1.T''A FAJE CU LL'OVA 'A TRIPPA.
Ad litteram: Te la fai con le uova la trippa Cosí, con
ironia e sarcasmo , si usa rivolgersi a chi si sia cacciato nei guai o si sia
posto in una situazione rischiosa, per salacemente commentare la sua ingrata
necessità di adoperarsi per venir fuori dalla ingrata situazione in cui si sia
infilato; come se si volesse consigliare chi fosse costretto a cibarsi del
quinto quarto, a renderlo piú appetibile preparandolo con delle uova.
2.T''A FAJE FRITTA CU 'A MENTA
Ad litteram: te la fai fritta con la menta Cosí ironicamente
si suole dire di tutte le cose ritenute inutili e di cui, conseguenzialmente
non si sa cosa farsene.Semanticamente l’espressione si spiega col fatto che la
frittura addizionata di menta è riservata a taluni ortaggi ( zucca e zucchine)
di per sé senza molto sapore, quasi inutili.
3.T'AGGI' 'A FÀ ABBALLÀ 'NCOPP’Ô CERASIELLO
Letteralmente: Devo farti ballare su di una (pianta di)
peperoncino.
Id est: devo costringerti all’impossibile, e ciò perché la
pianta del peperoncino è bassa,di poca o nulla consistenza e flessibile al
segno di non consentire che qualcuno vi possa montarvi sopra e ballarci
sostenuto dai rami della pianta di montarvici su per potervi ballare.
L’espressione antica, ma ancóra in uso à all’incirca la medesima valenza della
precedente utilizzata come è sulla bocca di genitrici di figlioli irrequieti,
figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc. a
mo’ di iperbolica minaccia repressiva, minaccia consistente nella costrizione a
suon di percosse, a fare qualcosa di palesemente impossibile.
L’espressione viene usata, sempre a mo’ di iperbolica, ma
divertita minaccia pure nei confronti di chiunque, anche adulto, si mostri
restio a fare il proprio dovere.
T'aggi' 'a cfr. antea
fà = fare
Comincerò con il precisare che nel napoletano l’infinito
dell’italiano fare è fà/ffà infinito che io, contrariamente a tutti gli altri
cultori dell’idioma napoletano (che usano la grafia apocopata fa’), preferisco
rendere con la à accentata (fà/ffà ) per alcuni ben precisi motivi:
1)uniformità di scrittura degli infiniti che in napoletano (nelle forme
troncate) siano essi monosillabi o plurisillabi son tutti accentati sull’ultima
sillaba (cfr. ad es.da(re)→dà – magna(re)→magnà – cammena(re)→cammenà
–cade(re)→cadé - murire→murí etc.), 2) la grafia apocopata fa’ si presta, a mio
avviso,fuor del contesto ad esser confusa con la 2° p.sg. dell’imperativo: fa’=
fai, come si presterebbe alla medesima confusione l’infinito apocopato da’ di
dare che potrebbe essere inteso, prescindendo dal contesto, come2° p.sg.
dell’imperativo: da’= dai, A proposito di infiniti rammento che durante le mie
numerose letture sulla parlata napoletana ed in genere sui dialetti centro
meridionali, mi è capitato spesso, di imbattermi in taluni autori che,
ritenendo di fare cosa esatta, usano il segno diacritico dell' apocope (') in
Luogo dell' accento tonico e non si rendono conto che solo l'accento tonico può
appunto dare un tono alla parola,e può (solo!) indicarne graficamente l'esatta
pronuncia; mi è capitato peraltro di imbattermi in altri maldestri autori ed
addirittura compilatori di dizionari, che per tema di errore, abbondano in
segni diacritici e sbagliano parimenti . In effetti nella parlata napoletana è
un errore di ortografia accentare l'ultima vocale di certi infiniti ed
aggiungervi anche un pleonastico apostrofo per indicare l'avvenuta apocope
dell' ultima sillaba:
l'accento, inglobando in sé la doppia funzione, è piú che
sufficiente; il segno dell'apostrofo in fin di parola si deve porre quando si
voglia tagliare un termine mantenendone però il primitivo accento tonico.
Per esempio il verbo
èssere può essere apocopato in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come
ancóra ad es. il verbo tégnere, può per particolari esigenze espressive o metriche
essere apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non
diventando alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito
del verbo cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si dovrebbe leggere
càde’ e non cadé!
Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco
dove quasi tutti gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento
tonico per cui graficamente sono resi con il segno (‘) come ad es. càpita con
il verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va
letto: vede e non vedé.)È pur vero che, in napoletano, alcuni infiniti di verbi
che, apocopati, risultano divenuti monosillabici, potrebbero esser scritti con
il segno dell’apocope (‘) piuttosto che con l’accento in quanto che nei
monosillabi l’accento tonico cade su quell’unica sillaba e non può cadere su
altre (che non esistono) e perciò potremmo avere ad es.: per il verbo stare l’
apocopato: sta’ in Luogo di stà e per l’infinito di fare l’ apocopato: fa’
invece di fà, ma personalmente reputo piú comodo come ò détto per mantenere una
sorta di analogia di scrittura con gli infiniti di altri verbi mono o
plurisillabici, accentare tutti gli infiniti apocopati ed usare stà e fà in
Luogo dei pur corretti sta’ e fa’ che valgono stare e fare, tenendo conto
altresí che almeno nel caso di fa’ esso potrebbe essere inteso, ripeto, come
voce dell’imperativo (fai→fa’), piuttosto che dell’infinito fare, cosa che
invece non può capitare con il verbo stare il cui imperativo nel napoletano non
è sta’, ma statte.
abballà =ballare,per estensione semantica dimenarsi, per
traslato vacillare ;
etimologicamente dal tardo lat. ad +ballare→abballare ;
'ncopp ô = sul/sullo vedi antea sub 14.
cerasiello s.vo neutro (pianta e frutto del) peperoncino
piccante dalla tipica forma sferica simile a quella di una ciliegia (in nap.
cerasa); etimologicamente voce dal tardo lat. cerasia, neutro pl. di cerasium
'ciliegia' con suffisso diminutivo maschile iello.
4.T'AGGI' 'A FÀ CACÀ OPPURE PISCIÀ DINT' A 'N 'AGLIARO
Letteramente: Ti devo far defecare oppure mingere nel bricco
dell’olio. Id est Ti devo costringere all’impossibile (vessandoti o facendoti
violenza). Questa iperbolica icastica espressione desueta, un tempo fu in uso
nel linguaggio del popolo basso soprattutto sulla bocca di mamme a mo’ di
minaccia per ridurli all’obbedienza verso i proprî figlioli irrequieti,
figlioli esuberantemente capricciosi o monelli, disobbedienti, chiassosi etc.
figliuoli che per ridurre alla ragione occorreva minacciare di cosí tante e
violente percosse tali da levigare ed affinare il fondoschiena ed altre parti
del corpo al segno che il figliolo destinatario della minaccia in epigrafe non
avesse piú necessità, per le sue funzioni defecatorie,o alternativamente per la
minzione di servirsi di unalto e vasto càntaro, ma gli bastasse,
iperbolicamente, il bricco dell’olio (agliaro) contenuto vaso di rame stagnato
in forma di tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare
oppure ovale ampia, collo stretto e bocca appena appena svasata atta a far
defLuire l’olio; va da sé che nella realtà, nessuno (per quanto fisicamente
minuto o ... levigato dalle percosse) potrebbe usare un bricco dell’olio per
espletare le proprie funzioni fisiologiche, ma si sa e non fa meraviglia che
l’iperbole la fa da padrona nell’eloquio popolare partenopeo ed i ragazzi
minacciati cosí come in epigrafe, prendendo per vere le parole usate, spesso
recedevano dal loro comportamento irrequieto.
cacà/cacare =
defecare dritto per dritto dal lat. cacare
pisciare = míngere, orinare; quanto all’etimo dal t. lat.
pi(ti)ssare→pisciare;
càntaro = alto vaso cilindrico di comodo, pitale derivato
dal lat. cantharu(m) che è dal greco kantharos; da non confondere con la voce
cantàro voce derivata dall’arabo qintar= quintale
agliàro s.m. = contenuto vaso di rame stagnato in forma di
tronco di cono, con un’unica ansa arcuata, con base circolare o ovale ampia,
collo stretto e bocca (con coperchietto incernierato) appena appena svasata
atta a far defluire l’olio; ne esiste anche un tipo con coperchio ad incastro e
cannello erogatore; tale tipo però non è d’uso domestico, ma viene usato per
solito dai pizzaiuoli che devono stare attenti a non eccedere nel consumo
d’olio ed il cannello a beccuccio si presta meglio della bocca svasata a
contenere l’erogazione dell’olio; l’etimo della voce a margine è dal lat.
oleariu(m)→*uogliaro→ogliaro→agliaro.
5.TAGLIÀ 'A RECCHIA A MMARCO
Ad litteram: tagliare l'orecchio a Marco. Si dice che sia
adatto a tagliare l'orecchio a Marco quel coltello che avendo perduto il filo
del taglio non è piú adatto alla bisogna; per estensione la locuzione è usata
ironicamente in riferimento ad ogni oggetto che abbia perduto la sua capacità
iniziale di esatta, determinata destinazione.
Il Marco dell'epigrafe in realtà è corruzione del nome Malco
servo del sommo sacerdote cui san Pietro, nell'orto degli ulivi, intervenendo
in difesa di Cristo, recise un orecchio, che però il Signore immediatamente
risanò; tradizione vuole che da quel momento il coltello usato da san Pietro
non fu piú in grado di tagliare alcunché.
BRAK
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