IL VERBO METTERE E LA SUA FRASEOLOGIA
parte prima.
Questa volta, prendendo spunto
dall’antica locuzione
METTERE o MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO
è stato il
caro amico P. G. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad
indicare solo le iniziali di nome e cognome) a
chiedermi via e-mail di chiarirgli
significato e portata delle
espressioni partenopee costruite con il verbo METTERE .
Mi accingo alla bisogna
elencando dapprima le espressioni cosí
come mi sovvengono per poi esaminarle analiticamente:
1- Mettere o menà ‘o vellículo ô ffuoco.
2 – Mettere ‘o ppepe ‘nculo â zoccola.
3 – Mettere ‘a capa a ffà bbene.
4 – Mettere’a coppa.
5 – Mettere ‘a lengua ‘int’ô ppulito.
6 – Mettere ‘a supponta.
7 – Mettere ‘a vammacia ‘mmocca.
8 – Mettere campanielle ‘ncann’â gatta.
9 – Mettere carne a ccocere.
10 – Mettere mane.
11 - Mettere mane ê fierre oppure Mettere mane â tela.
12 – Mettere mane â sacca.
13 - Mettere ‘e mmane ‘nnanze.
14 - Mettere recchie p’’e
pertose.
15 - Mettere ll’uoglio ‘a copp’ô peretto.
16 - Mettere ‘mpuzature.
17 - Mettere ‘na pezza a cculore.
18 - Mettere ‘na pezza arza.
19 – Mettere puteca.
20 – Mettere spia.
21 – Mettere ‘ncalannario .
22 – Mettere nciuce.
23 – Mettere prete ‘e ponta.
24 – Mettere tenna.
25 – Mettere a uno ‘ncopp’a ‘nu
puorco.
26 – Mettere ‘o ssale ‘ncopp’â códa/córa.
27 – Metterse ‘e casa e pputeca.
28 – Metterse ‘e ddete ‘nculo e
caccià ‘anielle.
29 – Metterse ‘a lengua ‘nculo.
30 – Metterse ‘mmiezo.
31 – Metterselo dint’ ê chiocche.
32 – Metterse pavura.
33 – Metterse ‘nu cienzo
‘ncuollo.
34 – Metterse scuorno.
35 – Metterse ‘o cappotto ‘e
lignammo.
36 – Mettere ‘a si-loca arreto.
37 - Miettele nomme penna!
38 - Metterse cu ‘a panza e ccu
‘o penziero.
Prima di principiare l’esame analitico delle locuzioni diciamo súbito
che il verbo mettere à nel napoletano varie
accezioni, quali disporre, collocare, porre (anche fig.) indossare, vestire etc. ed è voce dal
lat. mittere 'mandare' e poi
'porre, mettere'.
E
veniamo all’analisi delle locuzioni:
1- Mettere o menà ‘o vellículo ô ffuoco.
Letteralmente:
Mettere o buttare l’ombelico ( piú esattamente il cordone ombelicale) al fuoco.
Antica espressione partenopea risalente addirittura al ‘600 (attestata nel
Cortese, Basile, Trinchera ed altri, con la quale si era e si è soliti riferirsi all’atteggiamento da profittatore di chi, non invitato, faceva o fa in modo di appalesarsi in casa di amici e/o
semplici conoscenti in occasione di una qualche
ricorrenza o festività per partecipare ad una approntata festa, comportante
distribuzione, spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in
casa di amici e/o semplici conoscenti
all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola
imbandita, invito in uso tra i
napoletani che non lesinano a nessuno un
pasto o una libagione.Di chi, non espressamente invitato, si comportasse in modo di trovarsi presente
all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si diceva e si dice che aveva
miso o aveva menato ‘o velliculo ô
ffuoco! L’espressione nacque allorché, in tempi andati, le donne partorivano in casa assistite da una
o piú levatrici dette mammàne oppure meno opportunamente (e
qui di sèguito chiarirò)vammane Costoro una volta che la puerpera aveva
partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a
e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo
di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con
ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i
genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti
coloro che, invitati o no, fossero
intervenuti al rito della ustione
del cordone ombelicale. Dalla imitazione di
questa situazione nacque il modo di dire di cui all’epigrafe riferita a
tutti coloro che profittassero di una ricorrenza o festività per partecipare
senza invito ad una approntata festa,
comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a
tutti coloro che avessero l’abitudine di
presentarsi, senza preventivamente annunciarsi, in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di
scroccare un invito alla tavola imbandita. Tutto quanto qui detto è da riferirsi espressamente al cittadino
privato che approfitti di una situazione festevole per parteciparvi e
satollarsi di cibo o bevande. Per indicare il medesimo atteggiamento da
profittatore tenuto inizialmente non da
comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo l’espressione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui.
Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora
usata quando si voglia commentare il
violento atteggiamento di chi vuole
scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati
favorevoli, ma non espressamente previsti per lui. Temporibus illis, al tempo
del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i
soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della
strada di Toledo, erano usi
aggirarsi all’ora dei pasti per le
strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore
di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver
conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a
tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione
appujià
‘a libbarda (poggiare
l’alabarda) Ad litteram: appoggiare
l’alabarda che valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare
di una qualsivoglia situazione
opportuna per conseguirne risultati
favorevoli Si tratta dunque di
espressione dal significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è
invece usata piú limitatamente per
commentare l’atteggiamento di chi ottenga, contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti
durante un festeggiamento).
menà verbo trans. = buttare, sospingere
dentro o fuori ed anche, ma meno
comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con
forza, picchiare; l’etimo è dal tardo
lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e
percosse', deriv. di minae 'minacce';
velliculo s.vo m.le = letteralmente ombelico,
ma nella fattispecie solo una parte di esso
e cioè il cordone ombelicale quello
che una volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente
legato e ripiegato verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di
velliculo è il medesimo di ombelico e
cioè il lat. umbilicu(m), affine
al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il
napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca
barca→varca etc.), il
raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso
diminutivo ulo/olo← olus.
vammana/ mammana s.vo f.le=
levatrice, donna esperta che assiste le partorienti; per il vero nel parlato
comune popolare la voce usata per indicare la levatrice e cioè colei che
assiste la puerpera e ne raccoglie il parto è mammàna con derivazione
da un lat. volgare *mammàna(m); la
voce vammana
( pur derivata dalla medesima voce del lat. volgare *mammàna(m)) ma con forma dissimilata
nella cons. d’avvio che da mammàna
passa a vammana è usata, nel parlato
comune popolare, non per indicare una vera e propria levatrice che assiste la
puerpera e ne raccoglie il parto, ma per
significare, in senso dispregiativo, quelle praticone, prive di adeguata
preparazione, ma non di esperienza,
aduse ad esercitare
pratiche abortive clandestine
(spesso servendosi di mezzi di fortuna,
inidonei e pericolosi).Che si tratti di
termine dispregiativo è dimostrato dal fatto che già anticamente (cfr. Basile)
la voce vammana era usata quale epiteto.
appujià = verbo tr. 1in primis appoggiare, poggiare, avvicinare una cosa a un'altra che la
sorregga, 2(fig.) aiutare,
favorire; sostenere; l’etimo della voce
napoletana, cosí come della corrispondente dell’italiano è dal lat. volg. *appodiare,
deriv. del greco pódion 'piedistallo' ma nel verbo napoletano è avvenuta
la chiusura della tonica ó →u, ed in luogo della dentale d che è caduta
s’è adottato il suono di
transizione j
(segue)
Brak
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