domenica 6 novembre 2011

TOPO E DINTORNI

TOPO E DINTORNI

Mi è stato chiesto da una cara amica di illustrare la parola italiana in epigrafe e quelle napoletane ad essa collegate. Lo faccio qui di sèguito cominciando col dire súbito che la parola topo nome comune di varie specie di piccoli mammiferi roditori con pelo corto e folto, generalmente grigio, zampe anteriori piú corte delle posteriori, muso aguzzo e lunga coda, è con ogni probabilità pervenuta nella lingua italiana attraverso un tardo latino talpum variante di talpam che è propriamente la talpa; la voce latina sta per kalpa o skalpa dalla medesima radice del verbo scalp – ere = scavare e dunque talpam è l’animale che scava tenendo ad un dipresso il medesimo comportamento del derivato topo; tale voce con medesima derivazione latina attraverso una forma dialettale taupa la si ritrova nel francese dove il topo è taupe, nello spagnolo topo, nel catalano taup;
il topo è essenzialmente il piccolo roditore che talvota inopinatamente si può trovare nelle abitazioni cittadine e non va confuso con il ratto genere di mammiferi roditori simili ai topi, ma di dimensioni piú grandi, dannosi sia per la loro voracità sia per le malattie che possono trasmettere, che però fortunatamente vivono quasi esclusivamente in campagnana dove ci cibano di grano e di paglia; la voce ratto che nel provenzale e francese è rat, nello spagnolo e portoghese è rato viene dal basso latino ratus forgiato forse su di un antico verbo tedesco ratzen che è raschiare, grattare, per indicare appunto l’animale che rosicchia (da un basso latino rositiare frequentativo di rodere); torniamo al topo e vediamo come questa voce è resa in napoletano; il topo domestico napoletano è ‘o sorice e piú spesso, quando sia minuscolo ‘o suricillo; dalla voce sorice per sincope della I è derivata la voce italiana sorcio che identifica il piccolo roditore in tutto simile al topo, ma piú piccolo, di un grigio piú dilavato, mancante dell’unghia del dito piú grosso e che si pasce soprattutto di alimenti grassi, per cui è facile incontrarne, purtroppo, nelle botteghe di alimentari; veniamo all’etimo di sorice e del derivato sorcio; esso è dall’acc. latino sorice(m) di sorex;
a proposito di sorice e del suo diminutivo suricillo mi piace ricordare qui ed illustrare un’antica esclamazione partenopea che suonò: mannaggia ô suricillo e ppezza ‘nfosa!
Ad litteram: accidenti al topino e (alla) pezza bagnata;Il motto viene pronunciato a mo’ di imprecazione da chi voglia evitare di pronunciarne altra piú triviale specialmente davanti a situazioni negative sí, ma poco importanti.
Varie le interpretazioni della locuzione in ispecie nei confronti del topolino fatto oggetto di maledizione
Esamino qui di seguito le varie interpretazioni e per ultima segnalo la mia.
1 - L’illustre amico e scrittore di cose napoletane(avv. Renato De Falco) reputa che il suricillo in esame altro non sia che il frustolo d’epitelio secco che si produceva in ispecie sulle braccia e sulle gambe allorché le si lavavano soffregandole non con una spugna, ma con uno straccetto bagnato. È vero, da ragazzi usavamo dare il nome di suricillo a quei frustoli d’epitelio divelti con il soffregamento dello straccio madido d’acqua. Ma il dotto amico De Falco, per far passare per buona la sua idea è costretto a leggere la e dell’espressione non come congiunzione, ma come aferesi di de e quindi leggere ‘e pezza ‘nfosa pronunciando in maniera scempia la p di pezza, laddove il proverbio raccolto dalla viva voce della gente suona: mannaggia ‘o suricillo e ppezza ‘nfosa ed è chiara la geminazione iniziale della p di pezza e il significato di congiunzione della e. Per cui, a malgrado dell’amicizia e della stima che nutro per l’avvocato De Falco, non posso addivenire alla sua idea.
2 -(prof. Francesco D’Ascoli)L’anziano professore , sbriga la faccenda, ravvisando nel suricillo i pezzetti di panno che si staccavano assumendo la forma del musculus (piccolo topo donde anche l’italiano: muscolo che per essere affusolato alle estremità à ad un dipresso la forma di un topolino…), dallo straccio per lavare a terra;l’idea non è percorribile stante anche per D’Ascoli la medesima lettura impropria della locuzione che ne fa il De Falco leggendo la E come aferesi di de e non come congiunzione.
3 - (dr. Sergio Zazzera) L’ottimo dr. Zazzera si lava le mani e propone un improbabile sorcio alle prese con un orcio di olio dal quale sia saltato via un non meglio identificato stoppaccio che non si comprende perché sia umido e non soltanto unto.
A questo punto reputo che potrebbe essere piú veritiera l’interpretazione che mi fu data temporibus illis da mia nonna che asserí che la locuzione conglobava una imprecazione rivolta ad un sorcetto introdottosi in una casa ed un suggerimento dato agli abitanti di detta casa quello cioè di introdurre sotto le fessure delle porte uno straccio bagnato per modo che al topo fossero precluse le vie di fuga e lo si potesse catturare. Volendo cioè dire: È entrato il topino? Non c’è problema! Ce ne possiamo liberare: lo catturiamo, ma prima affinchè non ci sfugga, turiamo con uno straccio bagnato ogni fessura e procediamo alla cattura!
Ma poiché fino a che non ci si senta soddisfatti, è buona norma continuare ad investigare; e continuando nell’investigazione, mi pare di poter affermare che la nonna avesse dato una casta spiegazione a dei vocaboli (e perciò a tutta l’espressione) per non inquietare la fantasia di un piccolo adolescente.
Infatti alla luce di ulteriori indagini ed al supporto di altre menti di appassionati studiosi di cose napoletane mi pare si possa accogliere la tesi del prof. A. Messina che dà del suricillo una lettura estensiva e vede in esso - per il tramite di un xurikilla tardo latino usato in luogo del piú classico mentula - il membro maschile...
Peraltro il prof. Carlo Iandolo illustre scrittore di cose partenopee in una sua dotta lettera mi fa notare che nella passata parlata napoletana le pezze piú note erano - oltre quelle che significavano il danaro - quelle che le donne portavano nel loro corredo nuziale , e che usavano per i loro bisogni fisiologici di ogni volger di luna, quando ancora non esistevano mediatici assorbenti con le ali o senza.
Ecco dunque che, messa da parte la casta spiegazione data dalla nonna, penso si possa addivenire a ritenere che l’innocente imprecazione con la quale si è soliti commentare piccolissimi inconvenienti ai quali non occorra dare faticose soluzioni, sia sgorgata sulle labbra di una donna trovatasi davanti alla improcrastinabile richiesta di favori, da parte del suo uomo (...pronto alla tenzone...) e gli abbia dovuto opporre, sia pure dolendosene, che non era il tempo adatto in quanto ‘a pezza ...era ‘nfosa.
Esaminati topi, ratti, sorci,e sorcetti, affrontiamo ora (sia pure, per fortuna, solo semanticamente) i grossi topi di fogna, quelli che in napoletano son detti
zoccole ‘e saittella che sono quegli immondi grossi roditori che ànno per loro habitat i condotti fongnarî, dai quali attraverso le c.d. saittelle e cioè le imboccature dei chiusini o le feritoie, poste lungo i marciapiedi delle città ed approntate per favorire verso le fogne il deflusso delle acque piovane, son soliti sortire, specialmente durante i caldi mesi estivi, per invadere le strade o i cortili di condominî, determinandone gli inquilini ai necessarî interventi antimurini.
Cominciamo ad illustrare la parola saittella che etimologicamente è corruzione del termine toscano saiettera o saettiera che era nelle antiche mura, lo spazio tra i merli da cui i difensori potevano tirare con l'arco, la balestra e sim., rimanendo al coperto; tale spazio e la parola che lo indicava è preso a riferimento per la forma di tronco di piramide che è sia della saiettiera (orizzontata in senso verticale) che della saittella(che invece è aperta orizzontalmente).
Rammenterò appena, per amor di completezza, che con linguaggio triviale, la parola saittella è usata anche per indicare, estensivamente, una donna di facili costumi, la stessa che come ò segnalato altrove è pure detta alternativamente: péreta o lòcena.
Mi piace rammentar qui un’icastica espressione partenopea che suona: Tant’anne dint’ê saittelle…E quanno addiviente zoccola!?
Ad litteram: Tanti anni (trascorsi ) nelle fogne… e quando diventerai un ratto?
Icastica domanda retorica che ironicamente si suole rivolgere, per bollarlo di inettitudine e/o incapacità, a chi da lunga pezza frequenti luoghi (scuola o bottega) e faccia esperienza,ma mai si decida ad apprendere e/o a mettere in pratica l’appreso, dimostrando cosí di non occupare proficuamente il tempo dell’apprendimento e di vanificare l’opera degli insegnanti.
La parola zoccola indica, come ò detto, innanzi tutto il grosso topo da fogna e solo per traslato la meretrice, la donna di malaffare quella che un tempo (…ora non piú!) soleva battere la strada nottetempo, come i grossi topi. Etimologicamente zoccola viene dal diminutivo femminilizzato sorcula di sorex/soricis e non faccia meriviglia che si sia usato un nome femminile per indicare un roditore che ovviamente può esser sia maschio che femmina; il fatto si è che molto spesso quando un quid sia grosso, in napoletano lo si intende femminile come capita ad es. con tammorra piú grossa del tammurro (tamburo) o con cucchiara (mestola) piú grande del cucchiaro (cucchiaio) e cosí via. In napoletano, ripeto, un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella
Raffaele Bracale

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