usano per farne sciroppi, marmellate, liquori; dai semi si estrae un olio
(olio di ciliegie) di colore giallo oro, di odore gradevole di mandorle amare;in
napoletano la voce si rende con cerasa
dritto per dritto dal lat.*cerasia→ceras(i)a→cerasa;
gelsa s.vo f.le [lat. (morus) cĕlsa
«(moro) alto»]
il frutto di una pianta
delle moracee appartenente al genere morus, di
cui sono note soprattutto le due specie gelsa bianca
(lat. scient. morus alba) e gelsa nera o gelsa moro
(lat. scient. morus nigra), entrambe a
foglie intere o lobate, con piccoli fiori monoici in amenti, ed infruttescenza
carnosa, detta mora di gelso; il gelso
bianco, coltivato nelle zone temperate di tutto il mondo per le foglie
utilizzate nell’allevamento del baco da seta, à more di colore bianco sudicio o
rossastro, alquanto dolci e mangerecce, e fornisce, dalla corteccia dei rami
giovani, fibre (gelsolino) utilizzate per
funi, carta e tessuti e, dal tronco, un legno duro, di colore giallastro, usato
per serramenti, botti, ecc.; il gelso nero, coltivato per il frutto
dolce-acidulo, mangereccio, dal quale si ricava anche uno sciroppo leggermente
astringente (sciroppo di more), à frutti piú
grossi e piú succosi del precedente, di colore nero lucido; in napoletano la mora di colòre
bianco è detta ceuza/ceveza
dritto per dritto dal solo lat. cĕlsa; normale in
napoletano l’esito di el
in eu come alibi al in au (cfr. auto←altu-m etc.);
furbescamente nel napoletano parlato
della città bassa la voce ceuza/ceveza al pl.
ceuze/ceveze
indica le emorroidi;ugual cosa
avviene con il s.vo pl. sòvere che già il re Ferdinando II
di Borbone usava nel significato di emorroidi (cfr. la minaccia “Te faccio ascí
‘e ssovere ‘a culo!”= Ti percuoto tanto da farti espellere le emorroidi dalla
loro sede naturale!)
albicocca s.vo f.le
[dall’arabo al-barqūq,
che è dal gr. πραικόκιον «albicocca»],
frutto di un alberetto
della famiglia delle rosacee prunoidee (lat. scient. Prunus armeniaca), anche chiamato armellino, originario della Cina settentr. e
coltivato nei paesi temperati e tropicali montani; è alto 6-7 m, con foglie
ovate, fiori precoci, bianchi o rosei, frutto a drupa globosa od oblunga,
vellutato, giallo aranciato, molto pregiato per il sapore ed il profumo: la
maggiore quantità è consumata fresca; se ne fanno composte, marmellate,
canditi; le albicocche secche si conservano per piú anni. L’olio contenuto nel seme à proprietà simili a quello di
mandorle; viene usato come commestibile ed anche in profumeria, saponeria,
ecc..
In napoletano il frutto, per il suo colore dorato prende il nome di cresommola[dal greco chrysómēlon=pomo aureo ]; ; per traslato giocoso in napoletano la voce cresòmmola indica anche o una
sesquipedale fandonia, sciocchezza o anche una violenta percossa portata a mano
serrata e diretta essenzialmente al volto; il passaggio semantico del traslato
quale violenta percossa è da ricercarsi nel fatto che détta percossa può lasciare sul viso una tumefazione
rapportabile per grandezza al polputo frutto dell’albicocco; meno intuibile il
passaggio semantico del traslato quale sesquipedale fandonia, sciocchezza
grande a meno che anche in questo caso non si mettano in rapporto la grandezza
del frutto con la vastità della sciocchezza, ma lo reputo un arrampicarsi sugli
specchi del ragionamento.
Al
margine e completamento di questa voce
rammento e mi soffermo ad
illustrare brevissimamente le voci libbèrgio
e la derivata libbèrgina
che son voci
attestate pure come libèrgio e libèrgina (con forma scempia della
labiale esplosiva b, quantunque le forme con la b geminata appaiono di
piú esatto e forse corretto originario
uso popolare, mentre le forme con la b scempia son d’uso
marcatamente letterario e libresco e
quindi a mio avviso, da non seguirsi. Le voci
libbèrgio (con cui si indica l’abero fruttifero delle
albicocche) e libbèrgina(il frutto dell’albero
albicocco) son voci (come ò detto attestate pure come libèrgio e libèrgina ) con cui nella zone del
salernitano e dell’ebolitano si indicano, dicevo, rispettivamente l’albero ed i
frutti di quelle albicocche che nel
napoletano sono le cresòmmole (e di cui il
relativo albero è il cresuómmolo).
Potrà sembrare
strano che Salerno, Eboli e loro circondarî, luoghi che son cosí prossimi al capoluogo campano (che vanta
un idioma che à influenzato in lungo e
largo le parlate centro- meridionali),potrà sembrare strano, dicevo, che adottino, nel loro parlato popolare voci
tanto diverse da quelle napoletane per indicare il medesimo frutto
(l’albicocca) ed il relativo albero che lo produce. Ma l’apparire strano della
faccenda cade solo se si pensa che
Salerno, Eboli e loro circondarî son sí vicini a Napoli, ma ugualmente
son prossimi alla Calabria e spesso voci in uso nelle città calabresi
(soprattutto quelle rivierasche) ànno passato il confine e son giunte in talune
città campane.
In effetti le voci libbèrgio
e la derivata libbèrgina
attestate pure come libèrgio e libèrgina son voci d’uso calabrese dove con etimo per adattamento morfologico
dal mozarabico nonché spagnuolo alberchiga
indicano il nocepersico ed il relativo frutto nocepersica.
Non è chiaro
tuttavia il percorso semantico seguíto nel salernitano ed ebolitano per assegnare all’albicocca il nome usato in
Calabria per indicare la nocepersica (quel frutto a pasta soda e
succosa e a buccia gialla che a Napoli è detto percoca voce derivata da un acc.vo del lat. volgare *percoca(m)= frutto del tutto maturo alterazione di praecoqua(m)= frutto precoce, mentre quel frutto a pasta bianca e succosa, buccia
rossa e vellutata che in italiano è pèsca
in napoletano è perzeca con etimo dall’
acc.vo lat. persica(m)con evidente
riferimento al fatto che il frutto fu
originario della Persia (persica-m fu
la medesima voce da cui, con evidenti capriole morfologiche l’italiano ricavò pèsca)
finocchio s.vo m.le
[ dal lat. fenŭcŭlum, variante di fenicŭlum o foenicŭlum].
a.
Erba delle ombrellifere (lat. scient. Foeniculum vulgare),
bienne o perenne se spontanea, annua se coltivata, alta fino a 2 m, con foglie
multifide, munite di ampia guaina basale, e ombrelle con molti fiori gialli; il
frutto è un diachenio oblungo, grigiastro o gialliccio, percorso da 10
costoline piú chiare, evidenti, con il quale, così come con le radici, si
preparano polveri, infusi, estratti e tinture a scopo eupeptico e, nella
medicina popolare, galattagogo ed emmenagogo. Sottospecie e varietà: f. arancino
(Foeniculum vulgare ssp. piperitum), perenne, spontaneo nelle zone
mediterranee, con frutti di sapore acre e disgustoso; f. forte o selvatico (Foeniculum vulgare
ssp. vulgare), perenne, spontaneo nel Mediterraneo e
comune in tutta Italia, con frutti piuttosto piccoli di sapore sgradevole; f. dolce o di Roma (var. dulce),
annuo o bienne, con frutti (semi di finocchio)
lunghi fino a 10 mm, chiari, di sapore dolciastro, adoperati come condimento, e
dai quali si estrae un olio etereo (essenza di finocchio)
usato in profumeria, in liquoreria e in medicina; f.
di Bologna o di Chioggia
(var. azoricum), varietà coltivata,
annua, caratteristica per i germogli bulbosi, che si consumano come ortaggio.
b.
Il germoglio bulboso del finocchio usato come ortaggio: mangiare un f. crudo;
sformato di finocchi. Si distinguono, nell’uso
corrente, un f. maschio,
rotondeggiante, tenero e poco filamentoso, che si mangia soprattutto crudo, in
insalata o in pinzimonio, e un f. femmina, di dimensioni minori, piú schiacciato e
allungato, meno aromatico, preferito per la cottura.
In napoletano la voce diventa fenucchio [ dal lat. fenŭcŭlum→fenuclu-m→fenucchio] ed oltre ad indicare l’ortaggio edulo
è usato furbescamente per indicare il pederasta attivo quello che è anche détto
ricchione distinguendolo
dal femmeniello
che è il pederasta passivo; talora,per traslato furbesco e
giocoso
e popolarmente, la voce fenucchio è
uno dei tanti sinonimi napoletani usati per indicare il membro maschile;
rammento che in questa accezione si fa
riferimento semantico al finocchio
dolce, quello dalla grossa testa carnosa e dal fusto ingrossato.
fico
d'India s.vo m.le [dal lat. scient. Opuntia
ficus-indica→ (Opuntia) ficus-indica→fico d’india Nome comune della pianta
succulenta Opuntia ficus-indica e del suo frutto. La pianta è alta fino a 5 m,
della famiglia Cactacee, à rami (cladodi) articolati, ellittici od obovati,
appiattiti, carnosi, detti pale; questi sono di un verde un po’ glauco e
cosparsi di ciuffi (glochidi) di piccoli aculei che si formano all’ascella
delle foglie, minutissime e fugaci; dal centro di ogni glochidio
sorgono spesso 1-2 spine robuste. I fiori si sviluppano di solito al margine
superiore dei cladodi, ànno perigonio di molti pezzi, gli esterni sepaloidei,
gli interni, gialli, petaloidei, stami numerosi e ovario infero
uniloculare, con lo stilo che reca 6-8 stigmi. Il frutto è una bacca, con polpa
mucillaginosa e molti semi ossei: è ovoide, troncato e ombelicato all’apice,
all’esterno con ciuffi di aculei, come nei rami vegetativi. È originario
probabilmente del Messico,
dove già nell’epoca precolombiana era coltivato in parecchie varietà.
Attualmente si coltiva nel Mediterraneo, Africa meridionale, California ecc., e
in vari paesi si è spontaneizzato. Delle molte razze se ne ricordano con frutto
a polpa gialla (la piú comune), a polpa bianca, a polpa rosso-violetta. I
frutti si consumano freschi o anche secchi.In napoletano il frutto in esame
prende il nome di ficurinia con medesima etimologia, ma evidente rotacizzazione d→r osco-mediterranea della prima
D e dissimilazione totale della seconda.
In sostituzione della voce ficurinia spesso nel parlato napoletano della città bassa è usata, forse impropriamente la voce nanassa
(adattamento del termine ananas→(a)nanas→nanassa con consueto raddoppiamento espressivo della consonante finale in
parole derivate da termini stranieri e consueta paragoge di una semimuta
finale (qui a) atteso che come ò già détto e qui ripeto i napoletani non amano le parole che
terminino per consonante; la voce nanassa è usata anche in senso furbesco
riferito ad una giovane donna morbida e
formosa e – come tale – intesa dolce e succosa.
fragola s.vo f.le
[ dal lat. *fragŭla, dim. di fraga]. –
a.
Pianta rizomatosa del genere fragaria che cresce in climi temperati, su terreni
soffici e umidi: à foglie alterne trifogliate, con fiori bianchi di cinque
petali riuniti in corimbo, e un falso frutto, detto anch’esso fragola; in Italia cresce spontanea la fragola comune (Fragaria vesca), con alcune varietà.
b.
Il frutto della pianta, che in realtà è il ricettacolo, molto ingrossato,
cuoriforme, generalmente rosso, a polpa succosa, edule, sul quale stanno i veri
frutti, volgarmente ritenuti semi. In napoletano la fragola prende il nome di fravula
con medesimo etimo dal lat. *fragŭla ma con sostituzione di V alla G come in
gunnella→vunnella, gallo→vallo, gallina→vallina, concola/gongola→vongola.
mandarino s.vo m.le [
dal port.
mandarim, alteraz. del malese mantri, a sua volta dal sanscr. mantrin] frutto simile all’arancia, ma piú piccolo e dal sapore piú
dolce;l’albero che produce questo frutto (fam. Rutacee). – in
napoletano la voce diventa mennarinulo/mennarinolo con medesimo
etimo ma con assimilazione regressiva nd→nn
ed addizione del suffisso ulo/olo suffisso
che continua il lat. olus/ola e che
unito ad aggettivi o sostantivi forma alterati con valore diminutivo o
vezzeggiativo, oppure stabilisce una relazione, una provenienza e nel caso in
esame fa riferimento al fatto che il
frutto in esame risulta piú
piccolo dell’arancia cui è simile.
carciofo s.vo m.le.
Con il termine carciofo si identifica un
tipico ortaggio coltivato in campo aperto, anzi per esser piú precisi si indica
una particolare pianta erbacea anzi una
pianta spinosa simile al cardo, da cui sarebbe derivata per mutazione, pianta di cui si mangiano i capolini e le grandi
brattee carnose da cui essi sono avvolti (fam. Composite);
Fu pianta già nota a Romani e Greci, che la apprezzavano molto sia come alimento gustoso
che come pianta medicinale; il carciofo
tuttavia entrò permanentemente nella
cucina italiana non prima del secolo XI per merito degli arabi che lo
diffusero dapprima nelle cucine regionali del meridione d’Italia; successivamente tra il XII
ed il XV secolo il carciofo si diffuse in tutta la penisola quantunque per gran tempo non fosse distinto dal cardo col quale spesso venne
confuso; anche il nome di carciofo lo si deve agli arabi che
chiamavano questa pianta kàrshuf
donde l’italiano carciofo nome che
soppiantò decisamente il termine Cinara cardunculo scolimo adattamento del lat.
Cynara cardunculus scolymus nome scientifico usato dagli addetti ai lavori
(coltivatori ed erboristi); dal
sostantivo m.le carciofo i napoletani
trassero una sorta di diminutivo femminile(cfr. il suff. ola f.le di olus) : carcioffola nome con cui
in Campania è chiamato il carciofo che
à - come ò detto- un'infiorescenza a capolino, per lo piú di
colore verde tendente al grigio cenere; ci sono anche delle varietà tendenti al
violetto. Le brattee, cioè le squame compatte che formano il capolino, possono
avere spine oppure no. È proprio ciò che
distingue i diversi tipi di carciofo.Essi
variano altresí a seconda della dimensione tenuto presente che, mantenendo inalterato il gusto, ogni pianta produce un solo grosso fiore centrale e molti altri, piú piccoli, dai cosiddetti braccioli laterali.
Oggi le varietà spinose piú
conosciute sono: i verdi della Liguria e di Palermo, quelli di Venezia e
di Sardegna ed i violetti di Chioggia. Ulteriori varietà di carciofo
spinoso sono il violaceo di Toscana, ed
il carciofo spinoso campano che è verde-violaceo. Tra i non spinosi, invece, troviamo il
cosiddetto romanesco, comunemente conosciuto come mammola (con derivazione
dal Lat. mammula(m), dim. di mamma 'mammella'; propr. 'piccola
mammella', poi anche 'bambina' e
'piccolo fiore', quello di Catania, di Palermo e della Campania dove prende il nome di mammarella diminutivo della pregressa mammola attraverso
un doppio suffisso r+ella.
Il carciofo è un alimento dal sapore spiccato,molto gustoso,
versatile in quanto si presta a molte preparazioni culinarie; à ottime
proprietà salutari: i carciofi sono
infatti considerati i protettori del
fegato; in effetti grazie ad una
particolare sostanza (la cinarina) contenuta nelle brattee , nello stelo e
nell'infiorescenza, il carciofo svolge un'azione benefica sulla secrezione
biliare, sulla funzionalità epatica, favorendo altresí la diuresi renale e
regolarizzando le funzioni intestinali.
I carciofi stimolano pure il flusso di bile; già studi del passato condotti sia su animali che su esseri umani,
dimostrarono che i carciofi abbassano i
livelli ematici di colesterolo e di trigliceridi, quantunque in realtà i principi
attivi siano contenuti nelle brattee che solitamente non vengono mangiate, se
non in parte. Sono molto ricchi di fibre e di minerali, mentre è relativamente
basso il contenuto di sodio e di vitamine,
se si eccettua la presenza di un
po' di vitamina A e vitamina C.
Possono essere mangiati da tutti ed a tutte le età perché alimento facilmente digeribile ed essendo molto ricco
di fibra solubile aiuta ad eliminare il colesterolo in eccesso; il carciofo è infine altresí ricco di inulina,
un polisaccaride che l'organismo metabolizza in modo diverso dagli altri
zuccheri. In realtà l'inulina non viene utilizzata dall'organismo per la
produzione di energia. Questo fatto rende i carciofi molto salutari per i
diabetici, perché l'inulina migliora efficacemente il controllo dello zucchero
ematico nei diabetici.
A margine rammento
che con il termine carciofo con linguaggio furbesco si indica una persona
sciocca, incapace; tuttavia sono sconosciute le ragioni di questo strano
collegamento semantico tra un ottimo, gustoso alimento quale è il carciofo ed
una persona sciocca o incapace.
Nota linguistica
Con ogni probabilità la voce napoletana femminile carcioffola
fu la prima ad esser coniata con
derivazione - come ò détto - dall’arabo kàrshuf
addizionato di un suff. diminutivo ola←olus e fu usato per indicare quel
carciofo in seguito détto mammarella diminutivo della romanesca mammola attraverso un doppio suffisso r+ella.
Atteso la nota particolarità dell’idioma partenopeo che considera femminile una
cosa o un oggetto piú grosso o ampio di un corrispondente oggetto o cosa
maschile, piú piccolo (cfr. ad es.: cucchiaro (piú piccolo) e cucchiara (piú
grande) carretto (piú piccolo) e carretta (piú grande) tina (piú grande) e
tino( piú piccolo) tavula (piú grande) e tavulo ( piú piccolo);fanno eccezione
soltanto caccavo (piú grande) e caccavella ( piú piccola) e tiano (piú grande)
e tiana( piú piccolo), attesa questa particolaritàdicevo, con ogni probabilità
si coniò dapprima il termine carcioffola destinandolo al grosso
carciofo mammola e si assegnò un corrispondente maschile carcioffolo (cosí come
riportato in antichi testi (Vincenzo
Cervio ed altri)) al piú contenuto carciofo spinoso; quando poi invalse
l’uso di chiamare mammarella il
grosso carciofo mammola privo di spine si finí per abolire il maschile carcioffolo conservando il femminile carcioffola assegnato al normale
piccolo carciofo spinoso; e fu tale carcioffola
che pervenne nell’italiano diventando carciofo ←carcioffo(la) privato altresí della espressiva geminata effe
ritenuta troppo dialettale.
zucchina s.vo f.le (alla toscana anche s.vo m.le zucchino)
[dim. di zucca]. – Nome con cui sono
indicati i frutti immaturi,piú
o meno piccoli, verdi e commestibili,
delle varie specie di zucca; è uno degli
ortaggi piú comuni: zucchine lesse, fritte,
trifolate; zucchine ripiene;
zucchine alla parmigiana.
In
napoletano la voce è cucuzziello
s.vo m.le diminutivo (cfr. il suff. iello) e maschilizzato del tardo lat.
cucutia-m; per traslato
giocoso e furbesco la voce cucuzziello indica una persona sciocca, stupida, inetta, scema, stolta, tonto con riferimento
semantico al fatto che l’ortaggio di suo è poco sapido.
carota s.vo f.le [ dal lat. tardo carōta, dal gr. καρωτόν]. –
1.
Erba annua o bienne delle ombrellifere (Daucus carota),
alta fino a 2 m, con ombrelle a molti raggi, fiori per lo piú bianchi, comune
in Italia nei coltivati e negli erbosi in parecchie varietà; la carota comune
(ssp. sativus) è coltivata per la
radice ingrossata (detta anch’essa carota),
di colore per lo piú giallo arancio, dolce, commestibile (carote in umido, in
insalata; contorno di carote).
Dai semi si ottiene l’olio di c.,
impiegato per la fabbricazione di liquori stimolanti, nella preparazione di
sostanze aromatiche e, limitatamente, in profumeria.
In napoletano la voce è pastenaca dritto per dritto
dal lat. pastinaca-m .
Per traslato giocoso e furbesco anche questa
voce indica uno sciocco, stupido, inetto, ignorante, stolto, tonto con riferimento
semantico al fatto che l’ortaggio di suo è piuttosto dolciastro e poco sapido.
anguria s.vo
f.le [[dal gr. tardo ἀγγούριον, pl. ἀγγούρια].
– Nome region., molto diffuso, del cocomero che è un’Erba annua delle
cucurbitacee (Citrullus lanatus, sinon. Cucumis citrullus) con fusto ramoso, prostrato, con grandi cirri
semplici, foglie a contorno cuoriforme, fiori monoici a corolla gialla; il
frutto è una falsa bacca (poponide)
globosa (con diametro fino a 40 cm e peso fino a oltre 20 kg) o ellissoidale,
liscia, verde o con strisce chiare, con buccia relativamente sottile, polpa
zuccherina rinfrescante, bianca nella parte piú esterna e rossa o giallastra
nel resto, e semi numerosi di colori diversi. Originario dell’Africa, il
cocomero è coltivato in tutto il mondo. In napoletano la voce
è
mellone
dal lat. tardo melone-m con raddoppiamento espressivo della
liquida alveolare laterale [L]
e con essa voce addizionata dello specificativo d’acqua (mellone d’acqua)si
indica quel cocomero dalla polpa rossa distinto
dal popone o cantalupo che a
Napoli è il mellone ‘e pane ed à la
polpa bianca o gialla .
nespola s.vo f.le [lat. mespĭlum
(che è dal gr. μέσπιλον), con passaggio di m-
a n-, che si à anche in nappa dal lat. mappa,
dovuto (come per nibbio) ad un fenomeno di
dissimilazione, ma documentato anche in altri casi (per es. nicchio dal lat. mitŭlus)
non spiegabili come dissimilazioni]. Il frutto, o piú precisamente il falso
frutto, del nespolo comune, simile a una piccola mela, di color bruno,
contenente cinque nòccioli piatti (i semi); si coglie in autunno, ancora
acerbo, e viene fatto successivamente maturare finché la polpa diventa tenera e
dolce. In napoletano, con medesimo etimo la voce diventa nespula con chiusura in u dell’originaria
breve ĭ
per la quale ci si sarebbwe attesa una dittongazione io; la voce nespula è attestata nel noto proverbio cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia s’ammaturano ‘e
nnespule (col tempo e con la paglia si maturano le nespole),
frase con cui si vuol significare che il
tempo risana tutto e risolve le difficoltà,e o che viene ripetuta anche come invito ad avere pazienza, a evitare
la fretta.
nucella = nocciola s.vo f.le [ dal lat. *nuceŏla, dim. di nux
nŭcis «noce»]. Il frutto del
nocciòlo, di forma globoso-bislunga o subrotonda, avvolto in parte da un
involucro fogliaceo; il seme, detto anch’esso nocciola,
si consuma fresco o secco e si usa largamente nell’industria dolciaria (anche
sotto forma di farina, in unione alla polvere di cacao). In napoletano, con
medesimo etimo la voce diventa nucella che addizionata
dell’aggettivo americana è voce usata in napoletano per indicare l’arachide
s.vo f.le [dal lat. scient. Arachis,
nome di genere, che è dal gr. ἀρακίς -ίδος,
propr. «cicerchia»]. – Erba annua delle leguminose papiglionacee (lat. scient. Arachis hypogaea), detta anche nocciòla americana, pistacchio
di terra, cece di terra,
originaria del Brasile, ma coltivata con numerose varietà in tutti i paesi caldi:
à fusti eretti o prostrati, foglie composte di due paia di foglioline, fiori
gialli; il frutto, sotterraneo, è un legume oblungo, indeiscente; particolarm.
importanti i semi, ovoidei, in numero da 1 a 4 , che si consumano, previa
tostatura, come frutta secca e si utilizzano come surrogato del cacao, per la
preparazione del burro e, soprattutto, per l’estrazione dell’olio commestibile
(olio di arachide), limpido, chiaro e di sapore
gradevole.
arancia s.vo f.le [dal pers. nāranǵ, che è prob. dal sanscr. nāgaranja
«gusto degli elefanti»]. – frutto dell’albero
della famiglia rutacee (Citrus aurantium), alto fino a 12 m, con foglie ovate,
fiori bianchi, frutto globoso del tipo bacca (propriam. chiamato esperidio) con
buccia e polpa di colore caratteristico (aranciato). Si distinguono due
varietà, arancia dolce ed arancia amara:
il primo à frutto con polpa agrodolce, consumato quasi esclusivamente come
frutto fresco, dalla cui buccia si estrae l’olio essenziale di arancia dolce In napoletano [con etimo dal nome del Portogallo, paese da cui
(oltre che dalla Spagna) la pianta ed i suoi frutti si sono dapprima diffusi in
Europa nel sec. 14°, provenendo dalla Cina] la voce diventa purtuallo/purtuvallo.
Della noceperzeca = nocepesca, della percoca = pesca gialla con pizzo,
della sovera = sorba e della perzeca = pesca bianca ò già détto precedentemente
per cui mi congedo con il consueto satis est e do appuntamento alla prossima
volta.
R.Bracale Brak
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