venerdì 6 giugno 2014

VARIE 3931

1.CANTA CA TE FAJE CANONICO! Letteralmente: Canta ché diventerai canonico Id est: Urla piú forte ché avrai ragione Il proverbio intende sottolineare l'abitudine di tanti che in una discussione, non avendo serie argomentazioni da apportare alle proprie tesi, alzano il tono della voce ritenendo cosí di prevalere o convincere l'antagonista e/o gli astanti.Il proverbio rammenta il comportamento dei canonici della Cattedrale che son soliti cantare l'Ufficio divino con tonalità spesso elevate, per farsi udire (ed... ammirare) da tutti i fedeli. 2. ARMAMMOCE E GGHIATE. Letteralmente: armiamoci, ma andate! Id est: Tirarsi indietro davanti al pericolo; come son soliti fari troppi comandanti, solerti nel dare ordini, ma mai disposti a muovere i passi verso il luogo della lotta; cosí soleva comportarsi il generale francese Manhès che inviato dal re Gioacchino Murat in Abruzzo a combattere i briganti inviò colà la truppa e restò a Napoli a bivaccare e non è dato sapere se raggiunse mai i suoi soldati, anzi pare che non l’abbia mai fatto delegando il comando ad un suo subalterno. 3. A - CANE E CCANE NUN SE MOZZECANO B- CUOVERE E CUOVERE NUN SE CECANO LL'UOCCHIE. Letteralmente: A- CANI E CANI NON SI AZZANNANO B- CORVI E CORVI NON SI ACCECANO Ambedue i proverbi sottolineano lo spirito di corpo che esiste tra le bestie; per traslato i proverbi li si usa riferire anche agli uomini, intendodo sottolineare che persone di cattivo stampo non son solite farsi guerra, ma - al contrario - usano far causa comune in danno dei terzi. 4.CCA 'E PPEZZE E CCA 'O SSAPONE. Letteralmente: Qui gli stracci e qui il sapone. Espressione che compendia l'avviso che non si fa credito e che al contrario a prestazione segue o deve seguire immediata controprestazione.Ll’espressione fu usata, temporibus illis, a Napoli dai rigattieri che davano in cambio di abiti smessi, cenci, stracci o altre cianfrusaglie, del sapone per bucato (“‘o ssapone ‘e piazza”, spesso da loro stessi prodotto artigianalmente); perciò tali rigattieri a Napoli erano detti sapunare. 5.TENÉ 'A SÀRACA DINT' Â SACCA Letteralmente: tenere la salacca in tasca. Id est: mostrarsi impaziente e frettoloso alla stregua di chi abbia in tasca una maleodorante salacca (aringa)e sia impaziente di raggiungere un luogo dove possa liberarsi della scomoda compagna. 6.T'AGGI''A FÀ N'ASTECO ARETO Ê RINE... Letteralmente Ti devo fare un solaio nella schiena.Id est: Devo percuoterti violentemente dietro le spalle. Per comprendere appieno la portata di questa grave minaccia contenuta nella locuzione in epigrafe, occorre sapere che per asteco(voce dal greco óstrakon = coccio) a Napoli si intende il solaio di copertura delle case, solaio che anticamente era formato con cocci di anfore e/o abbondante lapillo vulcanico ammassato all'uopo e poi violentemente percosso con appositi martelli al fine di grandemente compattarlo e renderlo impermeabile alle infiltrazioni di acqua piovana. 7.OGNE ANNO DDIO 'O CUMANNA Letteralmente: una volta all'anno lo comanda Iddio. La locuzione partenopea traduce quasi quella latina: “semel in anno licet insanire”, anche se i napoletani con il loro proverbio chiamano in causa Dio ritenuto corresponsabile delle pazzie umane come se fósse la Divinità ad ordinarle. 8. PE GULÍO 'E LARDO, METTERE 'E DDETE 'NCULO Ô PUORCO. Letteralmente: per desiderio di lardo, porre le mani nell'ano del porco. Id est: per appagare un desiderio esser pronto a qualsiasi cosa, anche ad azioni riprovevoli e che comunque non assicurano il raggiungimento dello scopo prefisso. La parola gulío attestato anche come vulío= voglia, desiderio pressante non deriva dall'italiano gola essendo il gulío/vulío non espressamente lo smodato desiderio di cibo o bevande; piú esattamente la parola gulío/vulío è da riallacciarsi quale deverbale al greco boulomai=volere intensamente con consueta trasformazione della B greca nella napoletana G come avviene per es. anche con il latino dove habeo è divenuto in napoletano aggio o come rabies divenuta (a)rraggia. 9.SCIORTA E MMOLE SPONTANO 'NA VOTA SOLA. Letteralmente:la fortuna ed i molari compaiono una sola volta. Id est: bisogna saper cogliere l'attimo fuggente e non lasciarsi sfuggire l'occasione propizia che - come i molari - spunta una sola volta e non si ripropone 10.LL'ARTE 'E TATA È MMEZA 'MPARATA. Letteralmente: l'arte del padre è appresa per metà. Con questa locuzione a Napoli si suole rammentare che spesso i figli che seguano il mestiere del genitore son favoriti rispetto a coloro che dovessero apprenderlo ex novo. Partendo da quanto affermato in epigrafe spesso però capita che taluni si vedano la strada spianata laddove invece al redde rationem mostrano di non aver appreso un bel nulla dal loro genitore e finisce che la locuzione nei riguardi di tali pessimi allievi debba essere intesa in senso ironico ed antifrastico. 11.ATTACCARSE Ê FELÍNIE. Letteralmente: appigliarsi alle ragnatele. Icastica locuzione usata a Napoli per identificare l'azione di chi in una discussione - non avendo solidi argomenti su cui poggiare il proprio ragionamento e perciò le proprie pretese - si attacchi a pretesti o ragionamenti poco solidi, se non inconsistenti, simili -appunto - a delle evanescenti ragnatele. 12. JÍ FACENNO 'O GGIORGIO CUTUGNO. Letteralmente: andar facendo il Giorgio Cotugno. Id est: andare in giro bighellonando, facendo il bellimbusto, assumendo un'aria tracotante e guappesca alla stessa stregua del mitico Giorgio Cotugno (borioso personaggio del teatro di A.Petito) scolpito in atteggiamento spocchioso su di una tomba della chiesa di san Giorgio maggiore a Napoli. Con la locuzione in epigrafe il re Ferdinando II Borbone Napoli soleva apostrofare il duca Giovanni Del Balzo che era solito incedere con aria tracotante anche davanti al proprio re. 13. 'NCASÀ 'O CAPPIELLO DINT' Ê RRECCHIE. Letteralmente: calcare il cappello fin dentro alle orecchie ossia calcarlo in testa con tanta forza che il cappello con la sua tesa faccia quasi accartocciare i padiglioni auricolari. A Napoli, l'icastica espressione fotografa una situazione nella quale ci sia qualcuno che vessatoriamente, approfittando della ingenuità e/o disponibilità di un altro richieda a costui e talvolta ottenga prestazioni o pagamenti superiori al dovuto, costringendo - sia pure metaforicamente - il soccombente a portare un supposto cappello calcato in testa fin sulle orecchie. 14. ROMPERE 'O NCIARMO. Letteralmente: spezzare l'incantesimo. A Napoli la frase è usata davanti a situazioni che per potersi mutare hanno bisogno di decisione e pronta azione in quanto dette situazioni si ritengono quasi permeate di magia che con i normali mezzi è impossibile vincere per cui bisogna agire quasi armata manu per venire a capo della faccenda. La parola nciarmo= magia, fascino, incantesimo non deriva dal lat. in+ carmen ma da un francese n + charme per cui la N d’avvio non essendo il residuo dell’aferesi di “in”, ma solo una prostesi eufonica, non necessita di alcun segno diacritico. 15.'NGRIFARSE COMME A 'NU GALLERINIO. Letteralmente:arruffar le penne come un tacchino. Il tacchino o gallo d'india (da cui gallerinio) allorché subodora un pericolo, si pone in guardia arruffando le penne segno questo - per chi si accosti ad esso - che non lo troverà impreparato.La locuzione è usata a mo' di dileggio nei confronti di chi si mostri spettinato, quasi con i capelli ritti in testa; di costui si dice che sta 'ngrifato comme a 'nu gallerinio, anche se il soggetto 'ngrifato non sia arrabbiato o leso, ma solamente spettinato. brak

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