1.VA' DINTO Ê CHIESIE GRANNE CA TRUOVE SEGGE E SCANNE...
Va' nelle chiese grandi dove troverai sedie e scranni -
Cioè: Chi vuol qualcosa lo deve cercare nei negozi piú grandi che sono i piú
forniti.Per ampliamento semantico: chi vuole aiuto deve rivolgersi ai piú
attrezzati e o versati alla bisogna per scienza e coscienza.
2.VA' FÀ LL'OSSE Ô PONTE
Letteralmente: vai a racimolare le ossa al ponte. Id est:
mandare qualcuno a quel paese. Infatti la locuzione suona pure: mannà ô ponte,
con il medesimo significato. Un tempo a Napoli presso il ponte della Maddalena,
già ponte Licciardo esisteva un macello, dove il popolo si recava ad acquistare
le carni delle bestie macellate. I meno abbienti si accontentavano di prelevare
gratis et amore Dei le ossa, per farne del brodo, per cui spingere qualcuno a
fare le ossa al ponte significa augurargli grande miseria. La medesima
accezione vale per la locuzione mannà a ‘o ponte; (mandare al ponte) tenendo
presente che questa seconda locuzione la si usa nei confronti di uomini
attempati e un po’ rovinati dagli acciacchi e dall’età ecco che essa locuzione
à una valenza un po’ piú amara della prima giacché la si rivolge a chi -
probabilmente - non à la capacità di ripigliarsi ed è costretto a subire gli
strali dell’avversa fortuna.
3.VA FACENNO PILE PILE
'A FESSA D'’A MADRE BADESSA
Ad litteram: Va facendo pelo per pelo (id est: va spulciando
minutamente) la vulva della madre badessa.Id est: indaga anche nei piú riposti
fatti altrui. Becera sarcastica antica e desueta espressione usata per indicare
e porre alla berlina il fastidioso e spiacevole comportamento di chi –
soprattutto donna – metta naso e con manifesto piacere si impegoli, impelaghi,
invischi nelle altrui faccende cercando di venire a capo minutamente di accadimenti
che normalmente non sarebbero di sua competenza e perduri in tale atteggiamento
seccante, noioso, irritante, sgradevole, spiacevole.L’espressione che
furbescamente chiama in causa una madre badessa e la sua vulva non è da
intendersi in senso reale, ma solo come icastica cioè significativa
rappresentazione di un comportamento disdicevole quale è quello di chi tenti di
indagare (per proprio gusto e senza essere autorizzato) minutamente fin nei piú
segreti recessi del prossimo e non mette conto se questo sia un popolano o una
persona di riguardo; in effetti la voce badessa è usata solo perché rimante
acconciamente con fessa!
fessa s.vo f.le il piú comune dei termini usati volgarmente
per indicare la vulva femminile; fessura, apertura con etimo dal lat.
fissa→féssa: part. pass. femm. del verbo lat. findere=fendere, aprire ;la voce
a margine, semanticamente ripete il significato di porta, apertura che è anche
del corrispondente vulva(dal lat. vulva(m), variante di volva(m)=porta,
accesso) dell’italiano; per tutti gli altri termini usati nel napoletano per
indicar la vulva rimando alibi sotto la voce sciuscia e altre.
badessa s.vo f.le: superiora in un monastero femminile:
madre badessa, ma ironicamente anche donna autoritaria, che si dia arie di
superiorità; etimologicamente il termine badessa è una forma aferetica per
(a)-badessa che viene dal latino abbatissa voce femminilizzata di
abbas/abbate(m) che trae dal caldeo e siriaco âbâ o âbbâ= padre.
4.VA' FELICITA QUACCUN'ATO
Ad litteram: va' a render felice qualcun altro Locuzione di
valenza molto simile alla precedente; questa in epigrafe è venata di maggior
ironia, se non sarcasmo, atteso che se uno infastidisce qualcuno, certamente
non lo rende felice ; ed in effetti qui il render felice sta ironicamente a
significare: romper le scatole, tediare, pesantemente infastidire.
5.VA' 'O PIGLIA’ A AGNANO! o piú semplicemente PIGLIAL’ A
AGNANO
Letteralmente: Va’ a pigliarlo in Agnano o piú
semplicemente: piglialo ad Agnano Eufemistica, ma icastica, graziosa,
divertente espressione ancóra usata al posto delle becere Vallo a pigliarlo in
culo o piglialo in culo oppure Vallo a pigliarlo in ano/piglialo in ano ; le
becere espressioni valgono ad litteram: va’ a prenderlo nel culo/prendilo nel
culo(ed il cosa è facilmente intuibile) l’espressione in esame è una rabbiosa
esclamazione indirizzata verso chi si voglia invitare a lasciarsi figuratamente
sodomizzare, per significargli che deve accettare ciò che viene, senza opporre
resistenza, soprattutto se ciò che arriva è un tiro mancino proditorio ed
inatteso, tiro scoccato da qualcuno con cui non si può competere; spesso la
locuzione in esame è accompagnata da un perentorio e statte zitto (e taci).La
graziosità dell’espressione va riscontrata nell’adattamento eufemistico fatto
delle voci in ano trasformate nell’assonante Agnano che di per sé attualmente
corrisponde ad una zona di Napoli compresa nella decima municipalità ed in
origine fu un vulcano estinto dei Campi Flegrei che formò una conca e dalle
sorgenti di acqua termale che vi sgorgano copiose, nel XI secolo la conca si
trasformò in un lago prosciugato poi con una bonifica nel 1870: dei canali a raggiera
convogliano le acque in una vasca centrale dalla quale si diparte un emissario
che, passando sotto il Monte Spina, sfocia a mare a Bagnoli.Interessantissima
l’etimologia del nome Agnano: Secondo Benedetto di Falco, il nome della
località sarebbe derivato, a metà del '500, dal termine Anguignano, per la
moltitudine di serpi che si annidavano tra le felci che contornavano il lago
(dal latino anguis, "serpente"). In effetti nell'opera di Pietro da
Eboli (Eboli1170? –† ivi 1220 ca) chierico che fu cronista, poeta e
miniaturista, vicino alla corte sveva), la miniatura che illustra la sorgente
termale di Agnano, chiamata Balneum Sudatorium, mostra il lago pieno di rane e
di serpenti. Una tale etimologia, però, non à basi linguisticamente probanti.
Tralasciando numerose altre ipotesi, parimenti poco credibili, formulate tra il
'600 e l'800, risale al 1931 il primo lavoro in cui l'etimologia del toponimo
Agnano viene trattata in maniera scientifica. L'autore, Raimondo Annecchino,
dopo un'attenta disamina delle fonti, fa risalire il toponimo Agnano ad un
ipotetico praedium Annianum, cioè ad un fondo di proprietà di esponenti della
gens Annia, attestata a Pozzuoli in epoca romana. Cita, infatti, vari documenti
medioevali in cui compare il toponimo Anianum o Annianum. La teoria è stata di
recente criticata da Gaetano Barbarulo in un saggio in cui evidenzia come il
toponimo originario fosse Angulanum (Luogo a forma di angolo) e traesse origine
dalle caratteristiche geomorfologiche del Luogo. Da Angulanum (attestato già in
una fonte del VI secolo), attraverso le forme intermedie Anglanum e Agnanum, si
sarebbe giunti alla moderna forma Agnano. Tutte queste ipotesi etimologiche
sono riportati par pari in un famoso saggio di toponomastica di Gino Doria
(Napoli1888-†ivi1975) singolare figura di storico, personalità eclettica, dai
molteplici interessi culturali (letteratura, musica, arte, bibliografia,
giornalismo, storia patria etc.).Nota linguistica Nella corretta scrizione
napoletana dell’espressione in esame l’infinito pigliare è scritto in maniera
apocopata piglia’ con il segno diacritico (‘) che indica l’avvenuta apocope
della sillaba finale re, ma lascia invariato come è giusto che sia l’accento
tonico della parola per cui il piglia’ di va’ ‘o piglia’etc. va lètto piglia ;
si volesse spostare l’accento tonico della parola come nella frase
corrispondente vallo a ppiglià etc. dove il pronome lo è enclitico di va si
dovrebbe usare per indicare l’avvenuta apocope non l’apostrofo, ma l’accento ed
ottenere piglià. In effetti bisogna tener presente che il segno dell'apostrofo
in fin di parola si deve porre quando si voglia operare un taglio ad un termine
mantenendone però il primitivo accento tonico ; per esempio il verbo èssere può
essere apocopato (soprattutto in poesia, per particolari esigenze metriche e/o
espressive) in èsse' che non andrà letto essè, ma èsse, come ancora ad es. il
verbo tégnere, può, per particolari esigenze espressive o metriche, essere
apocopato in tégne’, mantenendo però il suo accento tonico e non diventando
alla lettura: tegnè, mentre – sempre a mo’ d’esempio – l’infinito del verbo
cadere va reso con la grafia cadé e non cade’ che si deve leggere càde e non
cadé! Parimenti la medesima cosa accade nel dialetto romanesco dove quasi tutti
gli infiniti risultano apocopati e senza spostamento d’accento tonico per cui
graficamente sono giustamente resi con il segno (‘) come ad es. càpita con il
verbo vedere che in napoletano è reso con vedé ed in romanesco vede’ (che va
letto: vede e non vedé. A margine e completamento di tutto quanto fin qui detto
rammento che – checché ne dicano taluni pedestri vocabolaristi i quali
(poggiandosi sul fatto che la voce apocope in greco indica appunto il
troncamento) confondono l’apocope con il troncamento; quest’ultimo è infatti la
caduta di un suono in fine di parola: es. fior per fiore o anche pur per pure,
qual per quale, tal per tale etc.; l’apocope ( cfr. nel napoletano si’ che sta
per si(gnore) è pur essa la caduta di uno o piú suoni in fine di parola, ma
tale caduta è, nella stragrande maggioranza dei casi, caduta di una o piú
sillabi finali ad es. nell’italiano: san per santo e (almeno per ciò che
riguarda il napoletano (nell’italiano tale esigenza non è contemplata salvo che
per talune parole come fra’ che è da fra(te), po’che è da po(co)) l’apocope
(caduta di suoni rappresentati da una o piú sillabe finali, non di una sola
consonante; infatti come si ricava dalla medesima parola la consonante non è
titolare d’un suono proprio che le viene offerto da una vocale d’accompagnamento...
) dev’essere indicata con un segno diacritico (‘) quando la caduta della
sillaba non esiga addirittura l’accento come ad es.in tutti gli infiniti dei
verbi dove la caduta della sillaba finale (re) lascia una parola terminante per
vocale che va accentata tonicamente (cfr. parlà che è da parla(re) – capÍ che è
da capi(re) e cosí via; in questo caso mettere il segno dell’apocope (‘)
porterebbe ad avere parla’ – capi’ che non consentirebbero l’esatta pronuncia
di parlà o capí, ma andrebbero pronunciati parla e capi; l’accento in Luogo
dell’apocope mette le cose a posto e pertanto è inutile e pleonastico scrivere
(come pure inopinatamente (cfr. A.Altamura) m’è occorso di trovare scritto
parlà’ e capí’ abbondando in pletorici segni diacriti quali i due apostrofi
accanto a vocali già accentate. In napoletano i monosillabi apocopati di una o
piú consonanti (che come visto non è/son rappresentativa/e da sola/e di un
suono) non necessitano di alcun segno diacritico (ad. es. mo =ora, adesso (che
è da mox), cu= con (da cum),pe=per (da per)po= poi (da post) etc.).
BRAK
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