1.SCUMMIGLIÀ 'E ZZELLE
Ad litteram: scoprire le tigne e per traslato scoprir le
magagne, le manchevolezze. Id est: mettere a nudo i difetti altrui .
Locuzione della medesima portata del senso traslato della
precedente. In particolare la zella (da un lat. reg.(capitem) *psilla(m)) è la
tigna che veniva coperta con un cappelluccio e veniva così tenuta celata agli
occhi indiscreti, fino a che un rompiscatole non strappasse il cappelluccio
dalla testa del tignoso, mettendone proditoriamente a nudo i difetti.Per
estensione si dice di chiunque si diverta a render note, quali che siano, le
manchevolezze altrui battezzate pur sempre: zelle anche se non realmente
attinenti alla tigna.
2.SCUNTÀ A FFIERRE 'E PUTECA
Ad litteram: sdebitarsi con i ferri della bottega Cosí si
dice quando - non riuscendo ad ottenere il pagamento di un debito in moneta
contante - il creditore si contenta di chiedere al debitore che lo soddisfi
mediante l'opera lavorativa servendosi dei propri ferri del mestiere, cioè
conferendogli artigianalmente un servizio in cui il debitore sia versato.
3.S'È ARRECCUTO CRISTO CU 'NU PATERNOSTRO.
Variante: S'È ARRENNUTO CRISTO CU 'NU PATERNOSTRO.
Letteralmente: Si è arricchito Cristo con un pater
noster variante Si è arreso Cristo con
un pater noster
Illudersi di cavarsela con poca fatica e piccolo impegno,
come chi volesse arricchire Iddio (di gloria) o
ingraziarselo e trarlo dalla
propria parte con la semplice recita di un solo pater.
4.S'È AVUTATO 'O MUNNO
Ad litteram: à ruotato il mondo Amaro ed indispettito
commento pronunciato da chi - specie anziani - si trovi ad essere coinvolto o
anche a fare da semplice spettatore ad accadimenti ritenuti paradossali,
assurdi ed inattesi che mai si erano verificati, né mai si riteneva si
potessero verificare e che solo il capovolgimento del mondo à reso possibili.
5.SE FRUSCIA PINTAURO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
variante: SE FRUSCIA PANTUSCO D’’E SFUGLIATELLE JUTE ACITO.
Ad litteram: Si vanta (a torto) Pintauro delle (sue)
sfogliatelle (che invece risultano) inacidite; nella variante, il cognome
Pintauro, ( che come chiarirò fu quello del piú famoso pasticciere napoletano
principale produttore, se non ideatore, di sfogliatelle (fra i piú tipici e
rinomati dolci partenopei) fu sostituito con il nome di fantasia Pantusco, per
non incorrere con l’espressione in epigrafe, nelle ire del sig. Pintauro che si
vedeva messo in ridicolo e punto sul vivo in ciò ch’egli riteneva tra le sue
migliori capacità: quella di sfornare ottime sfogliatelle che normalmente erano
freschissime e gustose e non certo inacidite, come si tentava di far credere.
Locuzione popolarissima usata a sapido, anzi sarcastico commento delle azioni
di chi, supponente ed arrogante, si glori, vantandosi a spropositodel proprio
operato che – lungi dall’esser commendevole – è in realtà di segno opposto.
Nella stesura della locuzione, di origine popolare si prese a riferimento
dapprima il dolciere Pasquale Pintauro, che – come vedremo – aveva fatto le sue
fortune commerciali fabbricando un dolce diventato poi famosissimo, la cui
ricetta originaria (e lo vedremo) gli era stata forse suggerita da una sua
anziana congiunta, monaca nel monastero di Santa Rosa, sulla costiera
amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini nelle cui cucine era stata
casualmente inventata la santarosa tronfia antenata della sfogliatella.
Successivamente, forse a causa delle rimostranze di P.Pintauro che vedeva
coinvolto il suo nome in una locuzione negativa, si mutò il nome di Pintauro
(personaggio reale ed esistente) in quello di un inventato di Pantusco che,
d’altro canto, storicamente nulla aveva a che spartire (né poteva essendo
persona inesistente) con la sfogliatella. E di quest’ultima tracciamo ora
brevemente una storia. Comincerò col dire che, come è intuibile, ogni dolce à una sua storia. A volte
faticosamente ricostruita, in qualche caso spudoratamente inventata. La storia
della sfogliatella appartiene fortunatamente alla prima categoria. L’antenata
sfogliatella, dolce tipicamente partenopeo nacque (sia pure con un nome diverso)
come spesso accadde per tanti dolci napoletani in un monastero: quello di Santa
Rosa, sulla costiera amalfitana, fra Furore e Conca dei Marini. In quel
riservato luogo ci si dedicava tantissimo alla preghiera, allo studio ed al
lavoro manuale; il poco tempo libero residuo, (non potendo le monache
intrattener rapporti con il mondo esterno…) veniva speso in cucina,
amministrata in un regime di stretta autarchia: le monache avevano il loro orto
e la loro vigna, sí da ridurre al minimo i contatti con l’esterno, ed
aumentare, con la preghiera, quelli con l’Eterno. Anche il pane le religiose se
lo facevano da sole, cuocendolo nel forno ogni due settimane. Il menú servito a
refettorio era ovviamente uguale per tutte; soltanto le monache piú anziane
potevano godere di un vitto speciale, fatto di semplici, ma nutrienti
minestrine. Avvenne cosí che un giorno di tanto tempo fa (siamo nel 1600) la
suora addetta alla cucina si accorse che in un tegame era avanzata un po’ di
semola cotta nel latte, preparata per una vecchia suora sdentata; buttarla
sarebbe stato un sacrilegio. Fu cosí che, come ispirata dal Cielo , la suora
cuciniera vi cacciò dentro un paio
di uova, due o tre cucchiai di ricotta, un po’ di frutta secca
tritata , dello zucchero e del liquore al limone. “Potrebbe essere un ripieno”,
disse fra sé e sé. Ma da metter dentro a che cosa? La fantasia non le mancava e
risolse súbito il problema: preparò con uova e farina due sfoglie di una sorta
di pasta frolla sagomandole in forma di conchiglia vi aggiunse strutto e vino
bianco, e vi sistemò nel mezzo il ripieno. Poi,sigillate con un po’ d’uovo
battuto le due sfoglie per soddisfare il suo gusto estetico,lavorò alquanto con
le mani unte di strutto la conchiglia ripiena dandole la definitiva forma di un cappuccio di monaca, ed infornò
il tutto. A cottura ultimata, guarní il dolce con un cordone di crema
pasticciera e delle amarene candite. La Madre Superiora, a cui per prima fu
ammannito il dolce, sulle prime lo annusò , e súbito dopo (non si è Madri
superiore indarno o per caso!...) fiutò l’affare: con quell’invenzione benedetta (e soprattutto
saporita) si poteva far del bene sia ai contadini della zona, che alle casse
del convento. La clausura non veniva messa in pericolo: il dolce poteva esser
messo nella classica ruota, in uscita. Sempre che, sia chiaro, i villici ci
avessero messo (in entrata), qualche moneta. Al dolce venne assegnato
ovviamente , il nome della Santa a cui era dedicato il convento. Come tutti i
doni di Dio, la santarosa non poteva restare confinata in un sol luogo, per la
gioia di pochi. Occorse del tempo, ma poi il dolce divenne noto in tutto il
napoletano; in effetti la santarosa impiegò circa centocinquant’anni per
percorrere i sessanta chilometri tra Amalfi e Napoli. Qui vi arrivò ai primi
del 1800, per merito dell’oste Pasquale Pintauro, nipote di una delle monache
del convento amalfitano. I napoletani d’antan
potrebbero opporre che Pintauro fu un pasticciere, e non un oste. Eppure
al tempo di cui stiamo parlando, P.Pintauro era effettivamente un oste, con
bottega in via Toledo, proprio di fronte alla strada di Santa Brigida. La
bottega di P.Pintauro rimase un’osteria fino al 1818, anno in cui Pasquale
entrò in possesso, probabilmente come grazioso dono della sua zia monaca che
gliene parlò in articulo mortis, della ricetta originale della santarosa. Fu
cosí che Pintauro da oste divenne pasticciere, e la sua osteria si convertí in
un laboratorio dolciario, dove si produssero con le sfogliatelle anche altri
dolci pare d’invenzione dello stesso Pintauro: zeppole di san Giuseppe, code
d’aragoste ,babà con l’uvetta e naturalmente tutti gli altri dolci della tradizione partenopea, nati
quasi tutti nei monasteri femminili napoletani e/o della provincia o copiati da
altri famosi dolcieri come nel caso del diplomatico e del ministeriale .
Pintauro non si limitò a diffondere la santarosa: la modificò alquanto:
mantenne la doppia sfoglia di pasta frolla arricchita, ma eliminò la crema
pasticciera e l’amarena, e ne mutò leggermente la forma che non fu piú di
conchiglia triangolare, ma quasi rotonda sia pure con una base diritta: era
nata la sfogliatella; successivamente affiancò alla sfogliatella di pasta
frolla una seconda varietà che presto
diventò addirittura piú famosa della
consorella,cioè la cosiddetta
“riccia”,fatta di pasta sfoglia e necessaria d’una particolare lavorazione
sulla quale non mi dilungo.Da allora nulla è cambiato e la sfogliatella
riccia mantiene inalterata la sua forma triangolare, a conchiglia,
vagamente rococò. Oggi la sfogliatella si può assaggiare in tutte la
pasticcerie di Napoli, con gran soddisfazione. Se si cerca l’eccellenza
però,accanto alla bottega dei F.lli Attanasio al vico Ferrovia (che
sull’insegna e la carta intestata scrive Napule tre ccose tene ‘e bbello: ‘o
mare, ‘o Vesuvio e ‘e sfugliatelle
bisogna cercare la bottega di
Pintauro che è ancòra là a Toledo: à
cambiato gestione, ma non à cambiato il nome e neppure l’insegna, e tanto meno
la qualità. Che resta quella di quasi duecento anni or sono e da allora si
continua imperterriti a sfornare saporitissime e godibilissime sfogliatelle
ricce o frolle, nonché in onore della tradizione (spesso però solo su
richiesta) delle tronfie santarose che però son solo di pasta sfoglia.
SE FRUSCIA = si
vanta, si pavoneggia, si gloria voce verbale (3° pers. sing. ind. presente) del
riflessivo frusciarse da fruscià/frusciare che con etimo dal b.latino frustiare
sta per fare in pezzi, sciupare, consumare; i significati estensivi di
vantarsi, gloriarsi, pavoneggiarsi del riflessivo frusciarse sono da collegarsi
con un po’ di fatica in quanto la strada da percorrere è impervia, al
significato primo del riflessivo che è affaccendarsi in qlc., facendo mostra
del proprio impegno. Pintauro: Come abbiamo visto si tratta dell’oste, poi
pasticciere (sfogliatelle,santarose, zeppole di san Giuseppe, code di aragoste
ed altri dolci) Pasquale Pintauro che ebbe dapprima osteria e poi pasticceria
in un piccolo antichissimo locale sito in Napoli alla via Toledo; di tale
oste/dolciere mancano precise note biografiche; la tradizione vuole che fosse
il nipote d’una monaca di clausura, che – come ò détto – gli forní, in punto di morte, la ricetta
della santarosa da cui l’oste ricavò la sfogliatella.
PANTUSCO inesistente personaggio il cui nome inventato dal
popolino venne usato per sostituire l’originario Pintauro che s’era adontato
sentondosi ingiustamente chiamato ironicamente
in causa, con la prima locuzione
in esame, come produttore di dolci non freschissimi.
SFUGLIATELLE = sfogliatelle s.vo f.le pl. di sfugliatella
piccolo, gustosissimo dolce napoletano fatto di pasta sfoglia (sfogliatella
riccia) o frolla (sfogliatella frolla) avvolta su sé stessa e farcita con crema
di semola, uova e ricotta, canditi e spezie varie; etimologicamente è un
derivato di sfoglia→sfogliata→sfogliatella.
JUTE= andate voce
verbale (part. pass. femm.plur.) dell’infinito jí= andare dal lat. ire.
ACITO= aceto s.vo
m.le prodotto della fermentazione del
vino o di altri liquidi alcolici, usato come condimento, nella conservazione di
prodotti alimentari e in farmacia; (etimo dal lat. acitu(m)); l’espressione jí
acito vale inacidire, andare a male ed è detto soprattutto dei cibi che, o
perché confezionati con ingredienti non freschissimi o perché mal conservati o
esposti ad improprî agenti atmosferici, perdono l’originario sapore e diventano
acidi, rovinandosi tanto da non esser piú commestibili; in senso estensivo e
traslato l’espressione può essere usata anche nei riguardi di situazioni
interpersonali che, per svariati motivi, si logorano perdendo l’originaria
freschezza fino a determinare la interruzione di quei rapporti logorati.
BRAK
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