lunedì 2 giugno 2008

LÒCENA & DINTORNI

LÒCENA & DINTORNI
Il termine napoletano lòcena di cui brevemente intendo qui trattare, è parola molto datata; se ne possono trovare riscontri,nell’accezione traslata(che tra poco illustrerò) di donna sciatta, becera, sfrontata, negli scritti di autori quali il Basile, lo Sgruttendio, il Trinchera e molti altri.
Nel suo significato primo essa parola è ancora oggi udibile in tutte le botteghe partenopee di rivendita di carni macellate ; con tale parola infatti si indica un ben determinato taglio di carne bovina: essenzialmente il taglio di carne tra il collo e la punta del petto della bestia; è un taglio di 3a categoria, ma la sua carne è gustosissima. È formato da una grossa massa muscolare divisa in due parti: quella superiore piú magra e quella inferiore piú venata di grasso. Non è adatto per fare bistecche o costate, ma va bene per bolliti o stracotti, e per preparare polpette ed ottimi ragú. A Napoli è usato per preparare le c.d. brasciole che non sono, come a prima vista potrebbe sembrare fette da cuocere alla brace, ma grossi involti di carne imbottiti di uva passita, pinoli, cubetti di formaggio pecorino e/o parmigiano, prezzemolo ed aglio tritati, salati e pepati ed opportunamente legati con spago da cucina e cotti in umido o in ragú.Questo taglio di carne, a Napoli e nel potentino detto lòcena, assume diversissimi nomi in ogni altra città italiana; rammenterò:
Coddu a Reggio Calabria.
Collo a Belluno, Genova, L'Aquila, Macerata, Mantova, Messina, Milano, Padova, Parma, Perugia, Roma, Rovigo, Torino, Trento, Treviso, Verona, Vicenza.
Giogo a Firenze. Guido a Bologna. Modegal a Venezia.
Rosciale a Bari, Foggia. Sapura a Messina. Spinello a Palermo.
Come spiegato, pur essendo un taglio di carne gustosissimo, è un taglio che ricavato dal quarto anteriore della bestia, il meno pregiato e meno costoso, è da ritenersi di mediocre qualità, quasi di scarto, e di tutti i vari nomi summenzionati quello che piú si attaglia a simili minime qualità, è proprio il napoletano lòcena.
Etimologicamente infatti la parola lòcena nel suo precipuo significato di vile, scadente è forgiato come il toscano ocio ed il successivo locio (dove è evidente l’agglutinazione dell’articolo) sul latino volgare avicus mediante una forma aucius che in toscano sta per: scadente, di scarto; da locio a locia e successiva locina con consueta epentesi di una consonante (qui la N) per facilitare la lettura, si è pervenuto a lòcena.
Chiarito il concetto di partenza, passiamo al significato traslato: fu quasi normale in un’epoca: fine ‘500, principio ‘600 in cui la donna non era tenuta in gran conto (a quell’epoca risalgono, a ben pensare, quasi tutti i proverbi misogini della tradizionale cultura partenopea …), trasferire il termine lòcena da un taglio di carne di scarto, ad una donna… di scarto, quale poteva esser ritenuta una donna becera, villana, sciatta,sguaiata, volgare, sfrontata ed, a maggior ragione,una donna di malaffare o anche solo chi fosse una demi vierge o che volesse apparir tale..
Rammenterò che altrove, con linguaggio piú pungente se non più crudo, tale tipo di donna è detto péreta, soprattutto quando quelle sue pessime qualità la donna le inalberi e le metta ostentatamente in mostra; le ragioni di questo nome sono facilmente intuibili laddove si ponga mente che il termine péreta è il femminile di pireto (dal b. lat.:peditu(m)) cioè: peto, scorreggia che sono manifestazioni viscerali rumorose rispetto alla corrispondente loffa (probabilmente dal tedesco luft/loft= aria) fetida manifestazione viscerale silenziosa, ma olfattivamente tremenda.
Va da sé che una donna che strombazzi le sue pessimi qualità, si comporta alla medesima stregua di un peto, manifestando rumorosamente la sua presenza e ben si può meritare con icastico, seppur crudo linguaggio, l’appellativo di péreta.Per completezza dirò poi che simile donna becere e volgare, altrove, ma con medesima valenza è anche detta alternativamente lumèra o anche lume a ggiorno atteso che una donna becera e volgare abbia nel suo quotidiano costume l’accendersi iratamente per un nonnulla; tale prender fuoco facilmente richiama quello simile del lume a gas (lumèra) o di quello a petrolio ( lume a ggiorno) ambedue altresí maleolenti tali quale una péreta.
Ciò che vengo dicendo è tanto vero che addirittura questo tipo di donna è stato codificato nella Smorfia napoletana che al num. 43 recita: donna Péreta for’ ô balcone per indicare appunto una donna… di scarto che faccia di tutto per mettersi in mostra; ed addirittura nella smorfia il termine péreta da nome comune è divenuto quasi nome proprio.

Raffaele Bracale

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