SE
FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO. variante: SE
FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue)
sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome
Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano
principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e
rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per
non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si
vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue
migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano
freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere.
Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni
di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a sproposito del proprio
operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto.
Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento
dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue
fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui
ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua
anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera
amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata
casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella. Successivamente,
forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva coinvolto il suo nome
in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro (personaggio reale ed
esistente) in quello di un inventato di Pantusco che, d’altro canto,
storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo persona inesistente)
con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora brevemente una storia.
Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte
faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia
della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata
sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome
diverso) come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello
di Santa Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In
quel riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed
al lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache
intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina,
amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto
e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed
aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se
lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a
refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane
potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti minestrine.
Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la suora addetta
alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di semola cotta nel
latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla sarebbe stato un
sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora cuciniera vi cacciò dentro un paio di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca
tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”,
disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e
risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta
di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino
bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo
battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con
le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò
il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema
pasticciera e delle amarene candite.
se fruscia = si vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing.
ind. presente) del riflessivo frusciarse
da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare sta per fare in
pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di vantarsi, gloriarsi,
pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi con un po’ di fatica
in quanto la strada da percorrere è impervia, al significato primo del
riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra del proprio impegno. Pintauro:
Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi pasticciere (sfogliatelle,santarose,
zeppole di san Giuseppe, code di aragoste ed altri dolci) Pasquale Pintauro che
ebbe dapprima osteria e poi pasticceria in un piccolo antichissimo locale sito
in Napoli alla via Toledo; di tale oste/dolciere mancano precise note
biografiche; la tradizione vuole che fosse il nipote d’una monaca di clausura,
che – come ò détto – gli forní, in punto
di morte, la ricetta della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
Pantusco
inesistente personaggio il cui nome inventato dal popolino venne usato per
sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato sentondosi ingiustamente
chiamato ironicamente in causa, con la
prima locuzione in esame, come
produttore di dolci non freschissimi.
sfugliatelle =
sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella piccolo,
gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella riccia) o
frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema di
semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un derivato
di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
jute= andate voce verbale (part.
pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
acito= aceto s.vo m.le prodotto della
fermentazione del vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento,
nella conservazione di prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat.
acitu(m)); l’espressione jí acito vale inacidire, andare a male ed è detto
soprattutto dei cibi che, o perché confezionati con ingredienti non
freschissimi o perché mal conservati o esposti ad improprî agenti atmosferici,
perdono l’originario sapore e diventano acidi, rovinandosi tanto da non esser
piú commestibili; in senso estensivo e traslato l’espressione può essere usata
anche nei riguardi di situazioni interpersonali che, per svariati motivi, si
logorano perdendo l’originaria freschezza fino a determinare la interruzione di
quei rapporti logorati.
Raffaele
Bracale 6/03/07
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