T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA ED ALTRO
L’espressione: T’’a faje cu ll’ove ‘a trippa! è ad litteram: Te la fai(te la prepari) con le uova la trippa! Cosí, con ironia e sarcasmo , ci si usa rivolgere a chi si sia cacciato nei guai o si sia posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua dura necessità di adoperarsi nel modo migliore per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia infilato, situazione che spesso però non si è in grado di risolvere…; come se si volesse consigliare chi, per sopravvenuti problemi economici che non gli consentissero di nutrirsi acconciamente, fosse costretto a cibarsi del quinto quarto, di migliorarlo, renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova; ed in effetti la trippa (sebbene a taluni dai gusti plebei sia molto gradito) non è cibo da ritenersi tra i piú fini e/o gustosi e solo un’aggiunta di uova, erbe aromatiche, pomidoro e formaggio può migliorarne la preparazione, rendendolo maggiormente appetibile e – figuratamente – meno gravoso il doversene cibare!
trippa = trippa, stomaco di bovino macellato, che, ridotto in strisce sottili e preparato in vari modi, costituisce una vivanda tradizionale della cucina italiana; l’etimo della voce a margine è dall’arabo tarb. A chiusura di quanto qui detto a proposito dell’espressione in cui è protagonista la trippa, riporto qui di sèguito ciò che dissi alibi circa uno dei modi piú caratteristici di preparare a Napoli in alternativa a quella con le uova, la vivanda trippa; parlerò cioè della c.d. mariscialla.
A Napoli una volta esistevano ed in qualche vicolo della vecchia città se ne può incontrare ancora qualcuno, i ventraiuoli cioè dei venditori ambulanti che su attrezzati carrettini trainati a mano servivano le trippe cioè il quinto quarto della bestia macellata e tali trippe opportunamente lavate, lessate e sbiancate erano servite ben affettate e ridotte in piccoli pezzi, disposti su fogli di carta oleata ed erano da portare alla bocca con le dita senza l’ausilio di alcuna posata o attrezzo cosparsi di parecchio sale ed irrorati con il succo di limone; spesso affettavano la trippa lessata (specialmente la parte detta cientopelle) in strisce larghe e lunghe come i galloni dei marescialli dell’epoca murattiana quando si indossavano divise fantasmagoriche , per cui i ventraiuoli battezzarono mariscialla la zuppa ricavata da frattaglie di vitello bollite con aggiunta solo di poche erbe aromatiche; la zuppa era versata su biscotti di granturco detti freselle (dal latino frendere cioè spezzettare, rompere) salata e ben pepata ed era servita in piccole ciotole di terracotta. Era una zuppa scarsa di condimento, ma per il suo basso costo, nei rigidi mesi invernali era consumata dalle classi meno abbienti, in sostituzione di un corroborante brodo di manzo o di gallina che quasi nessuno si poteva permettere.
Esaurito cosí l’argomento trippa passiamo ad un’altra tipica espressione partenopea:
te ce vo’ ‘na piccula cu ‘o limone espressione che tradotta ad litteram è: ti ci vuole (cioè ti abbisogna) una piccola con il limone… L’espressione che – come chiarirò – in origine pretese, quantunque non sempre in maniera veritiera, di suggerire un rimedio igienico-sanitario, passò poi nel parlato comune per commentare sarcasticamente l’ingrata situazione di chi, trovandosi in una situazione incresciosa e fastidiosa, dovesse adoperarsi a trovarne una soluzione od un rimedio pur che fosse che gli permettesse di superare l’impasse. In origine ‘a piccula cu ‘o limone indicò una contenuta, ristretta, concentrata premuta di un solo limone senza aggiunta d’altro liquido, bibita che veniva servita a richiesta presso le c.d. banche ‘e ll’acqua (mescite di acqua) in alternativa alle pletoriche limunate che erano grandi bibite preparate con premute di piú limoni, allungate con parecchia acqua ‘e mmummera: acqua ferrata prelevata da un’antichissima fonte esistente a Napoli al Chiatamone (dal greco platamon= grotte platamonie, grotte di roccia marina presenti sotto i contrafforti del monte Echia; la fonte però oggi è purtroppo definitivamente inglobata in talune costruzioni e sottratta al gratuito uso del popolo) e portata alle banche ‘e ll’acqua per la vendita al minuto in tipici panciuti orci di creta a doppia ansa detti mummare ed al sing. mummara (il cui etimo è dal greco bombylia con cambio di suffisso bombyra ed assimilazione *bommara→mmommara); la mmommara se piccola (monoporzioni) diventa mmummarella/e ; ordunque mentre la c.d. piccula cu ‘o limone veniva richiesta e poi sorbita da chi fosse affetto da problemi digestivi (per aver magari mangiato grevemente od avidamente della trippa o altro cibo) nella speranza che il succo del limone avesse effetti benefici che tuttavia non sempre aveva in quanto talvolta si aggiungeva, con il limone, acidità ad acidità, la limunata era invece una gran bibita rinfrescante sorbita il piú delle volte durante i mesi estivi, per combattere la calura, e tale bibita talora veniva fatta artificialmente spumeggiare addizionandola rapidamente di pochissimo bicarbonato. Partendo dalla pretesa idea che ‘a piccula cu ‘o limone fosse un rimedio si estese l’espressione a significare e a sarcasticamente commentare, come ò detto, tutte quelle situazioni fastidiose a cui occorrese porre un rimedio pur che fosse.
In chiusura faccio notare che la voce piccula usata nell’espressione non è esattamente napoletana, ché in lingua napoletana s’usa piccerella/piccerillo= piccina/piccino,ma poiché le voci piccerella/piccerillo a Napoli vengono usate con riferimento ad esseri animati (uomini o bestie) ecco che si adottò l’adattamento della voce italiana piccola→piccula persignificare una cosa contenuta e cioè la bibita de qua. raffaele bracale
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