lunedì 2 giugno 2014
VARIE 3928
1.Tené 'e fruvole dint' ô mazzo.
Letteralmente: avere i fulmini, i razzi nel sedere. Icastica espressione con la quale si indicano i ragazzi un po' troppo vivaci ed irrequieti ritenuti titolari addirittura di fuochi artificiali allocati nel sedere, fuochi che con il loro scoppiettio costringono i ragazzi a non stare fermi, anzi a muoversi continuamente per assecondare gli scoppiettii. La locuzione viene riferita soprattutto ai ragazzi, ma anche a tutti coloro che non stanno quieti un momento. Letteralmente 'e fruvole sono i fulmini, le folgori dal latino fulgor con roticizzazione e successiva metatesi della elle.
2. Rummané â prevetina o comme a don Paulino.
Rimanere alla maniera dei preti o come don Paolino. Id est: Rimanere in condizioni economiche molto precarie addirittura come un mitico don Paolino, sacerdote nolano che, non avendo di che comprare ceri per celebrar messa, si doveva accontentare di tizzoni accesi.
3.Tanto va 'a lancella abbascio ô puzzo, ca ce rummane 'a maneca.
Letteralmente: tanto va il secchio al fondo del pozzo che ci rimette il manico. Il proverbio con altra raffigurazione, molto più icastica, ripete il toscano: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e ne adombra il significato sottointendendo che il ripetersi di talune azioni, a lungo andare, si rivelano dannose per chi le compie. La lancella (dal t. lat. lancula diminutivo di lanx) della locuzione è propriamente un secchio atto ad attingere acqua dal pozzo, secchio provvisto di doghe lignee e di un manico in metallo che, sollecitato lungamente, finisce per staccarsi dal secchio.
4.Signore mio scanza a mme e a chi coglie.
Letteralmente: Signore mio fa salvo me e chiunque possa venir colto. È la locuzione invocazione rivolta a Dio quando ci si trovi davanti ad una situazione nella quale si corra il pericolo di finire sotto i colpi imprecisi e maldestri di qualcuno che si stia cimentando in operazioni non supportate da perizia.
5.'O piezzo cchiú gruosso à dda essere 'a recchia.
Letteralmente: il pezzo piú grande deve essere l'orecchio. Iperbolica minaccia che un tempo veniva rivolta soprattutto ai ragazzini chiassosi e/o facinorosi cui si promettevano inenarrabili percosse tali da ridurli in pezzi di cui il più grande avrebbe dovuto essere l'orecchio.
6. Essere 'na guallera cu 'e filosce.
Letteralmente: essere un'ernia corredata di frittate d'uova. Icastica iperbolica offensiva espressione con cui si denota una persona molle ed imbelle dal carattere debole quasi si tratti di una molle pendula ernia a cui siano attaccate, per maggior disdoro delle ugualmente molli e spugnose frittatine d'uova.
Guallera s.f. = ernia (dall’arabo wadara= ernia)
Filosce s.n. pl. di filoscio = frittatina sottile (dal fr. filoche ← fil= sottile)
7. Mettere a uno 'ncopp' a 'nu puorco.
Letteralmente: mettere uno a cavallo di un porco. Id est: sparlar di uno, spettegolarne, additarlo al ludibrio degli altri, come avveniva anticamente quando al popolino era consentito di condurre alla gogna il condannato trasportandolo a dorso di maiale affinché venisse notato da tutti e fatto segno di ingiurie e contumelie. Questa abitudine era tipica della città partenopea dove v’era abbondanza di maiali che circolavano liberamente per strade e vicoli, allevati com’erano in libertà assoluta per esser poi destinati oltre che all’uso personale di chi li allevasse, anche come offerta ai monaci del TAU che conducevano nei pressi della chiesa di S. Antonio Abate (in piazza Carlo III) uno loro piccolo ospedale dove curavano affezioni dermatologiche usando pomate confezionate anche con il lardo dei maiali; altrove (ad es. a Roma) ci si serviva di asini.
8. Oramaje à appiso 'e fierre a sant' Aloja.
Letteralmente: ormai à appeso i ferri a sant'Eligio. Id est: ormai non à piú velleità sessuali,(à raggiunto l'età della senescenza ...)Il sant'Aloja della locuzione è sant'Eligio (in francese Alois) al Mercato, basilica napoletana dove i cocchieri di piazza andavano ad appendere i ferri dei cavalli che, per raggiunti limiti di età, smettevano di lavorare. Da questa consuetudine, il proverbio ammiccante nei confronti degli anziani.
9. Si me metto a ffà cappielle, nàsceno criature senza capa.
Letteralmente: se mi metto a confezionare cappelli nascono bimbi senza testa. Iperbolica amara considerazione fatta a Napoli da chi si ritenga titolare di una sfortuna macroscopica.
10. A - Nun fa pérete a chi tène culo.
B - Nun dà ponie a chi tène mane.
I due proverbi in epigrafe, con parole diverse mirano in fondo allo stesso scopo: a consigliare cioè colui a cui vengon rivolti di porre parecchia attenzione al proprio operato per non incorrere - secondo un noto principio fisico - in una reazione uguale e contraria che certamente si verificherà; nel caso sub A, infatti è facile attendersi una salve di peti da parte di colui che, provvisto di sedere, sia stato fatto oggetto di una medesima salve. Nel caso sub B, chi à colpito con pugni qualcuno si attenda pure la medesima reazione se il colpito è provvisto di mani.
11. Chi se fa masto, cade ‘int' ô mastrillo.
Letteralmente: chi si fa maestro, finisce per essere intrappolato. L'ammonimento della locuzione a non ergersi maestri e domini delle situazioni, viene rivolto soprattutto ai presuntuosi e supponenti che son soliti dare ammaestramenti o consigli non richiesti, ma poi finiscono per farte la fine dei sorci presi in trappola proprio da coloro che pretendono di ammaestrare.
masto s.vo m.le =mastro, capoperaio,esperto d’un settore lavorativo; voce derivata dal lat. ma(gi)st(r )u(m)→masto;
mastrillo s.vo m.le = trappola per topi; voce derivata dal tardo lat. mustricula con cambio e maschilizzazione del suffisso diminutivo cula→illo ed alterazione espressiva della vocale nella sillaba d’avvio: u→a.
12 Tutto a Giesú e niente a Maria.
Letteralmente: tutto a Gesú e niente a Maria; ma non è un incitamento a conferire tutta la propria devozione a Gesú e a negarla alla Vergine; è invece l'amara constatazione che fa il napoletano davanti ad una iniqua distribuzione di beni, distribuzione di cui ci si dolga, nella speranza che chi di dovere si ravveda e provveda ad una piú equa redistribuzione. Il piú delle volte però non v'è ravvedimento e la faccenda non migliora per il petente e resta solo l’amara espressione dell’epigrafe che riproduce quella pronunciata da un anziano curato di una piccola chiesa popolare nei confronti del suo sacrestano che, delegato ad addobbare i due altari presenti nella chiesuola, aveva riservato gli addobi all’altare del Salvatore tenendo sguarnito quello dedicato alla Vergine.
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