1.Dicette Pulicenella: I' nun so' fesso, ma aggi' 'a fà 'o fesso, pecché facenno 'o fesso, ve pozzo fà fesse!
Letteralmente: Disse Pulcinella: Io non sono stupido, ma devo fare lo stupido, perché facendo lo stupido, vi posso gabbare (e posso ottenere ciò che voglio, cosa che, se non mi comportassi da stupido, non potrei ottenere). La locuzione in epigrafe è uno dei cardini comportamentali della filosofia popolare napoletana che parte da un principio assiomatico che, un po’ presuntuosamente, afferma: Cca nisciuno è ffesso! Id est: Qui (fra i napoletani) non v'è alcuno stupido!E coloro che lo sembrano, lo fanno per ottenere un loro tornaconto… ed al proposito si richiama un’altra icastica espressione che suona: vestirse ‘a fesso.
Ad litteram: vestirsi da fesso. Espressione che si riferisce al comportamento di chi in talune occasioni fa lo gnorri, si defila, si chiama fuori, tenendo un atteggiamento irresoluto ed inetto per sviare da sé l’attenzione e non esser chiamato in causa in accadimenti che comporterebbero, in caso contrario, una sua fattiva e responsabile partecipazione, cose tutte che – invece – egli vuole escludere e non vuole conferire trincerandosi dietro una falsa, pretestuosa incapacità di pensiero e/o azione, quasi indossando, a mo’ di mascheratura, un abito da fesso, abito che per solito non è suo.Per es. si veste da fesso chi, mentendo, mostra, per non eseguirlo, di non intendere un comando; ancora: si veste da fesso, fingendosi tale, chi vuole indagare e venire a conoscenza di qualcosa che – normalmente – non lo riguarderebbe e che non apprenderebbe comportandosi in maniera ovvia e normale.
Con la voce fesso agg. e s. m. [f. -a] derivato quale part. pass. dal lat. findere si intende lo sciocco, il balordo, lo stupido, l’idiota, il cretino, lo stolto, il deficiente, l’imbecille, lo scimunito .
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2.'O Conte Mmerda 'a Puceriale
Letteralmente:Il conte Merda da Poggioreale. Cosí, per dileggio vien definito dal popolo napoletano colui che vanti falsamente illustri progenitori, o colui che si dia arie da nobiluomo incedendo con sussiego ed alterigia. Per la verità il personaggio in epigrafe esistette veramente in Napoli e tale nomignolo fu affibbiato dal popolo al patriarca di un’antica e facoltosa famiglia napoletana che aveva il possesso di una villa nella zona di Poggioreale. Tale signore (che per il solo fatto d’essere ricco e padrone d’una importante magione era accreditato d’esser nobile…) ebbe, sul finire del 1800, in appalto la gestione delle latrine comunali e si meritò ipso facto il sapido soprannome, quantunque avesse fatto ricorso ad un sottappalto affidando la reale manutenzione dei cessi pubblici al mitico Ernesto a Ffuria.
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3. Dicette 'o si' nutaro: Sulo 'o muorto à fatto 'o malo guadagno.
Disse il signor notaio: Solo il morto à fatto un cattivo guadagno (avendoci rimesso la vita)... tutti gli altri, diventandone eredi, ànno lucrato qualcosa!
si’ è l’apocope di si(gnore) e pertanto esige il segno diacritico dell’apostrofo. viene usato per solito davanti ad un sostantivo comune o davanti a nome proprio di persona (ad es.: ‘o si’ prevete= il signor prete,’o si’ nutaro= il signor notaio, ‘o si’ Giuanne = il signor Giovanni.) L’etimo del lemma signore da cui l’apocope a margine si’ è dal francese seigneur forgiato sul latino seniore(m) comparativo di senex=vecchio,anziano.
Ricordo che càpita spesso che sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria parlata , (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e grandissimi autori partenopei accreditati d’essere esperti e/o studiosi del napoletano la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto si’ (che è di per sé – come ò sottolineato - è l’apocope di si(gnore) ) con uno scorretto
zi’ (che è l’apocope di uno zio/a etimologicamente derivante da un tardo latino thiu(m) e thia(m) da un greco tehîos ) ed usato quasi esclusivamente nei vocativi (o’ zi’!) per cui si ottenengono gli scorretti zi’prevete, zi’ nutaro o zi’ Giuanne.
Per restare nel tema suggerito dal si’= signore parlo di un altro monosillabo che è usato per indicare la voce signora; si tratta di
--sié che è l’apocope di si(gnora) e pertanto esigerebbe il segno diacritico dell’apostrofo, ma gli si preferisce l’accento per evitare che si possa leggere síe piuttosto che correttamente sié. La voce apocopata a margine etimologicamente deriva da una voce francese femminilizzata e metatetica di seigneur→seigneuse→ sie-(gneuse). Purtroppo anche per il caso di questo sié càpita spesso che, come ò détto e qui reitero, sulla bocca del popolino, meno conscio o attento della/alla propria parlata, (la qual cosa non fa meraviglia)ma – inopinatamente – pure sulle labbra e sulla punta della penna di taluni pur grandi e/o grandissimi autori partenopei ed anche di taluni cattedratici accreditati d’essere esperti e/o studiosi del napoletano la voce a margine è resa con la trasformazione del corretto sié= signora con uno scorretto
zi’= zia; mi è infatto occorso di lèggere in una pubblicazione sui proverbi napoletani (di cui per carità di patria taccio il nome del compilatore) un notissimo proverbio riportato come Dicette 'o zi' moneco,a’ zi’ Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." invece che correttamemente Dicette 'o si' moneco,â sié Badessa: "Senza denare, nun se cantano messe..." ed ovviamente il fatto scorretto non consiste nell’avere usato la grafia a’ al posto di â per dire alla, quanto per avere usato impropriamente zi' moneco, e zi’ Badessa al posto di si' moneco, e sié Badessa.
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4. Hê 'a murí rusecato da 'e zzoccole e 'o primmo muorzo te ll'à da dà mammèta.
Che possa morire rosicchiato dai grossi topi di fogna ed il primo morso lo devi avere da tua madre. Icastica maledizione partenopea giocata sulla doppia valenza del termine zoccola che, a Napoli,con derivazione dal lat. sorcula diminutivo di sorex identifica sia il topo di fogna che la donna di malaffare.
5. 'O purpo se coce cu ll'acqua soja.
Letteralmente: il polpo si cuoce con la propria acqua, non à bisogno di aggiunta di liquidi. Id est: Con le persone di dura cervice o cocciute è inutile sprecare tempo e parole, occorre pazientare e attendere che si convincano da se medesime.
6.'A gatta, pe gghí 'e pressa, facette 'e figlie cecate.
La gatta, per andar di fretta, partorí figli ciechi. La fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sempre dar tempo al tempo, se si vuol portare a termine qualcosa in maniera esatta e confacente.
7.Fà 'e ccose a capa 'e 'mbrello.
Agire a testa (manico) di ombrello. Il manico di ombrello è usato eufemisticamente in luogo di ben altre teste. La locuzione è usata a sapido commento dell’ errato comportamento di chi agisce con deplorevole pressappochismo, disordinatamente, grossolanamente, alla carlona.
8.Chi nun sente a mmamma e ppate, va a murí addó nun è nato...
Letteralmente: chi non ascolta i genitori, finisce per morire esule. Id est: bisogna ascoltare e mettere in pratica i consigli ricevuti dai genitori e dalle persone che ti vogliono bene, per non incorrere in disavventure senza rimedio.
9.È gghiuta 'a mosca dint' ô Viscuvato...
Letteralmente: È finita la mosca nella Cattedrale. È l'icastico commento profferito da chi si lamenta d' un risibile asciolvere somministratogli, che non gli à tolto la fame. In effetti un boccone nello stomaco, si sperde, quasi come una mosca entrata in una Cattedrale... Per traslato la locuzione è usata ogni volta che si riceva qualcosa, parva res, rispetto alle attese...
10.Cu 'nu sí te 'mpicce e cu 'nu no te spicce.
Letteralmente: dicendo di sí ti impicci, dicendo no ti sbrighi. La locuzione contiene il consiglio, desunto dalla esperienza, di non acconsentire sempre, perché chi acconsente, spesso poi si trova nei pasticci... molto meglio, dunque, è il rifiutare, che può evitare fastidi prossimi o remoti.
11.Tené'a salute d' 'a carrafa 'e zecca.
Letteralmente:avere la consistenza della caraffa della Zecca. Ossia essere gracilissimo e cagionevole di salute quasi come l'ampolla di quasi un litro usata per le tarature, esistente presso la Zecca di Napoli che era di sottilissimo vetro e perciò fragilissima.
12.Lasseme stà ca stongo'nquartato!
Lasciami perdere perché sono irritato, scontroso, adirato. Per cui non rispondo delle mie reazioni... La locuzione prende il via dal linguaggio degli schermidori: stare inquartato, ossia in quarta posizione che è posizione di difesa, ma anche di prevedibile prossimo attacco il che presuppone uno stato di tensione massima da cui possono scaturire le piú varie reazioni.
13.Carcere, malatia e necissità, se scanaglia 'o core 'e ll'amice.
Carcere, malattia e necessità fanno conoscere la vera indole, il vero animo, degli amici.
14.Murí cu 'e guarnemiente 'ncuollo.
Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancora i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere...
15.Nisciuno te dice: Lavate 'a faccia ca pare cchiú bbello 'e me.
Nessuno ti dice: Lavati il volto cosí sarai piú bello di me. Ossia:non aspettarti consigli atti a migliorarti, in ispecie da quelli con cui devi confrontarti.
16.Quann' uno s'à dda 'mbriancà, è mmeglio ca 'o ffa cu 'o vino bbuono.
Quando uno decide d'ubriacarsi è meglio che lo faccia con vino buono. Id est: Se c'è da perdere la testa è piú opportuno farlo per chi o per qualcosa per cui valga la pena.
17.Sciorta e cauce 'nculo, viato a cchi 'e ttène!
Beato chi à fortuna e spintarelle ovvero raccomandazioni
18.Ancappa pe primmo, fossero pure mazzate!
Letteralmente: Acchiappa per primo, anche se fossero botte! L'atavica paura della miseria spinge la filosofia popolare a suggerire iperbolicamente di metter le mani su qualsiasi cosa, anche rischiando le percosse, per non trovarsi - in caso contrario - nella necessità di dolersi di non aver niente!
19.A pavà e a murí, quanno cchiú ttarde se po’.
A pagare e morire, quando piú tardio sia possibile! È la filosofia e strategia del rimandare sine die due operazioni molto dolorose, nella speranza che un qualche accadimento intervenuto ce le faccia eludere.
20.'Na vota è prena, 'na vota allatte, nun 'a pozzo maje vatte'
Letteralmente:una volta è incinta, una volta dà latte, non la posso mai picchiare...Come si intuisce la locuzione era in origine usata nei confronti della donna. Oggi la si usa per significare la situazione di chi in generale non riesce mai a sfogare il proprio rancore e o rabbia a causa di continui e forse ingiustificati scrupoli di coscienza.
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21.Lèvate 'a miezo, famme fà 'o spezziale.
Letteralmente: togliti di torno, lasciami fare lo speziale...Id est:lasciami lavorare in pace - Lo speziale era il farmacista, l'erborista, non il venditore di spezie. Sia l'erborista che il farmacista erano soliti approntare specialità galeniche nella cui preparazione era richiesta la massima attenzione poiché la minima disattenzione o distrazione generata da chi si intrattenesse a perder tempo nel negozio o laboratorio dello speziale avrebbe potuto procurar seri danni: con le dosi in farmacopea non si scherza! Oggi la locuzione è usata estensivamente nei confronti di chiunque intralci l'altrui lavoro in ispecie la si usa nei confronti di quelli (soprattutto incompetenti) che si affannano a dare consigli non richiesti sulla miglior maniera di portare avanti un'operazione qualsivoglia!
22.Articolo quinto:chi tène 'mmano à vinto!
La locuzione traduce quasi in forma di brocardo scherzoso il principio civilistico per cui il possesso vale titoloInfatti chi tène 'mmano, possiede e non è tenuto a dimostrare il fondamento del titolo di proprietà.In nessuna pandetta giuridica esiste un siffatto articolo quinto, ma il popolo à trovato nel termine quinto una perfetta rima al participio vinto.
23.Cu muonece, prievete e ccane, hê 'a stà sempe cu 'a mazza 'mmano.
Con monaci, preti e cani devi tener sempre un bastone fra le mani. Id est: ti devi sempre difendere.
24.Chi fraveca e sfraveca, nun perde maje tiempo.
Chi fa e disfa, non perde mai tempo. La locuzione da intendersi in senso antifrastico, si usa a commento delle inutili opere di taluni, che non portano mai a compimento le cose che cominciano, di talché il loro comportamento si traduce in una perdita di tempo non finalizzata a nulla.
25.'A sciorta d' 'o piecoro: nascette curnuto e murette scannato...
Letteralmente: la cattiva fortuna del becco: nacque con le corna e morí squartato. La locuzione è usata quando si voglia sottolineare l'estrema malasorte di qualcuno che viene paragonato al maschio della pecora che oltre ad esser destinato alla fine tragica della sgozzatura deve portare anche il peso fisico e/o morale delle corna.
26.È fernuta 'a zezzenella!
Letteralmente: È terminata - cioè s'è svuotata - la mammella. Id est: è finito il tempo delle vacche grasse, si appressano tempi grami!
Zezzenella s.vo f.le diminutivo = mammellina; voce che accanto a zezzella è il diminutivo di zizza= mammella dal lat. titta(m).
27.È mmuorto 'alifante!
Letteralmente: È morto l'elefante! Id est: Scendi dal tuo cavallo bianco, è venuto meno il motivo del tuo sussieguo, della tua importanza, non conti piú nulla. La locuzione, usata nei confronti di chi continua a darsi arie ed importanza pur essendo venute meno le ragioni di un suo inutile atteggiamento di comando e/o sussieguo , si ricollega ad un fatto accaduto sotto il Re Carlo di Borbone al quale, nel 1742, il Sultano della Turchia regalò un elefante che venne esposto nei giardini reali e gli venne dato come guardiano un vecchio caporale che annetté al compito una grande importanza mantenendo un atteggiamento spocchioso per questo suo semplice compito. Morto l'elefante, il caporale continuò nel suo spocchioso atteggiamento e venne beffato dal popolo che, con il grido in epigrafe, gli voleva rammentare che non era piú tempo di darsi arie...
28.Chi se fa puntone, 'o cane 'o piscia 'ncuollo...
Letteralmente: chi si fa spigolo di muro, il cane gli minge addosso. E'l'icastica e piú viva trasposizione dell'italiano: "Chi si fa pecora, il lupo se la mangia" e la locuzione è usata per sottolineare i troppo arrendevoli comportamenti di coloro che o per codardia o per ingenuità, non riescono a farsi valere
29.Tròvate chiuso e piérdete chist' accunto...
Letteralmente: Tròvati chiuso e perditi questo cliente... Locuzione ironica che si usa quando si voglia sottolineare e sconsigliare il cattivo mercato che si stia per compiere, avendo a che fare con un contrattante che dal negozio pretenderebbe solo vantaggi a danno dell' altro contraente.
30. È mmeglio a essere parente ô fazzuletto ca â coppola.
Conviene esser parente della donna piuttosto che dell' uomo. In effetti, formandosi una nuova famiglia, è tenuta maggiormente in considerazione la famiglia d'origine della sposa che quella dello sposo.
31.Ogne strunzo tene 'o fummo sujo.
Letteralmente: Ogni stronzo sprigiona un fumo. Id est:ogni sciocco à modo di farsi notare
32.Cunsiglio 'e vorpe, rammaggio 'e galline.
Lett.:consiglio di volpi, danno di galline. Id est: Quando confabulano furbi o maleintenzionati, ne deriva certamente un danno per i piú sciocchi o piú buoni. Per traslato: se parlottano tra di loro i superiori, gli inferiori ne subiranno le conseguenze.
33.Chiacchiere e tabbacchere 'e lignammo, 'o bbanco nun ne 'mpegna.
Letteralmente: chiacchiere e tabacchiere di legno non sono prese in pegno dal banco. Il banco in questione era il Monte dei Pegni sorto a Napoli nel 1539 per combattere la piaga dell'usura. Da esso prese vita il Banco di Napoli, fiore all'occhiello di tutta l'economia meridionale, Banco che è durato sino all'anno 2000 quando, a completamento dell'opera iniziata nel 1860 da Cavour e Garibaldi e da casa Savoia, non è stato fagocitato dal piemontese Istituto bancario San Paolo di Torino. La locuzione proclama la necessaria concretezza dei beni offerti in pegno, beni che non possono essere evanescenti come le parole o oggetti non preziosi. Per traslato l'espressione si usa nei confronti di chi vorrebbe offrirci in luogo di serie e conclamate azioni, improbabili e vacue promesse.
34.Femmene e gravune: stutate tégnono e appicciate còceno.
Letteralmente: donne e carboni: spenti tingono e accesi bruciano. Id est: quale che sia il loro stato, donne e carboni sono ugulmente deleterii.
35.Vení armato 'e pietra pommece, cuglie cugli e fierre 'e cazette.
Letteralmente: giungere munito di pietra pomice, aghi sottili e ferri(piú doppi)da calze ossia di tutto il necessario ed occorrente per portare a termine qualsivoglia operazione cui si sia stati chiamati. Id est: esser pronti alla bisogna, essere in condizione di attendere al richiesto in quanto armati degli strumenti adatti.
36.Jí stocco e turnà baccalà.
Letteralmente: andare stoccafisso e ritornare baccalà. La locuzione viene usata quando si voglia commentare negativamente un'azione compiuta senza che abbia prodotto risultati apprezzabiliIn effetti sia che lo si secchi-stoccafisso-, sia che lo si sali-baccalà- il merluzzo rimane la povera cosa che è.
37.Essere ll'urdemu lampione 'e Forerotta.
Letteralmente:essere l'ultimo fanale di Fuorigrotta. Id est: Non contare nulla, non servire a niente. La locuzione prese piede verso la fine dell' '800 quando l'illuminazione stradale napoletana era fornita da fanali a gas in numero di 666; l'ultimo lampione (fanale) contraddistinto appunto col numero 666 era situato nel quartiere di Fuorigrotta, zona limitrofa di Napoli, per cui il fanale veniva acceso per ultimo, quando già splendevano le prime luci dell' alba e la di lui utilità veniva ad essere molto limitata.
38.Jí truvanno a Cristo dinto a la pina.
Letteralmente: cercare Cristo nella pigna. Id est:impegnarsi in una azione difficoltosa,lunga e faticosa destinata a non aver sempre successo. Anticamente il piccolo ciuffetto a cinque punte che si trova sui pinoli freschi era detto manina di Cristo, andarne alla ricerca comportava un lungo lavorio consistente in primis nell'arrostimento della pigna per poi cavarne gli involucri contenenti i pinoli, procedere alla loro frantumazione e giungere infine all'estrazione dei pinoli contenuti;spesso però i singoli contenitori risultavano vuoti e di conseguenza la fatica sprecata.
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