lunedì 13 febbraio 2017

VARIE 17/185

1.'MPARATE A PPARLÀ, NO A FFATICÀ. Letteralmente: impara a parlare, non a lavorare. Amaro, ma ammiccante proverbio napoletano dal quale è facile comprendere la disistima tenuta dai napoletani per tutti coloro che non si guadagnano da vivere con un serio e duro lavoro, ma fondono la prapria esistenza sul fumo dell'eloquio, ritenuto però estremamente utile al conseguimento di mezzi di sussistenza, molto piú dell'onesto e duro lavoro (FATICA)in fondo la vita è dei furbi di quelli capaci di riempirti la testa di vuote chiacchiere e di non lavorare mai vivendo ugualmente benissimo e mi riferisco, per parlar fuori dai denti, a politicanti, sindacalisti ed affini. 2.MUNTAGNE E MMUNTAGNE NUN S'AFFRONTANO. Letteralmente: le montagne non si scontrano con le proprie simili. E' una velata minaccia di vendetta con la quale si vuol lasciare intendere che si è pronti a scendere ad un confronto anche cruento, stante la considerazione che solo i monti sono immobili... 3.MUNZÚ,MUNZÚ È GGHIUTA ‘A ZOCCOLA ‘INT’Ô RRAÚ Letteralmente: signor cuoco, signor cuoco è finito il ratto nel ragú! Antica, ma ancóra usata espressione sarcastica usata per prendersi giuoco delle persone meno esperte che incorrono, per imperizia, incapacità, disattenzione colpevole in errori macroscopici nel tentativo di portare avanti le faccende che intraprendono, come un inesperto, disattento incapace cuoco che consentisse ad un ratto di finire nella pentola dove avesse in cottura il ragú da anmmannire ai clienti. L’espressione canzonatoria nacque sfruttando la rima tra i s.vi rraú= ragú ed il s.vo munzú. Con il s.vo munzú (etimologicamente corruzione del francese monsieur) in origine si indicarono i cuochi francesi chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea e da quel momento non ci fu cuoco napoletano che non ambisse ad ottenere dalla propria clientela il titolo onorifico di munzú. Rammento che l’invasione dei cuochi d’oltralpe forní il destro per la nascita d’un’altra icastica voce napoletana: zoza. Con il sostantivo in epigrafe in napoletano si indicano varie cose: il sudiciume in genere,un brodo sciapito o preparato senza il rituale mazzetto di erbe aromatiche, ma pure il fango o la fanghiglia, i rimasugli o pure gli intrugli edibili che, pur presentati come autentiche leccornie,non incontrando il favore del gusto delle persone cui siano ammanniti, vengon da costoro rifiutati e definiti tout court zòza ed infine qualsiasi roba che sia ributtante, nauseante, una generica robaccia, una porcheria od anche una minestra eccessivamente brodosa e cattiva, una brodaglia insomma o ancora una pozione medicamentosa,dal disgustoso sapore tale che proprio non la si riesca a deglutire(e mi tornano in mente i maleolenti olio di ricino e olio di fegato di merluzzo della fanciullezza o talune preparazioni galeniche, dal nausebondo sapore, approntate - contro tossi e febbri - da volenterosi semplicisti : farmacisti/ erboristi cosí chiamati in quanto venditori di preparati per i quali venivano usate erbe medicinali dette appunto simplex) ed infine estensivamente ogni cosa che sia stata fatta male, in maniera raffazzonata di talché il risultato risulti essere scadente, riprovevole e non confacente; fino a giungere all’offensivo: SÎ ‘NA ZÒZA totalizzante offesa rivolta all’indirizzo di chi si voglia concisamente , ma duramente indicare come persona fisicamente sporca, laida, ma soprattutto moralmente disgustosa e ributtante. Tutte le medesime cose,con l’eccezione della totalizzante offesa, in toscano sono indicate con il termine zózza che nel suo significato primo stette ad indicare una miscela di liquori scadenti e successivamente tutto il surriportato e che etimologicamente risulta essere un’alterazione popolare della parola suzzacchera (forgiata sul greco: oxy-sakcharòn=zucchero acido) con eliminazione della parte finale: cchera ritenuta, ma erroneamente, terminazione diminutiva. Detto ciò, seguitiamo col dire, quanto all’etimologia della parola in epigrafe, che bisogna lasciar perdere innanzitutto la tentazione che zòza sia semplicemente un adeguamento dialettale (mediante l’eliminazione di una Z e cambio di accento della o tonica, chiusa nel toscano e aperta in napoletano) della zózza toscana; alla medesima stregua, a mio avviso non bisogna lasciarsi suggestionare dalla base latina suc da cui sucus= succo, unto - sucidus donde per metatesi sudicius per il tramite di una forma sostantivata neutra, poi sentita femminile sucia =cose sporche, sudice. In realtà la parola napoletana è molto piú recente rispetto al basso latino sucia o alla voce toscana zózza, e risale alla seconda metà del ‘700, quando vi fu a Napoli una sorta d’invasione dei cuochi francesi – che súbito, i napoletani, corrompendo il termine monsieur dissero munzú - chiamati nel Reame, in occasione delle proprie nozze(1768) dalla regina Maria Carolina,figlia di Maria Teresa Lorena-Asburgo moglie di Ferdinando I Borbone, sorella di Maria Antonietta regina di Francia, quella che il giorno prima che fosse ghigliottinata, per lo spavento incanutí d’un colpo. L’intento di Maria Carolina sarebbe stato quello di voler elevare, mediante il supporto dei raffinati cuochi francesi, la troppo semplice cucina partenopea; il risultato però non fu quello sperato: i munzú d’oltralpe e le loro raffinate preparazioni culinarie mal si sposarono (con la sola eccezione del sartú (dal francese surtout ) tronfio e saporito timballo di riso, che entrò a vele spiegate nella cucina napoletana dapprima di corte e della nobiltà, poi della borghesia ed infine del popolo minuto) mal si sposarono, dicevo con i gusti dei partenopei; essi – è noto – amano ed amavano preparazioni semplici e veloci ed i sughi a base di pomodoro, per cui non compresero, né apprezzarono le sauces francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova e rifiutarono le salse galliche storpiandone il nome che da sauce (lèggi: sós(e)) divenne zòza con tutte le estensioni summenzionate, e trattandosi di un sostantivo fu e viene usato nel napoletano quale apposizione di molti altri sostantivi.Ciò non pertanto, il titolo di monzú come ò anticipato,attecchí fino a diventare la denominazione che spettava solo ai grandi cuochi.Divenne e mi ripeto quasi come un titolo onorifico, tanto ambíto che - cosí come riportato da Salvatore di Giacomo - un celebre cuoco lo preferí ad una lauta ricompensa che Ferdinando II di Borbone pure gli aveva offerto, per i servigi resi nelle cucine di palazzo. 4.MURÍ CU 'E GUARNEMIENTE 'NCUOLLO. Letteralmente: morire con i finimenti addosso. La locuzione di per sé fa riferimento a quei cavalli che temporibus illis, quando c'erano i carretti e non i camioncini, tiravano le cuoia per istrada, ammazzati dalla fatica, con ancóra i finimenti addosso.Per traslato l'espressione viene riferita, o meglio veniva riferita a quegli inguaribili lavoratori che oberati di lavoro, stramazzavano, ma non recedevano dal compiere il proprio dovere.... Altri tempi! Oggi vallo a trovare, non dico uno stakanovista, ma un lavoratore che faccia per intero il suo dovere... 5.N' AGGIO SCAURATO STRUNZE, MA TU ME JESCE CU 'E PIEDE 'A FORA... Letteralmente: ne ò bolliti di stronzi, ma tu (sei cosí grosso)che non entri per intero nella pentola destinata all'uso. Id est: Ò avuto a che fare con tantissimi pessimi soggetti (stronzi), ma tu sei il peggiore di tutti, al segno che se ti dovessi bollire, eccederesti la misura d’ogni pentola destinata all’uso… Iperbolica e barocca locuzione-offesa usata nei confronti di chi si dimostri cosí esagerato pezzo di merda che se mai necessitasse di cottura, eccederebbe i limiti della pentola destinata alla bisogna rendendo cosí difficile, se non impossibile l’ipotetica l’operazione! Anologa esclamazione è quella che recita: 6.N' AGGIO APPISE STRUNZE, MA TU M’HÊ SPEZZATO ‘O CROCCO che ad litteram è: Ne ò sospesi stronzi, ma tu (sei tanto grosso che) mi ài infranto il chiodo (deputato allo scopo). BRAK

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