venerdì 1 maggio 2020

VOCI VARIE


VOCI VARIE

Il carissimo amico parmense Michelangelo M. (spero mi autorizzi a violarne la riservatezza, facendone almeno  il nome…)mi à chiesto di illustrare le voci dell’italiano qui di sèguito elencate precedute dal segno ^ ; lo faccio aggiungendo in coda ad ognuna di esse,  volta a volta, ove esistano,  le corrispondenti voci del napoletano  e m’auguro di riuscire ad esser preciso ed  esauriente.
Cominciamo:

^AMICIZIA, s. f.
1 legame tra persone basato su affinità di sentimenti, schiettezza, disinteresse e reciproca stima: fare amicizia; vivere in amicizia; rompere, troncare l'amicizia; amicizia interessata, che mira ad un utile, non sincera | (estens.) buone relazioni: l'amicizia tra due paesi, stati, nazioni, popoli | proverbio:  : patti chiari, amicizia lunga
2 (eufem.) relazione amorosa | amicizia particolare, (eufem.) relazione omosessuale
3 spec. pl. persona con cui si à un legame di amicizia: la cerchia delle mie amicizie | (estens.) persona con cui si à una particolare relazione sociale: avere amicizie influenti.
Per quanto riguarda l’etimo, è voce attestata nel Boccaccio; voce dotta dal lat. amicitia (cfr. Cicerone: De Amicitia) senza continuatori neolatini; sostituisce il lat. volgare *amicitas/atis  donde amistà (amista(de)→amistà  cfr. Guittone) nell’ant. fr. amistiet→amitié, nell’ant. spagnolo: amizad; nel port. amizade.Nel napoletano la voce amicizia è resa con quattro icastici sostantivi astratti che sono: carnentaría, cardasciaría, misciusciaría, patutaría; prima di esaminarli singolarmente dirò che essi sostantivi derivano tutti e  ciascuno da un agg.vo cui è stato aggiunto il suffisso femminilizzante dei s.vi astratti aría; gli aggettivi di riferimento sono carnente, cardàscio,misciòscio e patuto.Passiamoli in rassegna:
carnente agg.vo e sv.vo m.le e f.le = amico/a fedele e per estensione anche amante; quanto all’etimo si tratta d’un adattamento di comodo(esattamente si sarebbe dovuto avere carnïante) d’un part. pres. dell’infinito carnïà che vale: tastare, palpeggiare  ed anche estensivamente  coire; le prime due accezioni richiamano semanticamente gli abbracci in uso tra gli amici fraterni, mentre l’ultima accezione si collega semanticamente al significato esteso di amante;
cardàscio, agg.vo e sv.vo m.le = amico fedele,fratello con etimo dall’arabo kardasč;
misciòscio agg.vo e sv.vo m.le = letteralmente sta per mio socio e quindi amico fedele; quanto all’etimo si tratta dell’adattamento del lat.: meus-socius→me-socius→mi→scioscio→miscioscio  dove è leggibile  la palatizzazione della esse seguíta da vocale (so→scio) e la successiva  assimilazione della sillaba ciu(cio)all’iniziale scio;
 patuto agg.vo  m.le che letteralmente vale malaticcio,  appassionato       di un’attività o di uno sport; estensivamente vale cascamorto, amante e perciò amico fedele, fraterno. quanto all’etimo si tratta d’un part. pass. dell’infinito patí che vale:
1 provare, subire qualcosa che causi dolore, disagio, danno, offesa: patire il freddo, la fame; patire le pene dell'inferno; patire un affronto, un'ingiustizia
2 sopportare, tollerare: non poter patire qualcuno o qualcosa
3 (assol.) affliggersi, provare dolore; riferito a cosa, ricevere danno, guastarsi: à patito molto nella vita; il dipinto à patito per l'esposizione all'aria | finire di patire, si dice di chi è morto dopo una vita travagliata, o per una malattia lunga e dolorosa
4 (lett.) appassionarsi a qualcosa, ad una attività o ad  uno sport: essere patuto d’’o pallone, d’’a bicicletta, d’’a televisione | essere oggetto di un'azione, subirne l'effetto; in questo sign. il verbo era usato nell'antica terminologia grammaticale: nella proposizione passiva il soggetto patisce l'azione espressa dal verbo ||| v. intr. [aus. avere] (non com.) essere afflitto da un male; soffrire: patire di stomaco, d'insonnia; patire d'invidia, di gelosia, essere invidioso, geloso; il verbo patí o pàtere  è dal lat. volg. *patire, per il class. pati 'soffrire, subire'.
^AMORE, s. m.
1 affetto intenso, sentimento di profonda tenerezza o devozione: amore paterno, materno, fraterno, filiale; sentire, provare amore per, verso qualcuno | essere tutto amore, essere pieno di benevolenza | per amore di qualcuno, per fargli piacere, per l'affetto che gli si porta: fallo per amor mio! ' d'amore e d'accordo, in perfetto accordo, senza contrasti | amore di sé, egocentrismo | amor proprio, sentimento e cura della propria dignità; desiderio dell'approvazione altrui; orgoglio legittimo
2 inclinazione forte ed esclusiva per una persona, fondata sull'istinto sessuale, che si manifesta come desiderio fisico e piacere dell'unione affettiva: amore corrisposto, non corrisposto; amore tenero, appassionato, ardente; dichiarare il proprio amore a qualcuno; ardere, struggersi d'amore; giurarsi eterno amore; pena, tormento d'amore; lettera, poesia, romanzo, canzone ecc. d'amore, di argomento, di soggetto amoroso | mal d'amore, struggimento amoroso (anche scherz.) | languire d'amore, essere talmente innamorato da patirne fisicamente | fare l'amore, all'amore con qualcuno, avere rapporti sessuali con qualcuno; anche, ma oggi non com., amoreggiare, essere fidanzato con qualcuno | amore platonico, attrazione amorosa che prescinde dall'aspetto sessuale; (filos.) impulso che spinge l'uomo verso la bellezza ideale | amore socratico, pederastia | amore libero, libero amore, fuori da ogni vincolo legale e dalle convenzioni sociali | figlio dell'amore, (eufem.) figlio naturale, nato da relazione non regolare o illegittima | proverbio : il primo amore non si scorda mai.
3 (estens.) la persona amata; anche, persona graziosa, attraente: tu sei il mio amore; un amore di bambina
4 pl. vicende, esperienze amorose: gli amori di Paolo e Francesca
5 comportamento istintivo degli animali che li porta all'accoppiamento, e quindi alla riproduzione; estro, calore: il tempo, il periodo degli amori; andare, essere in amore
6 (teol.) dilezione, affezione infinita di Dio per le sue creature; per estens., Dio stesso: l'eterno, il sommo, il divino amore; il primo amore, lo Spirito Santo | il senso di carità che spinge l'uomo a Dio e, di riflesso, l'uomo verso gli altri uomini; per estens., volontà di fare il bene: amore cristiano del prossimo | amore sacro, l'amore di Dio e degli altri beni spirituali; si contrappone ad amore profano, l'amore dei beni e dei piaceri terreni | per (l') amore di Dio!, del cielo!, esclamazioni che accompagnano invocazioni, suppliche, raccomandazioni e sim.
7 vivo interesse, desiderio, passione nei confronti di qualcosa: amore del denaro, del potere, del sapere, della scienza; amore per lo studio; amore di patria | con amore, volentieri, accuratamente, con zelo: studiare, lavorare con amore | per amore di qualcosa, a causa, a ragione di qualcosa: per amore di pace, di verità | per amore o per forza, con le buone o con le cattive, a ogni costo
8 ciò che è oggetto di interesse, passione, predilezione: il suo amore sono i cavalli ' (estens.) cosa graziosa, attraente: questo vestito è un amore
9 Amore, (mit.) il dio dell'amore, Cupido.
Quanto all’etimo si tratta di una voce panromanza (con esclusione del rumeno) derivata dal lat. amore(m) che è dal radicale di amare.
Nel napoletano sono due le voci attestate che rendono quella in esame. E sono:
1)ammore si tratta d’un s.vo m.le che riproduce, come quello italiano,il lat. amore(m) con la sola particolarità, rispetto all’italiano del raddoppiamento espressivo della consonante nasale bilabiale m. Al margine rammento che anche nel napoletano esiste la locuzione  fà l'ammore, all'ammore cu quaccuno,che ripete l’italiana fare l'amore, all'amore con qualcuno,ma nel napoletano, come già ricordò il D’Ambra nel suo insostituibile vocabolario, dall’espressione è assente l’idea lúbrica atteso che il napoletano ammore è o almeno fu voce che riguarda la sfera del  sentimento e non quella della  carnalità!
2)chiuovo  s.vo m.le che letteralmente (con derivazione dal lat. clavu(m) ) vale chiodo, ma è semanticamente collegato al sentimento d’amore, perché – come questo – punge e perfora (l’animo).Rammento che spesso nell’icastico linguaggio partenopeo i figli frutto dell’amore son definiti chiuove ‘e dDio.
^ARMONIA, s. f.
.– 1. a. Consonanza di voci o di strumenti; combinazione di accordi, cioè di suoni simultanei (per estens., anche associazione di suoni successivi), che produce un’impressione piacevole all’orecchio e all’animo: come viene ad orecchia Dolce a. da organo (Dante); Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non muore il giorno; Ed erra l’a. per questa valle (Leopardi); un’a. soave, celeste, delicata, flebile, ecc. b. In senso piú tecnico, pratica e teoria della formazione e concatenazione degli accordi musicali, secondo una concezione polifonica della musica, nella quale lo sviluppo del discorso tematico si realizza in una successione non di suoni singoli ma di accordi, cioè di piú  suoni prodotti simultaneamente: lo studio dell’a.; lezioni, trattato di a.; le leggi dell’armonia. Nell’antichità classica, il termine era usato come equivalente di modo (o scala): a. dorica, frigia. 2. Per analogia, riferito alla parola non modulata nel canto, l’impressione gradevole che risulta, nella prosa e nel verso, da un musicale accostamento di suoni, accenti, pause: a. dello stile, del periodo; l’a. d’una strofa; Né da te, dolce amico, udró piú  il verso E la mesta a. che lo governa (Foscolo). A. imitativa, accorgimento retorico, simile all’onomatopea, per cui si cerca di riprodurre, con gli elementi fonici delle parole, l’impressione acustica di ciò che le parole stesse rappresentano con il loro contenuto semantico (per es., «Chiama gli abitator de l’ombre eterne Il rauco suon de la tartarea tromba ...», T. Tasso, Ger. Lib. IV, 3, vv. 1-2), o, attraverso suggestioni acustiche, la sensazione immediata della rapidità, di un movimento (per es., «Ed el sen gí, come venne, veloce», Dante, Purg. II, 51) o della lentezza (per es. «e cantando vanío Come per acqua cupa cosa grave», Dante, Par. III, 122-23). 3. a. Con sign. piú ampio, proporzione, conveniente accordo di piú parti o elementi: l’a. dell’universo o a. cosmica; l’a. del corpo umano. Nella concezione filosofica di Leibniz, a. prestabilita, la legge predisposta da Dio all’atto della creazione, che regola il rapporto tra le sostanze spirituali che compongono il mondo (monadi), ciascuna delle quali contiene in sé come rappresentazione, implicita o esplicita, la totalità delle altre, e svolge tale rappresentazione in modo corrispondente allo svolgersi di quelle di tutte le altre, pur senza influire direttamente su di esse e senza subirne l’influsso. b. In architettura, proporzionata corrispondenza tra le parti principali e le secondarie, e tra i singoli membri architettonici e l’intero; in pittura e scultura, conveniente disposizione delle figure nell’insieme dell’opera: a. di linee, di forme; a. di colori o a. cromatica, accordo di colori ottenuto accostando toni diversi o anche, nella forma piú  semplice, toni di una stessa gamma o gradazioni diverse di un solo tono. c. Accordo, conformità, in senso generico: a. di pensiero e di azione; a. dei fatti con le parole; in a. con, d’accordo con, in conformità a: agire in a. con i proprî principî; prendere provvedimenti in a. con le disposizioni generali. In partic., a. evangelica, accordo tra i quattro Vangeli canonici, spec. tra i sinottici, dimostrato sia mediante tavole in cui vengono messi a raffronto i passi relativi al medesimo episodio, sia componendo un racconto unico, in cui varî episodî sono fusi insieme, secondo uno schema cronologico e con procedimenti che possono andare dalla rielaborazione letteraria a un vero e proprio lavoro d’intarsio di frasi e di parole. 4. fig. Concordia di sentimenti e di opinioni tra piú  persone: essere, stare, vivere in a. o in buona a., in pace, in perfetto accordo; tra suocera e nuora non c’è (o non regna) buon’a.; turbare l’a. di una famiglia, di un gruppo d’amici.
Quanto all’etimo è voce dal lat. harmonĭa, gr. ἁρμονία, affine a ἁρμόζω «comporre, accordare» la voce accompagnò nel medio evo lo sviluppo del canto liturgico. Il napoletano à la medesima voce con medesima derivazione dal lat. harmonĭa; l’unica differenza è rappresentata dalla chiusura in u dell’atona o intesa ō che comporta il passaggio di harmōnĭa ad armunía.
^ FEDE, s. f.
1. a. Credenza piena e fiduciosa che procede da intima convinzione o si fonda sull’autorità altrui piú  che su prove positive: avere f. in Dio, nella Provvidenza, nei valori umani, nella democrazia; dare, prestare f. a una persona, a una notizia; parole che trovano f., che sono credute; toglier f., rendere poco credibile: vedrai Cose che torrí en f. al mio sermone (Dante); un testimone, un comunicato degno di f., che merita f., attendibile. Con sign. piú vicino a «fiducia»: aver f. in un medico, in una medicina (cioè nella sua efficacia); lottare con f.; Invoco lei che ben sempre rispose, Chi la chiamò con f. (Petrarca); o a «ferma speranza»: avere f. nella vittoria, nell’avvenire, nella propria stella, nel trionfo della giustizia. Con accezioni partic., buona fede (in grafia unita buonafede), coscienza di agire rettamente; nel linguaggio giuridico, ignoranza di ledere un diritto altrui: agire in buona fede | mala fede (in grafia unita malafede), slealtà, doppiezza | fede pubblica, particolare fiducia accordata a determinati atti, persone e cose | far fede, attestare | in fede mia, in fé di Dio, (antiq.) locuzioni usate per assicurare la verità di un'affermazione | in fede, (burocr.) formula con cui si conferma e conclude una dichiarazione scritta | persona di poca fede, che non à fiducia nell'operato altrui  buona f., mala f., v. buonafede, malafede. b. F. pubblica, fiducia riposta dalla generalità delle persone in cose che, per l’esistenza di un sistema di mezzi precauzionali atti a garantirne la sincerità, si presumono vere o veridiche; si considerano delitti contro la f. pubblica, nel vigente diritto italiano, tutti i delitti cosiddetti «di falsità». 2. a. Il complesso delle proprie credenze, dei principî fermamente seguiti: f. religiosa, politica, letteraria, ecc.; f. sincera, profonda, fanatica; f. inconcussa, incrollabile; f. schietta; f. viva, operosa; una malinconia remota, che non contrastava con la sua f. attiva ed energica, anzi le dava una qualità struggente (Luigi Meneghello). Usato assol., fede religiosa, e spec. quella cattolica, per cui si credono vere le cose rivelate da Dio, cioè i misteri soprannaturali e non dimostrabili della Trinità, Incarnazione, Redenzione, ecc., e anche quelle verità che la teologia cattolica ritiene dimostrabili razionalmente e che pure sono comprese nella Rivelazione (per es., l’esistenza di Dio): Fede è sustanza di cose sperate E argomento de le non parventi (Dante); avere, non avere f.; perdere la f.; riacquistare o ritrovare la f.; uomo di poca f. (anche fig., scherz., nel senso di fiducia); f. e ragione; f. e scienza; le verità, i misteri della f.; articolo, dogma di f.; dubbî in materia di f.; peccati contro la f., i peccati di eresia, scisma, apostasia. Atto di f., in senso astratto, l’assenso della volontà e dell’intelletto del credente alle verità rivelate da Dio, non per la loro evidenza intrinseca ma per l’autorità e veridicità di Dio rivelante; in senso concr., la manifestazione verbale di tale adesione, per lo piú  espressa con formule fisse suggerite dal catechismo. b. Confessione religiosa, per lo piú con riferimento esclusivo alla confessione cristiana e cattolica: la f. di Cristo; la vera f.; benefica Fede ai trionfi avvezza! (Manzoni); convertirsi alla f.; abbracciare la f., la causa della f.; professare la f., manifestarla esternamente, dichiararla; rinnegare la f.; predicare, propagare la f.; combattere, sacrificarsi, morire per la f.; confessore, martire della f. cristiana; i conforti della f., i sacramenti, l’assistenza religiosa prestata a un moribondo: morire coi conforti della fede. 3. a. Osservanza di una promessa, di un patto; fedeltà: f. d’amico, di sposo; f. coniugale; promettersi reciproca f.; mantenere la f.; serbare f. alla parola data; la promessa stessa, l’impegno assunto con la parola, col giuramento: violare, tradire la f., la f. giurata; rompere f., venir meno all’obbligo di fedeltà: L’altra è colei [Didone] che s’ancise amorosa, E ruppe fede al cener di Sicheo (Dante). Per antifrasi, f. punica, f. greca, slealtà, perfidia; le due espressioni erano proverbiali già in latino (Punica fides, Graeca fides), per l’opinione diffusa che sia i Cartaginesi sia i Greci fossero poco leali. b. ant. Devozione: Federigo ... con somma f. le serviva (Boccaccio). 4. L’anello nuziale, costituito da un semplice cerchio liscio d’oro: mettere la f. al dito; portare, non portare la fede. Con questo sign., è ellissi di anello della f. (lat. anulus fidei); cfr., per es.: mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra (Pirandello). 5. a. Attestazione, testimonianza certa: fare f., attestare, essere prova di un fatto: documenti che fanno f. dell’attività dei mercanti medievali; monumenti che fanno f. della grandezza passata. Con senso sim., linea di f., linea segnata sulla parte fissa o su una parte mobile di uno strumento, con lo scopo di indicare una direzione o di consentire letture su una graduazione (sono linee di fede, per es., quelle segnate sul cursore del regolo calcolatore, e quella segnata sulla parte fissa della bussola navale per indicare la direzione della prua della nave). b. Con sign. concr., attestato, certificato: f. di battesimo, di matrimonio, di stato libero. F. di credito, titolo di credito all’ordine, caratteristico degli antichi banchi pubblici napoletani, che ebbe dal sec. 17° grandissima diffusione nelle regioni meridionali e riscosse tanta fiducia da essere spesso preferito alle monete stesse ( fino a qualche anno fa venne ancóra emessa dal Banco di Napoli e dal Banco di Sicilia). F. di deposito, titoto di credito emesso dai magazzini generali per attestare l’avvenuto deposito di merci o derrate; à la funzione di consentire uno o piú  trasferimenti in proprietà delle merci depositate senza effettuare la materiale consegna e senza spostarle dal deposito, ma attraverso la sola girata. 6. In araldica, figura costituita da due mani strette insieme e allacciate, poste ordinariamente in fascia. 7. Locuzioni: in fede, in f. mia, in f. di galantuomo e sim., formule con cui si conferma una propria dichiarazione; in f. di che, in f. di ciò, con riferimento a cosa già dichiarata, per introdurre testimonianze o fatti che la comprovino. Nell’esclam. in fede di Dio e sim., è forma meno com. di (v.); quanto all’etimo è voce derivata dal lat. fide(m);non esiste diversa voce napoletana che la riproduca.
^FELICITÀ,s.f.le 1. Stato e sentimento di chi è felice: piena, intera f.; una f. serena, pura, tranquilla, senza ombre; aspirare alla f.; trovare la f. sulla terra; godere, assaporare momenti di f.; l’eterna f., la beatitudine celeste; felicità!, augurio (oggi molto meno com. di salute, e talora scherz.) rivolto  a chi starnuti. Con senso piú vicino   a «gioia»: provò un’intima f.; iron., che f.!, a proposito di cosa molesta, di grattacapi e sim.
2. Opportunità, convenienza, e in genere la qualità di ciò che è riuscito in modo eccellente: f. di una frase, di un’espressione, di un’idea; con quanta f. i suoi concetti descrivesse (Machiavelli); quanto all’etimo è voce derivata dal lat. felicitate(m→felicita(te)(m));non esiste diversa voce napoletana che la riproduca.

^GIOIA, s. f.
1 sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo; allegria, letizia, felicità: gioia grande, profonda, immensa; lacrime di gioia ' darsi alla pazza gioia, divertirsi molto | saltare per la gioia, essere pazzo di gioia, essere fuori di sé dalla gioia, (iperb.) essere contentissimo, felicissimo
2 persona, fatto o cosa che è causa di felicità, fonte di soddisfazione o di consolazione: una bambina che è la gioia della famiglia; le gioie della vita;
3 spec. pl. pietra preziosa; gioiello
4 (fig.) persona o cosa di pregio, particolarmente amata | come appellativo affettuoso, spec. di bambini: che cosa vuoi, gioia?;
quanto all’etimo è voce derivata dal fr. joie, che è dal lat. gaudia, neutro pl. di gaudium 'gioia',inteso poi  s.vo f.le
Vastisimo il ventaglio delle voci napoletane che rendono quella a margine; abbiamo: priezza s. f. = gioia, allegria,ed addirittura  tripudio,contentezza, letizia tutte voci che esprimono la festosa manifestazione di uno stato d'animo felice, gaio; in effetti la napoletana priezza  (che un tempo fu registrata come prejezza (cfr. G.B. Basile(Giugliano in Campania, 1566 o 1575 –† Giugliano in Campania, 1632) , G.C. Cortese(Napoli 1570 circa - ivi 1646 circa);  ed altri) è vocabolo ( che ritroviamo con qualche diversa morfologia  anche in altri linguaggi regionali centro-meridionali cfr. calabrese:prijízza, salentino: priscezza, pugliese: prescézze e varianti, abruzzese:prejézza)  usato per significare qualcosa in piú della semplice gioia, qualcosa che  va al di là anche della allegrezza vivace, della gaiezza,  giungendo addirittura ad una manifestazione vivace e rumorosa di felicità, di esultanza la stessa  che si ritrova nei termini tripudio e  letizia.
Non tranquillissima l’etimologia di priezza; c’è disparità di vedute tra gli addetti ai lavori di cui ò potuto compulsare i calepini; riferisco in primis l’idea dell’amico avv.to Renato de Falco che legge in priezza (cosa che del resto in ultima analisi fece pure  il prof. M.Cortelazzo parce sepulto) una derivazione del lat. pretium nel senso di ricompensa remunerativa, appagante, allietante  atteso che per l’amico de Falco la priezza è addirittura un giubilo ai confini dell’entusiasmo, un rallegramento intimo e profondo traboccante di soddisfatto appagamento, una gratificazione vera e propria  che si può ritrovare  appunto nel pretium latino. Voglio bene all’amico de Falco e molto lo stimo come glottologo e ricercatore del napoletano, ma questa volta penso che si sia lasciato trascinare dal suo amore per il latino e per il greco e non abbia colto la sforzatura semantica presente nella sua ipotesi;ragion per cui non mi sento di seguirlo lungo il percorso che à ipotizzato; ugualmente poco praticabili m’appaiono i sentieri etimologici imboccati dal defunto prof. F. D’Ascoli e dall’altro amico il carissimo prof. Carlo Iandolo; ambedue pensano ad un deverbale di priarse = rallegrarsi,gioire epperò  per quanto riguarda l’etimo di priarse   ànno  idee diverse che semanticamente non mi convincono: Iandolo ipotizza (dubitativamente però)  un lontano lat. precari sibi= pregare per sé con fiducia e speranza e francamente non trovo legami semantici fra un pregare (sia pure) per sé ed il rallegrarsi, lo gioire; il D’Ascoli (forse sulla scia del D.E.I.) pensò al catalano prehar  che deriverebbe dal tardo lat. pretiare (ed ecco che, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra il pretium ipotizzato da de Falco e dal Cortelazzo, portandosi però  dietro, come ò detto  – a mio avviso – una qualche incongruenza semantica che si legge nello sforzato legame tra la ricompensa remunerativa, appagante, allietante di pretium e la vera e e propria allegria e gioia che non mi pare  siano  obbligatoriamente frutto di remunerazione! No, non ci siamo! Non mi sento di seguire né D’Ascoli, né l’amico Iandolo, né Cortelazzo,né il D.E.I. e neppure   l’amico de Falco. Meglio,  a mio avviso,affidarsi al Rohlfs che lesse in priezza un deverbale dell’ ant. francese preister.
Sistemata cosí la voce  priezza       rammenterò che in napoletano i sinonimi di tale voce  piú usati sono i seguenti:
addecrío/arrecrío s.m. = esultanza, piacere anche fisico, non solo spirituale, soddisfazione; come si vede si tratta di voce che si riferisce a sentimenti piú pregnanti e  corposi dell’esaminata priezza; etimologicamente il vocabolo a margine ( ne parlo al singolare trattandosi infatti di un solo termine attestato sia come addecrío che nella forma arrecrío con la tipica rotacizzazione osco-mediterranea della d che diventa r) è un deverbale di  addecrià/arse/arrecrià/arse = allietare/arsi, sollazzare/arsi, provare allegria che etimologicamente  è da un lat. volg. *ad-recreare→arrecreare→arrecriare= vivificare, dar conforto e ristoro.
allerézza/allería s.f.  allegrezza vivace; gioia, gaiezza, ilarità pur  senza giungere a manifestazioni di entusiasmo, festosità, tripudio, manifestazioni  che appartengono invece alla esaminata priezza; etimologicamente ambedue le voci a margine derivano probabilmente  dal fr. ant. allègre, che è dal lat. alacre(m):
alleria si è forse formata aggiungendo al tema alle(g)r il suffisso femminile di nomi astratti  ía ( suffiso  greco in quanto sposta sulla desinenza l’accento, mentre lo ia suff. latino mantiene l’accento radicale per cui si sarebbe ottenuto allèria e non l’attestata allería;
allerezza si è invece  forse formata aggiungendo al tema alle(g)r il suffisso femminile ezza che ripete il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Però   se non si vuole pensare per l’etimologia delle voci a margine  al  fr. ant. allègre con la successiva strada morfologica che ò indicato, si può ipotizzare, come fa il prof. C. Iandolo,  direttamente un lat. volg. *allecritia→allegritia e successiva semplificazione gritia→ritia (cfr. gruosso→ruosso); questa strada (aggiungo io)  ci consente poi  forse di ottenere ambedue le voci allerézza ed allería:1)*allecritia→allegritia→alleritia→allerezza:
2) *allecritia→allegritia→alleritia→aller(it)ía;
Cuntentezza s.f. astratto contentezza, appagamento, soddisfazione intima,  allegrezza anche vivace; gioia, gaiezza, ilarità  che possono anche  giungere a manifestazioni di entusiasmo, festosità, tripudio, manifestazioni   che appartengono  alla esaminata priezza; etimologicamente  la voce è un derivato di contento ( dal lat. contentus, part. pass. di continēre "contenere", quindi propriamente "contenuto, pago di qualcosa, appagato)con l’aggiunta del suff. femminile ezza che ripete il suff. lat. itia dei nomi astratti.
Contiento/cuntiento s.m.   letteralmente oggi, sebbene voce in disuso,(con etimo dal lat. contentus, part. pass. di continēre "contenere", quindi propriamente "contenuto, pago di qualcosa, appagato)    indica il sovrappiú, l’aggiunta, il contentino,  ciò che si dà, o meglio si dava  in piú di quanto stabilito o dovuto, per accontentare qualcuno, come nel caso delle derrate alimentari concesse gratuitamente dal negoziante in aggiunta o eccedenza sul peso;un tempo, soprattutto la prima delle due voci a margine venne invece usata quale esatto sinonimo della voce precedente;ò trovato altresí usata la voce cuntiento impropriamente in luogo di cuntento che è invece l’esatta forma in napoletano dell’italiano contento.    
Joja s.f. astratto  voce desueta  e pochissimo usata anche nel passato nel significato di gioia, gaiezza etc. avendo i napoletani  usato sempre una delle voci fin qui esaminate  con preferenza per priezza o allerezza; la voce a margine (che a mio avviso deriva come l’italiana gioia  dal fr. joie, che è dal lat. gaudia, neutro pl. di gaudium ) fu registrata da R. D’Ambra nei soli significati di  zacchera, bagattella,ciancia, baia  per cui è giocoforza pensare che i significati di
1sentimento di piena e viva soddisfazione dell'animo; allegria, letizia, felicità,
2 persona, fatto o cosa che è causa di felicità, fonte di soddisfazione o di consolazione,  siano significati attribuiti alla voce a margine solo successivamente, tenendo dietro al significato della voce francese donde si trasse quella di cui parlo.
Rammento a margine della voce testé esaminata che il napoletano d’antan ebbe anche la voce gioja ma con etimo dallo spagnolo joja nel significato (che esula da quelli in esame) di gemma, gioia, monile
Scialata s.f. voce dall’ampio ventaglio di significati tra i quali in primis: largo e sovrabbondante uso di danaro o di beni, sfarzo, lusso smodato  ma  (ed è il caso che ci occupa) per ampiamento semantico il grandissimo godimento e l’enorme soddisfazione con relative allegria, letizia, felicità che se ne ricava. Etimologicamente è un deverbale di scialare che è dal lat. ex-halare= espirare, metter fuori, spandere.

Giunto a questo punto mi pare utile indicare una sorta di scala di valori delle voci napoletane riportate, partendo dalla voce che indica il moto d’allegrezza meno forte e/o profondo, per giungere a quello maggiore e/o piú corposo.
Abbiamo nell’ordine partendo dal basso: joja, cuntiento, cuntentezza, allerezza, priezza, addecrio, scialata.
Veniamo in coda  alle accennate  voci forti o strane o  meno note dell’italiano, pur se mi limiterò, per non eccedere, ad illustrarne solo alcune;precisamente abbiamo:
esultanza: s. f. [dal lat. tardo exsultantia]. - Gioia intensa e anche chiassosa.In napoletano si rende con addecrio
letizia s. f. [dal  lat. laetitia(m), deriv. di laetus 'lieto' ].  gioia, allegria molto intensa,soprattutto spirituale spesso accompagnata da manifestazioni esteriori. In napoletano si  può rendere  con priezza.
tripudio  s. m. [ dal lat. tripudiu(m), comp. di tri- 'tri-' e pís pedis 'piede', prob. perché la danza aveva un ritmo di tre tempi che si batteva con il piede a terra. ]
1 nell'antica Roma, danza dei sacerdoti salii |
(poet.) danza
2 manifestazione vivace e rumorosa di gioia, di esultanza;
3 (fig.) aspetto gioioso. In napoletano si  può rendere  con allerezza. zacchera s. f.[dal  longob. zahar 'goccia, lacrima ].
1 schizzo di fango sui vestiti o sulle scarpe; pillacchera:
2 (fig. non com.) inezia, bagattella, cosa da nulla;
ciancia s. f.[deverbale di cianciare voce onomatopeica= fare discorsi inutili ; divertirsi, scherzare. ]. 1 (spec. pl.) discorso inutile, sconclusionato o non rispondente al vero: raccontar ciance
2 (ant.) scherzo, burla.
baia s. f.[ dall'ant. baiare "abbaiare"  ]. scherzo, canzonatura, spec. nella loc. dar la baia, prendere in giro, burlare;  sciocchezza, inezia. Sia ciancia che baia  nel significato di scherzo, burla, canzonatura si rendono in napoletano con pazzía  voce deverbale del greco pàizō= giocare.
^SERENITÀ, s. f.
1. Qualità, stato di ciò che è sereno; in senso proprio: s. del cielo, dell’aria; e in senso fig.: s. d’animo, di giudizio; la s. dell’imputato àimpressionato favorevolmente i giudici. 2. ant. Titolo d’onore che spettava ai dogi di Venezia e di Genova: Sua Serenità. Quanto all’etimo la voce è dal lat. serenǐta(tem), der. di serenus «sereno (agg. 1 limpido, chiaro, senza nubi: mattino sereno | a ciel sereno, all'aperto 2 (fig.) che è esente da preoccupazioni, dolori, turbamenti; quieto, tranquillo: vita, esistenza serena; animo, aspetto, volto sereno | giudizio sereno, obiettivo, imparziale); manca una voce napoletana che ripeta questa a margine;
^SPERANZA
s. f.–
1.   a. Sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera: nutrire, accarezzare, concepire una s.; gli sorride, lo sorregge, lo sostiene la s.; infondere s.; la s. è svanita, è venuta meno, è morta; tutte le nostre s. sono ormai crollate; abbandonare, perdere, togliere ogni s.; far rinascere la s.; con la stessa reggenza del verbo sperare: à s. di vincere, di riuscire, di guarire; à rubato con la s. (nella s.) di farla franca; Senza s. di sapere mai Cosa stato sarei piú che poeta Se non m’avesse tanta morte Dentro occluso e divorato (Dario Bellezza); mi sostiene la s. che le cose possano accomodarsi; c’è speranza (ci sono speranze) che si salvi; con un compl. di specificazione: à perso ogni s. di riuscita; non c’è piú  s. di salvezza, di scampo; con la determinazione di aggettivi: c’è poca, molta s.; esiste una debole s.; Ma pur seguendo sua vana speranza, Pervenne in un fiorito e verde prato (Poliziano); ci sono poche s., non ci sono s., non c’è piú speranza, e sim., con riferimento a malato grave che non à possibilità di sopravvivere; in espressioni limitative: ò una mezza s. di riuscire; c’è, o ci rimane, ancora un filo di s.; in usi assol.: finché c’è fiato, o vita, c’è s. (provorbio); la s. è l’ultima a morire (frase prov.); Mentre che la s. à fior del verde (Dante); Lasciate ogne s., voi ch’intrate (Dante); avea sul volto Il pallor della morte e la s. (Foscolo); il simbolo della s., l’àncora; il colore della s., il verde; oltre ogni s., di tentativo fatto senza fiducia di riuscita, o che si è risolto favorevolmente, in modo del tutto insperato. b. Piú genericamente, fiducia nell’avvenire, nella buona riuscita di qualcuno o qualcosa: aprire il cuore alla s.; amare qualcuno senza s.; un giovane pieno di speranza nel futuro; finalmente à ritrovato la s.; ant., essere di perduta s., di persona che non lascia sperare bene di sé: ma quasi matto [=stolto] era e di perduta s. (Boccaccio); al plur.: vivere, pascersi di speranze; un giovane, o una ragazza, di belle s., che appaiono destinati a un brillante avvenire. c. Nella morale cattolica è, insieme con la fede e la carità, una delle tre virtú teologali ( virtú: la disposizione costante della volontà a uniformarsi alla legge morale; l'abitudine connaturata di fare il bene: praticare, esercitare la virtú ; seguire la via della virtú ; essere esempio di virtú  | nella teologia cristiana: virtú  etiche, naturali o cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, virtú  che riguardano la vita attiva e che l'uomo può praticare perfettamente con le sole sue forze; virtú  soprannaturali o teologali, fede, speranza e carità, virtú  infuse da Dio nell'uomo per grazia e necessarie alla salvezza). 2. Con sign. concr.: a. Persona, o cosa, in cui si ripongono le proprie aspettative: il nuovo sindaco è la s. del paese; tu sei la mia ultima s.; l’intervento chirurgico è la sua unica speranza; rivolgendosi alla persona amata: Dove, s. mia, dove ora sei? (Ariosto). In partic., persona che inizia un’attività, spec. artistica o sportiva, dando ottimi risultati e facendo sperare bene di sé: una s. del tennis, del cinema; le giovani s. della narrativa italiana. b. Con iniziale maiuscola, la Speranza, personificazione della speranza, nell’antichità classica venerata come una divinità e rappresentata in piedi, con un bocciòlo di fiore nella mano destra e la veste sollevata sul fianco sinistro: il tempio, la statua della S.; la S., ultima dea (v. anche speme, e spes ultima dea). 3. In marina, àncora di speranza, l’ancora di riserva, tenuta in cubia o sul ponte. 4. In diritto civile, vendita di speranza, forma di contratto aleatorio che comporta per il compratore l’obbligo di pagare al venditore il prezzo anche se l’evento sperato non si realizzi o sia diverso, per quantità e qualità, da quello previsto. 5. Nel calcolo delle probabilità e nella statistica: a. S. matematica di un giocatore in un gioco d’azzardo, la vincita o perdita che, in media, il giocatore deve aspettarsi a priori, in base alle probabilità degli eventi legati all’esito del gioco: per es., la speranza matematica di chi compra un biglietto in una lotteria nazionale è negativa ed è uguale a circa il 55% del prezzo del biglietto, perché, in media, un giocatore perde piú  della metà di quanto spende (un gioco è equo se, tenendo conto anche della posta, la speranza matematica di ciascun giocatore è nulla); con sign. piú  generale: s. matematica di una variabile casuale, la somma dei prodotti dei valori che essa assume per le rispettive probabilità. b. S. di vita o di vita residua, numero medio di anni che un individuo di una certa età e di una certa popolazione, supposta in equilibrio demografico, deve aspettarsi di vivere. 6. Gioco che si effettua con 2 dadi fra un numero illimitato di giocatori: stabilita la posta che ognuno deve versare al piatto, il numero dei gettoni da distribuire a ciascuno, e chi deve aprire il gioco, se il primo giocatore scopre un asso, dà un gettone al proprio vicino di sinistra; lo paga al piatto se scopre un 6; se scopre un doppione ripete il colpo e se fa di nuovo un doppione vince il piatto; di chi à perduto tutti i suoi gettoni si dice che «è morto», e chi resta possessore di gettoni dopo aver visto «morire» tutti gli altri partecipanti vince. 7. Al plur., speranze, nome tosc. della pianta Dian-thus barbatus, detta comunem. garofano a mazzetti . Dim. speranzèlla, speranzina, speranzuòla, tutte limitate all’uso fam., piccola speranza, speranza debole o cauta;
     anche per questa voce manca nel napoletano una voce che la riproduca;rammento soltanto  una piccola curiosità e cioè che a Napoli esiste una popolarissima strada, ubicata a monte dei quartieri spagnoli che à come toponimo Speranzella  derivatogli dalla chiesa di Santa Maria Della Speranza (detta dal popolino  ‘a speranzella) chiesa edificata, con l’annesso convento,   nel 1559 per volere di Francisco de la Cueva  e di Juan de Ciria Portocarrera, nobili spagnoli.
E qui giunto penso di potermi fermare.
Raffaele Bracale

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