domenica 10 dicembre 2017

VARIE 17/1259



1.PARE ‘O CARRO ‘E BBATTAGLINO
Letteralmente: sembra il carro di Battaglino. Id est: ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori si dice che sembra il carro di Battaglino; ugualmente ogni altra riunione di persone caotica, disordinata e confusa oltre che rumorosa si dice che sia simile ad un famoso carro che veniva usato a Napoli per una processione votiva della sera del sabato santo, processione promossa dalla Cappella della SS. Concezione a Montecalvario. Detta Cappella era stata fondata nel 1616 dal nobile Pompeo Battaglino( ne mancano precise notizie biografiche , ma tra il 1619ed il 1625 fu presidente della R. Camera della Sommaria che (1444-1806) fu un organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell'antico regime angioino operante nel Regno di Napoli; fu fondata nel 1444 da Alfonso V d'Aragona, che - nell'ambito della sua riforma dell'ordinamento giudiziario - unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum (Corte dei Maestri Razionali) e la Summaria audentia rationum (Camera dei Conti). Si tenga conto, peraltro, del fatto che, in latino, ratio significa anche conteggio, enumerazione, calcolo (da cui il termine ragioneria). La Regia Camera fu proclamata da re Ferrante (noto con il nome di Ferdinando I di Napoli (2 giugno 1423 –† 28 gennaio 1494), figlio naturale di Alfonso V di Aragona e I di Sicilia e di Napoli, fu re di Napoli dal 1458 al 1494.) Tribunale Supremo, con competenza a giudicare in materia fiscale.); sul carro che dal nobile Pompeo Battaglino prese il nome, era portata in processione l'immagine della Madonna accompagnata da un gran numero di musici e cantori.In ricordo di détto accadimento carro, ogni mezzo di locomozione che sia stipato di vocianti viaggiatori, o ogni riunione disordinata e chiassosa si dice che sembri il carro di Battaglino.
carro s.vo m.le carro, veicolo da trasporto a due o quattro ruote, trainato da uno o piú animali da tiro; voce dal lat. carru(m) df’origine gallica.
2.PARE ‘O CIUCCIO ‘E FECHELLA: TRENTATRÉ CCHIAJE E PPURE ‘A CORA FRÀCETA!
Ad litteram: Sembra l’asino di Fichella: trentatré piaghe ed anche la coda marcia. Divertente, sarcastica espressione (nata a Napoli ,e ne dirò, in àmbito sportivo intorno al 1929), usata in riferimento a chi realmente sia o in riferimento a chi faccia le viste di essere di salute estremamente malferma, continuamente in preda ad acciacchi, malesseri piccoli o grandi, cosa che gli impedisce di attendere adeguatamente con costanza e congruenza ai proprî uffici con conseguente fastidio di parenti o colleghi che devono sobbarcarsi anche il suo lavoro. Questo( ma non si sa quanto veridicamente) malmesso, malaticcio, cagionevole individuo viene paragonato ad un famoso asino, di proprietà d’un tal Fechella (di cui dirò), usato originariamente per piccoli trasporti di derrate alimentari e/o oggettistica, asino che gravato di basto ne aveva la schiena piagata in piú punti, asino di cui si diceva che perfino la coda fosse marcita; a differenza però dell’individuo cui è paragonato il solerte asino, a malgrado delle sue afflizioni continuava ad essere adibito costantemente al suo lavoro e non se ne lagnava. Tuttavia il paragone tra il piagato asino e chi sia piú o meno autenticamente in modo continuo oppresso, abbattuto, prostrato, avvilito, tormentato, perché afflitto da malanni, acciacchi, malattie ricorrenti, m’appare ugualmente icasticamente calzante! Ciò precisato diamo dapprima un rapido sguardo alle voci dell’espressione, riservandoci di dire in coda del Fechella e della storia del suo asino.
ciuccio s.vo m.le = asino, ciuco, quadrupede domestico da tiro, da sella e da soma, con testa grande, orecchie lunghe e diritte, mantello grigio ed un fiocco di peli all'estremità della coda, ritenuto paziente e cocciuto nonché (ma non se ne intende il perché) ignorante; varie sono le proposte circa l’origine della parola : chi dal lat. cicur= mansuefatto domestico; chi dal lat. *cillus da collegare al greco kíllos= asino; chi dallo spagnolo chico= piccolo atteso che l’asino morfologicamente è piú piccolo del cavallo; son però tutte ipotesi che non mi convincono molto; e segnatamente non mi convince (in quanto morfologicamente troppo arzigogolata) quella che si richiama all’iberico chico= piccolo, a malgrado che sia ipotesi che appaia semanticamente perseguibile. Non mi convincono altresí, in quanto m’appaiono forzate, l’idee che il napoletano ciuccio sia da collegare o all’italiano ciuco o all’italiano ciocco. Vediamo: il ciuco della lingua italiana è sí l’asino ma nessuno spiega la eventuale strada morfologica seguita per giungere a ciuccio partendo da ciuco; d’altro canto non amo qui come altrove quelle etimologie spiegate sbrigativamente con il dire: voce onomatopeica oppure origine espressiva; ed in effetti la voce italiana ciuco etimologicamente non viene spiegata se non con un inconferente origine espressiva; allo stato delle cose mi pare piú perseguibile l’idea che sia l’italiano ciuco a derivare dal napoletano ciuc(ci)o anziché il contrario. Men che meno poi mi solletica l’idea che ciuccio possa derivare dall’italiano ciocco= grosso pezzo di legno e figuratamente uomo stupido, insensibile ed estensivamente ignorante e dunque asino. No, no la strada semantica seguita è bizantina ed arzigogolata: la escludo!
In conclusione mi pare piú perseguibile l’ipotesi che la voce ciuccio vada collegata etimologicamente alla radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare che è il verso proprio dell’asino, secondo il seguente percorso morfologico: (s)ciach→ciuch→ciuccio; rammento che in siciliano l’asino è detto sceccu con evidente derivazione dalla medesima radice sciach dell’arabo sciacharà= ragliare;
trentatré agg. num. card. invar.
1 numero naturale corrispondente a trenta unità pi ú tre; nella numerazione araba è rappresentato da 33, in quella romana da XXXIII
2 posposto al sostantivo, con valore di ordinale;
3 come s.vo m.le la parola che il paziente è invitato a pronunciare durante l'auscultazione del torace, perché genera un fremito dal quale il medico può trarre indicazioni circa la presenza di affezioni broncopolmonari: dica trentatré!. dal lat. pop. volg. tr(i)enta+tre(s) per il cl. trigintatre(s);
chiaje s.vo f.le pl. di chiaja = piaga, 1 lesione della pelle o di una mucosa, piú o meno profonda, che presenta difficoltà a rimarginarsi: tené ‘o cuorpo cupierto ‘e chiaje (avere il corpo coperto di piaghe) | essere tutto ‘na chiaja(essere tutto una piaga), averne in tutto il corpo.
2 (fig.) grave male, flagello: ‘e chiaje d’ Eggitto( le piaghe d'Egitto), secondo il racconto biblico, le dieci calamità con cui Dio puní gli egizi che tenevano gli ebrei in schiavitú
3 (fig.) dolore cocente: tené ‘na chiaja dint’ ô core(avere una piaga nel cuore); arapí ‘na vecchia chiaja(riaprire una vecchia piaga), rinnovare un dolore non del tutto sopito ' mettere ‘o dito ‘ncopp’â chiaja (mettere il dito sulla, nella piaga), toccare un argomento doloroso, delicato, imbarazzante; anche, rilevare il punto critico di una situazione
4 (fig. scherz.) persona molto noiosa, lamentosa: sî ‘na chiaja(sei una piaga, fai la piaga).
Voce dal lat. plaga(m) con tipico mutamento di pl in chi (cfr. platea→chiazza - plumbeum→chiummo – plattu-m→chiatto etc.)
córa s.vo f.le = coda, estremità posteriore del corpo degli animali vertebrati, formata, nei mammiferi e nei rettili, da un prolungamento della colonna vertebrale. Voce dal lat. volg. coda(m), per il class. cauda(m) con tipica rotacizzazione osco-mediterranea d→r.
fràceta agg.vo f.le (al m.le fràceto) fradicia/o,marcia/o, marcita/o dal lat.fracida(m) f.le di fracidu(m) con sostituzione espressiva della occlusiva dentale sonora (d)
con l’occlusiva dentale sorda (t).
Fechélla letteralmente piccola fica in quanto la voce a margine è il diminutivo (cfr. il suff. élla) di fica (= albero e frutto del fico e per traslato vulva; con etimo dal lat. *fica(m) femminilizzazione di ficu(m) marcato sul greco súkon che à anche il medesimo significato osceno; piú spesso in Luogo del diminutivo f.le a margine se ne usa uno m.le: ficuciello con suff. m.le iello e suono di transizione – c – (cfr. balcone→balcun-c-iello); nel caso che ci occupa la voce a margine fu un soprannome cioè un appellativo familiare, scherzoso o ingiurioso, di una persona, diverso dal cognome e dal nome proprio, che prende generalmente spunto da qualche caratteristica individuale, fu un soprannome assegnato ad un piccolo, rinsecchito, vizzo omettino (un tale don Mimí(Domenico) Ascione, originario di Torre del Greco, ma non meglio identificato) che negli anni tra il 1928 ed il 1930, servendosi di un vecchio e malmesso somaro provvisto di basto e/o piccolo barroccio, forniva servizio di modesto trasporto di vettovaglie e/o masserizie nella zona del cosiddetto Rione Luzzatti (rione di case popolari edificato nella zona orientale della città, voluto da Luzzatti Luigi uomo politico ed economista italiano, presidente del Consiglio nel periodo 1910-1911 (Venezia 1841 -† Roma 1927). Orbene nella zona suddetta don Mimí Ascione(Fechella) ed il suo asino erano notissimi cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli (la Società Sportiva Calcio Napoli S.p.A., abbreviata in SSC Napoli e nota come Napoli, fu ed ancóra è la principale società calcistica della città di Napoli, militante all’attualità in Serie A; fu fondata il 1º agosto 1926 su iniziativa dell'industriale napoletano, ma di ascendenze semitiche, Giorgio Ascarelli(Napoli, 18 maggio 1894 – † ivi 12 marzo 1930) con il nome di Associazione Calcio Napoli, ed assunse poi l'attuale denominazione nel 1964.
Il simbolo del club attualmente è l'Asinello,ma in origine fu quello del Cavallo rampante sfrenato il medesimo del municipio cittadino, mentre il colore sociale è l'azzurro-cielo e non il pessimo  blu-savoia di talune improvvide, iettatorie divise talvolta indossate. Gioca attualmente le partite interne allo stadio San Paolo, inaugurato nel 1959.)Ripeto: cosí che quando nella zona fu edificato per le partite di calcio della squadra del Napoli uno stadio progettato da Amedeo D'Albora su commissione del primo presidente del Napoli l’industriale Giorgio Ascarelli ed edificato nei pressi della zona nota come "Rione Luzatti", sulle tribune dell'impianto costruite in legno, inizialmente denominato "Stadio Vesuvio"),sulle tribune,dicevo, tra i 20.000 spettatori ce n’erano numerosissimi provenienti appunto dalla predetta zona; la squadra di calcio del Napoli alle sue prime esibizioni non ebbe eccessiva fortuna ed i risultati ottenuti furono tutt’altro che esaltanti, cosí avvenne che all’ennesima sconfitta rimediata dalla squadra napoletana tra le mura amiche si levò la voce d’uno spettatore, quella d’un tal Raffaele Riano, tifoso azzurro e frequentatore della redazione del settimanale satirico ”Vaco ‘e pressa” ,molto diffuso a Napoli negli anni ’20; costui, avvezzo a motti di spirito, esclamò tra l’ilarità degli spettatori a lui prossimi: ”Ato ca cavallo sfrenato, chisto me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella!” (Altro che cavallo sfrenato, questo mi sembra l’asino di Fichella!);da quel momento l’emblema del Napoli calcio non fu piú il cavallo rampante e sfrenato, ma l’umile paziente laborioso asinello, segnato dalle piaghe procuategli dal basto.
3.PARE ‘O PASTORE D’ ‘A MARAVIGLIA
Letteralmente: Sembra il  pastore della meraviglia.
Détto icasticamente ed a mo’ di dileggio di chi (uomo o donna) mostri di avere l'aria imbambolata, incerta, statica ed irresoluta quale quella di certune figurine (pastori) del presepe napoletano settecentesco raffigurate appunto in pose stupíte ed incantate per il prodigio cui stavano assistendo; tali figurine in terracotta dall’aria inebetita, il popolo napoletano suole chiamarle appunto pasture d''a meraviglia, traducendo quasi alla lettera l'evangelista san Luca che scrisse: pastores mirati sunt.
4.PARÉ ‘O SERVEZZIALE I ‘O PIGNATIELLO
 Letteralmente: Sembrare il clistere ed il pentolino.. La locuzione viene usata per indicare due persone che difficilmente si separano, come accadeva un tempo quando i barbieri che erano un po' anche cerusici,chiamati per praticare un clistere si presentavano recando in mano l'ampolla di vetro atta alla bisogna ed un pentolino per riscaldarvi l'acqua occorrente...

5.PARÉ 'A SPORTA D''O TARALLARO.
Sembrare la cesta del venditore dei taralli. La locuzione è usata innanzi tutto per indicare chi, per motivi di lavoro o di naturale instabilità, si sposta continuamente, come appunto il venditore di taralli che con la sua cesta, per smaltire tutta la merce fa continui lunghi giri. C'è poi un'altra valenza della locuzione. Poiché gli avventori di taralli son soliti servirsi con le proprie mani affondandole nella cesta colma di tartalli per scegliere, alla stessa maniera c'è chi consente agli altri di approfittare e servirsi delle sue cose, ma lo fa pi ú per indolenza che per magnanimità.
A margine di questa espressione mi piace ricordare quello che fu uno degli ultimi, se non certamente l’ultimo venditore girovago di taralli, ch’io vidi tra gli anni ’50 e ’60 del 1900 percorrere in lungo e largo la città di Napoli armato della sua ballonzolante cesta colma di taralli,cesta mantenuta con l’epa e sorretta da una correggia di cuoio poggiata sul collo.All’epoca ch’io lo seppi, questo venditore girovago sempre allegro se non addirittura ridanciano, che rispondeva al nome di Fortunato era un vecchio ometto piccolo e grassoccio con delle gambette arcuate, nascoste da certe consunte braghe d’un colore indefinibile che, in origine, non dovevano essere state sue : erano infatti troppo larghe e sbuffanti; indossava nei mesi primaverili ed estivi una maglietta di cotone bianco a mezze maniche e portava sul capo un berretto a caciottella di panno bianco, del tipo di quelli indossati dai marinai sulle divise da fatica; d’inverno sostituiva la caciottella bianca con uno zucchetto di lana a piú colori ed infilava sulla solita maglietta di cotone bianco a mezze maniche, una sdrucita giacchetta del medesimo indefinito colore delle breghe, giacchetta che,anch’essa in origine, non doveva essere stata sua: troppo larga e sbuffante;completava l’abbigliamento invernale una unta e bisunta sciarpa di lana a piú colori ch’egli portava come un sacerdote porta la stola e che gli incorniciava il viso segnato dal tempo con una ragnatela di rughe profonde, ma sul quale tuttavia brillavano due occhi vivaci e talvolta addirittura lampeggianti. La piega amara (angoli all’ingiú) della bocca sdentata completava il disegno del volto di questo vecchio omettino che si annunziava di lontano con una sorta di squillante, musicale cantilena: “Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’!” E quale era mai la roba bella sottolineata da quello: ‘Nzogna, ‘nzo’ ?
Ma è chiaro che si trattava dei suoi gustosissimi, croccanti taralli ‘nzogna e ppepe ,impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, taralli ancóra caldi ( e sfido io: li portava in giro protetti sotto una doppia coltre di tela di sacco...) Poi passarono gli anni ed un giorno, anzi un brutto giorno improvvisamente non intesi piú quella squillante, musicale cantilena: Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’! Con ogni probabilità Fortunato aveva esteso il suo giro ed era passato a proporre a san Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e pepe ed io mi dovetti rassegnare a cercare altrove per trovare i taralli che Fortunato non mi avrebbe piú venduti. Per buona sorte mia (una volta nella vita!) facendo appena quattro passi in piú scovai proprio difronte all’Orto Botanico la bottega che don Leopoldo Infante aveva aperto. E mi andò da Dio; Furtunato teneva ‘a rrobba bbella? Ma don Liopoldo nun s’’o vedeva proprio!
BRAK

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