domenica 12 febbraio 2017

VARIE 17/180

1.METTERE O MENÀ ‘O VELLÍCULO Ô FFUOCO. Letteralmente: Mettere o buttare l’ombelico ( piú esattamente il cordone ombelicale) al fuoco. Antica espressione partenopea risalente addirittura al ‘600 (attestata nel Cortese, Basile, Trinchera ed altri, con la quale si era e si è soliti riferirsi all’atteggiamento da profittatore di chi, non invitato, faceva o fa in modo di appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti in occasione di una qualche ricorrenza o festività per partecipare ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso abbondante , di cibi e bevande; oppure appalesarsi in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita, invito in uso tra i napoletani che non lesinano a nessuno un pasto o una libagione. Di chi, non espressamente invitato, si comportasse in modo di trovarsi presente all’ora dei desinari, scroccando l’invito a tavola si diceva e si dice che aveva miso o aveva menato ‘o velliculo ô ffuoco! L’espressione nacque allorché, in tempi andati, le donne partorivano in casa assistite da una o piú levatrici dette mammàne oppure meno opportunamente (e qui di sèguito chiarirò)vammane Costoro una volta che la puerpera aveva partorito erano use tagliare il cordone ombelicale del bambino o bambina nato/a e buttare, con intento augurale, nel fuoco del braciere o del focolare il pezzo di cordone tagliato. A questa funzione seguiva un immediato festeggiamento con ampia distribuzione di cibo e bevande, festeggiamento cui partecipavano oltre i genitori ed i parenti prossimi del neonato o neonata, la/le mammana/e e tutti coloro che, invitati o no, fossero intervenuti al rito della ustione del cordone ombelicale. Dalla imitazione di questa situazione nacque il modo di dire di cui all’epigrafe riferita a tutti coloro che profittassero di una ricorrenza o festività per partecipare senza invito ad una approntata festa, comportante distribuzione, spesso grande, di cibi e bevande; oppure riferita a tutti coloro che avessero l’abitudine di presentarsi, senza preventivamente annunciarsi, in casa di amici e/o semplici conoscenti all’orario del desinare nell’intento di scroccare un invito alla tavola imbandita. Tutto quanto qui detto è da riferirsi espressamente al cittadino privato che approfitti di una situazione festevole per parteciparvi e satollarsi di cibo o bevande. Per indicare il medesimo atteggiamento da profittatore tenuto inizialmente non da comuni cittadini. ma da militari a Napoli fu in uso un tempo l’espressione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda id est: scroccare, profittare a spese altrui. Locuzione antichissima risalente al periodo viceregnale, ma che viene tuttora usata quando si voglia commentare il violento atteggiamento di chi vuole scroccare qualcosa o, piú genericamente, intende profittare di una situazione per conseguire risultati favorevoli, ma non espressamente previsti per Lui. Temporibus illis, al tempo del viceregno spagnolo (1503 e ss.) i soldati iberici, di stanza in quelli che poi sarebbero stati chiamati quartieri (spagnoli) a monte della strada di Toledo, erano usi aggirarsi all’ora dei pasti per le strade della città di Napoli e fermandosi presso gli usci là dove annusavano odore di cibarie approntate, lí poggiavano la propria alabarda volendo significare con detto gesto di aver conquistato la posizione; entravano allora nelle case e si accomodavano a tavola per consumare a scrocco i pasti. Da questa abitudine prese vita la locuzione appujià ‘a libbarda (poggiare l’alabarda) Ad litteram: appoggiare l’alabarda che valse dapprima : scroccare, profittare a spese altrui di un pasto e poi estensivamente profittare di una qualsivoglia situazione opportuna per conseguirne risultati favorevoli Si tratta dunque di espressione dal significato un po’ piú esteso di quella in epigrafe che è invece usata piú limitatamente per commentare l’atteggiamento di chi ottenga, contendandosene,beneficî molto circoscritti (quali cibi e bevande elargiti durante un festeggiamento). menà verbo trans. = buttare, sospingere dentro o fuori ed anche, ma meno comunemente, trascorrere, passare, vivere ed estensivamente assestare, dare con forza, picchiare; l’etimo è dal tardo lat. minare, propr. 'spingere innanzi gli animali con grida e percosse', deriv. di minae 'minacce'; velliculo s.vo m.le = letteralmente ombelico, ma nella fattispecie solo una parte di esso e cioè il cordone ombelicale quello che una volta che sia reciso lascia un mozzicone che opportunamente legato e ripiegato verso l’interno forma il vero e proprio ombelico;l’etimo di velliculo è il medesimo di ombelico e cioè il lat. umbilicu(m), affine al gr. omphalós 'bottone, ombelico' con la differenza che per il napoletano si è avuta l’aferesi della prima sillaba um, il passaggio di b a v (come altrove: bucca(m)→vocca barca→varca etc.), il raddoppiamento espressivo della liquida nella sillaba li→lli e l’aggiunta di un suffisso diminutivo ulo/olo← olus. 2.METTERE 'O PPEPE 'NCULO Â ZÒCCOLA. Letteralmente: introdurre pepe nell’ano di un ratto. Figuratamente: Istigare,sobillare, metter l'uno contro l'altro. Quando ancora ci si serviva in primis, come mezzo di trasporto, delle navi , capitava che sui bastimenti mercantili, assieme alle merci, attratti dalle granaglie, solcassero i mari grossi topi ( in napoletano zoccole al sg zoccola dal lat. sorcula diminutivo di sorex), che facevano gran danno. I marinai, per liberare la nave da tali ospiti indesiderati, avevano escogitato un sistema strano, ma efficace: catturati un paio di esemplari, introducevano un pugnetto di pepe nero nell'ano delle bestie e poi le liberavano. Esse, quasi impazzite dal bruciore che avvertivano si avventavano in una cruenta lotta con le loro simili. Al termine dello scontro, ai marinai non restava altro da fare che raccogliere le vittime e buttarle a mare, assottigliando cosí il numero degli ospiti indesiderati. L'espressione viene usata con senso di disappunto per sottolineare lo scorretto comportamento di chi, in Luogo di metter pace in una disputa,si diverte e gode ad attizzare il fuoco della discussione fra terzi... 3.METTERE PRETE ‘E PONTA Letteralmente: Frapporre pietre appuntite; id est: creare artificiosi ostacoli. Locuzione da intendersi sia nel senso reale che in quello traslato con riferimento all’azione ostile di chi[per solito donne invidiose],al solo fine di impedire a qualcuno/a il raggiungimento di uno scopo si adoperi astiosamente e con cattiveria contro quel/quella qualcuno/a per frammettere, inframmezzare, inserire reali o figurati intoppi, impedimenti, impacci, impicci, ingombri, intralci, paragonabili a pietre pericolosamente aguzze e nelle quali si possa inciampare, ferendosi. prete s.vo f.le pl. di preta = pietra, nome generico per indicare blocchi o frammenti di minerale o di roccia veri o figurati. voce etimologicamente lettura metatetica del lat. petra(m)→preta-m , che è dal gr. pétra. ponta s.vo f.le =punta, estremità acuminata di qualcosa; voce dal lat. tardo puncta(m) 'colpo inferto con una punta', deriv. di pungere 'pungere'. 4.METTERE PUTECA Letteralmente: Mettere bottega; id est: principiare un’attività commerciale o di servizio impiantandone una bottega. puteca s.vo f.le = bottega, negozio, esercizio, rivendita, emporio, laboratorio, officina; voce dal greco apothéki→(a)pot(h)éki→puteca. 5.METTERE RECCHIE P’ ‘E PPERTOSE Letteralmente: Porre le orecchie per i pertugi; id est: porsi all’attento ascolto, origliare, orecchiare, usciolare con attenzione e continuità al fine di non lasciarsi sfuggire notizie e/o voci che potrebbero riuscire utili, se non necessarie per l’azione che si à in mente di condurre in porto o che già sia in corso d’opera. pertose = buchi; s.vo f.le pl. metafonetico del maschile pertuso (dal t. lat. *pertusu(m)); di pertuso esiste anche il normale pl. masch. pertusi/e ma viene usato per indicare i fori presenti sui capi di abbigliamento ( vestiti e/o scarpe) o segnatamente le narici: ‘e pertuse d’’o naso; invece con il pl. f.le pertose si indica qualsivoglia altro tipo di buco e segnatamente quelli piú grandi secondo il criterio napoletano per il quale un oggetto (o cosa quale che sia) è inteso se maschile piú piccolo o contenuto del corrispondente femminile et versa vice ; abbiamo ad . es. ‘a tavula (piú grande rispetto a ‘o tavulo piú piccolo ),‘a tammorra (piú grande rispetto a ‘o tammurro piú piccolo ), ‘a cucchiara(piú grande rispetto a ‘o cucchiaro piú piccolo), ‘a carretta (piú grande rispetto a ‘o carretto piú piccolo ); ),‘a canesta (piú grande rispetto a ‘o canisto piú piccolo ), fanno eccezione ‘o tiano che è piú grande de ‘a tiana e ‘o caccavo piú grande de ‘a caccavella. BRAK

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