martedì 14 novembre 2017

VARIE 17/1139



1.AVIMMO FATTO TRENTA, FACIMMO TRENTUNO.
Quando manchi poco per raggiungere lo scopo prefisso, conviene fare quell'ultimo piccolo sforzo ed agguantare la meta: in fondo da trenta a trentuno v'è un piccolissimo lasso. La locuzione rammenta l'operato di papa Leone X che fatti 30 cardinali, in extremis ne creò un trentunesimo.
2.AVIMMO FATTO: CUPINTE, CUPINTE: 'E CAVÉRE  FORA  I 'E FRIDDE  DINTO.
Letteralmente: abbiamo fatto cúpidi, cúpidi: i caldi (son restati) di fuori ed i freddi(sono entrati) dentro. Icastica espressione napoletana che fotografa una realtà nella quale stravolgendo la logica e l'attesa, si dia via libera a chi non è all'altezza della situazione e si lascia a bocca asciutta chi meriterebbe la priorità nel godimento di un quid (che - nella fattispecie - sono i favori di una donna).Tuttavia preciso che è inutile come che non significante la traduzione letterale; in senso ampio, come ò détto, la locuzione è usata per indicare l’incongruente azione di chi premi qualcuno oltre i propri meriti e al contrario lesini il plauso o il premio a chi invece spetterebbero; in senso piú strettamente letterale la locuzione si attaglia a quelle occasioni allorché spinti dalla cupidigia si siano concessi i favori di una donna a coloro che (freddi) non mostravano i necessarii requisiti fisici, e si siano erroneamente negati ai piú meritevoli caldi tenuti ingiustamente fuori sebbene mostrassero di essere adeguatamente... armati.
Letteralmente, di solito, in napoletano la parola cupínto sta per Cupído, miticologico nume dell’amore; ma penso che riferirsi a lui per la locuzione in esame sarebbe errato, non esistendo un nesso tra il benevolo nume suddetto e l’errato, inesatto comportamento ricordato nella seconda parte della locuzione; ò reputato piú giusto pensare, nella fattispecie della locuzione, che il termine cupinte (pl. di cupinto), oltre a fornire una adeguata rima con il termine dinto, sia stato usato come corruzione del termine cúpido: bramoso, agognante, desideroso, quella brama o desiderio che può spingere all’errore.
3.AVIMMO PERDUTO A FFELIPPO I ‘O PANARO
Ad litteram: abbiamo perduto Filippo e la cesta. Id est: ci abbiamo rimesso tutto: il capitale e gli interessi.Nel caso di questa locuzione ancóra in uso, affatto diversa dalla precedente il nome Felippo non è una corruzione di Filippi, ma è il nome proprio Filippo rammentato in una non meglio identificata farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale un tal Pancrazio aveva affidato al suo servo Filippo una cesta di cibarie , perché la portasse a casa, ma il malfido servo, riuniti altri suoi pari, si diede a gozzovigliare facendo man bassa delle cibarie contenute nella cesta, e temendo poi le reazioni del padrone, evitò di tornare a casa lasciando il povero Pancrazio a dolersi del fatto con la frase in epigrafe. Nota linguistica In questa ’espressione il verbo avimmo perduto regge due complenti oggetto ( il nome proprio Filippo ed il nome comune panaro), ma mentre Filippo è introdotto dalla preposizione A, ciò non avviene per il s.vo panaro che non viene introdotto da ô (crasi di a +’o(lo/il)), ma viene introdotto dal semplice art. determ. m. ‘o (lo/il); ciò avviene perché in napoletano la preposizione A è usata talvolta per introdurre, quasi in maniera indiretta, un complemento oggetto quando però tale complemento sia una persona o essere animato, mai un oggetto (es.: aggiu visto a ppàteto= ò visto tuo padre; aggiu ‘ntiso ô cane ca alluccava = ò sentito il cane che latrava ( dove ô = a + ‘o= a + il/lo); ma aggiu pigliato ‘o bicchiere= ò preso il bicchiere, aggiu ‘ntisa ‘a campana = ò sentito la campana.) La ragione di questa particolare A segnacaso del complemento oggetto non è da ricercarsi come sostiene qualcuno nel fatto che venuto meno il latino con le declinazioni comportanti esatte desinenze distinte per il nominativo e l’accusativo in un corrotto latino regionale volgare privo di desinenze distinte si sarebbe ingenerata un’ipotetica confusione in una frase del tipo: Petrus vidit Paulus non potendosi stabilire se il soggetto di vidit fosse Petrus o Paulus. Ciò è inesatto in quanto, se è vero che, ad un dipresso, il latino classico, almeno fino a quello ciceroniano, mantenne il soggetto anteposto al verbo reggente, per il latino della decadenza volgarizzatosi con l’entrata in contatto con le parlate locali, proprio per non ingenerare confusioni, soprattutto nella lingua parlata si preferí porre il soggetto sempre prima del verbo reggente. Reputo dunque molto piú verosimile l’idea che tale particolare A segnacaso del complemento oggetto sia un residuo plebeo di un latino volgare parlato, quello che produsse anche lo spagnolo, il portoghese ed il rumeno, lingue in cui perdura l’uso dell’A come segnacaso del complemento oggetto.
4.AVIMMO PERDUTO 'APARATURA  I 'E CENTRELLE.
Ad litteram: abbiamo perduto gli addobbi ed i chiodini. Anticamente, a Napoli in occasione di festività, specie religiose, si solevano addobbare i portali delle chiese con gran drappi di stoffe preziose; tali addobbi erano chiamati aparature; accaddeva però talvolta che - per sopravvenuto mal tempo, il vento e la pioggia scompigliasse, fino a distruggere gli addobbi ed a svellere drappi e chiodini usati per sostenerli; la locuzione attualmente viene usata per dolersi quando, per sopravvenute, inattese cause vengano distrutti o vanificati tuttti gli sforzi operati per raggiungere un alcunché.
5.AVUTÀ ‘O SCIAVECHIELLO
Ad litteram: girare il rastrello ovverossia: mutare posizione, girare le spalle, dar le terga ad argomenti o a stati, momenti sgraditi. La locuzione è mutuata dal comportamento dei pescatori di telline o altri piccoli molluschi che si raccolgono rastrellando la battigia umida, dove essi si annidano,con una sorta di rastrello munito di reticella che di solito viene faticosamente spinto in avanti per smuovere l’arena bagnata e trarne i molluschi. Allorché l’operazione diventa troppo faticosa i pescotori spostano il rastrello alle spalle ed invece di spingerlo, lo trascinano ottenendo, con minore fatica, ugualmente buoni risultati (si lavora di piú a spingere che a tirare o trascinare!). La voce sciavechiello= rastrello con rete è un s.vo diminutivo maschilizzazione del femm.le sciaveca = sciabica che è grossa rete a strascico munita di ampio sacco centrale ed ali laterali sorrette da sugheri galleggianti, che viene calata in mare in prossimità della battigia e poi faticosamente tirata a riva a forza di braccia dai pescatori che per poterlo piú agevolmente fare sogliono entrare in acqua fino a restare a mollo con il fondoschiena donde l’espressione: stà cu ‘e ppacche dint’ a ll’acqua id est: star con le natiche in acqua per significare oltre che lo star lavorando faticosamente anche lo star in grande miseria nella convinzione (sia pure erronea) che il mestiere di pescatore non sia mai abbastanza remunerativo. Etimologicamente la parola sciaveca pervenuta nel toscano come sciabica è derivata al napoletano (attraverso lo spagnolo xabeca) dall’arabo shabaka da cui anche il portoghesejabeca/ga. Rammento al proposito che essendo lo sciavechiello (rete/rastrello) notevolmente piú piccolo della rete sciaveca, si è resa necessaria la maschilizzazione del nome (al di là del diminutivo) dovuta al fatto che in napoletano un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso, se maschile, piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella.
Brak

Nessun commento: