domenica 29 marzo 2020

PANARO e dintorni



PANARO e dintorni
Questa volta è stato il  caro amico A. M. (i consueti problemi di riservatezza mi costringono ad indicare solo le iniziali di nome e cognome) a  chiedermi via e-mail di spendere qualche parola per illustrare la voce napoletana  in epigrafe. gLI ò testualmente risposto:
 Ti accontento súbito dicendo che il s.vo m.le panaro [dal lat. panariu-m] indica 1) in primis  un cesto cioè  un capiente recipiente di vimini intrecciato a fondo alquanto convesso ovale o circolare, con sponde pronunciate,   provvisto di manico ad arco usato un tempo per il trasporto a mano  di alcune forme di pane per le quali non fosse necessario il trasporto a spalla con  la piú ampia gerla, in napoletano coffa (s.vo f.le [dall’arabo quffa «cesta», che è dal gr. κόϕινος= cofano); 2) per traslato semanticamente riconducibile alla convessità dell’uno e dell’altro il sedere, il fondoschiena soprattutto se  femminile. 3) riduttivamente il contenuto cesto di vimini intrecciato,a fonfo piatto, circolare, alta sponda provvisto di manico ad arco ed annessa corda per issarlo, usato dalle massaie napoletane per acquistar merci dai rivenditori ambulanti, calandolo da balconi o finestre.
La voce napoletana è presente, nelle suddette accezioni, in alcune espressioni che ti riporto:
1.AVIMMO PERDUTO A FFELIPPO E ‘O PANARO
Ad litteram:  abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi.Nel caso di  questa locuzione ancóra in uso,  il nome Felippo non è una corruzione di Filippi (come invece nell’espressione Ce vedimmo a fFelippo!), ma è il nome proprio Filippo  rammentato  in una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale  un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare  facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo poi  le reazioni del padrone,  evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe.
Nota linguistica
In questa ’espressione  il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla preposizione a, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da ô (crasi  di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è usata talvolta  per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto  quando però  tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a pàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che  latrava  ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare A segnacaso del complemento oggetto  non è da ricercarsi  come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso,  il latino classico, almeno  fino a quello ciceroniano,   mantenne il soggetto anteposto al  verbo reggente, per  il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto  nella lingua parlata si preferí porre     il soggetto   sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque  molto piú verosimile l’idea che tale particolare A segnacaso del complemento oggetto  sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello   che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’A come segnacaso del complemento oggetto.
2. ROMPERE LL'OVA DINT’Ô PANARO
Ad litteram: rompere le uova nel paniere id est:  infastidire qualcuno oltremodo mettendogli dispettosamente e per mera cattiveria i bastoni tra le ruote fino al punto di pregiudicargli e far fallire quanto da lui intrapreso, come chi si divertisse, senza un reale tornaconto o beneficio, ma solo per nuocere l’altra,  a frantumare le uova che una contadina avesse pazientemente raccolte in un cestino.
3. LL' AMMORE DA LUNTANO È COMME A LL' ACQUA 'INT' Ô PANARO.
L'amore di lontano è come acqua nel cestino di vimini Id est: è un lavorio inutile che si tramuta in tormento.
4. ROMPERE ‘O PANARO nella lucuzione/minaccia: T’AGGI’ ‘A ROMPERE ‘O PANARO
Ad litteram: rompere il sedere nella lucuzione/minaccia: Ti devo rompere il sedere eufemismo che varrebbe sodomizzare  ma che in realtà sostanzia la minaccia di voler impartire a qualcuno/a una solenne lezione con percosse durissime. . E qui penso di poter far punto convinto d’avere esaurito l’argomento, soddisfatto l’amico A.M. ed interessato qualcun altro dei miei ventiquattro lettori e piú genericamente  chi dovesse imbattersi in queste paginette.Satis est.
 Raffaele Bracale

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