CALLO e dintorni
Anche questa volta faccio sèguito ad un
quesito rivoltomi dall’amico N.C. (al solito, motivi di riservatezza mi
impongono di riportar solo le iniziali
di nome e cognome di chi mi scrive per sollecitar ricerche) che mi à chiesto di
spender qualche parola per illustrare il termine napoletano in epigrafe ed
eventuali fraseologie che lo riguardino. Gli ò súbito testualmente significato che in napoletano esistono due
voci callo omofone ed omografe, ma affatto diverse di significato e semantica
ed ambedue ànno una relativa fraseologia. Mi occupo di ambedue; con la voce callo
s.vo m.le [al pl. calle] con etimo dal lat. caballu-m→ca(ba)llu-m→callo
si intese una moneta di pochissima importanza coniata in rame in piú valori
(uno, due, tre, quattro, cinque, nove) dal 1472 al 1815 (quando fu sostituito
dal tornese); essa era la dodicesima
parte di un grano napoletano. Dal 1814 passò, invece, a rappresentare la decima
parte di un grano napoletano con un controvalore in lire italiane di 436
centesimi per cui il treccalle valeva appena 1 lira e 38 centesimi, una cifra
veramente irrisoria! Tale voce callo, declinata al pl. calle è rammentata in un’icastica espressione partenopea
che recita: Pe ttre ccalle 'e sale, se
perde 'a menesta. da intendersi: per pochi soldi di sale si perde la
minestra. La locuzione la si usa quando si voglia commentare la sventatezza di
qualcuno che per non aver voluto usare una piccola diligenza nel condurre a
termine un'operazione, à prodotto danni incalcolabili, tali da nuocere alla
stessa conclusione dell'operazione. 'O treccalle, come ricordato, era una piccola moneta divisionale napoletana pari a
stento al mezzo tornese ed aveva un limitatissimo potere d'acquisto, per cui
era da stupidi rischiare di rovinare un'intera minestra per lesinare
sull'impiego di trecalli per acquistare il necessario sale che insaporisse la
minestra, cosí come ricorda la
locuzione esaminata. Ben altra cosa è il callo [dal lat. callu-m] voce che indica l’ ispessimento circoscritto (détto anche clavo o tiloma) o diffuso (callosità, durone) dello strato corneo
dell’epidermide, che si produce nelle regioni sottoposte a pressioni o attriti
ripetuti e prolungati (pianta e dita dei piedi, palma della mano, ecc.) ed è
spesso causa di acuti dolori; tale voce ricorre in alcune interessanti
locuzioni quali
1) farce
‘o callo usata nel significato
di avvezzarsi, abituarsi a qualcosa, accostumarvisi, assuefarsi;
2) farse
vení ‘e calle ê mmane (farsi venire i calli
alle mani)cioè impegnarsi in lavori faticosi;
3) scamazzà
‘e calle a quaccuno (letteralmente:pestare i calli a
qualcuno, pestargli i piedi nella ressa o altrimenti), e
figuratamente: infastidirlo, ostacolarlo
nella sua attività e nelle sue aspirazioni;
4) nun
farse scamazzà ‘e calle (ad litteram:non lasciarsi pestare
i calli; id est:non
tollerare soprusi.
Non mi pare ci sia altro da
aggiungere per cui mi fermo qui, sperando d’avere accontentato l’amico N.C. ed
interessato qualcun altro dei miei
ventiquattro lettori e chi forte
dovesse imbattersi in queste due paginette. Satis est.
Raffaele
Bracale
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